Un altro record, forse due: l'annuncio di Vittoria Bussi
22 Dicembre 2024Approfondimenti
A settembre, Vittoria Bussi, dopo aver ottenuto quel 3'20", durante la sua rincorsa al record del mondo dell'inseguimento individuale, aveva scritto: «Appenderò il cartello del record italiano sui 3 km accanto ai due record del mondo sull'ora, forse con ancora più orgoglio, per il coraggio, per accettare il dolore, per non aver rimpianti». Doveva essere quella la parola fine alla sua carriera, pur se amara, perché uno sportivo cerca sempre di lasciare che il sipario si chiuda all'apice della gloria, quando più di così non si può fare ed il futuro perderebbe comunque il confronto con il passato. Qualcosa che ha a che fare con il dramma, nel senso greco del termine, ovvero una forma letteraria, una rappresentazione con elementi significativi di conflitto. Sturm und drang, se volete chiamarlo in altro modo, tempesta ed impeto proprio mentre il sipario si chiude e la gente, i più, coloro che conoscono l'essere umano solo come atleta se ne vanno, perché non c'è più niente da vedere. Il resto è vita privata, è quotidianità più simile alla nostra di quanto si creda, a tratti noiosa: «Avevo bisogno di vivere quel mancato obiettivo, di assaporarlo, anche se il suo gusto non mi piaceva nemmeno un poco. Quando sbagli qualcosa a cui tieni, l'analisi può arrivare solo nel momento in cui ritrovi lucidità e questo momento giunge per ciascuno in tempi differenti. A quel punto, mettendo sul tavolo ciò che non ha funzionato, si capisce se riprovarci è possibile oppure è proprio la strada a non fare per te e intestardirsi non ha alcun senso, causa solo dolore, sofferenza, frustrazione. Quando ho scritto quelle parole, questa razionalizzazione non era ancora possibile per me, considerando come stavo, come mi sentivo». Spiega Bussi che il tarlo che perseguita ogni atleta di fronte alle sconfitte di qualsiasi tipo è: ho fatto veramente tutto ciò che mi era possibile fare per il traguardo che mi sono posto? Se la risposta è sì, la deduzione è la più naturale per uno sportivo: gli altri, i rivali, sono più forti ed a questo chi fa sport è sempre pronto ad inchinarsi. Il problema si manifesta quando, nonostante tutto, la risposta è no.
«A livello fisico, atletico, sapevo di essere serena con me stessa. Il dubbio era sulla parte di analisi scientifica, relativa all'aerodinamica in un'accelerazione fino a sessanta chilometri orari da ferma. Ricordo che, presso le strutture dello World Cycling Center, restavo a osservare queste partenze e facevo domande: il problema di applicazione, nel momento in cui i punti d'impatto visti in galleria del vento dovevano essere utilizzati nella pratica, era un fatto che riguardava solo me oppure tutti gli atleti fronteggiano questa questione? Se fosse così, in ottica futura sarebbe interessante fare chiarezza e credo che il dovere di un atleta, almeno per quanto concerne la mia visione di atleta, sarebbe quello di andare avanti, pur correndo il rischio di non farcela, per lo studio, la ricerca. Non siamo gladiatori nell'arena, vincere piace a tutti, ma lo spettacolo conta fino ad un certo punto, l'atleta dovrebbe avere un ruolo ben più importante nella società. Quando ho avuto chiaro di trovarmi in questa seconda situazione, ho capito che dovevo tornare in sella». A nulla sono servite le voci di chi, ad esempio suo marito Rocco, le diceva: «Il tuo messaggio l'hai già trasmesso: sei uscita dalla comfort zone, il risultato non è arrivato, ma ci hai provato. Hai trasmesso un ideale, un valore, hai sempre detto che a questo sono chiamati gli sportivi. Ora fermati». Per questo, ora può dirlo, ci sarà un altro record (almeno un tentativo). Forse due, perché se riuscirà nel record del mondo dell'inseguimento, vorrebbe chiudere, questa volta davvero, come ha iniziato, con un altro record dell'ora. «Ero stremata perché tenere i sessanta orari per tre minuti è sfinente per il fisico, ma quel che avevo fatto per "una vita" mi mancava troppo. Quando sono tornata a casa, mia madre si aspettava di trovarmi provata, invece ero stranamente più riposata che nei tentativi di record dell'ora. Il mio fisico aveva recuperato velocemente, mi ritrovavo con tanta energia e con la parola fine. La bicicletta, fedele alla promessa, l'avevo ritirata. Ero diventata nervosa, maggiormente "aggressiva" anche nella vita di tutti i giorni. Non mi piacevo più, trattavo male anche me stessa, quasi mi punissi». Bussi torna al velodromo, solo mezzo giro e un'esclamazione: «Come ho potuto pensare di rinunciare di colpo a tutto questo?».
Ci riproverà nel prossimo mese di maggio, perché non riprovarci vorrebbe dire lasciare un lavoro incompiuto: al primo tentativo di record nell'inseguimento individuale aveva applicato lo stesso metodo del record dell'ora. Dapprima l'altura e, successivamente, dopo una prova in cui era riuscita a scendere sotto i 3'20", in Messico, la scelta di investire in una finitura aerodinamica di buon livello sull'attrezzatura, sul body e sul casco. A settembre anche un 3'18", mai però il 3'15" a cui puntava perché il metodo, spiega, non era corretto in quanto «si creano delle turbolenze con l'accelerazione iniziale e l'aerodinamica non funziona come sul record dell'ora». Se l'inseguimento fosse rimasto sulla distanza dei tre chilometri, afferma, probabilmente, per quanto già detto, non ci avrebbe ritentato, ma i quattro chilometri sono un'opportunità che non vuole perdere, su uno sforzo differente, sui cinque minuti anziché sui tre, con una curva di potenza che varia: tra febbraio e marzo avrà modo di capire dove si posizionerà l'asticella del record e da lì gestirà la propria prestazione. La celebrazione potrebbe essere un ulteriore record dell'ora, su cui pende soprattutto un'incognita legata al riconoscimento UCI oppure no. Affinché questo avvenga sarà necessaria la presenza di cronometristi Tissot, allo stesso tempo, però, le nuove regole UCI implicano un significativo aumento dei costi per una prova che, in ogni caso, ha sempre richiesto fondi ingenti.
«La mia sconfitta è questa. Ho sempre ripetuto che il record dell'ora dovrebbe essere accessibile a chiunque abbia doti e meriti, tutte le persone con cui mi sono interfacciata mi hanno sempre detto di sì: ora ho scoperto che si sta percorrendo la direzione opposta, correndo il rischio che questa prova sia soprattutto un'occasione di business. Ho scritto una lettera ad Alessandra Cappellotto con cui ho sempre avuto ottimi rapporti spiegando che è un passo indietro per il ciclismo, non per Vittoria Bussi. La sconfitta è di tutti gli atleti che, a mio avviso, rischiano sempre più di essere gladiatori con l'unico compito di fare spettacolo e divertire, se non si inverte la rotta. Ho proposto che ci siano due punti di riferimento, diversi ma paralleli ed ugualmente da valorizzare: quello di Filippo Ganna, ovvero dell'estrema ricercatezza del materiale, di un ampio entourage a supporto, del professionismo. L'altra via è quella artigianale "à la Bussi", per chi non fa parte di una squadra, per chi non avrà mai la diretta televisiva e sul volo per il Messico sale solo con una persona perché non può coprire più costi. I due modelli devono stare in piedi assieme. Basta che ne cada uno perché si crei una frattura, un vulnus. Perché il ciclismo si faccia male». La notte del 25 dicembre sarà "un'altra notte delle cose concesse", come sono tutte le notti che portano a Natale e lo sarà proprio a causa di questa sconfitta, di questo ciclismo che va in direzione ostinata e contraria rispetto all'auspicio che tante volte ha fatto. Sarà una notte di magia per tutti, talvolta di nostalgia, e per Vittoria Bussi ancor di più perché si aprirà il crowdfunding a sostegno di questo nuovo record, come due anni fa: «Non sono mai stata capace di chiedere e, ancora oggi, penso che scegliere di farlo a Natale sia un modo per perdonarmi una cosa che non farei mai. Però da bambini a Babbo Natale abbiamo chiesto tutti qualcosa, anche i più timidi. Le persone mi hanno capita, anzi, mi hanno sentita come si sente ciò che ci assomiglia e, per lo scorso record dell'ora, ho raccolto ben più di quanto avessi chiesto. Non avrei voluto trovarmi nella stessa situazione e ho parlato ovunque affinché non capitasse. Ho raccontato le mie difficoltà a sostenere il record perché altri non dovessero passarle. Non è servito. Questa notte di Natale in cui il crowdfunding si aprirà nuovamente sarà anche una notte di denuncia, una luce su quel che non va, Un grido. L'ennesimo. Perché non è giusto».
L'approccio di Vittoria Bussi resta quello scientifico, del resto, lei viene dalla scienza: «Credo gli atleti debbano diventare sempre più consapevoli, studiare sempre di più, altrimenti le cose non cambieranno mai. Però deve essere uno studio sincero, interessato, non solo legato al risultato a breve termine. Altrettanto reale deve essere la curiosità: ci dicono che è meglio la forcella larga, si chieda sempre il perché, si scavi, non ci si accontenti di spiegazioni generiche. In Italia, a mio avviso manca la figura del Data Analyst, le università non sono coinvolte, ci sono dottorandi sull'intelligenza artificiale che potrebbero aiutarci e nessuno se ne occupa. Certe volte abbiamo anche dieci ore di dati da analizzare, queste professionalità potrebbero essere un supporto fondamentale. Credo che le atlete e gli atleti possano essere il più grande stimolo per il cambiamento». Per lo stesso motivo, Bussi partecipa a conferenze di scienziati presentando la possibilità che le due anime, atletica e scientifica, convivano nella stessa persona: lo racconta affinché anche la comunità scientifica si faccia sempre più parte di questo processo di consapevolezza e condivisione, di atleti ambasciatori di valori.
A maggio, dopo uno, forse due, record davvero tutto finirà. Sarà difficile, ma in misura inferiore rispetto a quest'anno, perché non sarà la prima volta e perché ora sa che è impossibile smettere all'improvviso e del tutto, per quella mancanza viscerale della bicicletta. Probabilmente inizierà a pedalare un giorno sì e due no, ma continuerà a correre. Smetterà gradualmente, dice così. «Sempre complicato familiarizzare con quel che finisce, anche se è il momento, anche se l'hai scelto, voluto, cercato. Io, però, non posso scordare di aver vissuto la mia carriera. Ho un'età in cui è legittimo scegliere di smettere, perché non si può essere ciclisti per sempre. Diverso è il caso di chi smette non volendo smettere, di chi smette per scelta altrui, per circostanze che nulla c'entrano con la propria volontà. Diverso è il caso di chi smette giovane, molto giovane. A vent'anni, magari. Le scelte forzate, purtroppo, non trovano mai pace, per quante storie ci si possa raccontare. A me è capitato quando ho smesso di fare atletica ed ero giovanissima: una fine violenta, ingiusta. Vorrei dire a chi si trova in questa condizione di non dimenticarsi di quel cassetto chiuso male. Non vi prometto che riuscirete a riprendere, non solo perché non posso saperlo, ma perché non sarebbe giusto e perché, spesso, non è vero, si dice solo per consolare. Però una cosa può accadere se salvaguardate quella passione e continuate a coltivarla: si ripresenterà sotto altre forme, in altri tempi ed in altri luoghi. Non sarà sprecata, non sarà più un cassetto chiuso male. Questo può succedere».
Atelier Boldrini, Aosta
19 Dicembre 2024Newsletteralvento points
La parola atelier deriva dal francese antico "astelier" che, a sua volta, proviene da "astelle" ovvero piccola scheggia di legno di quelle che cadono a terra durante le ore di lavoro degli artigiani del legno nei loro laboratori, scarti di lavorazione che parlano di un mestiere antico. A Le Pont Suaz, Aosta, presso l'omonima frazione, al civico 51, nasce, nel 2008, proprio un atelier. Nel linguaggio comune la parola si riferisce in generale al lavoro artigianale, può essere adottata per le confezioni, la sartoria, la pittura oppure l'arte in generale, ma questa bottega riprende le origini del vocabolo, quasi fosse lo studio di un linguista, il lemma di un vocabolario.
Si chiama, infatti, Atelier Boldrini perché è un ricordo di quando si era bambini e si trascorrevano interi pomeriggi nella falegnameria di nonno: storia di Roberto che, cresciuto, era diventato istruttore di sci e non c'è nulla di strano, anzi, forse è proprio naturale perché fuori da quella falegnameria la neve cadeva densa e le cime delle montagne, tutte intorno, la custodivano fino a tarda primavera, cullata dal freddo. Roger e Mathieu, i suoi figli, intanto crescevano: avevano una bicicletta che usavano per andare a scuola e per recarsi agli allenamenti sulle piste da sci, magari per fare resistenza. Forse fu questa "l'America" di quei ragazzini che, qualche anno dopo, quando Roberto abbandonò il lavoro sulla neve ed iniziò a lavorare in un negozio di biciclette, avevano già familiarità con quel mezzo. La rivoluzione copernicana, però, l'ha attuata Roberto decidendo di mettersi in proprio ed ecco, come in un cerchio, siamo tornati all'inizio di questo racconto. Ad "astelle", alle schegge di legno e ad un atelier della Val d'Aosta. Da quel momento, le estati di Mathieu erano fra quelle mura, anche se aveva solo poco più di sedici anni. L'anno della maturità è quello in cui inzia a tutti gli effetti a collaborare in negozio, dove, dal 2020, si unirà anche Roger: «Un fratello è quella persona con cui è tutto più facile: discutere, gridare, litigare, non parlarsi, ma anche chiarisi ed abbracciarsi. Roger conosce ogni aspetto della meccanica, a lui devo l'ordine e la precisione. Non è facile, certo, perché portare il lavoro in famiglia non lo è mai. Allo stesso tempo, però, qualunque cosa accada qui dentro ci riguarda tutti: il traguardo è comune. Le discussioni si oltrepassano così».
Era un piccolo negozio in una piccola città quanto è piccola Aosta: è cresciuto con il passare delle stagioni ed ora, cinquecento metri più in là, sono duemila metri quadrati di attività, su due piani, con un'officina di centocinquanta metri poco distante dal negozio: «L'ingresso dell'officina si affaccia sull'unica ciclabile che passa in Valle d'Aosta: qualunque pedalatore che abbia un problema può richiedere assistenza. I nostri meccanici possono usare i martelli e noi possiamo conversare con i clienti nel silenzio. Così è più bello». Atelier Boldrini crede nella possibilità di ascoltare le persone e cercare di farle tornare a casa soddisfatte per la qualità del lavoro svolto e la qualità coincide con il rispetto della parola data, in modo preciso, con la fiducia nel fatto che ciò che si dice diventerà un'azione, che le promesse, di Roger, Mathieu, di Roberto e del ragazzo dipendente, non sono vane. «Noi ascoltiamo con molta attenzione le richieste di ciascuno e agiamo su quella base, non cambiamo nulla, se non avvisando il cliente. Penso al nostro ruolo come ad una guida: ci sono le domande, ci sono le risposte e credo ci sia un'etica precisa. Personalmente consiglio sempre al cliente la bicicletta più adatta a lui, in base al suo livello di abilità e di esperienza in sella: non mi interessa vendere una bici che costa di più, anche se l'avventore può permetterselo, anche se il nostro guadagno sarebbe maggiore». La bellezza deve andare d'accordo, essere in perfetta sintonia, con la comodità perché se manca quest'ultima le persone smettono di pedalare, anche fosse per spostarsi in città e sbrigare le commissioni di giornata. Molti ciclisti arrivano in atelier con notizie acquisite da internet: in questo caso il dialogo è importante, ma non si forza più di tanto la mano, perché è sbagliato e perché il miglior modo di comprendere, anche quanto siano erronee certe convinzioni è di farlo da soli, da qui nasce la fiducia.
«Alcune volte si discute, succede che qualcuno vada via, senza acquistare nulla, magari deluso. Altrettanto vero è che è già capitato che, poi, ritorni e si fidi, magari diventi un cliente fisso. Ecco: non esiste soddisfazione maggiore. Tenere la barra dritta, non rinunciare alle proprie idee e constatare che, alla fine, vengono comprese, fatte proprie. Questa è la nostra filosofia». Un tavolo, all'interno di Atelier Boldrini, è il luogo destinato alla lettura, magari a vedere la televisione, dove le gare vengono trasmesse a ciclo continuo. Ogni tanto succede una cosa speciale: alcune persone entrano in atelier e non lo fanno per riparare una bicicletta, per noleggiarla o per acquistarla, ma solo per parlare, per chiacchierare, per trascorrere qualche minuto di buon tempo. Anche perché nella zona di Aosta e dintorni, da novembre a marzo le biciclette vengono usate ben poco a causa delle temperature spesso rigide: «Purtroppo non siamo nel Nord Europa, dove si pedala anche con cinque gradi sotto lo zero e con la neve che cade. Da noi, talvolta, si preferisce avere la bicicletta bella e non usarla: una logica che non capirò mai. Nel nostro caso, parlo della Valle d'Aosta, siamo una piccola regione che necessiterebbe di una struttura comunicativa più vasta per i tanti turisti che transitano da queste strade. Magari un sistema di app più semplice per scaricare tracce nei dintorni che permettano di pedalare tutti i giorni, perché non è raro che si scelga l'automobile per percorrere un tragitto molto breve che in sella sarebbe percorribile anche più velocemente, sicuramente in maniera più salutare». Per chi pedala nella zona, il consiglio di Mathieu è quello di esplorare la zona della salita del Gran San Bernardo, dove fino a qualche anno fa si organizzava anche una gara: 36 chilometri di salita, percorsi a cronometro.
Ora quella gara non c'è più, ma resta un posto "magico": «Inoltre siamo vicini alla telecabina che porta a Pila: chi noleggia qui le bici, può salire lassù e lassù c'è davvero tutto quel che si può sognare in bici, compresa una piccola mappa con il tracciato delle piste da downhill e di quelle per le famiglie. Vero che noleggiare è più facile in alta montagna, ma questo è indubbiamente un punto a nostro favore». Al piano superiore è presente un vero e proprio showroom, un open space con anche abbigliamento e scarpe.
In estate, in officina, lavorano tre ragazzi: quando un nuovo cliente arriva con una bicicletta, si compila una scheda, con tutti i dati necessari: la raccomandazione di Mathieu è quella di scrivere ogni dettaglio in fase di accettazione, dalla "a alla z", in quanto la chiarezza permette di lavorare meglio. Vi sono tre postazioni: «Al termine di ogni operazione bisogna ripulire ed ordinare tutto: le biciclette, invece, vanno lavate e pulite prima di aggiustarle. Mi sembra il minimo e non solo perché in questo modo non si perde tempo a cercare attrezzi nel disordine: pensiamo ad un ristorante con una cucina sporca, chi ci andrebbe? Che impressione ne avrebbe? Ovviamente vi sono delle differenze, ma il ragionamento è lo stesso, l'idea che si trasmette la stessa. il cliente viene poi avvisato con un messaggio su whatsapp della conclusione del lavoro e con l'occasione può anche richiedere il conto o altre specifiche». Quando Mathieu ha iniziato a lavorare era giovane ed ha imparato tutto da suo padre, da un paio d'anni ha preso in mano le redini dell'atelier ed ha così affrontato la realtà di un mestiere tanto bello quanto complesso, per esempio nel far quadrare i conti e nel conciliare quella che era una passione con quello che è un lavoro con tutti gli obblighi ed i doveri che ne conseguono: c'è meno tempo per le pedalate, resta intatta la voglia di far bene quel che si fa, con il giusto equilibrio, senza dimenticare mai che, in fondo, la bicicletta è lo strumento che gli permette di mantenersi e questo fatto deve meritare tutta l'attenzione possibile, in dedizione e studio.
Mathieu non è mai stato un "fanatico" del ciclismo, però l'ha sempre praticato ed è particolarmente attento ai più giovani che salgono in sella. Il vento sta soffiando a favore, per usare una metafora, perché indubbiamente tutti i campioni dell'ultimo periodo sono fonte di ispirazione per i bambini ed i ragazzi: «Sono fiducia pura, stimoli che giungono che li invitano a provare questo sport. Da bambini colgono soprattutto il valore legato all'amicizia, più avanti, diciamo dai quindici anni in su inizia ad esserci qualcuno che vuole che il ciclismo diventi un lavoro o comunque anche solo la possibilità di competere, di fare a gara. Si tratta di qualcosa di speciale perché la bicicletta, da un lato, permette la fatica, la esalta, dall'altro è anche la possibilità di liberarsi dalla fatica stessa, magari attraverso una discesa, liberi al vento». Le tradizioni sono importanti in atelier, così importanti che si parla in dialetto valdostano e ci si sente a casa: anche l'altro ragazzo che Mathieu vorrebbe assumere dovrà abituarsi a questa consuetudine.Roberto ora ha sessantacinque anni, va ancora in atelier, anche se Mathieu e Roger continuano a dirgli che non potrà lavorare per sempre. Lo si guarda in volto mentre li osserva all'opera e si comprende, a vista d'occhio, quanto sia orgoglioso del fatto che i suoi figli lavorino assieme. Già, Mathieu e Roger che hanno compreso sino in fondo il suo insegnamento rispetto all'onestà, a costo di essere anche troppo buoni. Mathieu e Roger che lo vorrebbero vedere più spesso a pedalare e faranno di tutto perché sia così. Del resto, cosa c'è di più bello di vedere in bicicletta qualcuno a cui vogliamo bene.
Il bisogno di essere ancora ciclista
Il 13 luglio del 2019 eravamo a Malga Montasio, accanto al podio di una corsa. Nulla di strano, se non per il fatto che, questa volta, il podio riuscivamo a vederlo a metà, in ciascuna delle sue prospettive: il fronte ed il retro, come chi osservasse un volto di profilo. Quel podio, ancora non lo sapevamo, sarebbe stato per noi una sorta di Giano Bifronte. Il podio era quello del Giro d'Italia Internazionale Femminile e su quel podio stava salendo Anna van der Breggen che, quel giorno, era riuscita, per la prima volta in quel Giro, a levare di ruota Annemiek van Vleuten: la rivale, laddove il concetto di rivalità si estende e si esaspera. Entrambe olandesi, entrambe con in dote un talento fuori dal comune ed in eredità il peso dell'essere all'altezza della loro bandiera che si sostanzia nella necessità di essere prime, ad ogni costo, sempre. Un destino che stanca, ma ci arriveremo.
Accanto al podio una domanda ci solleticava la mente: dov'era il sorriso di Anna van der Breggen, quello mostrato ai fotografi ed alle telecamere, una volta giunta nel retro del palco premiazioni? Non un semplice cambio di espressione, quasi un cono d'ombra in cui era risucchiata nel momento esatto in cui nessuno, o quasi, poteva più vederla. Eppure aveva vinto, era riuscita a staccare "quella là" di quasi venti secondi, ma un'inquietudine residuava ancora. La risposta è arrivata solo anni dopo ed ha a che fare con il Giano Bifronte di cui accennavamo: Giano è il dio degli inizi, materiali ed immateriali, ed i due volti con cui è rappresentato simboleggiano la possibilità di guardare al futuro, in avanti, ed al passato, indietro. Allo stesso tempo, però, l'impossibilità di osservare il presente, di assaporarlo e di goderne. Il dio dai due volti se da un lato pare un privilegiato è, in realtà, un condannato. Quel giorno di luglio, Anna van der Breggen era in questa situazione.
Poco più di un anno dopo, a Imola, in un fine settimana che le aveva consegnato la maglia iridata in linea dopo quella a cronometro, affermò con sicurezza spietata: «Non cambia nulla e non cambio idea: nel 2021, mi ritiro». Non siamo avvezzi agli elenchi, ma ogni tanto si può fare uno strappo alla regola e snocciolare un palmares, in parte almeno: quattro edizioni del Giro d'Italia, sette della Freccia Vallone, un regno incontrastato dal 2015 al 2021, due Campionati del Mondo in linea, una maglia iridata a cronometro, una Amstel Gold Race, una Ronde van Vlaanderen, una Strade Bianche, due Liege-Bastogne-Liege, una medaglia d'oro olimpica, a Rio, nel 2016, lo stesso giorno della caduta e del temuto dramma di Annemiek van Vleuten. Anna van der Breggen non riusciva più a vivere quei successi. Fa riflettere il fatto che spesso abbia parlato delle nuove generazioni, con curiosità e ammirazione: non solo per il talento, forse soprattutto per l'approccio. Chissà se quel pomeriggio a Malga Montasio stava pensando al motivo per cui molte giovani atlete erano in grado di festeggiare un quindicesimo posto e lei, che a tentoni, sul prato, dopo aver vinto, cercava di recuperare il fiato, in fondo non riusciva nemmeno ad essere così soddisfatta ed un poco avrebbe voluto essere in loro. Anche a costo di togliersi l'etichetta di campionessa, di fuoriclasse olandese. Scattare in testa al plotone, da liberazione, quando tutte le ruote si allontanano sullo sfondo, era diventato obbligo, routine. Che senso aveva?
Van der Breggen ricordava le pedalate di bambina a Zwolle, la sua città natale, dove la bicicletta è mezzo quotidiano. Ricordava le prime gare: non aveva l'attrezzatura adeguata per essere in testa alla corsa, improvvisava, ogni tanto qualche risultato arrivava, spesso era esattamente il contrario, ma allora non importava a nessuno. Ripensandoci aveva trovato una risposta al perché essere olandesi fosse così, al perché delle aspettative, delle richieste e la risposta era nel suo passato, come nel passato di tante ragazze cresciute in Olanda: l'emancipazione. Ovvero la possibilità di prendere la propria strada, di seguirla, di provare, in libertà, anche fosse sbagliata, senza aspettare niente da nessuno. La spiegazione doveva essere questa: e se era possibile diventare professioniste grazie a quella libertà, perché non avrebbe dovuto essere possibile mettere un punto con altrettanta libertà? Ha smesso così nel 2021 ed è salita in ammiraglia del team in cui correva, la SD-Worx. Da quella macchina è riuscita, forse per la prima volta, dopo tanto tempo, a vedere il ciclismo da un'altra prospettiva. Forse è riuscita a guardare il ciclismo più che a vederlo. Attraverso i propri occhi, alla guida di una macchina, e attraverso gli occhi delle "sue" atlete, quelle che ha accompagnato tanto nei successi quanto nelle sconfitte. Emancipazione vuole anche dire avere il coraggio di dire basta e di cambiare quando una situazione "pesa" troppo, quando la bicicletta che sa solo andare avanti rischia di far tornare indietro.
Da ragazza, studiava infermieristica, si immaginava con un camice addosso, una volta cresciuta. Il primo salto di qualità nel ciclismo l'ha fatto quando si è trovata davanti ad un aut aut: senza un consistente passo avanti, rischiava di smettere. Il secondo passo avanti, anche se per molti pareva solo una parola fine troppo anticipata, l'ha fatto quando ha smesso. Il terzo potrebbe averlo fatto qualche mese fa, quando ha annunciato che sarebbe tornata e con un'idea nuova. Cercherà ancora la vittoria, poche storie, perchè è quello l'istinto di un'atleta, ha detto, però, che lo farà solo in certe gare, senza che diventi un'ossessione, perché adesso come non mai capisce quelle giovani cicliste che gioivano per un piazzamento mentre lei era troppo stanca del proprio lavoro per riuscire a gioirne. Si sente fortunata di poter essere una ciclista, di poter faticare al modi delle cicliste. Ora riesce a vedere il presente. Forse Giano aveva un bel vantaggio nel vedere futuro e passato, nello stesso tempo, ma Giano era un dio: a suo modo, in sella, anche van der Breggen è stata qualcosa di simile, poi, quando ha smesso, ha capito che era meglio essere semplicemente una ciclista che, anche nel mezzo di una salita dolomitica, per qualche secondo, forse una frazione, può guardarsi attorno. E lo farà.
Vivi le Olimpiadi Milano Cortina 2026 in maniera unica ed esclusiva con On Location
Te le ricordi le salite sul Passo Falzarego e Valparola? Oppure le ascese su Stelvio e Mottolino? E le picchiate in Trentino? Sembra quasi impossibile oggi, ma c’è uno spettacolo simile che On Location, fornitore ufficiale ed esclusivo di hospitality per i Giochi Olimpici, ti propone in quelle zone dove pedali. Il sogno continua. E quella favola, si può riproporre anche se in un ambito completamente diverso. Ma le zone sono le stesse, ricordalo. E’ la prima volta che che un programma di hospitality di alto livello sarà offerto ai Giochi Olimpici Invernali, come è anche la prima volta che Milano ospita una rassegna a cinque cerchi. Queste esperienze di hospitality sono disponibili per l'acquisto su www.hospitality.milanocortina2026.org. Ovviamente tutti i pacchetti includono biglietti per un evento sportivo olimpico invernale o per le cerimonie di apertura e chiusura.
Attraverso il pacchetto On Location si potrà vivere in maniera esclusiva in ogni aspetto la manifestazione olimpica, la rassegna per antonomasia insomma. Nelle parole di Emilio Pozzi, amministratore delegato di On Location Italia si comprende il valore delle proposte: «Siamo orgogliosi di essere i primi a realizzare un’esperienza di questo livello nella storia del nostro paese e mostrare al mondo l'eccellenza della cultura, della cucina e dei paesaggi italiani». Del resto affidarsi a On Location è il massimo visto le esperienze olimpiche trascorse e visto soprattutto l’offerta di livello straordinario. (Parigi 2024, Milano Cortina 2026, LA28, Coppa del Mondo FIFA 2026, NFL, NCAA, UFC e PGA of America). E’ arrivato allora il momento di scendere dalla sella e riposarsi per godere appieno questo evento.
LE OFFERTE
- Gli Olympic Ticket-Inclusive Hospitality Package offrono spazi di hospitality condivisi o privati all'interno delle sedi di gara, con menu, bevande e servizi di altissima classe, prima, durante e/o dopo l'evento Olimpico scelto dal cliente. Come sempre, le hospitality lounge esalteranno la cultura e la cucina del paese ospitante, grazie a baite e chalet accoglienti, deliziose pietanze italiane preparate dai migliori chef della regione per creare un'esperienza autentica di ospitalità alpina. Opzioni di hospitality premium sono disponibili anche per le storiche e attesissime Cerimonie di Apertura e Chiusura, che si svolgeranno rispettivamente a Milano e Verona.
- Gli Overnight Package includono date flessibili e opzioni di Olympic Ticket-Inclusive Hospitality Package con sistemazione alberghiera garantita per due, tre o quattro notti, insieme a soluzioni di trasporto e servizi a disposizione in loco per rispondere a qualsiasi domanda in qualunque momento. Questi pacchetti sono creati per garantire alloggi di alta qualità nei pittoreschi paesini italiani e semplificare gli spostamenti sulle suggestive strade di montagna della regione. Ogni Overnight Package include un biglietto per un evento sportivo Olimpico, abbinato a una serie di opzioni di hospitality all'interno delle nostre venue.
- Per coloro che cercano servizi di hospitality personalizzati per i Giochi Olimpici Invernali, i Custom Programme offrono sistemazioni premium; trasporti privati per un viaggio senza pensieri da e verso i siti delle gare Olimpiche, anche nei luoghi più remoti; programmazione esclusiva; servizi di alta qualità da parte di un team di esperti, oltre a biglietti per assistere a una sessione sportiva. Che si tratti di visitare il Duomo di Milano con una guida privata, esplorare le maestose valli delle Dolomiti in elicottero, o incontrare un ex atleta o un atleta paralimpico durante uno degli eventi che fanno parte del nostro programma di hospitality, questi Olympic Ticket-Inclusive Hospitality Package saranno disegnati per soddisfare ogni tipo di interesse e priorità, sempre mettendo in risalto l’eccellenza della cultura italiana.
Programma di Hospitality
Programma di Ticketing
A lezione da Elena Cecchini
Il cambiamento per Elena Cecchini è la variabile principale della quotidianità e questo vale anche per i suoi tredici anni abbondanti di professionismo. Quando ha bisogno di staccare, ad esempio, l'unico modo che trova per essere sicura di riuscirci è partire e andare lontano da casa, ma nella declinazione della costante identificata dal cambiamento questo è poco più che un dettaglio. Nata il 25 maggio del 1992 a Udine, è il proprio ruolo che le ha insegnato ad accettare il cambiamento: «Nel mio carattere non è molto presente la flessibilità, non lo è mai stata, so essere abbastanza rigida, anzi, perchè cambiare non mi è mai piaciuto, l'ho sempre vissuto con difficoltà. Tuttavia trascorro circa duecento giorni l'anno lontana da casa e accanto non ho la mia famiglia: certo, mi trovo bene con la squadra e lo staff, ma non sono le persone che ho scelto, non sono sempre quelle che vorrei in quel momento. Se non avessi familiarizzato con il concetto di cambiamento, se non fossi diventata flessibile, non staremmo facendo questa intervista, perché avrei smesso, probabilmente». In Sd-Worx, Cecchini doveva essere una sorta di mentore per le atlete più giovani, lo è stata e lo è tuttora, però attraverso questo compito non ha saputo solo insegnare, è riuscita anche ad imparare. Sì, il vecchio motto secondo cui "di imparare non si finisce mai" lo recita a memoria anche lei, poi aggiunge una considerazione: «In squadra, devo anche far funzionare le cose e, per farlo, è necessario comprendere il carattere di ciascuna, l'indole e ascoltare molto: c'è chi cerca di fare di testa propria e chi chiede maggiormente consigli, penso all'umiltà di Kata Blanka Vas, oppure di Vittoria Guazzini, in nazionale, per esempio. Anche le reazioni di fronte a vittorie, sconfitte ed incidenti sono differenti. Bisogna considerare tutto questo quando si tratta di tenere assieme un gruppo». Qualche volta si sorprende ad osservare le più giovani del plotone e un poco si mangia le mani perché vede una fame che anche lei aveva anni fa e ora non ha più, nonostante mantenga la professionalità e l'attenzione ai dettagli. «Mi manca quella voglia di impegnarmi solo per me stessa. Nelle classiche riesco ancora a non pormi limiti, ma in molte gare, diciamo il sessanta percento delle corse, parto solo con l'idea di aiutare le altre e per me non sogno nulla. Loro tengono duro, vanno oltre ogni cosa, desiderano. Ero così, una volta».
Questa estate, dopo tanto tempo, ha risentito quel sano egoismo di un traguardo tutto proprio. È accaduto quando ha saputo che sarebbe stata convocata alle Olimpiadi di Parigi, allora è tornata a dire no a tutto ciò che, magari, le veniva richiesto per la squadra, ma metteva a rischio la sua preparazione, che si trattasse di gare o di altro non faceva differenza. A Parigi, la camera in cui dormivano lei ed Elisa Longo Borghini era in un vecchissimo istituto per non vedenti, trasformato in dormitorio, immerso in un silenzio surreale, senza alcuna possibilità di distrazione, di svago: «La nostra gara si svolgeva nel pomeriggio, per cui erano molte le ore di attesa, quelle in cui si vive tutto in maniera amplificata. Bene, a livello sportivo ho provato emozioni che non provavo da tanto tempo. Ho sentito sensazioni antiche, di cui custodivo solo il ricordo». Alle giovani cicliste, Elena Cecchini pone, però, una questione: quella fame è cosa buona se non sfocia nel sentirsi arrivate quando si raggiungono i primi risultati, e la sua sensazione è che, talvolta, questo accada. Anche perché, prosegue, almeno fino all'età degli studi scolastici, i risultati contano solo in parte: «Parlo di un'atleta che conosco bene: Demi Vollering. I primi risultati importanti sono arrivati quando aveva ventitré, ventiquattro anni. Se a sedici, diciotto anni non vinci, non cambia nulla nella tua carriera, come potrebbe non decidere nulla nemmeno una vittoria, pur se importante, perché è presto, si cambia, fisicamente e mentalmente. Non credo abbia senso la fretta che c'è di approdare alle squadre World Tour: un anno in più in una Continental può solo aiutare nell'apprendimento. Tanto più che queste squadre "minori" sono ossigeno per il nostro ciclismo», Poi una precisazione, secca, convinta: «Ascoltare ed imparare non significa obbedire sempre e comunque, sia ben chiaro: una ciclista deve volere ed essere in grado di far di testa propria, il punto è che si può agire autonomamente quando si è imparato a considerare tutti gli elementi, a comprendere la situazione di corsa in ogni aspetto. Questo è possibile osservando. Certo che, se per salvaguardare una top ten personale personale, si impedisce alla leader del team di vincere, non si è fatto un buon lavoro. Si è badato al proprio orticello, ma una squadra non funziona così». Scherza Elena Cecchini, «non è nonnismo, assolutamente, non mi permetterei mai, parlo solo della mia esperienza».
Allora si ritorna al 2011, agli inizi in Chirio Forno d'Asolo: lì il riferimento era Giorgia Bronzini, ciclista che aveva già una visione da direttore sportivo della gara. In pista era l'ombra di Marta Tagliaferro, successivamente gli esempi da osservare sono stati, nel periodo alla Cipollini. Tatiana Guderzo, Monia Baccaille e Marta Bastianelli. "Potrei portare l'esempio di Elisa Longo Borghini: noi abbiamo un anno di differenza, abbiamo fatto strada assieme, ritiri in altura insieme e, almeno fino al 2016, le nostre programmazioni erano simili, poi i programmi sono cambiati, ma, quando ci capita di parlare di ciclismo, parliamo della stessa cosa: il nostro ciclismo. Quello che negli anni è cambiato tanto, mentre noi siamo diventate atlete di esperienza". Una fotografia ritrae un loro abbraccio al termine della prova di Parigi: avevano condiviso il ritiro di preparazione e ogni giornata in terra francese. Elena Cecchini si rimprovera qualche errore in gara: non aver sfruttato l'attimo decisivo e non capito cos'era successo nel momento della caduta che aveva frazionato il gruppo. Dice che avrebbe potuto stare con le prime e dare ancora una mano e ammette tutta l'amarezza di quell'abbraccio: «Ora penso che dovremmo essere orgogliose di quel giorno, nonostante tutto, ora direi questo ad Elisa». Se dovesse identificare i cambiamenti principali avvenuti nel ciclismo ne sottolineerebbe prioritariamente due: uno riguarda proprio il periodo di pausa al termine della stagione. Il primo stravolgimento è avvenuto intorno al 2016, il secondo post pandemia: «Anni fa, a settembre era già possibile staccare, andare in vacanza, riposarsi. Adesso, in alcuni casi, si fa non più di una settimana di ferie e, sono sincera, io patisco questa situazione ed i miei dati descrivono alla perfezione questo mio sentire: più posso riposare nella stagione invernale, più rendo durante la stagione, altrimenti, alcune volte, in primavera accuso il calo. Spiace dirlo, ma in questa rivoluzione anche i social hanno avuto un ruolo decisivo».
Elena Cecchini si riferisce alla condivisione della propria attività sui social ed al sentimento di frustrazione o di ansia che questa può generare in chi in quel momento, magari, è in ferie. A lei accadeva qualche anno fa, poi la piena maturità atletica l'ha portata a concentrarsi solo sul proprio allenamento, soprattutto perché sui social «è possibile ingannare, postare una foto di giorni prima, sono giochi mentali molto spesso». L'altro cambiamento, racconta Elena Cecchini, ha un doppio volto ed è legato ad un ciclismo femminile che è diventato sempre più professionale, con conseguenti aumenti di stipendio: «Certamente è un dato positivo, non ci sono dubbi, tuttavia l'aspetto "gruppo squadra" ne risente. Spesso si cambia team ogni due anni perché, tra le altre cose, altrove si guadagna di più. Si tratta di una scelta legittima, non è una critica, è un dato di fatto. Assomigliamo più al ciclismo maschile perché un ciclomercato così intenso da noi non era nemmeno immaginabile».
Dalle analisi ai bilanci, guardando al 2024. La prima immagine è quella di Lotte Kopecky che, al Blockhaus, al Giro d'Italia Women, riesce a tenere la ruota di Elisa Longo Borghini in una giornata che per la squadra è stata di grande ottimismo, "quasi un miracolo sportivo": «Diciamocelo: Lotte non ha le caratteristiche e, al Giro, non aveva neppure la squadra per conquistare una corsa a tappe. Tuttavia, durante la prima riunione aveva parlato chiaro: "Ragazze, io non sono qui per la classifica generale, però voglio stare il più possibile vicina alle prime in classifica, non perdere secondi e provare a tenere duro. Poi si vedrà sul Blockhaus se potrò giocarmela". La sconfitta all'ultima tappa è stata un duro colpo, durissimo, ma Kopecky non ha perso lì, ha perso alla cronometro inaugurale quando ha lasciato per strada più secondi di quelli che concede abitualmente». Pochi giorni prima di partire per il Giro, Cecchini le aveva chiesto che preparazione avesse fatto, la risposta l'aveva sorpresa in quel momento, ma, oggi, accresce ancor più la considerazione del valore della belga: «Mi disse di essersi allenata a casa, sui cavalcavia e sugli strappi nei dintorni: è la dimostrazione della capacità di soffrire di questa atleta, molto più alta della media, perché, sul Blockhaus, Lotte ha sofferto tanto». L'altra istantanea va subito al Tour de France, conquistato da Kasia Niewiadoma e perso da Demi Vollering per soli quattro secondi: Cecchini racconta dei primi anni di Niewiadoma e quanto soffrisse la pressione, motivo per cui spesso "falliva" proprio gli appuntamenti a cui teneva di più. La sua fragilità era nell'aspetto mentale: «Non fosse cambiata, in quell'ultima tappa del Tour sarebbe crollata, invece non ha mai mollato e sull'Alpe d'Huez, nel finale, ha persino recuperato lo svantaggio accumulato.
Ovviamente sono dispiaciuta per Demi, ma mi fa piacere per Niewiadoma e Canyon-SRAM». In realtà, nella riunione del mattino le indicazioni erano state differenti: Vollering avrebbe dovuto solo saggiare Niewiadoma sulla prima salita e, anche se l'avesse vista in difficoltà, non avrebbe dovuto proseguire l'affondo, salvo attaccare nuovamente sull'ultima asperità. «Alla fine, però, l'unica spiegazione è nel fatto che doveva andare così. Mi spiego meglio: a mio avviso l'errore di Demi è avvenuto il giorno della caduta. Perché era troppo nelle retrovie del gruppo e perché, in maglia gialla, avrebbe dovuto ripartire subito e controllare solo al traguardo le proprie condizioni fisiche. Serviva maggiore lucidità e reattività. Però, detto questo, sono stati troppi gli avvenimenti durante il Tour che hanno remato in direzione contraria, dal primo all'ultimo giorno. Piccole o grandi. Certe volte non deve andare e, leggendo in maniera razionale il nostro Tour, probabilmente non doveva andare. Sicuramente però l'ultima tappa è stato un inno al ciclismo e uno spettacolo per chiunque».
Impossibile non chiedere ad Elena Cecchini un suo parere sull'accaduto durante la quinta tappa del Tour: quella della caduta di Vollering non attesa dalla squadra: giornata che ha suscitato molte polemiche e rispetto a cui le atlete SD-Worx hanno sempre negato qualsiasi problematica interna al team: «Siamo state molto attaccate e quando accade, soprattutto le donne squadra hanno l'istinto di proteggere il gruppo. Diversi hanno detto che è accaduto perché si sapeva che Demi avrebbe cambiato casacca e da fuori capisco il retropensiero, ma non è stato così. Rispetto alla dinamica è difficile dare un giudizio per chi non era presente. Io mi sarei fermata? Certo, io mi sarei fermata. In corsa, però, dicono di non aver sentito alcuna comunicazione e si sa che un conto è giudicare la situazione dall'esterno e una dall'interno. Blanka Vas era davvero sorpresa al traguardo e Bredewold mi ha detto di aver sentito la notizia dalla radiolina solo diverso tempo dopo perché la radio non funzionava». Si arriva così a proiettarsi sulla nuova stagione, quella del 2025: da un lato la mancanza di Demi Vollering, per Cecchini anche una mancanza a livello umano, oltre che sportivo per l'indubbio talento dell'olandese passata a FDJ SUEZ, un rapporto che la friulana vuole preservare anche ora che saranno rivali, dall'altro una squadra che cambierà molto, con nuove atlete in arrivo e, forse, soprattutto con il ritorno in sella di Anna van der Breggen: «Ho già avuto Anna come compagna di squadra ed è stato facile perché lei è così come la si vede: in bicicletta o giù dalla bicicletta. Credo ci sia la possibilità di divertirsi, anche se l'inizio sarà strano, con tanti cambiamenti, come nel 2021. In più mancherà Christine Majerus, che si è ritirata, e lei era una di quelle atlete uniche nel fare gruppo, nel tenere unito il team: una vera e propria colonna. Però, se siamo brave a gestire il cambiamento, abbiamo carte per fare bene: penso a Kopecky, a Wiebes, ma anche a Vas. Per le classiche a mio avviso Marta Lach sarà un'atleta fondamentale, le sue caratteristiche faranno la differenza». Van der Breggen, spiega Cecchini, era stata bravissima ad entrare nel ruolo di direttore sportivo, qualcosa che sembrava naturale per lei: sembrava strano a tutte che, a cena, si sedesse al tavolo dei direttori e non assieme alle ragazze, tuttavia lei riteneva giusto farlo, consentendo alle atlete di stare assieme e, allo stesso tempo, familiarizzando con lo staff, visto che, ora, faceva parte proprio dello staff. Ora, continua l'atleta friulana, dovrà essere altrettanto brava a mentalizzarsi nuovamente sul fatto di essere una ciclista.
Molte voci hanno sollevato la problematica delle tante campionesse in un'unica squadra e del rischio che questo, per paradosso, possa portare più difficoltà che risultati nella prossima stagione. «In termini generali è una considerazione comprensibile, calata nel contesto credo non si porrà il problema. Personalmente ritengo che la nostra forza sia sempre stata nella squadra, nonostante i numeri impressionanti delle singole atlete. I nostri direttori sportivi ce lo hanno sempre detto: singolarmente nessuna avrebbe raggiunto questi risultati. Ed i risultati li abbiamo davvero costruiti assieme, anche rispetto alle tattiche ed alle riunioni di squadra. Certo che il direttore sportivo espone la propria idea sulla corsa, ma la decisione viene sempre presa attraverso un confronto, uno scambio. Guardiamo alle vittorie di Wiebes: senza Kopecky sarebbero state più difficili. Reciprocamente lo stesso vale per i successi di Kopecky. Io ricordo come ora il giorno in cui Lotte espose alla squadra alcuni traguardi su cui avrebbe voluto fare bene. La prima a parlare fu Lorena: "Lotte, quando hai bisogno, io sono al tuo servizio, la volata te la tiro io". L'una senza l'altra non vincerebbe così tanto».
Dopo aver spaziato in lungo ed in largo sui tanti aspetti del ciclismo, Elena Cecchini si concede una parentesi personale: «Sono masochista, da anni. Mi sembra non sia mai abbastanza e quando arriva qualcosa di buono o di bello non me lo godo mai perché ho l'impressione di non meritarmelo. Così, negli ultimi tempi, quando sto vivendo un bel periodo mi ripeto: "Sì, è la vita che mi merito”. Devono passare gli anni per capire quanto si vale: sono sempre stata onesta, ho lavorato duramente per le squadre per cui ho lavorato, ho fatto il possibile. Forse per questo trovo rispetto e considerazione e, quando succede, mi sento orgogliosa. Strano, ma vero».
Motovelodromo Fausto Coppi, Torino
5 Dicembre 2024Newsletteralvento points
In qualche cassetto di fotografie di qualche vecchia casa torinese si ritrovano fotografie di quando, in Corso Casale, al Motovelodromo "Fausto Coppi", le voci e le mani a rumoreggiare nell'aria erano tutte per il momento d'oro del football americano ed i rugbisti, con le loro mete, erano di ispirazione per le nuove generazioni. Un signore anziano narra di aver incontrato Fausto Coppi, qualcuno, più audace, racconta di aver corso con l'Airone. Magari, come è accaduto a Benedetta Lanza, un vicino di casa, in una mattina come tante altre, si lascia andare ad una confessione: «Sai che ho aggiustato biciclette per trent'anni in quel Motovelodromo?». Non lo sapeva Benedetta, pure se il quartiere è lo stesso e mattine di autunno, ancora buie, prima di andare a lavoro, ne ha viste tante, mentre anche quel signore saliva in auto. Diari dei ricordi che, casualmente, ogni tanto riaprono coloro che oggi hanno dai sessant'anni in su. I più giovani parlano dei mercatini dell'usato che si svolgevano ad inizio degli anni 2000 proprio laddove una volta le biciclette sfidavano il vento. Memorie, memorie storiche che hanno in comune un luogo e tante vite, tante quotidianità, giornate andate, tanto tempo fa, al Motovelodromo. Ma nelle scuole, nei licei, cosa resta di tutto questo? Perché quei ragazzi non erano ancora nati negli anni venti del novecento e questa storia la possono conoscere solo attraverso qualche libro, se sono curiosi, appassionati forse. Ma è giusto così? Il tempo passa e non può fare nulla, le persone, invece, sì. «Ad una certa età è possibile restituire- ci dice Fabrizio Rostagno- ed è un verbo molto bello, perché si avvera solo ad un certo punto della vita: quando hai tante fortune ed anche tante sfortune ma, in ogni caso, tanti giorni alle spalle. Perché anche gli studenti del 2024 abbiano la stessa memoria, pur declinata in un tempo diverso, è necessario restituirgliela ed il modo per farlo è restituire a tutti il luogo storico in cui si è costruita ovvero il Motovelodromo "Fausto Coppi".
Parliamo di due ettari e mezzo di terreno in centro a Torino, di un immobile storico, ma non è pensabile restituire nulla se non rendendolo attuale, dinamico, animato». Fabrizio Rostagno è ora CEO di Sport4Good, società che si occupa del restauro architettonico del bene, e presidente della SSD a RL Motovelodromo di Torino, Benedetta Lanza, invece, è responsabile delle relazioni con il territorio e della progettazione sportiva con carattere sociale, la cosa più importante da dire, però, è che, senza un bando del comune di Torino per la concessione per sessant'anni del Motovelodromo, questa storia non sarebbe mai esistita. E in Corso Casale sarebbe rimasto un cumulo di ricordi, attaccato ad un luogo abbandonato di cui la memoria non si è presa cura. Era il mese di dicembre del 2019 e Fabrizio, torinese doc, proprietario di vari circoli di padel, nessuno dei quali a Torino, partecipava al bando, quasi per gioco. La realtà spiazza ed invade i disegni degli esseri umani: quel bando lo vince. Il possibile nasce in quel momento.
La successione di eventi è mirabile, nonostante una pandemia di mezzo: il bando Muoviamoci della Compagnia San Paolo, assieme all'impegno di Rostagno, permette il restauro della facciata storica. L'idea centrale è quella di rispettare la storicità del luogo, di valorizzarla e di iniziare l'attività sportiva al più presto. Passano mesi e per le tante volte in cui Benedetta Lanza, che inizia a collaborare nel giugno del 2020, si chiede se mai ce la faranno, altrettante volte Fabrizio le ripete di essere sicuro di farcela: «Per me è una visione: quando hai una visione, spesso non c'è nulla e gli altri possono anche non crederti, ma la visione resta, lì, nel cassetto. Se trovi qualcuno, anche solo poche persone che riescono ad immaginarla con te, ne trai una forza enorme e diventi sicuro. Insisti». Tra giugno e luglio del 2021 la firma, chiavi in mano, così si inizia a ristrutturare e si riaprono le porte al pubblico, da ottobre: campi da padel e da beach volley, i primi spogliatoi sono container, si ristruttura la curva, nasce l'idea del bar e del ristorante e le scuole del territorio iniziano a trascorrere al Motovelodromo le ore di educazione fisica. Anche se è novembre, fuori fa freddo, eppure quei ragazzi sono così felici. Nell'aprile del 2022 viene ristrutturata la pista, le bici tornano a girare, si tengono i centri estivi ed il bando Con.bi.na, dalle parole conoscere, bicicletta e natura, porta cento ragazzini a pedalare lungo il fiume con guide ed istruttori che raccontano le varie caratteristiche della flora e della fauna. A dicembre del 2022 gli spogliatoi veri e propri prendono il posto dei container, nel febbraio del 2023 è il turno del ristorante, a luglio nasce la piscina estiva, la possibilità di praticare triathlon, in una piscina regolamentare di 25 metri. E servirebbero dei puntini di sospensione, anche se non ci piacciono, perché le tribune sud e nord sono ancora in divenire. «Succede lo stessa cosa che accade nelle nascite: qualcosa che non c'è, all'improvviso, arriva. In questo caso, la meraviglia è stata vedere un posto in completa rovina rinascere, cambiare di pezzetto in pezzetto- spiega Benedetta- e aggiungere un pezzettino diverso ogni giorno, nuove potenzialità ogni settimana», La parola giusta è ispirazione e Fabrizio Rostagno se ne intende di ispirazioni. Dice che partono da un qualcosa che lui ha sempre saputo fare bene: copiare. Ride di gusto e aggiunge: «Anche a scuola, eh».
Rostagno si occupava di impianti fotovoltaici nel 2001, ben prima che il loro business prendesse piede. Il "pionierismo" è in quell'indole: quando conobbe il padel in Spagna, ne vide i numeri, le potenzialità e lo portò in Italia e poi a Torino oppure quando a Copenaghen, dopo essere stato con i figli a Legoland, capitò in questa sala, a pedalare con i simulatori. L'ha replicata al Motovelodromo: con i garmin, gli schermi e sette postazioni, per allenarsi come ci si allenerebbe a casa ma con una socialità maggiore. La sua legge è fare le cose bene, badare alla sostenibilità economica, in primis, altrimenti è tutto vano, poi guardare a realtà più grandi, magari ai velodromi con 12000 persone, al Nord Europa, voler arrivare lì e pensare che arrivarci sia possibile, partendo da quel manufatto fisico che è la bicicletta e da tutto ciò che implica il ciclismo, almeno in questo caso. E andare, parlare, narrare, quel che è stato e quel che sarà. Un libro scritto da Beppe Conti contiene la storia del Motovelodromo, un altro nascerà con i racconti delle persone che l'hanno vissuto. Poi accogliere, ascoltare le domande, cercare le risposte: in questo modo migliaia di ragazzi hanno assistito alla presentazione di Lidl-Trek in occasione dello scorso Giro d'Italia, nonostante la pioggia ed il tempo inclemente. Perché Fausto Coppi è un ricordo, bellissimo ma pur sempre ricordo, mentre il Giro d'Italia c'è e passa sempre. Un inno all'importanza dello sport, al suo valore sociale, all'inclusività, alla cultura, quando lo sport è in un libro, in pagine e parole. Benedetta Lanza aggiunge: «Non è facile ma stiamo cercando di coinvolgere sempre più le scuole e con i docenti di educazione fisica, piano piano, ci stiamo riuscendo, con un reciproco adattamento alle necessità gli uni degli altri. Gli istituti scolastici più vicini vengono a trovarci. A gennaio, sono stati qui i licei: gli studenti che avevano materie da recuperare, da potenziare, si sono dedicati a quello, altri hanno potuto staccare, godersi la libertà e dalle nove del mattino alle quattro del pomeriggio hanno sperimentato ogni tipologia di sport che pratichiamo in questa struttura». Al Motovelodromo si iniziano a svolgere anche le discipline aeree ed è grazie a quel pionierismo di Fabrizio, su cui ora pesa una grossa responsabilità, quella della storia trascorsa che, forse, sarà sempre più grande e più importante di quella futura, ma poco importa.
«Stiamo lavorando su una scuola di ciclismo, strutturata, in cui tutti i ragazzi possano accedere, affinché corrano in un luogo sicuro e la sicurezza deve essere un cardine. La responsabilità è aprire il Motovelodromo e renderlo accessibile a tutti, far crescere anche la parte agonistica, per questo abbiamo coinvolto Fabio Felline, con una squadra corse dai 6 ai 12 anni. Bisogna lavorare ad un tessuto che permetta al ciclismo di continuare a crescere, di sperimentare e farsi conoscere da chi non pedala, da chi non ha mai provato. Il territorio è dalla nostra parte, penso a Superga, alle nostre colline: lì si può diffondere la cultura e raggiungere chi ancora non l'ha». C'è la Gran Fondo Torino, la Milano-Torino a scatto fisso, il Giro d'Italia con le biciclette storiche, che ha portato una ventata d'antico in questa modernità, ci sono gli eventi di triathlon, la Nightri, il 21 giugno, nella notte, dalla sera alla mattina, senza contare i tornei internazionali di padel, a squadre, in carrozzina, ed ancora eventi di sensibilizzazione, nelle scuole, anche a tema sicurezza stradale. L'apporto della Federciclismo è fondamentale, come l'apporto di coloro che hanno praticato il ciclismo come lavoro perché «solo parlando la stessa lingua è possibile capirsi al meglio e se vogliamo che il ciclismo torni al centro abbiamo l'obbligo di rivolgerci a chi quella lingua, per restare nella metafora, la conosce bene». Sembra strano ma accade: quando le classi arrivano al Motovelodromo, in qualche giorno d'inverno, c'è sempre qualche ragazzo che ammette di non utilizzare la bicicletta, qualcuno, addirittura, spiega di non essere capace di andare in bicicletta: «Stupisce- spiega Benedetta- perché per la mia generazione pedalare è come camminare, però è bello che accada e che imparino qui. Anche questa è cultura sportiva». Allo stesso modo è cultura sportiva l'idea di provare a diffondere tutti gli sport: «Spesso si va dove è più facile: credo che in molti abbiano scelto uno sport non basandosi sulla totalità degli sport praticabili, bensì su quelli più accessibili. Noi vorremmo ampliare questo panorama, fare in modo che tutti possano almeno provare, anche solo un anno, poi è possibile cambiare». Si arriva così al ruolo sociale della bicicletta ed ai corsi di manutenzione organizzati con il sostegno del ministero, piuttosto che a quelli per diventare guide cicloturistiche: «Torino è una città molto legata all'automobile, ma vediamo tutti come il mercato dell'automobile inizi ad essere in difficoltà: io sono certo- afferma Fabrizio Rostagno- che la bicicletta possa aiutare anche in questo senso, creando posti di lavoro».
All'interno del Motovelodromo, il bar, a propria volta, propone e organizza eventi, Fiab collabora e le associazioni non vedenti si mettono in gioco con esperienze belle, significative: provare a guidare un tandem, aiutare un non vedente, mettersi nei panni di chi non può vedere e lasciarsi accompagnare. Altra parola chiave è accoglienza, comprendere quanti più professionisti nel progetto, senza gelosie, senza egoismi. Forse, ci dicono, qualcosa di simile non poteva che accadere a Torino, «forse questo è proprio il posto giusto, per la bellezza e per l'importanza riconosciuta alla bellezza, perché siamo vicino al centro e, per i numeri, questo è fondamentale, ma anche accanto alla natura. C'è unicità, autenticità e continuiamo a credere nell'unicità e nell'autenticità, è il nostro carattere di piemontesi e di torinesi. Il nostro essere sabaudi fa in modo che ci voltiamo spesso a guardare il passato, lo consideriamo e quando iniziamo a fare qualcosa cerchiamo di farlo con cura, con spirito di appartenenza». I problemi restano, la burocrazia è sempre molta e a volte gli ostacoli paiono insormontabili, Fabrizio e Benedetta hanno capito che l'unica via per farcela è restare concentrati sul progetto, dedicandosi a quello e pensando a quel che è possibile realizzare. Alcuni momenti hanno la capacità di far dimenticare ogni cosa e di metter ancor più in risalto il bello: Fabrizio pensa a quella madre, davanti alla scuola di suo figlio che, conoscendolo, lo ha avvicinato per dirgli «grazie, perché il Motovelodromo mi ha cambiato la vita». La sua bambina lo frequenta. Oppure, ancora, alla conoscenza di Fabio Wolf, ai progetti che riguardano disabilità e sport in cui lo ha coinvolto e ad una pedalata spensierata, verso Mantova, dove hanno trascorso la notte in tenda. Sono stati contenti, ed a ripensarci lo sono ancora. Probabilmente è anche questo il segreto della restituzione, il motivo per cui provare a restituire esperienze e passioni fa stare bene.
Voce del verbo ripartire: intervista a Martina Alzini
Non appena, dall'altro capo del telefono, giunge la voce, le prime parole ci spiazzano e per qualche istante rimaniamo in silenzio: «Diversi giornalisti mi hanno scritto e intervistato nell'ultimo periodo e, se vuoi che ti dica la verità, resto sempre abbastanza sorpresa, non ne capisco il motivo. Di solito le interviste si fanno a chi vince, a chi ha tanto da raccontare. Nell'ultimo anno, io non ho vinto nulla, anzi, ne sono uscita esausta e posso assicurare che non sto esagerando: è la realtà. Mi sembra di non avere nulla da dire, oppure, forse, ben poco. Talvolta ho la sensazione di ripetere le solite cose, altro non posso raccontare perchè io ho vissuto questo». A parlare è Martina Alzini, ventisette anni, di Legnano, casacca Cofidis Women Team: in una pausa, interveniamo, le spieghiamo perché l'abbiamo cercata, le diciamo che, alla fine, sono le persone a contare e nulla può sostituirle. Probabilmente non la convinciamo del tutto e lo capiamo bene, perché chissà quante volte l'avrà sentita questa storia. Ad una conclusione arriviamo solo mentre scriviamo questo pezzo, riascoltando la registrazione dell'intervista e anche questa non è particolarmente originale ma tant'è: chi crede di aver meno da dire, chi parla poco, di solito è proprio chi avrebbe più da condividere. «Di non voler a tutti i costi tirarsi fuori da soli dalle risacche in cui, qualche volta, ci costringe la vita: penso sia questa la cosa più importante da raccontare. Io sono caduta in quest'errore, quasi chiedere aiuto ci faccia apparire deboli. Lo dico a voce alta: chi ha la forza di farsi aiutare è forte, molto forte. Anzi, la dimostrazione della forza di carattere è proprio in questo. Dovremmo imparare a non aspettare di soffrire per chiedere una mano. Sono affiancata da uno psicologo, perché a fine stagione ero mentalmente svuotata. Non c'era più luce, dentro e fuori».
La motivazione è andata calando nel 2024 e ad un certo punto Alzini si è confrontata con la difficile condizione di non trovare un motivo per continuare a fare quel che, comunque, continuava a fare, fedele alla professionalità richiesta ad una ciclista: «Non provavo più alcuna emozione e non c'è nessun responsabile, non c'è una colpa di qualcuno, era uno status mio. Forse ho gestito male le mie energie: dapprima il pensiero fisso rivolto a Parigi, all'Olimpiade, successivamente la forte motivazione legata al Mondiale su pista, poi mi sono fermata, la mia mente ne ha risentito». Martina Alzini sottolinea più volte quel "non è colpa di nessuno" e spiega che, probabilmente, si è ingenerato un equivoco che vorrebbe chiarire: «Può essere che la mia reazione a caldo non sia stata la migliore. Sbagliamo tutti, sbaglio anche io. Non so se mi sono spiegata male, oppure non sono stata compresa, ma non è questo il punto. Il fatto è che, spesso, è passata l'idea che avessi qualcosa contro qualcuno. Non è così. Anzi, voglio ringraziare Marco Villa per avermi messa alla prova e perché se, fra tutto ciò che non ha funzionato quest'anno, posso sentirmi fiera di "essere uscita dal nido" l'opportunità è venuta da lui. Mi spiego meglio: è normale che le cose negative facciano più notizia di quelle positive, però nel 2024 non c'è stata solo l'esclusione dall'Olimpiade di cui tutti mi chiedono. Ho corso in Australia, ho corso la Coppa del Mondo in Canada e siamo arrivate seconde dietro la Gran Bretagna, ed al Mondiale, oltre alla conquista del bronzo nel quartetto, ho sperimentato la Corsa a punti, una specialità differente in cui vorrei fare bene. Volevo di più, certo, volevo un'altra medaglia e quel "no" all'Olimpiade sto imparando ora ad accettarlo e metabolizzarlo, lo ammetto, ma sento che diventerà un punto di forza. Non sono più una ragazzina, atleticamente non sono così giovane e "uscire dal nido" a ventisette anni non è scontato. A me è capitato». A Parigi, non appena seppe che sarebbe stata riserva, scrisse qualche riga e, al fondo di questa riflessione, aggiunse un pensiero per tutte le atlete e gli atleti nella sua stessa condizione.
«Fa parte del mio carattere, anche fuori dallo sport, credo nell'aiutare gli altri perché quando si è in difficoltà è questo che si desidera: qualcuno che porga una mano. E se lo desideriamo per noi stessi, perché non dovrebbe volerlo anche quella persona che, magari, ci è vicina e sta attraversando un brutto periodo? Alla fine siamo tutti esseri umani ed i bisogni, spesso, sono gli stessi. Si chiama empatia ed in questa società può pure sembrare un problema, perché in pochi la vivono. Io sono fatta così e, ora posso dirlo, resterò così anche se può far male. Non cambio questo lato di me. Tra l'altro, nel ciclismo difficilmente si va da qualche parte da soli. In nazionale è accaduto a tutte ed a tutti di essere esclusi in certe occasioni e non c'è nulla per cui protestare. Quando succede, bisogna solo mettersi nella condizione per cui non ricapiti; lavorando ancora di più, impegnandosi, cercando di migliorare». Alzini è una ragazza solare, la battuta e lo scherzo sono parte del suo pane, anche quando si va in profondità, così, d'improvviso ride di gusto, fa ridere anche noi e racconta uno scherzo organizzato dalla sua squadra, la Cofidis, durante il primo ritiro con Julie Bego, appena diciannove anni. A Bego era stato detto che sarebbe stata in camera con "la più "vecchia" e severa del team, un'atleta sempre seriosa, poco incline alla risata o al divertimento": quella ciclista era Martina Alzini che, in accordo con lo staff, nei primi giorni di condivisione della camera ha retto il gioco. Julie Bego era preoccupata, qualcuno dice "terrorizzata". Un giorno parla con Alzini e si confessa entusiasta dell'inizio della stagione del ciclocross: «Ma come? Ti perdi il periodo di off season, forse la parte più bella della stagione e sei così felice?». La risposta di Bego è quella che fa capire a Martina Alzini di trovarsi davanti ad una fuoriclasse: «Io la penso al contrario, senza bici soffro. Tu sei "vecchia", forse per questo la pensi diversamente, magari un domani cambierò idea anche io». Una porta in faccia, un'onestà disarmante, una genuinità che non ammette repliche, nessun timore reverenziale. «Julie è vera e quando si è così viene tutto naturale, mi somiglia: non so fingere. Sono cresciuta insieme a Marta Bastianelli, ascoltando i suoi consigli e provando a farne tesoro, quando vedo una ragazza nuova e giovane in gruppo penso spesso alle sue possibilità, al suo talento, a dove potrà arrivare e se qualcuna viene a bussare in camera mia, alla sera, mi appaga l'idea di poterle essere d'aiuto, in qualche modo».
Al Tour de France Femmes, in realtà, è arrivata una piccola boccata d'ossigeno: una volata in cui si è risentita bene ed una top ten che doveva restituire morale, al termine di un periodo in cui Alzini non riusciva più a dormire e faticava in allenamento. Questo il motivo del pianto liberatorio, appena tagliata la linea del traguardo. Qualcuno non ha compreso quelle lacrime, di più, qualcuno le ha giudicate, criticate, anche con commenti sotto i suoi post social: «Ero estremamente vulnerabile e quelle parole non pensate mi hanno fatto riflettere. Perché si cerca sempre di screditare senza conoscere la storia delle persone? Mi chiedo se le persone sanno cosa si prova a stare in gruppo nel 2024: non devi pensare, perché se pensi tiri i freni e ti fermi. Posso capire che per qualcuno quella top ten non significhi nulla, ma prima di dirlo, prima di scriverlo, perché non si prova a fare uno sforzo di immedesimazione? Se hai un ampio pubblico che ti segue, quella critica può scivolare via in mezzo a tanti commenti, diversamente può davvero fare male. Io credo che, a patto di scegliere di fare attenzione alle parole, si possa davvero dire quasi tutto ed ogni pensiero sia legittimo, ma le parole vanno pesate prima di parlare, altrimenti meglio tacere». Le critiche, spiega Alzini, sono normali nel suo lavoro, con l'esposizione mediatica, certo hanno un peso differente a seconda di chi le fa, perché «dal divano siamo tutti bravi a esprimerci. I pareri vanno bene, i giudizi penso, invece, richiedano una certa conoscenza del mondo di cui si parla».
La stagione 2024, a fronte dei risultati che sperava migliori, le ha restituito la capacità di apprezzare le piccole cose, ad esempio il sesto posto colto con Martina Fidanza nella disciplina della madison in Australia. Non tanto per il risultato in quanto tale, quanto, piuttosto, per l'esperienza e per il ricordo che le ha lasciato: non a caso sostiene che, nonostante tutto o forse proprio per questo il 2024 sia l'anno in cui è cresciuta di più ed è cambiata di più, soprattutto in una parte insondabile, l'interiorità. Per il 2025, relativamente alla strada, vorrebbe lavorare sull'aspetto aerobico e migliorare sulle salite, essere più resistente; in pista, invece, il traguardo è quello di affinare la tecnica nelle gare di gruppo, come la Corsa a punti, per essere competitiva. A voce bassa, però, il desiderio più importante: «Vorrei tornare ad alzare le braccia al cielo. Non ho una gara preferita, non ho una corsa che sogno più di altre. Solo non vedo l'ora di riprovare quella sensazione, quella felicità». Cofidis è l'ambiente ideale per inseguire questo traguardo, una squadra storica e «se si resta nel mondo del ciclismo per così tanti anni, un motivo ci sarà: significa che c'è studio, c'è programmazione». Martina Alzini si dice fiera della propria italianità, allo stesso tempo, però, tiene gli occhi ben aperti: «Noi italiani saremo sicuramente più bravi a fare un piatto di pasta, su questo non ho dubbi, su altro, tuttavia, di strada da fare ne abbiamo e sarebbe il caso di guardare all'estero e trarre spunto: per esempio dalla tutela del lavoratore che c'è in Francia, dal modo in cui si cerca di agevolare l'ingresso e la permanenza nel mondo del ciclismo». Il periodo di riposo a fine stagione le ha permesso di trovare tranquillità, il cui sinonimo per una ciclista è organizzazione, ovvero costruire la propria forma fisica senza cambi di programma: «Il ciclismo si è estremizzato molto, ma noi siamo umani e "forte" ovunque non possiamo andare. Serve un compromesso: lavorare molto evitando di "fissarsi" su quel che non va perché è dannoso: svuota, prosciuga».
Martina Alzini non riuscirebbe a sopportare la routine di alcuni lavori, perché è una ciclista e come tale è una viaggiatrice del mondo con la valigia in mano, però di casa sente la mancanza. Non tanto del luogo fisico, nemmeno di un locale o di un oggetto, quanto piuttosto di una situazione: le sere sul divano con il gatto che ha adottato, trovandolo, di fatto, in mezzo ai rifiuti. Proprio il suo lavoro non le consente di tenere un cane, ma, appena può, si reca al canile e ne porta a passeggio qualcuno. Ora che trova conforto e sollievo nei dettagli e nei particolari, tiene fra le cose più care la solitudine di un allenamento, le acque del lago placide ed il sole. «E questo autunno è stato davvero pieno di sole»
IL GRIDO E L'ORGOGLIO: INTERVISTA A GIADA SILO
Giada Silo era, per la prima volta, in sella ad una bicicletta da corsa e stava varcando l'ingresso del velodromo di Sossano, in provincia di Vicenza, non lontano da casa. L'aveva accompagnata suo padre, lei aveva poco più di dieci anni: ricorda perfettamente com'era vestita, ricorda molte altre cose, soprattutto ricorda che quel giorno tornò a casa dal velodromo con un borsone da ciclismo e la sua prima bicicletta. Aveva scelto ed era felice ed arrabbiata, quella rabbia che viene dall'orgoglio e dal sentirsi discriminate. Era l'unica ragazza della categoria giovanissimi e l'allenatore, non appena aveva iniziato a pedalare nel velodromo, si era rivolto ai ragazzi che già si stavano allenando, chiedendo di fermarsi, in quanto per Giada era la prima volta ed aveva bisogno di essere sola per impratichirsi. Una voce come un pugno allo stomaco da parte di uno di quei ragazzini: «Sì, sì fermiamoci, è una femmina. Solo per quello». Giada Silo ha sentito e nella sua mente stava gridando, anche se il velodromo continuava ad essere stranamente silenzioso: «Adesso vi faccio vedere io».
Il 26 settembre 2024, lontano, a Zurigo, in un giorno di pioggia e freddo, quella voce gridava ancora, più forte di prima. Giada Silo era franata a terra, a duecento metri dal traguardo, durante la volata con Célia Gery che avrebbe potuto consegnarle il quinto posto: i crampi l'avevano bloccata e disarcionata. Aveva male alle gambe, un dolore forte che le impediva di muoversi e, mentre piangeva, urlava dal dolore. Lì vicino c'era il medico, a tranquillizzarla e ad accompagnarla accanto alle transenne per consentirle di riprendere fiato. Sotto la pioggia, col volto segnato dall'acqua e dal freddo, Marta Bastianelli porge una mano da quelle transenne, le accarezza il volto, poi indica il traguardo.
«Mi ha detto: Vedi la linea d'arrivo? Là, è là in fondo. Non manca nulla, Giada. Devi arrivare a quella linea. Se non hai troppo male devi andare avanti, mancano duecento metri. Finisci la tua gara, te lo meriti. Al pulmann ho cercato Paolo Sangalli, il C.T. ed ho chiesto scusa perché sapevo quanto ci tenesse a leggere il nome di una ragazza italiana tra le prime. Mi ha risposto che avevo fatto tutto ciò che potevo fare e che quei duecento metri non possono cancellare nulla». Il suo grido d'orgoglio l'ha portata a vincere la gara di San Daniele del Friuli, dopo il Mondiale, nonostante il dolore non fosse ancora passato del tutto e pedalare fosse più difficile.
L'ha fatto perché voleva togliersi qualche sassolino dalla scarpa e perché voleva ribadire un concetto a cui tiene da quel giorno di sette anni fa al velodromo: «Tu sei questo, basta». L'ha fatto anche perché ricorda bene la prima maglia azzurra che ha vestito al Tour d'Occitania: l'ha ritirata in un magazzino della nazionale e, durante il viaggio, non vedeva l'ora di arrivare in Francia per vestirla, per andare davanti ad uno specchio e vedersi vestita così. Pensava fosse una prima volta, in realtà le accade sempre. La prestazione del Campionato del Mondo, in questo senso, l'ha resa più forte: junior primo anno, avendo corso solo un paio di volte, tra cui a Cittiglio, con tutte le atlete più forti, soprattutto con le straniere, non sapeva bene come muoversi e non era neppure certa di riuscire a mettere in pratica le indicazioni di Sangalli. Ci è riuscita, nonostante fossero passati mesi: era alla ruota di Gery e Gery è senza dubbio una delle giovani più quotate a livello internazionale. In questo modo, Silo si è ricreduta sulle proprie potenzialità e, alla fine di tutto, da quel giorno è uscita più forte. «Ho un lato insicuro abbastanza pronunciato, non credo quasi mai ai complimenti che mi vengono fatti, spesso penso mi stiano prendendo in giro, che non sia vero. Mi rivedo in televisione, per capire meglio se e dove sbaglio, ma voglio essere sola, mi infastidisce se altri mi osservano, non mi piace la visibilità. Anche questo rientra nell'insicurezza. I risultati sono l'ancora a cui mi aggrappo per credere in me stessa».
Il padre di Giada Silo è sempre stato un amatore, per questo l'accompagnò al velodromo quel giorno, per questo ha pedalato da casa sino in Piemonte per andare a vederla alle gare. Lei, invece, faceva atletica, le piacevano le campestri, il mezzofondo e ancora oggi, ogni tanto, le telefona il suo allenatore del tempo chiedendole di partecipare a qualche gara, perché se la cavava bene: rinuncia sempre, come ha rinunciato all'atletica da esordiente, quando non riusciva più a coniugare i due sport. Al Mondiale c'erano anche le sue due sorelle, una maggiore ed una minore, «più il ciclismo diventa importante per me, più loro mi sono accanto». Ha sempre avuto un carattere deciso in sella: sin da giovanissima cercava strade con salite per allenarsi perché «senza almeno una salita che senso ha andare in bicicletta?». La fatica è il suo antidoto alla noia, a costo di farne tanta, troppa, e magari non raggiungere il risultato: «Non riesco ad essere attendista, a non fare nulla, anche se questo dovesse portare alla vittoria, devo sentirmi parte della corsa, devo agire». Se il ciclismo l'ha cambiata nel carattere, questo è avvenuto nella vita quotidiana, dove le tante batoste che ha preso l'hanno resa più forte, disposta a non cedere di fronte alle difficoltà, a proseguire per la propria strada. Nel ciclismo ha pensato di smettere solo una volta, da allieva quando, nonostante l'impegno, i risultati non arrivavano ed aveva la sensazione di perdere tempo: il passaggio in Breganze Millenium le ha permesso di valorizzare la propria persona ancor prima che l'atleta: «Davide Casarotto mi aveva cercata già tempo prima. Con lui ho dato solidità ai miei punti forti ed ho potuto lavorare sugli aspetti più fragili. Ho trovato una casa, una famiglia, perché qualunque problema abbia so che Davide c'è, per una parola o un consiglio».
Studia Biotecnologie Sanitarie, è al quarto anno e da tempo ha smesso di spiegare tutti i sacrifici che comporta la vita da atleta, perché è convinta che non si possa capire senza averla provata: «A volte, alcuni miei coetanei mi chiedono di uscire a pranzo il sabato: se gareggio la domenica, devo rifiutare. Replicano spesso che, se la gara è la domenica, non vedono il problema di un pranzo il sabato. Spiegare tutto non ha senso. Ora che le cose sono diventate più importanti qualcosa è cambiato, all'inizio faticavo anche a spiegare la necessità delle interrogazioni programmate che, per molti, erano una sorta di privilegio. Non sono un favore, è un aiuto agli studenti atleti perché non si può fare altrimenti». Giada Silo non si accontenta della propria esperienza, nonostante sia molto giovane cerca di motivare ogni ragionamento scandagliandolo, studia quel che succede e ne matura una convinzione, su cui, poi, riflette: «Per avere la tessera di studente atleta vengono prefissati dei risultati da raggiungere: per esempio arrivare nelle prime cinque ai Campionati Italiani oppure nelle prime tre ai Campionati Regionali. Da un lato capisco la ratio, dall'altro se una ragazza non raggiungesse questi risultati? L'impegno sarebbe uguale, in ogni caso. Non si può badare solo al risultato perché non racconta lo sforzo di chi sceglie questa strada. A me è capitato e capita tuttora: quando hai tre verifiche da svolgere in poche settimane e ti dicono che non puoi saltarle e farle successivamente, ma devi comunque farle, piuttosto prendere un brutto voto e poi recuperare in un secondo momento. Ci rendiamo conto che il peso a livello di studio è completamente differente? Questo non considerando il fatto psicologico del dover rimediare ad una situazione negativa».
Si ispira ad Elisa Longo Borghini e a Tadej Pogačar, perchè «è il re delle salite», mantiene i piedi per terra e pensa spesso alle difficoltà del ciclismo femminile, pur se negli ultimi anni le cose sono migliorate: «Il ciclismo femminile in generale ma, a mio avviso, soprattutto quello italiano: a me sembra che non siamo prese molto in considerazione e si vede, ad esempio, dai passaggi nello World Tour delle atlete azzurre: una o due all'anno, talvolta nessuna. Io credo che il ciclismo italiano femminile valga e valga molto: servono più possibilità per dimostrarlo». Vorrebbe migliorare nelle volate e, un domani, sogna il Fiandre visto che per vincerlo bisogna essere dei fuoriclasse. Soprattutto vorrebbe che la prossima stagione fosse bellissima perché quella trascorsa è stata così: «Però non amo fare confronti, raffronti, perché ogni stagione è diversa ed è un conto a parte. Non lo voglio per non subirne la pressione, per continuare a lavorare senza sedermi o senza illudermi. Non lo voglio perché la stagione passata è, per l'appunto, passato, ora si ricomincia daccapo».
The Hills: l'appuntamento Gravel di Primavera
Inizialmente "The Hills" non era nemmeno un'idea. Mattia De Marchi aveva semplicemente inviato un messaggio alla pagina instagram di una gara in mountain bike delle zone di Asiago, non lontano da casa sua: l'aveva incuriosito il fatto che qualche post parlasse della possibilità di introdurre una ride gravel affiancata alla gara vera e propria. Quel messaggio era un gioco, nulla più: al massimo una proposta e una provocazione. «Perché invece di una semplice ride non si organizza una gara vera e propria?»
«Parliamone» è la parola chiave nella risposta, ovvero l'input per un incontro. Accadrà in questo modo: settimane più tardi, De Marchi incontrerà Nicolò e Federico, l'addetto alla comunicazione e l'organizzatore di quella gara in mountain bike.
Il discorso intavolato da Mattia De Marchi è più ampio, in realtà: «La mia domanda riguarda il motivo per cui in Italia, salvo le occasioni collegate a Mondiali ed Europei, la disciplina gravel non venga mai considerata come un appuntamento fisso, ma, al contrario, come qualcosa di occasionale. In altri paesi non è così, guardiamo alla Spagna ad esempio, pensiamo a The Traka ed alla sua crescita costante di iscritti, e non c'è motivo per cui le cose non possano cambiare anche da noi».
Dall'incontro dei tre si è aperto un varco: Federico era stato contattato dal polo sportivo de "Le Bandie" per organizzare una gara gravel nel 2025 e le parole di Mattia sono state per lui un gancio a cui appigliarsi per sviluppare il progetto: «Posso farmi tranquillamente carico di ogni aspetto organizzativo, ma l'universo gravel per me è completamente nuovo, non conosco alcuna dinamica. Perché non mi porti quel che hai visto in giro per il mondo? Quelle esperienze saranno la nostra base». Un salto temporale di qualche tempo, l'apprezzamento per l'umiltà, per l'ammissione di non conoscere, tanto rara ai nostri tempi, ed è così che "The Hills", che non era nemmeno un'idea, ha una data certa ed i numeri che ne costruiscono la carta d'identità: l'evento si terrà dal 28 al 30 marzo, e la gara, iscritta al circuito "gravel earth series", si disputerà il 29 marzo, su un percorso di 170 chilometri e 2200 metri di dislivello, con partenza e arrivo al lago Le Bandie. Ma non è tutto.
«Penso ad un contenitore, vorrei "The Hills" fosse questo. La gara ci sarà, tuttavia non può bastare, serve un pensiero ben più arioso: chiunque vorrà mettersi alla prova dovrà essere coinvolto. Che sia una sfida con la propria persona o con altri fa poca differenza. Immaginiamo "The Hills" come giorni e luoghi in cui ciascuno in una diversa categoria potrà girare in bicicletta, scoprire un posto, magari riviverlo, andarci con un amico, che, poi, a ben pensarci, è il bello della bicicletta e del gravel: la molteplicità di sfaccettature con cui possono far parte della nostra quotidianità. Per questo è necessario un villaggio sempre vivo che pulluli di attività correlate, nei giorni prima e anche nelle ore successive alla gara: lì potranno fermarsi le famiglie, i bambini ed il lago Le Bandie è perfetto perché il suo polo sportivo può radunare vari eventi, oltre al fatto che, attorno al lago, ci sarà posto per camper e tende. Insomma, la definizione perfetta di villaggio».
Il panorama sarà quindi quello delle colline del Prosecco, il percorso sarà a metà tra un circuito ed un "non circuito": alcuni tratti verranno ripetuti più volte, anche al fine di rendere più sicura la gara. In questo senso l'UCI ha fatto molto nel tempo, pur se capita ancora di trovare situazioni rischiose, mal segnalate o non segnalate. Si proverà anche a lavorare sulla consapevolezza del territorio, comuni e prefetture, rispetto al gravel come modalità di promozione di paesi, città e ambienti naturali, qualcosa di cui non c'è ancora piena coscienza. Questa scelta permetterà inoltre di alternare un flow a volte lento, a volte più veloce, con scorci paesaggistici ed anche tratti più tecnici. Una costruzione completa, affinché nessuno si senta escluso.
«Le strade del Prosecco sono bellissime, ma trafficate, dense di paesi e paesini, tuttavia basta andare verso le colline perché si entri in una sorta di dimensione parallela, dove non ci sono più auto ma silenzio, fuori dal traffico, quasi isolati, una prospettiva diversa e rilassante. Ovviamente ci saranno punti difficili, faticosi ed è necessario che ci siano perché senza fatica non resta nulla, nemmeno il ricordo. Qualcosa sulle gambe te lo devi portare a casa, la troppa facilità non fa bene a nessuno. Il doppio passaggio l'abbiamo ideato in quest'ottica; la fatica spesso toglie la possibilità di guardarsi attorno, di vedere il paesaggio perché l'agonismo puro ha questo effetto. Bene, ci piace pensare che, in questo modo, magari al secondo transito, tutti possano alzare gli occhi e memorizzare un dettaglio, chissà». Il dato di fatto è che il livello si sta sempre più alzando ed è un bene perché aumenta l'interesse e le persone che vogliono partecipare in una sorta di volano, di circolo virtuoso che si autoalimenta. Secondo Mattia De Marchi chi vive per 365 giorni all'anno questo mondo ha il dovere di focalizzarsi sulla community e pensare a come fare per accrescerla e per tenerla unita altrimenti c'è il rischio di perderla. Da questo punto di vista, precisa che si può fare di più ed è una questione di trovare un equilibrio fra la performance ed il tempo libero, lo svago, il divertimento, due volti che si fatica a tenere assieme, ma nel gravel ci sono e sono indispensabili, perché non si corre e basta e tutti lo sanno.
De Marchi parla di podcast, di racconto, di narrazione di quel che si fa, poi apre una parentesi sulle atlete e sugli atleti che inviterà: «La proposta è quella di trascorrere giorni di corsa spensierata, senza alcuna preoccupazione per il risultato perché ad un professionista, in ogni caso, non cambierà nulla da quel punto di vista. Sono però certo che possa fare stare meglio un'esperienza simile, anzi, dico di più, credo che qualcuno proverà a ritagliarsi qualche giorno, qualche fine settimana libero per rivivere questa sensazione, per respirare e considerando la routine intensa degli atleti nel World Tour l'importanza è enorme, perché staccare aiuta anche a rendere meglio quando si riprende». Per questo l'interesse è papabile e anche Lachlan Morton ha chiesto informazioni, lui che spazia in ogni angolo del ciclismo quando lo interpreta con i suoi viaggi, le sue imprese. A Le Bandie ci sarà un hotel, messo a disposizione degli ospiti: un modo per far incontrare i vari mondi della bicicletta.
Sicuramente una marcia in più è identificata nell'appartenenza a "gravel earth series" per l'approccio aperto e pienamente in armonia con quella che è l'essenza del gravel, un altro passo sarà da fare nel tempo: «Si tratta di un discorso generale: non sono gli eventi a mancare, perché a ben analizzare la realtà, se è vero che mancano eventi assimilabili ad Europei e Mondiali, è altrettanto certo che sono davvero molte le competizioni o le ride organizzate sul territorio e questo potrebbe anche essere un bene. Il problema credo risieda nella qualità: che qualità si è in grado di mantenere? La buona volontà degli organizzatori non la metto in dubbio, ma è una domanda da farsi. Le persone magari scelgono questi eventi perché hanno un costo inferiore, ma davvero ci si può fermare al costo? Sarebbe necessario applicare un filtro ai vari eventi, quello della qualità. Lo sforzo organizzativo si paga, tuttavia è proprio questo a garantire la sicurezza».
Non è stato facile per Mattia De Marchi iniziare questo progetto e prenderne le redini in questo ruolo, soprattutto non è facile la responsabilità che comporta il "metterci la faccia": alla fine si è risposto che non poteva fare altrimenti e che, forse, questa era una sorta di sua «restituzione» alla community di tutto ciò che il gravel gli ha consegnato, un suo modo di prendersene cura, magari mettendo da parte per un poco il lato agonistico a cui si dedica sempre e di cui, per come è cresciuto, non potrebbe fare a meno. Qualcuno gli ha detto che, in fondo, è proprio lui la chiave dell'evento e se ci pensa bene, in effetti, la sua storia ha ispirato molti nell'avvicinamento al gravel. «Di tutto ciò che c'è di bello, la cosa migliore è il fatto che "non ci saranno transenne" a dividere, non ci sarà una separazione tra top rider e altri. Saremo tutti ciclisti, tutti insieme, provando a cancellare barriere e differenze, perché anche questo è uno dei compiti della bicicletta».
«Senza cross, come farei?»: intervista a Giorgia Pellizotti
Qualche volta Giorgia Pellizotti si rivolge a suo padre Franco, magari durante un viaggio in auto, oppure a casa, davanti a quel televisore attraverso cui da bambina, al ritorno da scuola, seguiva le tappe del Giro d'Italia: «Papà, secondo te potrei diventare una ciclista professionista?». Lui la guarda negli occhi: «Non so, le cose non vanno sempre come vorremmo...». Lei riprende a parlare e rafforza la domanda: «Quindi? Qual è la tua idea? Non mi hai risposto». Allora Franco cambia tono: «Vedremo, tu, intanto, impegnati, se ti impegni sei già a metà dell'opera». Pare che Franco Pellizotti non le abbia mai detto chiaramente di sì, eppure chi lo conosce bene è consapevole del fatto che sia il primo a crederci.
D'altra parte, Giorgia ha letto recentemente una dichiarazione in cui il padre spiegava che sapendo bene, per averlo vissuto sulla propria pelle, cosa voglia dire essere ciclisti, ha scelto di lasciarla libera, anche di sbagliare se necessario, purché sia tranquilla e non avverta anche la sua pressione. «Potrei dire che papà è la mia ispirazione come ciclista, ma sarei imprecisa, perché lui ha corso su strada ed io sono impegnata con ciclocross e mountain bike, specialità completamente differenti. Sembrerà strano, ma di ciclismo parliamo raramente e, quando lo facciamo, c'è di mezzo l'ironia: ci prendiamo in giro, magari gli rinfaccio le maglie che io ho vinto e lui no. La serietà la riserviamo ad altro. Papà forse non era il più forte, ma di certo era il più "intelligente" a livello tattico, questo mi è chiaro. Però Franco Pellizotti per sua figlia è un modello come persona, come padre. Non c'è altro». Prima di sedersi davanti a quel televisore, nei primi giorni di quei mesi di maggio, Giorgia, da bambina, piangeva forte: non ha mai accettato del tutto quei bagagli di Franco e l'idea che per un mese non l'avrebbe più visto, così non voleva lasciarlo partire. La promessa era che presto mamma avrebbe accompagnato lei ed il fratello a qualche tappa non lontana da casa e lì avrebbero rivisto il padre: «Nel mio immaginario quei bus, quelle divise e quegli occhiali erano ben più di quel che erano davvero. Per me i ciclisti erano esseri umani speciali che partivano con così poco per tutta quella fatica. Poi, fra loro, c'era papà ed io volevo assomigliare a papà».
Descrive minuziosamente i fiori disegnati sulla sua prima bicicletta da passeggio, descrive con altrettanta attenzione la prima bicicletta da gara, tutta bianca, regalatale proprio da Franco Pellizotti, «piccola, anzi davvero minuscola, ma pure io ero minuta». Crede di essere nata in sella, perchè i primi ricordi sono lì e a sedici anni, la sua età, i primi ricordi sembrano così lontani, ma sono dietro l'angolo: «Fino alla categoria G6 era solo un divertimento e mi divertivo come non riuscivo a divertirmi in nessun altro ambito: in più, io avevo la prova che potevo farcela, di qualunque ostacolo si trattasse, perché ce l'aveva fatta mio padre. Al passaggio da esordiente, però, qualcosa è cambiato, forse perché era maggiormente impegnativo, forse per i risultati che non arrivavano, il divertimento era svanito. Se corro ancora, è grazie al passaggio alla Sanfiorese ed alla scoperta del ciclocross e di ciò che più gli somiglia, la mountain bike». A dire il vero, il cross lo praticava già, ma è il modo a fare la differenza: «Senza cross non so cosa farei. Ho cercato la mountain bike per riempire le estati: è qualcosa di magico. Anche in allenamento, in mezzo ai campi, al verde, mi sento in armonia con il tutto, e questo, forse, non è nemmeno il motivo principale. Sai, mio fratello è molto impegnato con l'università e anche papà è sempre fuori casa. Il cross riunisce la nostra famiglia: so che nel fine settimana siamo tutti assieme e per me fa la differenza».
Il fratello è maggiore e sin da piccola l'ha sempre vista impegnarsi e fare sacrifici per quella bicicletta: non riusciva a capirla. Ora che si è appassionato anche lui, le ripete spesso una frase: «La fatica preferisco farla fare a te, ma anche se sei tu a correre è come se ci fossi anche io lì». Giorgia ci crede, perché lo vede. È accaduto anche all'Europeo di ciclocross di Pontevedra, dove ha conquistato una medaglia d'oro nel Team Relay e un bronzo nella prova individuale.
«Del Team Relay non cambierei nulla: è stata una giornata perfetta. Ho fatto tutto ciò che mi è stato chiesto e sono stata ricompensata in un modo insperato. Dirò qualcosa che forse non ci si aspetta rispetto alla prova individuale. Sia chiaro, la medaglia di bronzo è un risultato importante e ne sono orgogliosa, ma rivedendomi credo che avrei potuto insistere di più nel finale, invece, quando ho capito che il terzo posto era a portata di mano, mi sono seduta, rilassata. Un pizzico di combattività in più non avrebbe guastato: la vittoria era lì, era possibile». Si è rivista in televisione e si è emozionata ripensando alla sua quotidianità: sei ore di scuola, all'uscita, in autunno ed in inverno, subito agli allenamenti, per sfruttare le ore di luce, pranzo all'orario in cui gli altri ragazzi fanno merenda, compiti e studio, cena e ancora studio fino all'ora di andare a letto. In mezzo le trasferte all'estero, le lezioni da recuperare, le interrogazioni e le verifiche da incastrare e una sensazione ben precisa: «Non basta mai».
«I miei genitori non saranno d'accordo, per me, però, la scuola ed il ciclismo sono esattamente sullo stesso piano. Loro sostengono che la scuola venga prima del ciclismo e se non studio non mi permettono di uscire in allenamento. Sono competitiva, sia nello sport che nello studio: voglio vincere e ottenere voti alti a scuola. I sacrifici, per me, sono nella quotidianità, non nel ciclismo: non correrei se lo avvertissi come un peso. Non posso uscire la sera? Va bene così, sono ripagata di tutte le sere trascorse a casa se posso essere una ciclista e, al momento, non conosco un altro ambito del quotidiano che riesca a emozionarmi in questo modo».
Al suo ritorno a scuola, al liceo Scientifico, una piccola amarezza che la fa riflettere. Ai suoi insegnanti aveva spiegato che sarebbe stata assente qualche giorno per una competizione, l'Europeo: «Alcuni miei compagni si sono ricordati, mi hanno fatto i complimenti, mi hanno chiesto com'era andata, si sono interessati, insomma. Purtroppo nessun insegnante ha dimostrato questa attenzione. Mi è dispiaciuto, anche se so bene che la vita di un atleta spesso non viene compresa, anche perché è difficile capire quel che non si prova. So essere molto estroversa se mi apro, se mi fido, eppure non ho molte amicizie in ambito scolastico. Le ho fra atleti, dove si condivide la stessa vita, le stesse esperienze, ci si supporta. Mi è dispiaciuto, ma inizio a credere sia normale».
Sui libri, la materia che preferisce è Scienze dell'alimentazione in ambito sportivo e un domani, al termine della carriera, vorrebbe fosse il suo lavoro, magari proprio nel ciclismo. Dice che Mathieu van der Poel è fra le cose più belle capitate nel ciclismo, una sorta di modello da provare a replicare, di utopia da inseguire «perché van der Poel va davvero forte ovunque». Altra ispirazione le proviene da Demi Vollering, per come affronta il ciclismo e non solo. Pensa alla nazionale, ai Campionati Italiani, al Mondiale. Vorrebbe imparare a saltare gli ostacoli in bicicletta, dote che potrebbe esserle molto utile, soprattutto alla luce del fatto che in poche riescono a farlo in scioltezza: lei fa ancora fatica, ma continua a lavorarci.
Un aneddoto la racconta meglio di altri: al secondo anno da esordiente, sfidava spesso Luisa Bianchi, una ragazza di una superiorità netta rispetto alle avversarie, anche fisicamente più avanti. Una gara terminò in volata e ad affrontare Bianchi c'era proprio Giorgia Pellizotti: «La superai, riuscii a superarla. Forse quel giorno ho davvero capito di poter vincere». E piano piano Giorgia somiglia sempre più a Franco, proprio come desiderava. E assieme ci scherzano su.