Ciclismo è letteratura: la Biblioteca del Ciclista

La forza “mediatica” – diremmo oggi – di uno sport come il ciclismo è sempre stata quella di poter creare attorno a sé una sorta di attrattiva letteraria. Epica, pathos (niente etica, né etnica: non stiamo scomodando i CCCP) ingredienti che messi assieme sono la ricetta di uno sport che sembra, sin dai suoi pionieri, perfettamente adatto a raccontare e celebrare i protagonisti e le loro imprese. Retorica? A bizzeffe. D’altronde, quando si parla di fatica, di muscoli, di sforzi, di imprese, di salita e di discesa, di ossa rotte e tenute su non si sa come, di tragedie, di paesaggi, di corse sotto la pioggia e sotto la neve, con il sole, sull’asfalto che si scolla e si incolla, e di quelle che noi più volte tendiamo a definirle “immagini indelebili” il rischio c’è sempre, che poi è un rischio azzardato ma calcolato visto che tutto ciò poi resta impresso su libri e riviste che vengono lette e tramandate fino ad accrescere il nostro bagaglio culturale. E partendo da libri e riviste, dalla forza della letteratura, dalla passione per quello che è stato il ciclismo dei pionieri, che nasce l’idea di Vittorio Landucci: un paio di anni fa ha deciso di fondare la Biblioteca del Ciclista.

Che tempi i nostri! Verrebbe da dire: in un altro momento storico quella che segue sarebbe stata l’intervista perfetta da fare sul campo e non al telefono, osservando una collezione di oltre settecento libri, foto e illustrazioni, riviste, anche solo perdersi dentro l’odore di carta che ti avvolge quando entri in uno spazio del genere. Vedere scaffali su scaffali pieni, panche e tavoli fitti; sfogliare, prendere appunti, sprofondare nella storia del ciclismo e delle sue immagini in bianco e nero. Ma questi sono tempi bislacchi, o forse sarebbe meglio dire “bischeri” se volessimo prendere in prestito un termine caro alla verace dialettica toscana, la terra da dove arriva il protagonista di questa storia.

Un pizzico di follia va mischiata alla passione: si pedala sì, ma soprattutto si mette assieme una serie di libri che a Castiglion Fiorentino, in provincia di Arezzo, vanno a comporre la sua biblioteca. «Pedalare ho sempre pedalato: sin da quando sono bambino. Oggi ho 46 anni e gli ultimi otto li ho passati praticando podismo. Ma il ciclismo da sempre scorre nelle mie vene, soprattutto quello scritto e raccontato: partendo dalle prime riviste comprate quasi quarant’anni fa, fino ai libri», si presenta così, Vittorio Landucci.

La Biblioteca del ciclista nasce, come molte vicende che poi assumono un carattere determinante, un po’ per caso, un po’ per gioco, in mezzo a una chiacchierata con uno sfondo di bici, telai, maglie d’epoca. «Un paio di anni fa ero alla presentazione della Ciclostorica organizzata da Gibo Simoni: la Gibostorica. Dopo le prime edizioni che si sono svolte nel suo paese in Trentino, Simoni diede il compito di farla organizzare a dei ragazzi di Arezzo. Io ero a quella presentazione e un certo punto parlando con i presenti spiegai: “A casa ho circa un centinaio di libri sul ciclismo: come vi può sembrare l’idea di allestire una stanza con questi libri?”. L’idea fu accolta subito e nel giro di poco tempo da cento libri circa che c’erano, oggi ce ne sono più di settecento. Tutti, o quasi, comprati di tasca mia a parte qualche donazione di autori o case editrici».

L’idea si tramuta in concretezza, prende corpo, piace, diventa unica e conosciuta all’interno della nicchia che si muove nel mondo del ciclismo. Letteratura, collezionismo, rarità, luogo di aggregazione. «Sono riuscito ad avere una stanza a Castiglion Fiorentino, provincia di Arezzo, il paese dove vivo, e la Biblioteca è diventata da subito un luogo di incontro, di scambio, di conoscenza tra persone. Magari su dieci che entrano solo uno sfoglia un libro, ma non è questo quello che conta. Ciò che conta sono le idee, il continuo divenire di quello che è la Biblioteca del Ciclista. Ciò che contano sono le persone che ho conosciuto e che mi permettono di portare avanti questo progetto».

Come Giancarlo Brocci «A lui devo molto. Mi ha invitato all’Eroica e sono stato dal giovedì alla domenica sulla terrazza delle Cantine Ricasoli dove passavano tutti quelli che andavano a ritirare il pacco gara. Per cui ho avuto modo di fermarmi a parlare e di conoscere tante persone: da lì ho capito che sarei dovuto andare avanti» oppure Carlo Delfino. «È il numero uno in Italia quando si parla di storia del ciclismo. Oltre ad aver scritto tanti libri ha una conoscenza profonda della materia. Quando gli dico che sto leggendo un determinato libro lui mi dice “Fai caso che in quella pagina c’è questo errore” e così via. Grazie a lui ho iniziato a darmi un’inquadratura molto critica su quello che gira e che si legge. Perché tante volte si dà per oro colato quello che troviamo scritto nei libri e poi spesso scopriamo che sono pieni di errori: bisogna fare tanta ricerca per capire dove sta la verità. Quando uno scrive in maniera poetica come Gregori o Pastonesi, allora va bene, ma quando uno scrive date e statistiche e i numeri sono errati allora è tutto profondamente sbagliato. E difatti se potessi tornare indietro ci sono tanti libri che non comprerei perché pieni di errori».

Non si può stare fermi se si ha in mano un’idea del genere, un gioiello che esprime letteratura e ciclismo: il massimo per un appassionato, per chi corre e anche per chi scrive. «La mia è una ricerca costante: all’inizio compravo nelle librerie, in posti come il “Libraccio”, però prendevo di tutto. Ora sto diventando selettivo: meno libri, ma ricercati e magari più costosi. Sono partito con la mia piccola collezione di libri, poi ho avuto modo di allargare i miei orizzonti: inizialmente grazie alla donazione di diversi numeri de “Lo Sport Illustrato” che mi ha fatto un signore di Bologna. E questo mi ha portato a capire una cosa fondamentale per la ricerca storica, statistica e di archivio: le riviste hanno un’importanza fondamentale in quanto è tutto materiale preciso, perché fresco, perché scritto magari al massimo nel giro di una settimana dall’evento e quindi risultava difficile portarsi dietro un errore».

All’interno della Biblioteca del Ciclista – che specifica, Vittorio, ora apre solo su richiesta e su appuntamento – si possono trovare oltre a libri e riviste una piccola collezione di DVD e VHS, ma i confini si fermano qui per strategia. «Niente gadget, oggettistica, né cimeli, magliette o borracce per diversi motivi. Economici e di spazio: mi verrebbe a costare troppo. Ma anche per una scelta che mira alla differenziazione. Di posti come il mio in Italia ce n’è solo un altro, mentre musei con enormi collezioni di bici e magliette ne trovi tantissimi: c’è persino un libro di Beppe Conti che racconta di tutti i musei della bicicletta sparsi in Italia».

Ma l’attività di Vittorio Landucci non si ferma qui: toscanaccio vulcanico pieno di idee e di voglia di sperimentare e di raccontare il ciclismo di una volta. «Come Biblioteca del Ciclista collaboro con la rivista “Biciclette d’Epoca”, ma ho organizzato anche la presentazione di libri e quest’anno, nonostante tutti i problemi noti, sono riuscito a far partire la “Festa della Bicicletta”: una due giorni organizzata con dentro numerosi eventi. La presentazione del libro di Brocci, la “gara di lentezza”: una gara dimenticata che si faceva tra fine ottocento e primi del novecento e pure una giornata ecologica dove siamo andati a pulire le strade. Una gincana per i bambini, una cronoscalata virtuale su un segmento in salita molto noto ai cicloamatori locali». Perché è importante per lui il legame e la riscoperta del territorio e mantenere viva la memoria. «È fondamentale capire l’importanza del ciclismo locale e allora assieme a un’altra persona abbiamo ideato anche due mostre: la prima sulle squadre professionistiche che ha avuto la provincia di Arezzo. Una piccola mostra che le presentava tutte, e poi una sui ciclisti nati nella provincia di Arezzo che sono ben quarantadue. Da Bennati a Nocentini e Capecchi, passando per Mealli e Chioccioli. Uno degli obiettivi che mi prefiguro è quindi recuperare la storia del territorio, nel tentativo di non perdere il valore di tutte queste storie».

Nell’incipit di questa intervista siamo partiti da parole come retorica, impresa, ciclismo dei pionieri, follia e passione e prima di chiudere, sentendo sulle nostre mani il freddo che ci attanaglia battendo compulsivamente le dita sulla tastiera, oppure pensando alla neve che mai come nei giorni scorsi scendeva copiosa fino in pianura, come fossimo immersi in una realtà d’altri tempi, chiediamo a Landucci qualche curiosità attorno alle grandi corse disputate sotto la neve – anche in ricordo di Aldo Moser, recentemente scomparso e protagonista di una delle più indimenticabili tappe del Giro d’Italia, nel 1956 sotto la neve che aveva sommerso il Bondone e soprattutto i corridori.

«Le grandi corse con la neve sono sempre state o al Giro o alla Sanremo per ovvi motivi “stagionali”, salvo rare eccezioni. La prima grande corsa con la neve è stata la Milano-Sanremo del 1910 vinta da Cristophe. Arrivarono in quattro: il secondo a un’ora, il quarto a oltre due ore. Fu epica e appartiene al ciclismo dei pionieri. Che è quello a cui sono maggiormente legato e che mi affascina di più. Ora ci sono tutte queste regole, giuste o sbagliate non lo so, con questo protocollo che prevede come, con determinate condizioni, la gara viene fermata. Sotto un tot di gradi ci si ferma; se nevica ci si ferma. Per una fetta di storia di questo sport non è mai stato così: l’epica del ciclismo esiste grazie a imprese come queste. Ora si è un po’ appiattito tutto: ci si basa sui watt, si studiano le cartine, si è persa la poesia: si è andati da un opposto all’altro. Nel Giro del 1911, quando si affrontò il Sestriere per la prima volta, in cima passò Ezio Corlaita e la tappa la vinse Petit-Breton. Si partiva alle 5 del mattino e Gerbi prima del via disse all’organizzatore: “Dobbiamo andare lassù? Fa già freddo qui”. “Certo”, gli rispose quello, “Siete uomini o signorine?”. La leggenda racconta che poi Gerbi all’arrivo tirò una borraccia addosso a uno degli organizzatori, ma d’altra parte Gerbi era il Diavolo Rosso mica per caso: era uno parecchio fumantino. Poi tra le più celebri corse sotto la neve c’è stata la Liegi di Hinault del 1980, il Fiandre di Zandegù nel ’67 quando beffò Merckx. Il Giro del 1968 con le Tre Cime, il Gavia di Hampsten nell’88, ma il Bondone del ’56 resta l’episodio più epico della storia del ciclismo».

Foto: per gentile concessione di Vittorio Landucci


Sonny Colbrelli: «Di ritorno dal lavoro, a tavola con papà»

A Sonny Colbrelli non è mai piaciuto studiare. Lo ammette candidamente, sorridendo e ripensando ai momenti fra i banchi. Non gli piaceva studiare, sì, ma la determinazione e la voglia di fare non gli sono mai mancate, sin da ragazzo: «I miei genitori mi hanno sempre detto che avrei dovuto darmi da fare: non potevo stare a far nulla o a rigirarmi i pollici. Se non volevo proseguire la scuola, dovevo iniziare a lavorare. Probabilmente questa cosa ha sempre fatto parte di me, l’ho assimilata: in estate, da ragazzino, andavo ad aiutare mio papà al lavoro. Al mattino stavo con lui, mi piaceva. Difficilmente mi avresti visto a perdere tempo». La bicicletta arriva per caso e, questa volta, parliamo proprio del mezzo meccanico, non del ciclismo come sport: «Era una bicicletta comprata con la raccolta punti della spesa. Non immaginarti chissà cosa. Del resto, sino a quel momento, avevo giocato a calcio e sciato: sciare mi piaceva ed ero anche abbastanza bravo. Nel tempo libero andavo a pesca». Succede che in provincia di Brescia c’è una gara di mountain bike, una gara di paese, nulla di che, e Colbrelli partecipa. Nessuno se lo aspetta e forse nessuno attribuisce un gran significato alla cosa, ma Colbrelli vince. Il primo incredulo, a ripensarci, è proprio lui: «Era una boutade. Un gioco nato per caso e che pensavo finisse nel giro di qualche domenica. Da ragazzino ero davvero goloso, avevo diversi chili di troppo, ero ”tozzo” a livello di corporatura. Non si era mai visto un ciclista così». La domenica dopo torna e fa bene in una gara dalle condizioni atmosferiche decisamente avverse: «Pensa che stavano per sospenderla per brutto tempo». In televisione guarda le imprese di Marco Pantani e qualcosa gli frulla per la testa: «Perché non provare a correre su strada?». La prima gara su strada è una cronoscalata, con la maglia della squadra della famiglia Frapporti: «Sì, tecnicamente era una cronoscalata. In realtà si trattava di un tracciato di un chilometro, tutto all’insù. Niente di particolare ma, tra il serio e il faceto, ho vinto anche lì».


Il ragazzo cresce, il ciclismo gli piace, ma la famiglia Colbrelli è una famiglia dai principi sani e radicati. Così lo sport è un divertimento però bisogna andare a lavorare: «Ho iniziato a lavorare in fabbrica. Facevo la mattina, dalle sei a mezzogiorno. Portavo a casa qualche soldino ed ero anche contento». Certo ma quella bicicletta prende sempre un poco di spazio in più e Sonny continua a pensarci. Fino a quando, un mezzogiorno, torna a casa dal lavoro e si siede a tavola con papà: «Avevo in mano entrambe le divise: quella del lavoro e quella della squadra di ciclismo. Guardai mio padre e gli dissi: “Quale scegli? Se scegli questa, vado a lavorare, altrimenti provo a fare lo sportivo“». Vedendo come sono andate le cose, la scelta di papà Colbrelli è abbastanza chiara: «Ma sai, tutti i genitori desiderano il bene dei loro figli ed io ero felice di correre in bicicletta. Poi papà e mammà sognano sempre in grande e ti immaginano campione. Certe volte restano sogni, non siamo tutti campioni. Il problema non è quello. Il fatto importante è mantenere i piedi ben saldi a terra. Restare quello che si è e valutarsi realisticamente». In fondo, è questo il consiglio di Colbrelli per i giovani, per chi inizia oggi: «Ho il timore che in certi casi si esageri. Tanto con le pressioni, quanto con le aspettative. I conti, però, nella vita si fanno sempre alla fine e se ti “bruci” troppo da giovane, rischi di buttare tutto all’aria». La storia di Sonny Colbrelli, invece, è una di quelle storie in cui nessun filo della trama manca. Una storia cresciuta con la pazienza del domani: «Sono contento di essere passato professionista con la famiglia Bardiani. Forse avrei anche potuto approdare un anno prima nel World-Tour, ma va bene così. Loro mi hanno dato il tempo di crescere serenamente. Mi hanno lasciato andare quando hanno capito che ero pronto per prendere la mia strada. Non tutte le squadre World-Tour hanno questo approccio con i giovani, per questo credo sia un bene che i giovani inizino dai nostri team Professional. In Bahrain mi sono trovato bene sin dall’inizio e, ora che sono quasi cinque anni che sono qui, devo dire che c’è una condivisione totale. Loro hanno capito qual è il mio spazio ed io, per contro, sono contento del programma che la squadra ha. Vivo con entusiasmo i nostri traguardi». La maturità di Colbrelli risulta ancor più evidente quando il discorso prende una piega personale: «Non è che ci siano momenti difficili particolari, localizzabili in questo o in un altro anno. Ogni anno ha dei momenti difficili, questo vale per tutti. Non è importante che i momenti difficili non ci siano, è importante capire come fare per superarli. Capire come affrontarli per continuare la tua strada. Per ripartire. Le difficoltà sono naturali».

Tra le vittorie che ricorda con maggior piacere, c’è il primo successo da professionista perché «lì ho capito chi ero e che qualcosa di buono potevo fare», e ci sono le vittorie alla Parigi-Nizza e al Giro di Svizzera. «Ogni successo è un passo in più verso la consapevolezza. Per esempio, capisci che tipo di atleta sei. Io non sono un velocista puro, se faccio una volata con velocisti puri, arrivo sesto, settimo, quarto, se va bene. L’ho capito gareggiando, provando e riprovando. Che poi è l’unico modo per capire». Il suo sogno è la vittoria di una classica, l’ideale sarebbe il Giro delle Fiandre. Forse proprio per questo ha sempre avuto ammirazione per Tom Boonen. Adesso che ha due figli piccoli, vede il ciclismo in maniera diversa e ammette che partire gli spiace: «La mia compagna mi sostiene molto e questa è una grossa fortuna. Noi ciclisti facciamo una vita nomade e tante cose sono più difficili. I miei figli sono ancora piccoli ma iniziano a capire. Chiedono: “Dove vai papà? Dov’è papà?”. Spiace. Io gli dico di guardare la televisione che papà possono vederlo lì. E spero la guardino quando sono in testa al gruppo. Tra l’altro, sono abbastanza paranoico e mi preoccupo molto, anche per piccole cose. Quando sento più la nostalgia di casa, mi ripeto che, in fondo, lo sto facendo anche per loro. Per il nostro futuro che in realtà è il loro futuro».
Tra tutti i fatti che la memoria conserva, uno Sonny Colbrelli non riesce proprio dimenticarlo e, forse, è un bene: «Quando da allievo sono passato juniores, a casa mia sono venuti i rappresentanti di tante squadre. Come era giusto che fosse: è sempre un bene ascoltare tutti. Erano interessati a me. Ci hanno offerto cifre davvero significative, cifre che certe volte fatichi a mettere insieme anche nei primi anni da professionista. Da giovane l’idea di guadagnare qualcosa ti attrae anche, fai tanti progetti e quei soldi potrebbero servirti. I miei genitori, invece, mi hanno sempre tenuto con i piedi per terra: l’importante era crescere, migliorare, e nessun ambiente sarebbe stato meglio della squadra in cui correvo, con la famiglia Frapporti. Ho continuato la mia strada, a zero euro, e oggi devo ringraziarli perché, in quello che sono, quella scelta ha pesato molto. In positivo. Tanti altri ragazzi, sicuramente più bravi di me, hanno fatto considerazioni diverse all’epoca ma oggi, purtroppo, non sono più ciclisti». Perché Sonny Colbrelli è questo: un padre, un uomo, un ciclista ma, prima di tutto, un ragazzo con i piedi per terra. E questa sarà sempre la sua salvezza.

Crediti foto: Claudio Bergamaschi


Adrien Niyonshuti non dimentica

Di primo acchito, a tutti noi agiati sportofili, il 1994 ci fa venire in mente il mondiale americano di calcio, il culo-di-Sacchi, Pagliuca che bacia come a benedire il palo che lo ha salvato da un gol certo (e da una clamorosa papera) oppure le imprecazioni per i rigori di Baggio e Baresi. È un anno tragico (Senna), ma anche così clamorosamente evocativo ed ispirante (Pantani): ricordi che ancora oggi fanno male in modi del tutto differenti.

Il 1994, però, è anche l’anno del genocidio del Ruanda. Da aprile a luglio del 1994 circa ottocentomila persone vengono uccise, è una stima che, più che ufficiale, diventa un numero simbolo: in realtà potrebbero essere state molte di più. Persone uccise, massacrate, sterminate in nome di non si sa che cosa e anche a cercarne una spiegazione valida sembrerebbe di mentire o di fare qualche torto; sarebbe del tutto inutile, anche se il potere della parola è importante così come è importante non dimenticare. «Sebbene la guerra civile fosse il suo sfondo, in realtà non fu altro che un massacro di persone», riporta il The Guardian in un lungo reportage apparso ormai sedici anni fa in rete.

Kibuye fu teatro di uno dei peggiori episodi: ventuno mila persone tra Tutsi e “Hutu moderati” trucidate in pochi giorni dalla maggioranza Hutu. Una parte in una chiesa o nei suoi dintorni dove stavano cercando rifugio: furono braccati usando il fumo di copertoni bruciati e una volta dispersi fuori da quel luogo sacro furono uccisi a colpi di lancia, bastoni e machete. Un’altra parte perse la vita dentro uno stadio dove era stata portata con l’inganno dal governatore Clement Kayishema, dottore ed ex direttore dell’ospedale di Kibuye. Chi è sopravvissuto a quei giorni, sia da una parte che dall’altra, non ha mai potuto dimenticare.

L’odore dei corpi putrefatti divenne caratteristico in certe zone del paese e non lo ha dimenticato certamente chi ha cercato di salvarsi nascondendosi sotto una montagna di cadaveri e osservando moglie e figli fatti a pezzi col machete, o chi vedeva ragazzi che, fino a poco tempo prima, avevano le sembianze dei propri vicini di casa e d’un tratto si aggiravano con maschere o volti dipinti, brandendo bastoni e fucili e cantando:

“Cacciamoli nelle foreste, nei laghi e sulle colline. Staniamoli nelle chiese. Puliamoli dalla faccia della terra”.

Negli anni una larga parte dei colpevoli di quel massacro sono stati rilasciati e si racconta come girino per le città in numero superiore ai sopravvissuti. “Sopravvissuti”: orfani, malati di AIDS, affetti da disturbi post traumatici, tutti vivono nella paura per quello che è successo e le testimonianze si sprecano: Savera Mukarashango si è gettata nel lago per il dolore ed è morta annegata dopo aver incrociato per strada l’uomo che dieci anni prima aveva ucciso suo padre.

Non ha mai dimenticato Adrien Nyonshuti. Mai dimenticherà e quei mal di testa che ogni tanto fanno capolino sono testimoni. Adrien nasce in Ruanda nel 1987 e all’epoca di quei tragici eventi ne aveva poco più di sette. I suoi sei fratelli sono morti, lui e i genitori invece no. Senza avere nulla da bere e da mangiare per giorni, Adrien, sua madre e suo padre sono scampati scappando tra i boschi, tra i laghi, tra le colline di quel piccolo stato africano senza alcuno sbocco sul mare e schiacciato in mezzo a Tanzania, Uganda, Burundi e Congo.

Adrien Niyonshuti ai tempi della Dimension Data (Crediti: Adrien Niyonshuti/Facebook)

Quando lo intervistano lui cerca di non parlarne, ma inevitabilmente il discorso cade sull’argomento, queste le sue parole sempre riportate dal The Guardian. «Ti venivano a prelevare in casa: davano fuoco a tutto e ti facevano a pezzi. Noi siamo riusciti a scappare, i mie i fratelli no, nemmeno gran parte della mia famiglia. Ho perso circa sessanta persone in quei giorni, della maggior parte di loro non abbiamo mai più avuto notizie».

Per tentare di salvarsi, per cercare di non andare a pezzi, Adrien Nyionshuti si è rifugiato nel ciclismo. Ha iniziato a pedalare con una bici vecchia appartenente a uno zio dopo aver visto le tre tappe che caratterizzavano il Giro del Ruanda del 2001. Tre anni dopo corse quel Giro, aveva solo sedici anni, ma nessuna regola gli impedì di partecipare e lui chiuse al settimo posto assoluto. Nel 2006 partecipa una gara di Mountain Bike organizzata da Jack Boyer – primo ciclista americano della storia ad aver disputato il Tour de France poi condannato per reati di molestie sessuali – con il contributo di Tom Ritchey leggenda della mountain bike statunitense che aveva lanciato proprio in Ruanda un progetto mirato a produrre biciclette per i coltivatori di caffè. Dovete sapere come, fino a quel momento, i contadini ruandesi trasportassero i loro prodotti a piedi oppure con bici di legno con ruote di legno, senza freni né sellino, né alcun tipo di ingranaggio. Il progetto, denominato Coffee Bike e portato avanti da Ritchey insieme ad alcune aziende americane, cercava in qualche maniera di aiutare la catena di trasporto di quei chicchi che servono poi ad allietare il mondo occidentale, il paradosso della società contemporanea in uno Stato che fa della coltivazione del caffè e del tè uno dei cardini della propria economia.

Ma l’obiettivo di Ritchey e Boyer era anche quello di creare un movimento ciclistico. Fondano nel 2006 il Team Ruanda e organizzano allenamenti, corse, addestramenti per i ragazzi del paese. Adrien realizza il sogno di «correre in Europa con i professionisti» e prenderà parte con la sua nazionale ai Giochi Olimpici del 2012 a Londra nella prova di mountain bike e nel 2016 a Rio in quella su strada. Sarà entrambe le volte il portabandiera di quella piccola nazione che non ha mai dimenticato. «Ad aprile, quando sono in bicicletta, a volte mi viene il mal di testa perché ricordo molte cose che riguardano la mia famiglia e il genocidio» – sono le poche parole spiccicate all’interno di un documentario dal titolo Rising From The Ashes, narrato, nella versione originale, dalla voce di Forest Whitaker, il detective Kavanaugh di The Shield o il Ghost Dog dell’omonimo film diretto da Jim Jarmusch, per intenderci, e che racconta come la bicicletta sia diventata uno strumento di riscatto per un’intera nazione.

Adrien Niyonshuti in carriera ha vinto due volte il titolo nazionale ruandese in linea e due volte quello a cronometro (Crediti: Adrien Niyonshuti/Facebook)

Rising from the Ashes parla della nascita del Team Ruanda del quale Boyer e Ritchley ne sono parte attiva e grazie al quale decine di ragazzi ruandesi sognano un futuro migliore. Un piccolo stipendio, la possibilità di aiutare famiglie africane con il ciclismo, portare scolarizzazione ed educazione insegnando l’inglese e dando sbocchi professionali. Grazie al Team Ruanda, nel 2009 Adrien inizia a correre nel mondo del professionismo e lo farò per quasi dieci anni. Si misurerà in Europa e arriverà a correre a tempo pieno anche nel World Tour con il Team Dimension Data (quello che oggi è diventato Qhubeka Assos ed è sopravvissuto a malapena poche settimane fa) disputando alcune tra le corse più importanti del calendario.

Oggi Adrien Niyonshuti è rimasto nel ciclismo e continua ad alimentare sogni che sono suoi e che appartengono ad altri. Sono sogni per una generazione che è nata dopo quel massacro ma che ne porta dentro, per forza di cose, le cicatrici. Non corre più in bicicletta, ma è parte attiva nel cercare di aiutare i ragazzi ruandesi a inseguire il riscatto attraverso la bicicletta: verso qualcosa di concreto sfuggendo al supplizio di Tantalo. Nel 2013 ha fondato una scuola di ciclismo che nel 2020 è diventata persino una squadra Continental: la Skol Adrien Cycling Academy – dove Skol è una birra prodotta dalla multinazionale Carslberg: si diceva dei paradossi. Sotto la sua egida crescono ragazzi interessanti come Mugisha oppure Habimana, uno che, come riportato da un’intervista apparsa su Cicloweb tempo fa, si diletta nel suonare la chitarra: in Ruanda la musica ha una componente culturale importante e radicata. Quel Ruanda che non vuole dimenticare, che vuole che si parli di quel genocidio nonostante lo shock e la disperazione. E Adrien Niyonshuti anche se cerca di non pensarci sa che quel ricordo lo accompagnerà per sempre. «Nel 2009 ero in Sudafrica per una corsa, quattro persone entrarono nel mio appartamento per derubarmi e io mi nascosi in un armadio: in un attimo vidi davanti a me le immagini del massacro a cui ero sfuggito». Niente potrà cancellare quei ricordi cicatrizzati dentro l’anima di un popolo intero, ma la bici ancora una volta ha la forza di salvare un’intera generazione.

Foto: Adrien Niyonshuti/Facebook


Omar El Gouzi: essere professionista per sempre

Omar El Gouzi ricorda molto bene un pomeriggio di quando era bambino: «C’erano i miei amici fuori in cortile a giocare e io sarei dovuto andare ad allenarmi. Non volevo andarci, mia mamma mi guardò e mi disse: “Omar, hai fatto tu questa scelta. Se vuoi portarla avanti devi allenarti, altrimenti puoi anche smettere di andare in bicicletta”. Mi misi a piangere ma quella lezione mi servì». La sua passione per il ciclismo, in fondo, nacque proprio lì, nel cortile di quel condominio dove Omar abita. «Qui abitavano anche un allenatore di ciclismo e un ragazzo che stava iniziando a praticare ciclismo. Vedendoli ho pensato che avrei voluto fare la stessa cosa. Sono andato da papà e: “Papà, voglio correre in bicicletta”». Un anno dopo, sono proprio mamma e papà ad accompagnarlo da quell’allenatore che gli consegna la sua prima bicicletta, gialla. Omar, oggi, guarda il vialetto di quel condominio e torna indietro di diversi anni con la mente. «Facevo avanti e indietro in quel vialetto con la bicicletta ma non riuscivo a fare la manovra per girarmi comodamente, così piangevo». Lì con lui c’era papà ed è proprio ai suoi genitori che Omar El Gouzi sente di dover dire qualcosa. «Non so cosa ci sarà nel mio futuro ciclistico. Certo, sogno di firmare un contratto per una squadra professionistica e di fare un bel percorso. Sì, non voglio passare fra i professionisti solo per il gusto di potermi chiamare “professionista”. Voglio diventare professionista e restarci per molti anni per rendere onore al fatto di essere diventato professionista. Una cosa però la desidero più di tutte le altre: ricambiare ciò che i miei genitori hanno fatto per me. Ci sono sempre stati e ci sono sempre, nonostante tutto».

Foto per gentile concessione di Omar El Gouzi

Il suo soprannome in gruppo è Cacaito come Cacaito Rodriguez, il ciclista colombiano in attività negli anni novanta: «Mi chiamano così perché tanto vado forte in salita quanto fatico in discesa. Ad essere sincero adesso meno, la discesa è questione di allenamento come tutte le pratiche del ciclismo, ma quel soprannome viene da qualche anno fa. Eravamo a Trento ed in discesa continuavo a tirare i freni per paura di cadere». Omar è italo-marocchino, entrambi i suoi genitori sono nativi marocchini, lui è nato a Peschiera ed in Marocco non torna dal 2013: «Voglio molto bene all’Italia. In Marocco, però, c’è qualcosa di diverso: parlo di accoglienza, di calore umano. C’è tanta gente per le strade, c’è tanta felicità. Noi probabilmente siamo un po’ più freddi di carattere». C’è una fierezza particolare nella sua prima maglia azzurra, ottenuta con Rino De Candido dopo il Giro del Friuli di qualche anno fa, e le sue origini fanno parte di questo orgoglio. «Arrivavamo sullo Zoncolan, pensa che a inizio salita ero caduto. Sono riuscito a recuperare e ad arrivare quarto. De Candido mi ha notato e mi ha chiamato. Con la maglia azzurra addosso ho corso la mia prima gara fuori dall’Italia, un trofeo in Germania. Un italo-marocchino in maglia azzurra: non è una cosa che succede tutti i giorni e forse per questo è stato ancora più bello». Le sue giornate più belle hanno sempre un legame con una terra, con delle persone o con qualcosa di inaspettato che si è provato a fare. «Ricordo ancora quando vinsi a Montecchio il campionato provinciale con la maglia dell’Ausonia. Io non attacco molto spesso, quel giorno però sentivo che fosse giusto scattare. Recuperai il terzetto in testa e vinsi. Magnifico. Una cosa molto bella, secondo me, è che nel ciclismo non è detto si debba vincere per avere un bel ricordo, per essere felici. Guarda il Palio del Recioto, per esempio. Sono arrivato tredicesimo ma me lo ricordo come fosse adesso. Tutta la gente che ti guarda, che ti applaude, che grida il tuo nome. Tutti che ti conoscono. La tua famiglia. La tua terra. Correre a casa propria ha un sapore diverso, c’è poco da fare».

Foto per gentile concessione di Omar El Gouzi

Quest’anno, Omar El Gouzi ha corso per la Iseo, un ambiente che lo completa: «Ho due direttori sportivi, Mario Chiesa e Daniele Calosso. Hanno due caratteri diversi: il primo è più tranquillo, più pacato se vuoi. Mario è un uomo di grande esperienza: ha corso fra i professionisti e successivamente è stato team manager di realtà molto importanti. Daniele, invece, lavora di grinta, di rabbia, la rabbia buona che ti spinge a fare bene, a fare meglio. Alla base dei miei risultati ci sono questi due modi di insegnare che si combinano e mi danno tanta tranquillità ma anche tanta voglia di fare». Il suo mentore, in realtà, non è un ciclista ma un ex calciatore del Chievo Verona. «Si tratta di Federico Cossato. Ci siamo incontrati per caso mentre facevo delle ripetute su una salita. Mi ha guardato ammirato, stupito. Abbiamo iniziato a parlare e ci sentiamo molto spesso. Il nostro è un dialogo costruttivo: parliamo di lavoro e di traguardi. Federico mi ha sempre detto che senza duro lavoro, senza sacrifici, non esistono sogni realizzabili. Ed è vero. Se non si lavora duramente, la situazione è veramente difficile».

Crediti foto: Claudio Bergamaschi

Omar El Gouzi è un ragazzo alla mano, lo dice lui stesso. «Mi piacciono le cose semplici e mi piace conoscere le persone, parlarci, capirle, ascoltarle. Ho solo bisogno di tempo per conoscere e per aprirmi a mia volta. Tendo ad essere abbastanza riservato. Tempo fa ero meno sicuro di me e magari rinunciavo più facilmente a ciò che volevo. Adesso no, col ciclismo ho imparato e se voglio una cosa la ottengo». Quel ciclismo che per Omar è ben più di uno sport. «Di fatto è uno stile di vita. Devi semplicemente abituarti al fatto che se vuoi ottenere qualcosa devi darti da fare. Che ci saranno giorni in cui non avrai voglia ma dovrai insistere lo stesso. Che ci saranno giorni che ti faranno male e sarà proprio lì la prova del nove. Se resisterai lì saprai che nessuno potrà più fermarti. Quando lo capisci, lo accetti. Anzi, lo vivi proprio con serenità. Sai che è una realtà che riguarda tutti. Sai che devi assumerti la responsabilità di ciò che hai scelto e lottare per tenerlo stretto. Come mi disse mia mamma quel giorno: “Se non ti alleni, forse, ti conviene smettere”».

Mamma e papà, stasera, Omar li vuole immaginare nel giorno in cui passerà professionista. Li vuole immaginare nell’esatto momento in cui comunicherà loro questa notizia: «Li vedo lì, mentre mi guardano. Con gli occhi lucidi, commossi. Mi stringeranno forte, sarò felicissimo. Saremo felicissimi. E so già che mi commuoverò anche io. Anzi. Sono già commosso, a dirti la verità».

Crediti foto in evidenza: Claudio Bergamaschi


Una lezione di cross da Daniele Fiorin

Se vi capitasse di osservare Daniele Fiorin al lavoro, durante qualche gara di ciclocross, siamo sicuri che anche voi, come noi, rimarreste colpiti dal senso di ”cura” messo in campo da quest’uomo nei confronti dei suoi ragazzi. Daniele Fiorin è una guida, questo è importante sottolinearlo: «Cerco di trasmettere la mia esperienza in tema di interpretazione del percorso. Nel giusto o nell’errore, ci mancherebbe, non ho la presunzione di non sbagliare mai. Anzi, lo dico sinceramente: alcuni fra i miei ragazzi sono anche più bravi di me e possono permettersi di adottare soluzioni diverse da quelle che suggerisco. Io ho il dovere di indicare una o più chiavi di lettura del percorso. Può capitare che la traiettoria migliore sia adottata da qualcun altro, allora il ragazzo deve avere l’alternativa: il mio dovere è indicare le possibilità e le alternative». Daniele Fiorin monta in sella a una bici, si sposta da un lato all’altro del tracciato e con le mani indica ogni singolo ostacolo, suggerisce la strada da prendere, quando stare in sella e quando scendere e prendere la bicicletta in spalla. «I miei ragazzi hanno diverse età: l’impostazione cambia ma neanche troppo. Da giovanissimi è un gioco, successivamente subentra qualcosa di più tecnico. A me è sempre piaciuto lavorare sulle abilità motorie, mi sono focalizzato sul ciclocross e sulla multidisciplina quando ho visto che con il passaggio agli esordienti questi aspetti mancavano. Pensare che da ragazzo davo del ”pazzo” a chi praticava ciclocross d’inverno, li consideravo stacanovisti che non riposavano mai. In realtà, fatto nei dovuti modi e con i dovuti tempi di recupero, è un grosso aiuto sia dal punto di vista tecnico che condizionale».

(Crediti: Fabiano Ghilardi)

La parola chiave Fiorin l’ha già usata, è “gioco”: «L’ho capito studiando all’ISEF. La vecchia concezione prevedeva che il ciclista potesse fare solo ciclismo: io, per esempio, ho imparato a nuotare a diciotto anni, non avevo quasi mai toccato una palla, ho imparato le basi del salto in alto e del salto in lungo. Tutto in un’estate, per l’esame di ammissione. Mi sono sempre detto che i miei ragazzi non avrebbero mai dovuto arrivare a quel punto: va bene l’impegno nel ciclismo ma deve essere affiancato dal divertimento e da altre esperienze sportive». Il cambiamento di approccio che Fiorin ha adottato in questi anni, coincide con un personale cambiamento: i primi allenamenti dei ragazzi venivano svolti durante la fase di defaticamento dei propri allenamenti. Parliamo infatti del periodo in cui anche lo stesso Fiorin correva. Successivamente una sorta di squarcio del cielo pirandelliano: lo studio lo porta a capire ciò che veramente è essenziale dare a questi ragazzi e a queste ragazze: «Come nelle gare si indicano le alternative alla traiettoria designata, così nel percorso di crescita bisogna fare in modo che sia sempre presente la possibilità di scelta. Proprio provando e scegliendo, sono nate atlete come Alice Maria Arzuffi e Maria Giulia Confalonieri. L’una specializzatasi nel cross, l’altra nella pista. Entrambe discipline che da noi vengono considerate assolutamente in subordine rispetto alla strada». Qui si tocca la radice del problema: «Si tratta di un fattore storico e di mentalità. Il primo dipende dal fatto che la nostra nazione ha sempre privilegiato il ciclismo su strada. Gli anglosassoni, pur arrivati dopo, ci hanno surclassato in quanto in grado di sperimentare ed innovare. A noi manca questa capacità. Il secondo è anche un problema dei tecnici: è più semplice insegnare quello che già sai. Per insegnare qualcosa di nuovo è necessario mettersi in gioco e magari imparare i fondamentali della pista già in età adulta. Io, ad esempio, non avevo esperienze nel ciclocross. Tutto quello che ho imparato, l’ho appreso da autodidatta, cercando di osservare con senso critico ciò che facevano gli altri e di ”rubare” ciò che credevo fosse giusto. Senza alcuna paura di chiedere spiegazioni».

(Crediti: Fabiano Ghilardi)

Sara e Matteo sono i figli di Daniele e anche loro praticano ciclismo a trecentosessanta gradi, dal cross, alla pista, alla strada, alla cronometro: «Sono molto felice della loro passione ma devo ammettere che non è sempre così facile conciliare il ruolo di tecnico con quello di padre. Mi spiego meglio: come tecnico sono un punto di riferimento per i miei ragazzi. Tante volte i genitori mi chiedono di parlare con i loro figli per spiegare determinate cose. L’impatto che ha un tecnico è certamente diverso da quello che ha un genitore. Con i miei figli manca questo passaggio intermedio. Nell’ambito della squadra si sono dovuti abituare a non avere tutte le attenzioni che magari vorrebbero. Sai, talvolta per non agevolarli si finisce per penalizzarli. Questo mi spiace, davvero, ma forse potrebbe anche essere un bene. Se avranno la fortuna ed il desiderio che il ciclismo diventi il loro lavoro e passeranno in squadre importanti, dovranno abituarsi a essere trattati come ”uno fra tanti”: le troppe attenzioni genitoriali, in questo senso, sarebbero deleterie». Daniele Fiorin è franco. Sia nella chiacchierata con noi che con i suoi ragazzi: «La realizzazione personale dei miei ragazzi è la cosa che più mi interessa. Per questo ripeto sempre: la scuola e il lavoro vengono prima. Quando lavoravo con gli juniores, lo dicevo: “Se vi capita un lavoro che può sistemarvi, pensateci bene. Un conto è divertirsi con la bicicletta, l’altro conto è lavorare con la bici. A potersi mantenere grazie al ciclismo sono ben pochi”».

(Crediti: Fabiano Ghilardi)

Alla base di tutto cosa c’è? «L’importante non deve essere il risultato in termini assoluti. Quello può essere condizionato da vari fattori: un infortunio o una circostanza sfortunata, ad esempio. Bisogna lavorare sulla prestazione e provare a migliorare se stessi, non il risultato. Come? Come si faceva a scuola quando si lavorava sulla resistenza, nella corsa ad esempio. Devi pensare ai cento metri davanti a te, certe volte anche meno, raggiungerli e poi ripartire da lì. Così riesci a mantenerti positivo, così riesci ad arrivare al traguardo. La stessa cosa accade quando scali una salita: devi pensare al tornante successivo, non al Gran Premio della Montagna in vetta. Altrimenti rischi di scendere dalla sella e ritirarti. Se ti focalizzi solo sul risultato, sarai molto più portato a smettere non appena questo risultato dovesse non arrivare o non arrivare più». Sarà per le sue capacità tecniche, sarà per la sua capacità di far leva sui giusti stimoli, sarà per come riesce ad entrare nella testa dei suoi ragazzi o per quella cura, scevra da giudizi, che mostra ad ogni gara, ma di Daniele Fiorin parlano tutti bene: «Un allenatore, un tecnico, soprattutto con i giovani, deve essere un educatore. Non riesco a immaginare un modo diverso per interpretare questo ruolo. Quando si entra nei meccanismi psicologici, è utile ribadirlo: non sono uno psicologo e, sicuramente, avrò sbagliato diverse volte e diverse volte ancora sbaglierò. Però provo a prendermi cura del benessere psico-fisico dei miei ragazzi. La mente, spesso, è molto più importante delle caratteristiche fisiche. Se si inceppa qualcosa a livello mentale, si inceppa tutto. Serve molta attenzione».

(Crediti foto in evidenza: Fabiano Ghilardi)


Nessuno è più veloce di Caleb Ewan

Tempo fa, durante un’intervista a un giornale inglese, Caleb Ewan raccontava quale fosse la prima visione all’interno del suo immaginario ciclistico. Affermò, sostanzialmente: il Tour de France del 2003. Ciò che ricordava meglio, sosteneva, ancora più che lo sprint finale sui Campi Elisi, erano le scintille emanate dalla bici di Jan Ullrich dopo la caduta nella cronometro. Ullrich, con la maglia verde-acqua della Bianchi, quel giorno avrebbe dovuto recuperare sessantacinque secondi ad Amrstrong per interromperne la strisce di quattro Tour vinti consecutivamente. Finì a terra malamente e ne perse undici. La maglia gialla amministrò, a vincere la tappa fu lo scozzese David Millar e tutto questo restò scolpito dentro il mondo delle idee di Caleb Ewan.

Lo stesso David Millar, un anno dopo circa, mentre era a cena con David Brailsford in un ristorante sulla costa vicino Biarritz, ultima citta francese prima di entrare nei Paesi Baschi spagnoli, fu avvicinato da tre poliziotti in borghese e portato nel suo appartamento dove vennero trovate siringhe usate. Venne arrestato, e primo di condurlo in cella gli tolsero tutto: persino i lacci delle scarpe – poche settimane dopo Lance Armstrong avrebbe vinto il sesto Tour. Quello del 2003, invece, era il quinto dei sette Tour del texano, e l’ennesima delusione per il panzer(otto) tedesco. Era un ciclismo appartenente a un’epoca fa – basta vedere gli ordini d’arrivo – prima del rimescolamento causato da quello che successe ad Armstrong e ai diversi protagonisti del ciclismo di quell’epoca; i Tour tolti, gli albi d’oro riscritti, strascichi – ancora vivi – decenni di menzogne, ferite apertissime, concetti che oggi solo ad accennarli si rischia di far danno. Questa, tuttavia, è una storia sulla quale è inutile soffermarci.

VELOCISTA TASCABILE

Volata a Châlon-sur-Saône al Tour 2019: Primo Groenewegen, secondo Ewan. (Crediti: ASO/Thomas Maheux)

Era il 2003, si diceva. In Australia era pieno inverno. Caleb Ewan aveva appena compiuto nove anni, precisamente nel giorno del successo al Tour di Alessandro Petacchi, davanti a Baden Cooke, nella tappa con arrivo a Lione. E mentre quel ragazzino guardava la corsa francese, fuori dalla sua finestra pulsava la luna australe. Già, perché Caleb andava a dormire prestissimo per alzarsi tutte le notti alle tre. A volte svegliava i suoi genitori, per esempio quando si faceva prendere dal troppo entusiasmo vedendo scorrere le immagini di una corsa che, in un futuro all’epoca lontano, avrebbe visto protagonista anche lui. Aveva appena iniziato a pedalare proprio in quei mesi e non si sarebbe mai immaginato che, piccolo com’era, avrebbe schizzato energia sui rettilinei confusi e convulsi del Tour de France. Lo avrebbe fatto negli anni successivi in mezzo ad altri panzer (stavolta Ullrich non c’entra) come Kittel uno che avrebbe potuto nasconderlo nelle taschine della maglia, o a omini michelin con il turbo come Groenewegen, a facce sempre sorridenti ma che in realtà nascondono strani intenti come Ackermann, o rivali dalle più svariate caratteristiche e provenienze come Gaviria, Sagan, Bennett e Viviani. In una corsa come il Tour de France che per Ewan è sempre stata talmente grande e importante da preferirla ai Giochi Olimpici. «Partecipare a un’Olimpiade sarebbe bello, ma il Tour de France è la corsa più importante di tutte» uno dei suoi ritornelli preferiti. Saranno le nottate passate sveglio durante l’estate europea del 2003 ad avere fatto maturare questo pensiero? Quella fu un’edizione particolarmente sentita nell’altro emisfero, McGee vestì la maglia gialla il primo giorno, mentre Cooke e McEwen contesero quella verde a Zabel fino all’ultimo: alla fine vinse proprio Cooke. Tanti elementi che facevano sognare il Caleb Ewan bambino e ne illuminavano gli occhi a mandorla come quella luna che gli teneva compagnia.

Era piccolo Caleb Ewan, sia quando guardava il Tour in piena notte, sia quando si gettava in pista prima ancora che su strada. Piccolo è sempre stato e sempre lo sarà: 166 centimetri per un peso variabile a seconda del momento della stagione. Talmente piccolo e leggero da affermare che alle volte, quando era impegnato nella Madison, rischiava di venire sbalzato fuori dal velodromo dall’altro componente della coppia nella famigerata, quanto spettacolare, americana a punti. «Quelle corse le ricordo con piacere: mi divertivo da matti. Quando il mio compagno di squadra mi dava il cambio mi lanciava a una velocità supersonica, un effetto elastico che mi dava tantissima adrenalina. La prima volta che l’abbiamo provato mi sono pure schiantato contro la ruota di quello che stava davanti».

Caleb Ewan in carriera fino a oggi ha conquistato quarantasei successi tra i professionisti. (Crediti: ASO / Pauline Ballet)

Ha sempre avuto animo competitivo e sempre lo avrà – non si diventa corridori così per caso. L’esplosività se la costruisce con il passare del tempo. «In realtà con doti da velocista ci devi nascere», racconta sempre l’australiano – «Vi immaginate Nairo Quintana lottare per gli sprint di gruppo?». Anche se inizialmente non era proprio così. Non solo non era un predestinato, ma neppure un vincente – parole sue riportate dai media. «Fino a sedici anni non ho mai vinto nulla, al massimo facevo secondo o terzo. Ho dovuto lavorare tanto per impormi».

Iniziò con la mountain bike in un circuito a Bowral, nel Nuovo Galles del Sud – vicino a dove Ewan è nato e dove tutt’ora vive la sua famiglia. Da quella zona arriva uno dei più grandi sportivi della storia del continente: Sir Donald Bradman. Non solo, Bradman è considerato ancora oggi il più grande giocatore della storia del cricket, il più forte battitore di uno sport dove vista e riflessi hanno una particolare funzione; più che particolare, suona meglio dire: Fondamentale. Vista e riflessi che sono Fondamentali anche per permettere a Ewan di liberare quella potenza che abbiamo imparato a inserirla tra i suoi punti di forza, vedendolo sprintare. Con muscoli a guidarlo che non sono solo un casuale coacervo di fibre e tessuti ma che svolgono una funzione che, col passare del tempo, diventa sempre più armonica. Strumenti che fanno suonare in modo perfetto l’orchestra diretta dal Maestro Caleb.

E inizialmente Ewan, che nel giro di qualche anno inizia a far vacillare la leadership di Sir Bradman come sportivo australiano più importante di sempre, aveva provato a giocare con la palla, ma era, appunto, troppo piccolo. Calcio, insieme al fratello Josh, persino rugby australiano. Se abbia mai provato il cricket non se ne hanno notizie, mentre è noto come, grazie alla passione trasmessa dal padre, è il ciclismo a diventare la sua vocazione. Dopo la mountain bike approda alla pista per diventare forte su strada, prendeva tutto quello che veniva inizialmente con una certa predilezione per quegli ovali, dove girare con bici senza freni gli permetteva – a lui così impulsivo in bicicletta, esplosivo, generoso – di trovare il modo per stimolare la sua attitudine. Anche se «quando dovrò scegliere prima o poi propenderò principalmente all’attività da stradista. La pista dopo un po’ risulta monotona, su strada non sai mai cosa può succedere». Aveva circa diciotto anni quando si raccontava così.

DALLA KOREA

Caleb Ewan durante lo Shanghai Criterium del 2019. (Crediti: ASO/Pauline Ballet)

Vi siete mai chiesti perché Caleb abbia gli occhi a mandorla? Forse lo avrete certamente letto da qualche parte. Sua madre Kassandra arriva dalla Korea e lui negli anni non è mai riuscito a imparare quella lingua: più complessa dello zigzagare tra maglie strette e telai in carbonio lanciati a oltre settanta chilometri orari. Ha un tatuaggio con il suo nome scritto nella lingua materna e nel 2015 corre il Giro della Korea venendo acclamato come una vera e propria star.

Ewan ha solo 21 anni quella volta, è alla sua prima stagione nel World Tour eppure ha già iniziato a impressionare. «Essere qui a Busan per me è qualcosa di incredibile. Amo la Korea e questa cultura anche se è solo la seconda volta che vengo qui. Adoro la cucina koreana e da piccolo sono sempre cresciuto assieme ai miei parenti di qui», dirà alla vigilia della prima tappa. Vincerà quattro frazioni e la classifica finale. Solo due mesi dopo alla Vuelta a España conquisterà la sua prima vittoria nel massimo circuito battendo allo sprint John Degenkolb e Peter Sagan – e pensate che, riprendiamo quel suo concetto, non si era mai sentito un predestinato.

E su quegli zigomi alti e gli occhi a mandorla ci puoi scommettere sopra come tratto inequivocabile del suo diventare ciclista: non c’è nulla di fraintendibile nella sua fisionomia né nel suo modo di essere o di lavorare. Sangue asiatico, ligio e determinato, passione ed estro australiana. Brucia le tappe in fretta: a diciassette anni conquista il titolo mondiale tra gli juniores nell’Omnium, entusiasmante prova multipla su pista. Erano i mondiali di Mosca e in quell’esibizione incrociò, come ci racconta Jean-François “Jeff” Quénet, uno dei suoi grandi rivali di questi anni di volate su strada: Pascal Ackermann, protagonista con la maglia della Germania e quarto nella gara dell’Omnium vinta proprio dal piccolo australiano.

LA FRANCIA DEL “PETIT CALEB”

Caleb Ewan da junior con bici e casco marchiate FDJ (Foto per gentile concessione di Jeff Quenet)

Una delle svolte della carriera arriva grazie all’incontro con la famiglia McGee. Bradley “Brad” McGee è stato uno dei ciclisti più importanti e influenti in patria negli anni ’90, insieme all’altro “MAC”, ovvero Robbie McEwen, velocista spettacolare al quale spesso negli anni Caleb Ewan verrà accostato. Caleb inizia a lavorare nel negozio di biciclette dei McGee, gestito da Brad e Rod, due che daranno lustro al movimento su pista australiano laureandosi campioni del mondo dell’inseguimento a squadre nel quale era una presenza costante anche un certo Stuart O’Grady, primo corridore extraeuropeo capace di vincere la Parigi-Roubaix – il secondo e ultimo? Un altro australiano: Matthew Hayman. Quella volta che sconfisse Tom Boonen non è mai stata storia: è entrata subito nella leggenda di questo sport.

Brad, che in carriera conquisterà anche cinque medaglie in diverse edizioni dei Giochi Olimpici, gli fa da mentore, lo aiuta a crescere guidandolo nella New South Wales Institute of Sport (NSWIS), una sorta di accademia dello sport della sua regione. Lo dovrà abbandonare quando Caleb diventa professionista per una sorta di conflitto d’interesse. McGee dal 2017 è è anche il selezionatore della nazionale australiana, eppure non ha mai avuto occhi di riguardo per lui. «In nazionale sono stato poche volte. Per i percorsi misti mi si preferisce Matthews e direi anche a ragione visto i risultati che raccoglie», ma il suo sogno resta il mondiale del 2022 che si correrà proprio dalle sue parti, a Wollongong. «Fatemi il nome di un australiano che conosce meglio di me quelle strade» afferma convinto a Bicycling Australia.

Nel 2011 McGee decide di mandare Ewan in Francia per fare di questo ragazzo un corridore vero. Contatta “Jeff” Quénet, con il quale si conoscevano per gli anni passati in Française de Jeux, e lo spedisce da lui qualche mese per fargli ottenere confidenza con il ciclismo europeo. «Quando andai a prenderlo all’aeroporto di Nantes mi trovai di fronte questo ragazzo piccolino accanto al suo bagaglio bici» ci racconta Quénet «simpaticissimo, occhi vispi e che trasmettevano una determinazione incredibile. Ebbi l’impressione da subito che non sarebbe venuto in Francia per fare una vacanza, ma per studiare per diventare un campione».

La prima vittoria di Caleb Ewan in Francia: era il 2 ottobre del 2011. (Foto per gentile concessione di Jeff Quénet)

Vivrà tre mesi in Francia in un appartamento di proprietà di Quénet ad Angers, dipartimento della Loira, giusto il tempo per capire di che cosa si parla in Francia quando si parla di ciclismo. «La prima cosa che Caleb mi disse fu: “Jeff, c’è una sola cosa che non mi piace del ciclismo: le cronometro! Sapete io cosa ho fatto? Chiamai subito Marc Madiot mi feci mandare una bici da crono e la prima corsa a cui lo iscrissi fu proprio una prova contro il tempo. Mi odiò per questo». L’anno dopo, con quell’esperienza maturata, Caleb Ewan diventa campione australiano proprio della cronometro. «Stavolta chiamò per ringraziarmi, aveva vinto il titolo nazionale davanti ad Alex Morgan, un passista e pistard d’eccellenza all’epoca».

Eppure, in quella breve esperienza francese, non è che fece numeri indimenticabili. La seconda corsa a cui partecipa è una gara internazionale. Vince Oliver Le Gac, all’epoca il campione del mondo juniores in carica. Ewan arriva a giocarsi lo sprint per il quinto posto. Finirà settimo e quella volata la vincerà Guillaume Martin. Anni dopo tra i professionisti i poli si invertiranno: Martin non sarà mai capace di vincere uno sprint di nessun genere, sviluppando ben altre doti,  Ewan diventerà uno tra, e a volte il velocista più forte del mondo. «Al Tour di quest’anno ho mandato un messaggio a Martin con la classifica di quel giorno: “Te lo ricordi?” gli ho detto. “Come faccio a dimenticarmi di quella volta che ho battuto Ewan in volata? Mi ha risposto» ci racconta sempre Quénet.

Ricordi. A casa di Jeff Quénet una maglia autografata da Caleb Ewan dove lo ringrazia per essersi preso cura di lui “nel suo primo vero assaggio di corse europee”. (Foto per gentile concessione di Jeff Quénet)

L’unica vittoria di quel periodo arriva in una gara in Bretagna che serve a capire quello che ancora era Caleb Ewan: vince per distacco, in solitaria. «Era la corsa del livello più basso che puoi trovare in Francia in quella categoria, ma Caleb dimostrò di essere comunque più maturo di tutti i suoi coetanei francesi».

Quando Ewan torna in Australia al termine dei quei tre mesi all’apparenza non sembra migliorato, anzi. Torna leggermente sovrappeso perché tra il finire di quel periodo di gare e la partenza per casa sua passano due settimane nelle quali Jeff Quénet gli fa conoscere la cultura enogastronomica francese. «Tornato in Australia sua nonna koreana si lamentò di averlo trovato ingrassato! E lo stesso Caleb si è lamentato che i suoi risultati non eccelsi di quel periodo erano dovuti a una dieta di certo non adatta a un corridore. Ma io non l’ho mai messo in condizione di diventare un corridore, l’ho messo in condizione di scoprire se stesso. Aveva solo diciassette anni e avrebbe avuto tutto il tempo per diventare un campione».

E difatti quella Francia rimarrà sempre dentro Caleb, ne formerà i tasselli del suo vigore protoplasmico, come Jack London definiva i muscoli di Oscar Mathæus “Battlin Nelson” Nielsen nel suo lungo reportage sul “match del secolo” tra James Jeffreis e Jack Johnson e apparso nel 1910 sul New York Herald. Quel disputare cronometro controvoglia, partecipare a corse dove si corre davvero il ciclismo e dove il tifo poi, ricopre un ruolo fondamentale: tutto serve a far cuocere Ewan in un brodo gourmet. «Rimase impressionato dai tifosi» e sempre Jeff Quénet che ce lo racconta. «Quando i suiveur del ciclismo scoprirono che sarebbe venuto da me questo ragazzo di diciassette anni, la casella postale di casa mia si riempì di decine su decine di fotografie con il giovane Ewan, da autografare. Era famoso in Francia nonostante fosse “solo” un campione del mondo juniores su pista. E per non parlare della gara vinta in Bretagna: migliaia di persone a fare il tifo: immaginatevi lui abituato in Australia dove i tifosi sulla strada all’epoca erano solo gli stessi ciclisti o i loro genitori. Ne rimase colpito, strabiliato».

IL PIU FORTE VELOCISTA DEGLI ANNI 2020

Caleb Ewan giovanissimo omaggiato dai giornali australiani e paragonato al grande Mark Cavendish. (Foto: per gentile concessione di Jeff Quénet)

Nel Gennaio del 2012, Caleb iniziava la sua seconda stagione tra gli juniores e forte dell’esperienza francese si iscrive, accompagnato da Jeff Quénet, al Jayco Bay Classic, una quattro giorni di kermesse cittadine tra Victoria e Melbourne, in programma i primi quattro giorni dell’anno. Una challenge particolarmente sentite dalla Orica GreenEdge la squadra australiana che negli anni sarebbe diventata riferimento nel mondo del professionismo e che in quei giorni faceva proprio la sua prima uscita della storia. Immaginatevi: il team, praticamente di casa a Melbourne, schiera un terzetto che avrebbe dovuto fare incetta di traguardi per iniziare a far conoscere il suo nome in giro: Allan Davis, Baden Cooke e Robbie McEwen; si punta su tre fra i più forti velocisti del mondo degli anni 2000. I più forti della storia del movimento aussie. Alla partenza della seconda prova, con arrivo al Geelong Eastern Park, Quenet si avvicina a Baden Cooke. «Conosci ‘sto ragazzino?», indicando il piccolo Caleb Ewan. «No», gli risponde con convinzione la maglia verde di quel già citato Tour del 2003. «Beh, a fine corsa imparerai il suo nome». La prova la vince Ewan, contro professionisti più grandi ed esperti, lo fa indossando la maglia della NSW Institute of Sport e guanti e calzetti della Saxo Bank. Caleb vincerà anche la quarta e ultima prova, precedendo Howard, campione del mondo su pista e Davis, bronzo mondiale su strada due anni prima proprio in Australia. Il direttore di corsa John Trevorror ricorda così quel giorno su cyclicst.co.uk. «Leigh Howard  precedeva Allan Davis nell’ultima curva e sembrava scontata la prima vittoria del team Orica. Caleb è uscito dalla terza ruota e ha superato due velocisti di livello mondiale così facilmente da farmi girare la testa. Ricordo che Phil Liggett (storico giornalista inglese N.d.A.) disse all’epoca che Mark Cavendish e Robbie McEwen non avrebbero potuto fare di meglio». Ma non solo, per Phil Liggett Ewan era superiore a Cavendish alla stessa età e si sarebbe immaginato dall’australiano un futuro «Più da corridore alla Gilbert che alla Cannonball».

Tutta la gioia di Caleb Ewan dopo la vittoria di Nimes al Tour 2019. (Crediti: ASO/Pauline Ballet)

E qui arriviamo alla domanda che avremmo dovuto porci all’inizio: che velocista è Caleb Ewan? Iniziamo col riprendere le sue parole, di quando era ragazzino e rispondeva ai giornalisti del suo paese dicendo che: va bene la tanta attività in pista, va bene andare forte nell’Omnium (e quindi in tutte le discipline che lo compongono), la velocità di punta e la buona resistenza, ma teniamo presente come lui, inizialmente, era considerato uno che sapeva facilmente scollinare davanti le brevi salite. «Le mie caratteristiche? Qui in Australia mi considerano praticamente uno scalatore, mi difendo bene quando la strada sale, ma se dovessi diventare professionista mi vedrei meglio come velocista». E tra gli Under 23 Caleb Ewan era uno che ti ritrovavi sovente negli ordini d’arrivo delle corse più impegnative del calendario. La vittoria al Palio del Recioto, al suo primo anno da dilettante, è un segno utile a identificare le caratteristiche di un corridore che “diventerà uomo da classiche”. Non solo la prova internazionale che si corre a Negrar, provincia di Verona; la settimana dopo conquista La Côte Picarde, prova di Coppa delle Nazioni su un tracciato impegnativo andando via nel finale con gente come Simon Yates, Sean De Bie e Jan Polanc e regolandoli allo sprint. E i risultati ottenuti dal 2012 al 2014 nelle rassegne iridate giovanili non possono che rafforzare questo concetto. Argento mondiale juniores a Valkenburg su un percorso da classiche, quarto a Firenze e secondo l’anno dopo a Ponferrada tra gli Under 23 sempre distinguendosi più come corridore resistente e dallo spunto veloce che come sprinter puro.

Ma passato professionista qualcosa cambia, scatta una molla che lo rende veloce, velocissimo. Potente – il famoso vigore protoplasmico di Jack London. Una pallottola senza gravità con quel suo modo particolare di sprintare curvo abbassato al limite della coerenza sul manubrio della bici, il colpo d’occhio da giocatore di cricket, l’abilità nel saltare da una ruota all’altra e di emozionare in quei momenti così convulsi chiamate volate, quelle azioni che a volte vorresti fare a meno di vedere per quanto ti preoccupi per i loro protagonisti, come fossero i personaggi di un film d’azione a cui ti sei affezionato. Velocista ci nasci, lo aveva detto, lo abbiamo scritto all’inizio di questa storia, ma diventare velocista è una questione di pratica, di immersione totale, di coraggio. Di scelte dolorose ma condivise, e di sacrifici.

La prima scelta dolorosa è il divorzio dal gruppo Orica, quello che lo ha portato al professionismo, che gli ha permesso di vincere una tappa alla Vuelta al primo anno nel World Tour e di imbarcarsi dall’Australia all’Europa e di viaggiare, ma non solo semplicemente viaggiare: pagato per viaggiare. Quella cosa che, quando chiedi a un corridore cosa ti piace del tuo mestiere, lui la metterà sempre al primo posto. Con quel Shayne Bannon che lo volle fortemente nel progetto Orica-GreenEdge dopo averlo conosciuto ragazzino alla presentazione del Tour 2012. Era l’autunno del 2011 e Caleb andò insieme a Jeff Quénet al Palazzo dei Congressi di Parigi. «Caleb non poteva crederci: era estasiato. Erano presenti cinquemila persone per quell’evento».

E quindi Caleb è ormai chiaro come corra a pane e Tour. Lascia “casa” Orica (ormai diventata Mitchelton Scott) dopo essere rimasto per l’ennesima volta escluso dalla selezione per la corsa francese: le tappe vinte al Giro e alla Vuelta non gli bastano, nemmeno quelle semiclassiche dove il piccolo australiano riesce a mettere la sua ruota davanti a tutti,. Il Tour è quel sogno inseguito sin da quando si alzava la notte d’inverno da bambino.

La vittoria nella terza tappa di Caleb Ewan al Tour 2020 è una delle affermazioni più spettacolari della storia recente degli sprint mondiali. (Crediti: ASO/Pauline Ballet)

Allora chiude con l’Australia e viaggia in Belgio. Lascia la sua squadra per correre in maglia Lotto. Sempre grazie al ricordo di Jeff Quénet, scopriamo di quando Caleb nel 2011 andò a Parigi e si fermò sugli Champs-Élysées per fotografe la zona dove ogni anno arriva la Grande Boucle. «Ricordati Jeff» gli disse «un giorno io vincerò su questo traguardo». Seppure in leggero ritardo sulla sua tabella di marcia, quella vittoria arriva nell’estate del 2019.

Ma parlavamo di scelte: la seconda è straziante, ancora più che dolorosa. Nel 2019 infatti, Caleb e sua moglie Ryann hanno la loro prima figlia. La piccola nasce prematura di sei settimane ed è costretta a restare per un mese in ospedale proprio a ridosso della partenza del Tour per il quale Caleb aveva sacrificato anni della sua vita e ne aveva condizionato anche le scelte professionali. «Non poteva respirare da sola, non poteva mangiare da sola e io ho dovuto andare via proprio un paio di giorni prima che lei uscisse dall’ospedale. Avrò sempre il ricordo di non essere stato io a portare a casa mia figlia» e la prima volta che Caleb la vede senza macchine attaccate è il secondo giorno di riposo della corsa francese. «Concentrarmi per il Tour è stato difficile, quasi impossibile: pensavo solo a lei a casa, volevo solo passare del tempo con lei, e allo stesso momento mi stavo preparando per la corsa più importante della mia vita» Quella per il quale il Caleb bambino si alzava in pieno inverno alle tre di notte.

Caleb Ewan nel 2017 ad Alberobello conquista la sua prima vittoria al Giro (Crediti: Alessandro Trovati Pentaphoto/Mate Image)

Oggi Caleb si gode la figlia facendo «quelle cose che fanno tutti i papà». È un corridore affermato e tra 2019 e 2020 ha vinto diciassette corse, tra le quali cinque tappe al Tour, due al Giro, la Brussels Cycling Classic e lo Scheldeprijs – senza dimenticare il secondo posto alla Sanremo anticipato solo da Vincenzo Nibali. Qualcuno ancora mette in dubbio il suo status di migliore (e più spettacolare) velocista al mondo: beh quel qualcuno vada a rivedersi la volata della terza tappa al Tour de France di quest’anno. Ai 150 metri Ewan è ancora in sesta, settima posizione, dribbla tutti come un Maradona sui pedali e infila Sam Bennett sulla linea del traguardo. Pochi dubbi: il piccolo Ewan è diventato grande. Il piccolo Ewan, oggi, è il velocista più forte del mondo.

Foto in evidenza: ASO / Pauline Ballet


Alessandro Fancellu: «In cima al Mortirolo…»

Alessandro Fancellu, quel giorno, stava andando in vacanza con i suoi genitori ad Aprica, dal nonno: «Ho visto la scritta indicante la salita del Mortirolo. Mi ha incuriosito. Avevo una mountain bike e ho voluto provare a scalarlo. Non ho nemmeno idea di quanto tempo ci abbia messo ma ci sono riuscito, sono arrivato in cima». Quella sera, Alessandro ha parlato con papà: «Mi ha detto: “Hai mai visto qualche scalata di Marco Pantani? Dovresti vederlo. Cerchiamo qualche tappa e guardiamola assieme”». Fancellu aveva smesso da poco di giocare a calcio e i genitori erano stati chiari: «Non mi piaceva. Forse anche perché, non essendo molto bravo, stavo spesso in panchina. Non mi divertivo. I miei me lo avevano detto subito: “Non ti piace il calcio? Va bene, ma sei giovane. Non vorrai stare tutto il giorno a far nulla al parco. Pensa a qualcosa per occupare il tuo tempo libero”. Fino a quei giorni, Alessandro, che ha studiato agraria, nel tempo libero si dilettava di meccanica: «La verità è che vorrei fare troppe cose. L’ho detto giusto l’altra sera a mia mamma: “Una vita non mi basterà mai per realizzare tutti i progetti che ho in mente. Me ne servirebbero almeno un paio”». Quell’omino di sessanta chili che “venuto dal mare sconquassava le montagne”, come scrisse qualcuno, lo incantò subito: «Marco Pantani era un uomo coraggioso. Quando ha attaccato, al Tour de France del 1998, aveva circa nove minuti di ritardo. Chi lo avrebbe fatto? Molti si sarebbero rassegnati, avrebbero puntato a una tappa. Lui ci ha provato e non è facile come dirlo. Ha passato molti periodi difficili e ha resistito tanto nella sua vita. A me piacciono atleti di questo tipo. Non a caso, oggi, ammiro molto Vincenzo Nibali e Julian Alaphilippe: sai che, se attaccano il numero alla schiena, vogliono inventarsi qualcosa. Anche se i pronostici sono contrari. Pensiamo a Nibali alla Milano-Sanremo o ad Alaphilippe al Tour de France».

Il carattere di Alessandro Fancellu emerge chiaro da quanto detto e non servirebbero neanche troppe descrizioni. Lui si definisce estroverso e “tranquillo” ma neanche troppo: «Diciamo che, soprattutto in corsa, posso essere abbastanza impulsivo. Fa parte del mio essere, come la testardaggine». Della necessità di essere testardo si rende sempre più conto. In particolare le volte in cui le cose non vanno come vorrebbe: «Credo che la tappa del Montespluga, al Giro d’Italia Under23 di quest’anno, sia stata la mia peggiore giornata da quando corro. Ero debilitato e ogni giorno andavo più piano. Lo dico: è stata una bella batosta». Fancellu, però, al traguardo è arrivato anche quel giorno e, ai pullman, ad aspettarlo ha trovato Ivan Basso, alla guida del Team Eolo-Kometa: «Con Ivan ci sentiamo al telefono quasi ogni settimana. Mi chiede come sto e mi consiglia. Quel giorno mi attese e mi aiutò molto a livello morale. Mi disse: “Ale, capita a tutti. Non sai quante volte ho lavorato bene per un appuntamento, l’ho preparato nei minimi dettagli e poi è crollato tutto. Succede. Devi reagire, è l’unico modo per andare avanti”. Aveva ragione». La grinta deriva dalla motivazione e la motivazione cresce anche grazie alle giuste parole di chi ti guida: «Rino De Candido è unico da questo punto di vista. Ricorderò sempre la sera prima della prova di Innsbruck: “Avete paura di Evenepoel? Certo, è forte. Ma è un ragazzo come voi. Ha due braccia e due gambe come voi. Allora, come la mettiamo?”. Giuro che, quando sono andato a letto, mordevo il cuscino dalla foga». Poi arrivò il grande giorno: «Fino a quando ero con il corridore svizzero e davanti a noi c’era solo Evenepoel, ho collaborato. Il podio, per me, valeva tanto a prescindere dalla piazza. Il punto è che presto mi sono accorto che davanti a noi c’era anche un altro atleta. Mi sono detto: “Terzo sì, ma quarto no”. Sai, quando guardi i pantaloncini e vedi quella scritta, “Italia”, dai l’impossibile». È così che Fancellu si è portato a casa il bronzo iridato.

Gli inizi, con la maglia azzurra, hanno il suono di una telefonata di Arnaboldi, il direttore sportivo del Team Canturino, prima squadra di Fancellu: «Mi disse che De Candido voleva vedermi a Montichiari: mi venne un colpo. Avevo preso qualche chilo di troppo rispetto al peso forma e andavo anche abbastanza piano. Avevo il timore di fare una figuraccia. Ci pensi? Per fortuna è andata bene ed il ritiro di Riccione è una delle più belle esperienze che possa raccontare». Ci spiega che si “sente scalatore” ma la sua umiltà gli impone una precisazione: «Posso dirti cosa mi piacerebbe essere. Che vorrei mi si ricordasse come un buon corridore e uno scalatore ma non so quello che effettivamente diventerò. Tutti vorrebbero diventare dei campioni, ma è ciò che fai a definirti. Sono giovane, devo ancora conoscermi». Di sicuro, quando si parla di strade, Alessandro Fancellu parla di salite: del Brinzio, “montagna simbolo della zona di Varese”, e del Monte Generoso, in particolare. «Quando questa situazione si sistemerà, potrò tornare su quei tornanti. Inizia a essere più difficile vivere queste limitazioni: si sente la mancanza, ci si sente spogliati della normalità». Qualche anno fa, al Premio Torriani, dopo “Il Lombardia”, Fancellu incontrò personalmente Alberto Contador: «Mi presentarono a lui come futuro componente della squadra che stava nascendo. Quell’incontro mi rimase impresso: ho proprio visto un campione che, piano piano, si è aperto e mi ha accolto umanamente. Qualcosa di raro. Ma alla Eolo-Kometa si lavora così. Non è solo una squadra forte, è una bella squadra. All’inizio era un problema perché molti ragazzi sono spagnoli e io non parlavo spagnolo. Ora che l’ho studiato, siamo amici prima che compagni di squadra».

Davanti ad Alessandro Fancellu c’è la realtà del professionismo, “parliamo di una passione che diventa lavoro, quanti possono dirsi così fortunati?”, e un traguardo personale che, questa volta, non è una linea d’arrivo: «Un domani, fra dieci, dodici anni, mi piacerebbe che qualcuno, dopo avermi ascoltato, potesse dire: “Davvero interessante questa cosa. Quasi quasi la imparo”. Sì, mi piacerebbe poter lasciare un insegnamento ai più giovani».

Foto: Vuelta a León


Lucia Bramati: «Gladiatori del fango»

Ci siamo chiesti più volte come si possa raccontare la sensazione che si prova nelle domeniche impastate di brina e fango dell’inverno del ciclocross. In una serata a Nalles, in mezzo a una bufera di neve, Lucia Bramati ci ha dato la risposta: «Il cross è una sorta di arena. Noi siamo i gladiatori della terra, tra due ali di gente che grida con tutta la voce che ha, nel fumo del loro respiro che si mescola alla nebbiolina che si deposita a terra. Il percorso è tutto lì, lo conosci a memoria. In estate faccio mountain-bike, ma non c’è paragone. Qualche tratto di quelle strade percorse in mountain-bike mi spaventa. Qualche discesa scoscesa o qualche irta salita. Le strade della mountain-bike si disperdono in tanti rivoli. Quelle del cross sono raggruppate in un fazzoletto di terra con cui familiarizzi». C’è una semantica di ogni intervista. Un circolo di parole che ritornano perché parte dell’intervistato e del suo approccio a ciò che fa. Certe volte si tratta di sensazioni primordiali: «Papà e mamma mi hanno sempre detto di fare sport, qualunque sport. Papà è stato un ciclista ad alti livelli. Ho giocato a tennis, fatto saggi di danza, atletica e anche pallavolo. Nel ciclismo però ho trovato qualcosa che altrove non riuscivo a rintracciare: un senso di casa. Ricordo quando ho vinto la prima gara da G3, a Bergamo: ho sentito di appartenere a qualcosa, di essere simile a qualcosa. Non mi era mai accaduto». E pensare che gli inizi col ciclismo non erano stati proprio idilliaci: «Non me ne andava bene una da piccolina. Ero molto timida, chiusa. Forse non tiravo fuori nemmeno tutto il carattere che serviva».

Lucia Bramati ha diciassette anni e guardandosi indietro focalizza chiaramente alcuni cambiamenti che le hanno fatto bene: «Se sono cambiata è anche, se non soprattutto, grazie al ciclismo. Alla fine, il mondo che frequenti ti plasma un poco. Il mio carattere si è aperto qui. Ho messo da parte quella timidezza, pur custodendola, e mi sono buttata in quello che volevo fare. Certe volte, la troppa timidezza ti frena anche e non è giusto. Ho imparato a divertirmi correndo in bici. Ho imparato a dare il massimo, a fare sacrifici, con serenità». Già, serenità perché l’ansia divora: «Papà me lo ha sempre detto: “Stai tranquilla perché l’ansia ti divora l’energia”. Ed è vero. Prima delle gare mi metto tranquilla sul letto della mia camera e ascolto musica indie o guardo film. So quello che devo fare ma faccio attenzione a non farlo diventare ossessione».

Quando vedeva le gare di ciclocross in televisione, Lucia Bramati si diceva che, da grande, avrebbe voluto assomigliare a Eva Lechner e a Pauline Ferrand Prevot: «Poi le ho conosciute, le ho incontrate, ci ho parlato. Fa strano vedere a pochi metri da te ragazze che prima vedevi solo in televisione. Ricordo che guardavo le immagini e mi dicevo: “Quanto vorrei provare anche io”. Quando durante il riscaldamento mi passano accanto van der Poel o van Aert mi volto sempre sorpresa e li fisso. Quando provo il percorso, ricordo le immagini della tv e mi dico: “Hai visto Lucia? Ci sei tu qui. Proprio tu”. Ti dici che stai crescendo. Che stai diventando grande».

Lucia studia, è al quarto anno delle superiori, e si allena duramente con una consapevolezza rara: «I sacrifici pagano sempre. Tu fai sacrifici e vedrai che qualcosa di bello succederà. Prendi il terzo posto in Coppa del Mondo lo scorso fine settimana. Non me lo aspettavo. Sai perché? Perché nelle prove di inizio stagione almeno cinque o sei ragazze andavano più forte di me. Invece stavo proprio bene. Siamo andate via subito in tre e per un buon tratto mi sono giocata anche il primo posto. Cosa significa? Che lavorando cresci, che lavorando migliori sempre. E quando te ne rendi conto ti viene una grinta che non si può nemmeno lontanamente immaginare». E dopo? «Dopo è ancora più bello. Non so quante volte ho chiesto: “Ma è vero? Ditemi che è vero. Sto sognando? Non svegliatemi se non è vero. Per favore”». Tra l’altro, a Tabor, c’erano proprio le condizioni climatiche che piacciono a lei: «Era freddo. Ma un freddo assurdo. Io con il freddo, con la pioggia, con il fango mi galvanizzo. Il percorso diventa più tecnico e vado meglio. A me piacciono percorsi come Brugherio: è uno spettacolo quel tracciato. Il cross deve essere così: movimentato, imprevedibile, caotico. Se c’è tutta pianura, che gusto c’è?».

Lucia Bramati ha vinto tante volte ma solo una volta ha pianto di un pianto forte, vero. Di quel pianto che prende la bocca dello stomaco, di quelle lacrime grosse come noci a scorrere sulle guance: «Parlo del campionato italiano da allieva secondo anno. Venivo da una stagione disastrosa: prima un infortunio, poi il citomegalovirus e, alla fine, persino la mononucleosi. Ero stata ferma due, forse tre mesi. Mi sono presentata in corsa solo per provare, per tornare a fare ciò che amavo: andare in bicicletta. Ho vinto. Non mi sembrava possibile. Ero disperata di felicità. Ho pianto». Lucia Bramati, alle partenze, ama ascoltare: «Sono fortunata. Nella mia squadra ci sono diverse fra le migliori atlete nella specialità al mondo. A me piace stare ad ascoltarle. Mi danno consigli ma soprattutto mi raccontano le loro esperienze: questo è molto importante perché anche dalle esperienze altrui si può imparare. Vorrei fare bene al mondiale per la categoria junior ma soprattutto vorrei confermarmi al passaggio fra le élite. Credo lì sia in un’altra dimensione, una dimensione che impone una ripartenza e una conferma. Solo lì puoi davvero sentirti arrivata dove volevi arrivare».

Le parole corrono veloci come gli appunti sul nostro taccuino. Di certe cose ti accorgi solo rileggendo: «Sono una ragazza semplice. una ragazza che ama uscire con gli amici per andarsi a mangiare una pizza e stare in compagnia a tavola. Una ragazza che è contenta ogni volta in cui gli amici le dicono: “Vogliamo venire a vederti alle gare. Vogliamo esserci anche noi a fare il tifo per te”. Magari non posso partecipare a qualche gita scolastica. Magari devo rinunciare a qualche uscita serale, ma sono contenta. Quello che sto facendo, lo sto facendo per me. Per il mio domani. E il domani te lo costruisci giorno per giorno. Rinuncia per rinuncia. Essere liberi significa proprio questo. E a me la libertà piace da morire».

Foto: Lucia Bramati, Instagram


Il viaggio di Luca Mozzato arriva fino al nord Europa

Luca Mozzato arriva dal Nord e, ci concederà questa licenza, probabilmente più che dal nord Italia avrebbe preferito arrivare dal nord Europa. Corre in Francia con la maglia della B&B Hotels – Vital Concept P/B KTM dove pedala per trovare la sua dimensione, ma non solo, prova a migliorare in tutto per realizzarsi; cerca di imparare la lingua «mi arrangio, ma mi faccio capire» ci spiega, e vuole correre sempre più forte tra le infide stradine fiamminghe. È in Belgio, infatti, magari proprio al termine di una gara che prevede muri e pavé, che vorrebbe scagliare i suoi sogni.

Parlando con lui sembra di avere dall’altro capo del telefono un quadro di questo tipo: elettrico, frizzante, gioioso ma allo stesso tempo un po’ spigoloso quanto sincero. Dice che era uno di quei bambini irrequieti che non riusciva a stare mai fermo: nei pomeriggi liberi da studio e scuola giocava a pallone, nuotava, girava con lo skateboard e quando ha iniziato a correre in bici era poco più di un ragazzino, un po’ come tutti i suoi colleghi – ma in realtà non proprio tutti tutti. Aveva nove anni quando si mise in luce e mica lo fece in una corsa normale: era una gincana organizzata nel suo paese. Quando gli chiedo qual è il suo paese me lo spiega, ma precisa: «Sono nato e vivo nella provincia di Vicenza, ma ciclisticamente sono cresciuto in quella di Verona. Abito a Sarego che praticamente è al confine tra le due province e spesso quando mi presentano c’è un mezzo equivoco: “il veronese Luca Mozzato” dicono». La cosa non è che gli dia fastidio, puntualizza ulteriormente, e pensiamo lo dica con il sorriso, anche se attraverso un telefono possiamo solo dare spazio all’immaginazione.

Luca Mozzato in azione durante la Gand-Wevelgem 2020 (Crediti: FRJ | B&B HOTELS – VITAL CONCEPT p/b KTM)

La guerra dei campanili evidentemente non gli interessa, pensa ad altro, e più che fantasticare è concreto. Ambizioso: altrimenti non avrebbe mai iniziato un viaggio che lo ha portato a dividersi tra Francia e Belgio. E non avrebbe potuto prendere decisione migliore lui che, sin da ragazzino ammira Boonen. «Sono cresciuto guardando la rivalità tra Boonen e Cancellara, ma il mio cuore ha sempre battuto per il belga. A crono non sono mai andato forte e in più ho sempre avuto spunto veloce e passione per le pietre del Nord». Quale corridore migliore da scegliere come modello in gara se non uno vincente (e trascinatore di folle di appassionati) come Tornado Tom?
Sin da ragazzino Luca Mozzato ha avuto caratteristiche ben definite – fatto tutt’altro che scontato. «Ho sempre avuto una buona manualità con la bici (altrimenti non si sarebbe mai messo in luce in una gincana! N.d.A.), e da subito veloce ma con la capacità di difendermi anche sui percorsi impegnativi». Gli faccio notare come alcuni suoi colleghi, su tutti lo sloveno Žiga Jerman, quando tra gli juniores chiedevano chi fosse il corridore da battere in una determinata corsa, il suo nome era il più gettonato. «Mi fa piacere e mi rende orgoglioso, vuol dire che si riconosce il buon lavoro che ho fatto, però precisiamo una cosa: eravamo dei ragazzini, ora tra i professionisti la musica è cambiata».

È preciso e deciso nell’analizzare le fasi della sua maturità puntando l’attenzione più sulla crescita che sui risultati. «Se guardo agli Under 23 il mio percorso è stato ottimo. Sono cresciuto, maturato, mi sono adattato bene alle situazioni dimostrando di essere un ragazzo che si sa gestire in corsa. Se invece guardo ai risultati un po’ di amaro in bocca resta». Una punta di insoddisfazione data dalle poche vittorie ottenute e che probabilmente non danno merito al talento e allo spunto veloce. «Però mi chiedo: meglio passare con dieci vittorie, e poi magari ritrovarsi a fare fatica tra i professionisti anche rispetto a quei corridori che battevi?» – non sarebbe né il primo né l’ultimo – «Oppure passare con poche vittorie, ma la consapevolezza di aver fatto il percorso giusto, e di avere ancora margine di crescita?». No, Luca Mozzato non farebbe mai a cambio di situazione. Tuttavia ci tiene a specificare che non sembri la favola della volpe e l’uva: «Chiariamo, però: avrei voluto vincere comunque di più. Vincere ti provoca una gioia senza paragoni, è come una sorta di liberazione».

Luca Mozzato in azione alla Paris-Camembert 2020 (Crediti: FRJ | B&B HOTELS – VITAL CONCEPT p/b KTM)

Si parla di lingua, di squadra, di Belgio, di Francia e di pietre del Nord e allora Luca si apre e quasi non riesci più a fermarlo come se dovesse andare in fuga con in testa il traguardo del Fiandre o il velodromo della Roubaix. «I belgi sono incredibili: parlano qualsiasi lingua e ti capiscono». E con Backaert, De Backer e Boeckmans – sembra una filastrocca – è come andare all’Università. «In corsa mi aiutano, mi spiegano tutto. Io arrivo da un contesto culturale diverso e senza l’esperienza necessaria per queste gare. Il loro supporto è fondamentale soprattutto nei finali di corsa quando tendo a spendere troppo, ad agitarmi, ad alimentarmi male. E loro invece mi guidano, mi aiutano: “no tu devi fare come ti dico io, devi starmi a ruota, non pensare, poi se hai le gambe per il finale bene, altrimenti, se ne riparla”. Mi hanno portato un paio di mesi su un palmo di mano dandomi tutto l’aiuto possibile, sia legato alla corsa sia legato a tutto il resto, insegnandomi i trucchi del mestiere».

Al Fiandre 2020 le cose non sono andate come sperava, si è ritirato, ma era pur sempre la prima esperienza e non può che riuscire a vederci il lato positivo, come per il resto del periodo che ha trascorso in Belgio. «In primavera ho fatto un mese tra Francia e Belgio prima di rientrare a casa per il lockdown: la cultura che hanno della bici è incredibile, anche lo stile di vita. Backaert abita praticamente sul percorso della Ronde e conosce a memoria ogni pietra e difficoltà del Fiandre». La corsa che, insieme alla Roubaix sogna sin da bambino. «Muri fiamminghi e foresta di Arenberg sono luoghi che mi hanno sempre affascinato. Prima quando li vedevo in tv, poi quando ci ho corso le prime volte. Da Junior ho corso la Roubaix: prima di entrare nei settori di pavé arriva questo stato di agitazione difficile da descrivere e che si differenzia da qualsiasi altro momento di qualsiasi altra corsa. E poi c’è un’atmosfera! La gara si corre lo stesso giorno dei professionisti, si passa circa due ore prima di loro e c’è già il pubblico che fa il tifo. Mai vista una situazione del genere: mi ha letteralmente travolto».

E Se Luca Mozzato è un tipo elettrico, il più esuberante del gruppo dei “Men in Glaz” è decisamente Coquard. «È il jolly: se non c’è te ne accorgi. Trascina, scherza, tiene alto il morale, ha sempre buone parole per tutti e cerca di coinvolgerti. Ha un’incredibile capacità di allontanare la pressione: è l’anima della squadra». E quando gli chiediamo se si rivede in lui come caratteristiche, si fa discreto: «Di strada devo farne ancora tanta. Io, pensando al 2021, mi definisco un neoprofessionista del secondo anno. Ho fatto un po’ di esperienza ma per ovvi motivi non abbiamo corso molto e dunque non ho assorbito ritmo e gamba. Per il 2021 l’obiettivo principale sarà imparare ancora, assimilare ulteriormente, migliorare tutti gli aspetti, anche quelli mentali e se avrò la condizione arriveranno anche i risultati. Anche perché poi c’è un problema: sapete qual è? Vogliono vincere tutti, e allora prima puntiamo a fare esperienza, poi la vittoria arriverà di conseguenza». Il viaggio di Mozzato verso le pietre del Nord sta per ricominciare.

Foto: FRJ | B&B HOTELS – VITAL CONCEPT p/b KTM


Guarda, c'è l'ammiraglia di Moser

Aldo e Francesco. Come tutti i loro fratelli, ben dodici, e come tanti altri ragazzi. Almeno fino ad un certo punto, ma forse anche dopo. Insieme a Palù di Giovo, anche negli inverni in cui c’era più neve che anime in città. Oggi sono poco più cinquecento gli abitanti di questa frazione in provincia di Trento e, non fosse che per il silenzio di certi giorni, Palù di Giovo è come tante altre città. Non sappiamo quanti abitanti ci fossero negli anni sessanta del novecento, ma non abbiamo difficoltà a immaginarci le strade di Palù in quegli anni. Non abbiamo difficoltà a figurarci lo stupore raccontato da Francesco Moser in questi giorni, quando Aldo, il fratello maggiore, tornava a casa in ammiraglia: «Non eravamo abituati. In queste vie passavano solo i carri trainati dai buoi o dai cavalli». Si vedevano poche macchine, l’ammiraglia era quasi un mezzo futuristico. Non solo per i fratelli minori in casa Moser ma per tutti coloro che affacciandosi alle finestre vedevano quest’auto così diversa parcheggiare in città. Qualcosa che assomigliava alle speranze di un futuro diverso anche per i più poveri. Qualcosa che somigliava a un domani in una grande città e a un lavoro che potesse riscattare un passato difficile. Per i più giovani ma anche per i più anziani che in quel domani ci avevano creduto ed erano stati delusi sin troppe volte.

Francesco e Aldo come tutti quei fratelli che si divertivano assieme nei cortili e per le strade e poi si fermavano a mangiare un panino appoggiati a un muretto, magari con i pantaloncini corti e le ginocchia sbucciate. A fianco un piccolo podere di famiglia, il primo, e il cimitero del paese. Aldo che è del 1934, Francesco del 1951. Aldo che diventa uno sportivo importante mentre Francesco sta ancora crescendo. Francesco che sente ciò che tutti dicono di suo fratello ed è certo di essere fortunato ad avere un fratello così. E si parla a voce e a testa alta di un fratello maggiore così e quell’aggettivo possessivo si acuisce di tutto quello che, ora più che mai, appartiene ai Moser: grinta, dignità, orgoglio. Gente di poche parole e di tanta concretezza perché in quegli anni non potevi che essere in questo modo per poter sperare di farcela. Quando Aldo torna dal Giro d’Italia del 1969, guarda Francesco e glielo dice. Gli dice: «Ma perché non provi anche tu? Dai, prova anche tu». In quelle tre settimane in giro per l’Italia era andato tutto bene e Aldo aveva capito che il ciclismo poteva avere lo stesso volto di quello sperare e credere in quel paesino che gli aveva dato i natali. Dovevi fare fatica, certo. Ma non l’avresti fatta fra quella terra? La terra è sincera, ti restituisce crudamente ciò che dai. In questo assomiglia alla bicicletta. Entrambe non possono mentire.

Francesco che quel giorno si sentì scelto e probabilmente pensò quello che pensiamo tutti quando qualcuno ci sceglie: «Davvero credi io possa farcela? Pensi davvero io sia come te?». Fiero perché Aldo era, ed è, il suo modello e pensare che, in fondo, quel fratello maggiore lo immaginava così simile a lui non poteva che farlo felice. E Aldo faceva lo stesso che fino a qualche anno prima aveva fatto Francesco: ne parlava con gli amici e con i colleghi. Li portava a vederlo correre e diceva: «Certo che il mio fratellino corre davvero forte. Guardalo». Lui che aveva scalato il Bondone sotto una nevicata degna di questi giorni, ma era giugno. Era l’8 giugno del 1956 e, per oltrepassare i massi di neve, la bicicletta la si prendeva pure in spalla. Mentre qualche direttore sportivo faceva ritirare i suoi atleti perché “non aveva più senso”. Forse molti gli avrebbero semplicemente detto: «Non gasarti troppo. Dovrai vederne di cose». Lui si stupì e lo disse a tanti. E noi siamo certi sia stato meglio così.

Non sappiamo cosa Aldo abbia detto a Francesco, quando lo vide tornare a casa in maglia rosa dal Giro d’Italia del 1984, quel Giro che Francesco Moser vinse. Non sappiamo, ma ci piace immaginarlo, come Aldo Moser vivesse la rivalità Saronni-Moser. Come si gustasse le corse in televisione e cosa dicesse, al telefono con Francesco, di “quello là”. Chissà come lo chiamava. Chissà cosa si sono detti in quell’ultima passeggiata assieme. Chissà che aria c’è oggi a Palù di Giovo. Forse qualcuno guarderà fuori dalle finestre, poi cercherà con lo sguardo un bambino e gli dirà: «Vedi quel parcheggio? Lì, tanti anni fa, c’era l’ammiraglia di Aldo Moser…».

Foto: Aldo Moser al Trofeo Baracchi 1956