Correre a testa in giù: il racconto del Tour of Southland 2023
9 Novembre 2023Approfondimenti
Nel vecchio continente i mesi autunnali sono sinonimo di ciclocross e ciclismo su pista, ma dall’altra parte del mondo, dove in questo periodo le temperature sorridono all’attività su strada, la stagione è appena entrata nel vivo. Infatti, nella regione più meridionale della Nuova Zelanda si è appena conclusa la sessantasettesima edizione di una delle corse più belle del calendario non-UCI e non solo: il Tour of Southland.
Dal 1956, a cavallo tra ottobre e novembre, nella regione neozelandese del Southland, si snoda una gara ciclistica di più giorni tra i fiordi, i laghi e le aspre montagne del Te Wahipounamu - il più grande parco nazionale della Nuova Zelanda - e le strade cittadine di Invercargill - capoluogo della regione -, considerata dai locals come il Tour de France neozelandese: il Tour of Southland. Nell’albo d’oro della corsa, dove le Croci del Sud appaiono a perdita d’occhio, si susseguono nomi di maggiore e minore fama: da pionieri del pedale māori in Europa come Warwick Dalton e Tino Tabak, il primo modesto pistard ed il secondo addirittura campione nazionale neerlandese nel 1972 (Tabak godeva infatti della doppia cittadinanza essendo nato proprio in Olanda), a vecchie e nuove conoscenze del Pro Tour e del World Tour come James Oram, Aaron Gate, James Piccoli, Michael Vink e Josh Burnett, passando per lo straordinario Brian Fowler, plurivittorioso con otto successi tra anni ‘80 e ‘90 che però non trovò grande fortuna in Europa. Dalton e Tabak, ormai più di sessant’anni fa, hanno aperto la strada ai Kiwis nel ciclismo europeo, che nella stagione appena conclusasi erano ben diciassette a livello World Tour (sei nel Women’s World Tour e undici in quello maschile) e diciannove a livello Pro Continental, di cui sedici tra le file della Bolton Equities Black Spoke, la prima - e, vista la sua imminente chiusura, speriamo non l’ultima - compagine professionistica neozelandese.
Quest’anno ha corso con la maglia giallo-viola dei neozelandesi anche il campione uscente del Tour of Southland 2022, ovvero il ventitreenne Josh Burnett, il quale alla terza uscita da pro’ aveva già centrato il successo, vincendo la tappa regina della New Zealand Cycle Classic. Tuttavia lo scorso 29 ottobre Burnett non era presente al Queen’s Park di Invercargill per difendere il titolo, lasciando il trono del Southland a nuovi pretendenti. La prima delle sei giornate di gara consisteva in un cronoprologo a squadre di 4,2 chilometri, seguito da uno dei più classici Criterium oceanici. La prima semitappa di giornata ha visto prevalere i body, chiaramente ispirati alle fantasie anni ‘90 della Mapei, della Quality Food Services Southland di Boris Clark, uno dei favoriti in ottica classifica generale, il quale però è riuscito a racimolare solo una manciata di secondi sui suoi principali rivali. Nel pomeriggio, invece, ad imporsi è stato il classe 2005 James Gardner, fresco vincitore del Tour of Southland Juniors ad inizio ottobre con quasi cinque minuti di vantaggio sul primo inseguitore, ovvero Carter Guichard del vivaio dell’AG2R. Il diciottenne di Dunedin è evaso dal gruppo con un’azione da finisseur al suono della campana, quando mancavano poco più di quattro chilometri alla conclusione, ed è riuscito a contenere la rimonta del gruppo fino alla volata finale grazie alle sue doti da pistard ed a una posizione super aerodinamica per un ragazzo di oltre un metro e novanta. Gardner ha quindi anticipato sul traguardo un altro pistard della nazionale neozelandese, Nicholas Kergozou, che grazie agli abbuoni ha vestito la maglia arancione di leader della classifica generale.
Il menù della seconda tappa in linea presentava vari settori di gravel, molti dei quali in salita, che hanno premiato l’australiano Samuel Jenner, il quale sulla salitella sterrata di Glenure Hill si è lanciato in una fuga solitaria di poco più di dieci chilometri. Dopo un lungo braccio di ferro, Jenner ha avuto la meglio sugli inseguitori, anticipando per un solo secondo un gruppo di una ventina di elementi sul traguardo di Lumsden. Grazie al secondo posto di giornata e al tesoretto guadagnato nella cronosquadre, Regan Gough ha strappato la maglia di leader a Kergozou, suo compagno di nazionale di ciclismo su pista. Dopo due colpi di mano nelle prime due frazioni, la terza tappa, da Riverton a Te Anau, si è finalmente conclusa in volata, con Zakk Patterson che ha bissato il successo dello scorso anno ottenuto proprio sul traguardo di Te Anau.
Il giorno seguente la carovana al seguito del Tour of Southland è ripartita alla volta di Queenstown, da dove ha inizio l’ascesa più dura di tutta la gara: quella alla stazione sciistica di The Remarkables. La salita, che domina la città e i fiordi del Lago Wakatipo ai suoi piedi, misura 7 chilometri e presenta quasi 600 metri di dislivello e quest’anno ha sorriso all’azione della fuga, da cui è emerso Eliot Crowther. Crowther, un ragazzino di 36 anni che il primo Tour of Southland lo ha corso nel 2005, dopo il traguardo ha affermato: “Questa è, secondo me, la miglior corsa dilettantistica del mondo. In che altro luogo puoi correre a questo livello senza essere un pro’?”. La salita tuttavia non è terminata con la tappa di The Remarkables, infatti nella frazione successiva i corridori hanno scalato Bluff Hill, un vero e proprio trampolino nebbioso verso il Mar di Tasmania, dove nel 2020 ha vinto l’allora campione del mondo di corsa a punti, e oggi professionista con la Israel Premier-Tech, Corbin Strong. Ad imporsi in cima a Bluff Hill è stata una certezza del ciclismo locale neozelandese, ovvero l’inglese Dan Gardner, che da due anni a questa parte vive in terra māori. Il britannico della PRV - Pista Corsa ha preceduto sul traguardo il gruppo inseguitore guidato da Craig Oliver e Hayden Strong - fratello maggiore di Corbin -, ottenendo la testa della classifica a generale con 35” di vantaggio su Arthur Meyer, 43” su Joseph Cooper, 51” sullo stesso Oliver e 56” su Boris Clark.
Nella sesta tappa, i principali avversari di Gardner hanno fatto temere il peggio alla maglia arancio, che tuttavia, dopo una frazione di attacchi e contrattacchi corsa a 47 chilometri orari di media, è riuscito a chiudere con il gruppo dei big, a 20” dal vincitore di giornata Kane Richardson. L’ultima giornata di gare, proprio come la prima, presentava due appuntamenti decisivi per chiudere i giochi della classifica generale: una cronometro individuale di 13 chilometri al mattino e un’ultima tappa pianeggiante verso Invercargill nel pomeriggio. Nella prima semitappa, le lancette del cronometro hanno sorriso al biker Ben Oliver, il quale per qualche centesimo ha ottenuto la vittoria sull’esperto Joseph Oliver, che però è balzato in seconda piazza in classifica generale a soli 15” da Gardner. Nell’ultima semitappa, tuttavia, la squadra della maglia arancione, composta da soli giovani di Auckland e Cambridge oltre all’esperto britannico, è riuscita a tenere chiusa la corsa fino alla volata conclusiva, vinta da Kergozou su Josh Rivett e sull’argento mondiale dello scratch Kazushige Kuboki, regalando così la classifica generale al suo capitano. Assieme a Gardner sono saliti sul podio finale Joseph Cooper (Central Benchmakers - Willbike) e Boris Clarke (Quality Food Services Southland).
“Fino all’ultima pedalata non credevamo che sarebbe potuto succedere. Sono molto felice e fiero e grato verso i miei compagni, lo staff, tutta la mia famiglia e i miei amici. Qualche anno fa lavoravo in un negozio di biciclette quando Tim, il proprietario di PRV (lo sponsor della squadra di Gardner, ndr), mi ha proposto di fare da chioccia a questi giovani ragazzi e alla fine si è tutto capovolto e loro hanno aiutato me”. Ha commentato il neo campione del Tour of Southland, che tra poco si ricongiungerà con la sua fidanzata, l’ex ciclista Kate Wightman, nel cammino del Te Araroa Trail per raccogliere fondi per la ricerca contro il cancro uterino. Il Te Araroa Trail è un percorso escursionistico di 3000 chilometri che taglia in due la Nuova Zelanda, dal punto più settentrionale dell’Isola del Nord - Capo Reinga - al punto più meridionale del Paese, ovvero Bluff Hill, dove Dan Gardner ha appena conquistato il successo più importante della sua carriera e presto farà ritorno assieme alla sua dolce metà.
A cura di Tommaso Fontana.
Race Against Cancer: fino in vetta al monte Grappa
L'hanno chiamata RAC, è sostenuta da LILT, significa Race Against Cancer e nasce da quel che un essere umano e una bicicletta possono fare: partire. Partono gli amici, assieme, partono così, da Massa, ad inizio ottobre, Andrea Pepe, Marco Della Maggiora e Massimiliano Frascati diretti verso le pendici del Monte Grappa, verso il sacrario dei caduti, per sensibilizzare alla lotta contro i tumori e promuovere uno stile di vita sano. Si tratta della terza edizione dell'evento ed il vissuto dei due precedenti resta nel racconto: «Potrei parlarti del mio babbo, della mia esperienza personale- narra Andrea- in realtà ognuno di noi potrebbe aggiungere qualcosa perché purtroppo tutti o quasi abbiamo conosciuto almeno un pezzetto di quel dolore, di quella sofferenza. In questi giorni in bicicletta ne abbiamo avuto la conferma».
Quel giorno nei dintorni di Modena, ad esempio, quando, da una strada sbagliata, è nato un incontro con un gruppo di vecchietti: qualcuno raccontava di aver corso con Moser, altri, appena conosciuto il progetto, si sono prodigati in indicazioni stradali per arrivare più velocemente ed in sicurezza da un luogo all'altro, da una città all'altra, magari anche ammirando un paesaggio mai visto prima. Oppure quando una signora, a Bassano del Grappa, vedendoli pedalare e, poi, sentendo raccontare, si è commossa, proprio a colazione, iniziando a sua volta a parlare, a spiegare. Marco prende la parola: «L'idea è quella di portare un momento di leggerezza anche alle famiglie delle persone malate, perché la loro vita cambia ed è difficile, molto difficile. Talvolta basta una boccata d'aria, un giro dell'isolato, qualche parola nuova, per riprendere fiato ed essere pronti ad affrontare una nuova giornata. Noi cercavamo sempre di avere un sorriso per chi incontravamo e quel sorriso ci tornava sempre indietro». Ognuno con le proprie caratteristiche, di regione in regione, di paese in paese.
Il Monte Grappa non è una destinazione casuale: si pensa ai caduti della guerra mondiale, si pensa alla parola "combattere". «L'unica via contro queste malattie è la scienza, la medicina, gli ospedali ed i medici. Spesso la sanità è sacrificata, anche su questo è necessario accendere un riflettore. Noi proviamo a farlo tramite lo sport». Andrea è anche il fotografo di questo viaggio e l'istantanea fotografica del progetto ce la fornisce proprio lui, mentre ci dice che gli piacerebbe che questa avventura fosse ricordata come quei tramonti in cui, assieme agli amici, chiacchierando, si percorre un lungo viale, magari con una birretta in mano ed i colori tenui della sera: «Quei momenti in cui ti dici: “Vorrei essere anche io lì. Semplicemente stare in gruppo, in compagnia, senza frizioni, con piacere». Sì, perché serve talento anche per stare in gruppo, per tenere le ruote: «Non è una gara, non c'è il primo e non c'è l'ultimo, noi aspettiamo tutti, andiamo assieme. Certo, ognuno ha messo la propria fatica, per innescare la pedalata, per scalare una salita o disegnare una curva in discesa, ma accanto ci siamo tutti, ci sono tutte le persone che ci vogliono bene, gli amici. Nella malattia dovrebbe succedere lo stesso». Ogni giorno qualcuno gli dice: "Bravi, bisogna parlarne, continuate così, fatelo anche per noi". La soddisfazione di fare qualcosa di utile, qualcosa che può aiutare, in questo caso va di pari passo con una riflessione importante che Marco e Andrea condividono: «A volte sembra ci sia una sorta di timore nel fare il primo passo, nel parlare di queste cose. Certamente è comprensibile, ed ascoltare è già un passo fondamentale per non sentirsi soli, allo stesso tempo però è necessario farlo, perché la strada è iniziata ma è lunga».
Sì, lunga come la salita al Monte Grappa, al sacrario, con tutte le volte in cui alla mente si potrebbe affacciare l'idea di lasciare perdere, perché, in fondo, è così che talvolta si reagisce di fronte alle difficoltà: «La nostra, in fondo, era solo una salita in bicicletta ma a mollare, a tornare, prima di essere arrivati lassù, non ci abbiamo mai pensato. Vorremmo spronare chi sta soffrendo per una malattia a non farlo mai. Intorno avrà sempre il suo gruppo, a sostenerlo». E si torna un poco indietro nel tempo, attraverso la lentezza della bicicletta, nel muoversi, nell'attraversare il paese, «come facevano i nostri nonni, senza tutta la velocità in cui siamo immersi, che ingloba anche i sogni di ciascuno di noi»: fino al silenzio da cui si resta avvolti al sacrario, soli con i propri pensieri. Tra le foto di Andrea Pepe, una mostra una mucca, tranquilla, in un paesaggio montano. e Andrea, tra tutto quello che ha visto, questo non riesce proprio a toglierselo dalla testa: «Un apparente contrasto con quello che viviamo noi come esseri umani, un elemento di relax a cui provare a guardare in certi istanti». Così Marco Della Maggiora, Andrea Pepe e Massimiliano Frascati, tornati a casa, sono ancor più sicuri che questo progetto vada preservato, rinnovato, anche nei momenti in cui sarà più complesso. Allora bisognerà aspettare quella voce che grida «non mollare», anche quando non si vede la fine: «Non mollare, insisti, è l'unica possibilità che hai».
Foto: Andrea Pepe
Questionario cicloproustiano di Federica Venturelli
Il tratto principale del tuo carattere?
La determinazione
Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
La simpatia
Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
La sincerità
Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
La lealtà
Il tuo peggior difetto?
La pignoleria
Il tuo hobby o passatempo preferito?
La lettura
Cosa sogni per la tua felicità?
Vincere un Campionato del Mondo élite
Quale sarebbe, per te, la più grande disgrazia?
Dover abbandonare il ciclismo a causa di un infortunio
Cosa vorresti essere?
Ciò che sono, sono soddisfatta di quello che ho
In che paese/nazione vorresti vivere?
In Italia
Il tuo colore preferito?
Verde
Il tuo animale preferito?
Il pinguino
Il tuo scrittore preferito?
Non saprei scegliere tra Gianrico Carofiglio, Dan Brown e Giacomo Leopardi
Il tuo film preferito?
Nickname: enigmista
Il tuo musicista o gruppo preferito?
Pinguini Tattici Nucleari
Il tuo corridore preferito?
Mathieu van der Poel
Un eroe nella tua vita reale?
Giovanni Falcone
Una tua eroina nella vita reale?
Mary Wollstonecraft
Il tuo nome preferito?
Ilaria
Cosa detesti?
La vanità
Un personaggio della storia che odi più di tutti?
Bruto
L’impresa storica che ammiri di più?
La circumnavigazione del globo
L’impresa ciclistica che ricordi di più?
Vittoria di van der Poel all'Amstel Gold Race 2019
Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
Parigi-Roubaix
Un dono che vorresti avere?
Essere brava a cantare
Come ti senti attualmente?
Stressata
Lascia scritto il tuo motto della vita
“Se tu segui tua stella, non puoi fallire a glorioso porto” (Dante, canto XV Inferno)
Nairoman - Il ritorno
22 anni compiuti da meno di un mese: poco più che teenager. Preparato mentalmente sin dalla vigilia a quel finale di gara: «Sapevo di dover dare tutto in discesa». Uno scalatore così convinto dei propri mezzi, da sembrare spavaldo, temerario. Generoso. Convinto di ciò che c’è da sapere per emergere, corridore che da lì in poi avrebbe lasciato una traccia importante “quando la strada s’impenna”, verrebbe da dire. Vinse la tappa con arrivo sulla Sierra de Espuña, Vuelta a Murcia: era il suo primo successo da professionista. Staccò Tiernan-Locke (lo ricordate?) in salita, si difese in discesa, precedette sul traguardo Wouter Poels di una manciata di secondi, vinse poi anche la classifica finale della breve corsa a tappe spagnola. Da lì in poi avrebbe ottenuto tanti successi, non troppo diversi tra loro: il filo conduttore sarebbe stata la salita come mezzo per arrivare anche alle classifiche generali; salita, ma non per forza altissima montagna - chiuse proprio quel 2012 vincendo al Giro dell’Emilia, un traguardo durissimo per pendenze ma non di certo altitudine in stile Everest, dimostrando al mondo come uno scalatore colombiano avrebbe potuto fare altro, non solo vincere lì, dove osano le aquile.
Proseguì facendo incetta di traguardi di un certo peso: prima del Giro dell'Emilia, siamo sempre nel 2012, si sbloccò nel circuito World Tour: tappa al Delfinato. Uno stile che ancora doveva affinarsi, rapporto duro come piace ai puristi, seduto a macinare dopo essersi alzato per un attimo sulla sella, leggermente barcollante di spalle e con le ginocchia larghe, quel giovane colombiano iniziò a fare breccia nel cuore dei tifosi e in quello dei suoi dirigenti. La maglia della Movistar, così diversa da un punto di vista cromatico da quella che vediamo oggi, portata quasi svolazzante sulla schiena magra, di quella magrezza non malata, leggermente tisico, sì, ma come chi ancora doveva formarsi del tutto fisicamente. Unzue, storico team manager della squadra spagnola, dopo quel successo, ai microfoni non nascondeva come l’obiettivo dell’imperscrutabile giovane scalatore fosse già la Vuelta, nonostante la poca esperienza maturata tra i professionisti. Andò bene, non in maniera eccezionale in realtà, alla fine si tenne a galla per Valverde, alla fine chiuse 36° in classifica generale facendo 6° nella tappa di Cuitu Negro, manifesto al ciclogaragismo spagnolo. Una rampa con punte al 24% ottenuta asfaltando una vecchia pista da sci. Doveva essere una sfida Contador contro Purito Rodriguez, ma Valverde riuscì a tenere duro perdendo pochissimo dai due grandi favoriti di quella Vuelta, grazie soprattutto all’aiuto «di un giovane e promettente colombiano che gli pedalò di fianco per quasi tutta la giornata».
Nel 2013 la prima promessa fatta al Tour de France venne mantenuta e si racconta come quella prestazione «fece addolcire il tono di voce di Eusebio Unzue»; la promessa venne mantenuta salendo verso Annecy: vittoria di tappa al Tour de France e su di lui Unzue si sbilanciò: «La cosa che mi colpisce di più di questo corridore è la capacità di leggere la corsa. In questo mi ricorda Indurain. Ha carattere anche se a vederlo potrebbe non sembrare. Non teme nemmeno i belgi di due metri che gli corrono di fianco. Una volta ha tirato una borraccia in testa a uno perché questo rischiò di prenderlo in pieno, c’è anche un episodio in cui è andato a parlare a quattrocchi fino al pullman con un altro corridore». In quel Tour, oltre alla tappa vinta sull’inedito arrivo di Semnoz, Quintana vestirà la maglia bianca e quella a pois, salendo sul podio finale dietro a Chris Froome, al suo primo dei quattro Tour vinti, davanti a Purito Rodriguez e Contador. A soli 23 anni. Si sciolse, lui che a dispetto del suo sguardo impenetrabile è sempre stato definito uno dei più scherzosi in squadra. Pianse a fine tappa dedicando la vittoria all’ultimo colombiano a pois prima di lui: Mauricio Soler. « Ho al collo una medaglia che mi ha regalato come portafortuna», le sue parole.
Vinse il Giro d’Italia nel 2014, la Vuelta nel 2016, salì ancora sul podio al Tour de France, vestendo anche la maglia bianca di miglior giovane che appariva, addosso a quel colombiano con la faccia da vecchio, quasi un ossimoro ciclistico. Podi, tappe, maglie bianche oppure a pois, ma spesso sacrificato dalla sua squadra, la Movistar, in nome di quel Totem che portava il nome di Alejandro Valverde. Ogni qualvolta si muoveva divideva, e per anni la sua carriera è stata tutta un’etichetta. Se per Unzue era “come Indurain”, per Greg Lemond era “il nuovo Merckx”; “un incompiuto” da una parte i detrattori, i traditi, quelli che pensavano che Nairo Quintana potesse diventare il primo colombiano a vincere il Tour de France, dopo essere stato il primo a vincere il Giro, il secondo a vincere la Vuelta. Come se poi arrivarci così vicino fosse un’onta.
Il peso delle etichette difficilmente hanno scalfito il corridore. Nomignoli come “la sfinge” non gli sono mai dispiaciuti, come il tentativo di vedere in lui un supereroe costruito e poi destrutturato come in una sceneggiatura di Alan Moore: “Nairoman” lo chiamano ancora anche in Colombia dove resta un’autentica superstar.
“Il più forte colombiano della storia”: tifosi, ma non solo, tutto sommato numeri alla mano non ci siamo andati troppo lontano. Passato professionista nel 2012, due anni dopo aver portato la Colombia, a distanza di 25 anni dall’ultimo successo, al primo posto del Tour de l’Avenir, fino al 2022 ha vinto 51 volte: che dite? mica male per uno scalatore? Certo, ma bisognerebbe forse sottolinearlo di più. Lui che semplice scalatore non è mai stato. Vincere un grande giro è roba per corridori completi: lui nelle corse a tappe ha sempre dimostrato di essere attento anche quando davanti si battagliava tra i ventagli o si attaccava in discesa. Al suo apice è stato capace anche di difendersi a cronometro. Fino al 2022, dicevamo, perché poi all’improvviso la sua storia ha una brusca frenata. Si torna nel campo della controversia quando al Tour del 2022 viene trovato positivo al tramadolo e quel suo sesto posto finale viene cancellato. Licenziato dalla squadra, ha subito un anno di stop forzato, un ban silente, si direbbe. Fra pochi mesi lo rivedremo in azione, di nuovo in maglia Movistar «principalmente per aiutare Mas nei Grandi Giri» afferma sempre Unzue. Lui intanto appare in forma, si è allenato come non mai, dice, e in un ciclismo sempre più fatto da giovinastri esplosivi, non dispiace rivedere di nuovo il suo nome al via, che giovinastro che marcava differenza in salita lo è stato e forse lo vuole essere ancora. Anche a voi è mancato?
Foto in evidenza: ASO/PAuline Ballet
Ci andiamo in bici?
Da ragazzino, diciamo tra i sedici ed i diciotto anni, quando ancora viveva vicino a Taranto, in un paesino, Frank Lotta voleva il motorino: il Piaggio SI, quello su cui molti giovani giravano in quel periodo. Lo chiese a papà: «Mi disse di no, almeno per quel momento. In realtà, il motorino non me lo comprò mai, però avevo la bicicletta, la mia bicicletta per andare da paese a paese con gli amici. E come si faceva? Come si diceva per organizzarsi e partire? Spesso bastava un "ci andiamo in bici?". Li risento ancora oggi quei "ci andiamo in bici?" e sono importanti per me».
Di più, per Frank Lotta quella frase è determinante e l'entusiasmo con cui ce la analizza, ce la racconta, quasi come fosse un prezioso testo letterario, è da ricordare: «Sì, è determinante. Ma ti immagini se ci dicessimo quelle poche parole ogni volta in cui andiamo al lavoro, ad incontrare un amico, magari a mangiare un panino ed a bere una birra? Se quella fosse la proposta o l'invito di ogni giornata, il proposito dietro le cose più semplici? La realtà è che non potrò mai spiegare in maniera esauriente quella frase perché è già così ricca, così piena, che l'essenza è lì e solo lì. Ogni parola che aggiungiamo, toglie». Silenzio.
"Ci andiamo in bici?" è divenuto così il titolo di un programma vodcast, in sei puntate, una ogni lunedì, a partire dal 9 ottobre, su Mediaset Infinity, in cui, in sella alla propria bicicletta, Frank Lotta si reca dai propri ospiti, mettendosi in dialogo ed in ascolto ed interrogandosi sulle possibilità di uno sviluppo sostenibile che non penalizzi le future generazioni, magari attraverso una filosofia di vita più rispettosa dell'ambiente. E Frank scherza: «Perdonami, ma qui ci sta bene la sincerità più schietta. Dovevo andare a Torino, a Bologna, a Roma, ma non sono un ciclista professionista. La mia regola in bicicletta sono le pause in cui guardo, osservo, fotografo, faccio un video del luogo in cui mi trovo. Quanto tempo ci avrei messo? Chissà. Allora ho scelto di coniugare la bicicletta con un mezzo elettrico, un'auto elettrica. Cosa ho scoperto? Che tracciare un itinerario e poi percorrere cinquanta, settanta chilometri, attorno allo stesso centro è una scoperta continua. Forse non dovrei dirlo, forse è banale, invece lo ripeto. Su quella bicicletta ho scoperto cose che nemmeno immaginavo». Una delle prime scoperte ha a che vedere con la gioia.
«Stai solo pedalando, eppure è come se ti fossi messo parrucca e naso rosso da clown e girassi per le strade in cerca della felicità. Stai solo pedalando ma chi pedala come te ha voglia di starti accanto per un tratto di viaggio, chi ti vede ti guarda, si avvicina, ti chiede se è tutto a posto. In Australia, qualche anno fa, ho capito che in sella non sei mai solo: nemmeno se ti trovi in mezzo alla strada con la bici rotta. Qualcuno arriverà, ti chiederà, ti aiuterà. Si può diventare felici in sella, è un lasciapassare per la gioia». Allora si va in bici, certo, ma da chi si può andare per capire, scoprire, imparare? La guida deve essere la curiosità e l'ispirazione la cultura: se si è curiosi si ha il desiderio di ascoltare e di imparare, chi sa, invece, può spiegare. Dopodiché il segreto è ascoltare, riflettere. Ascoltare Paolo Cognetti che racconta le montagne, Mariasole Bianco che parla della conservazione dei mari, Mia Canestrini che narra la biodiversità animale, Luca Parmitano che porta alla scoperta dell'esplorazione spaziale, Luca Mercalli che indaga il cambiamento climatico e Nicola Armaroli che si occupa di transizione energetica.
Frank Lotta era con ognuno di loro e per descrivere quel che è stato questo viaggio adotta un paragone che resta impresso: «Immagina Marco Pantani che scala il Mortirolo come sapeva farlo lui, immaginati quella sensazione. Luca Mercalli trasmette la stessa cosa, seppur in un altro ambito». Le domande scavano, provano a svelare realtà complesse, molto complesse, e Lotta deve fare i conti con una realtà ineluttabile: ciascuna di quelle frasi affermative e certe, almeno per chi le pronuncia, che sentiamo tutti i giorni, del tipo in realtà il cambiamento climatico non esiste, per essere smentita richiede minuti e minuti, argomentazioni e argomentazioni. «Anche se sono false, anche se non hanno motivo di esistere, quel tempo serve ed è giusto prenderselo. "Il cambiamento climatico non esiste, le auto elettriche non aiuteranno la transizione": parlo di queste parole che gli esperti sviscerano, vanno indietro nel tempo e, di analisi in analisi, portano prove, motivazioni».
Anche perché, e Frank Lotta lo spiega bene, in molti casi loro hanno visto con i loro occhi quel che spiegano: sono fatti, non supposizioni. «Luca Parmitano me lo ha detto: “Ma io ho visto dalle stazioni orbitali i deserti che aumentano, ci sono le foto. Come si può dire che non è vero di fronte a questo?"». Se lo chiede Parmitano e se lo chiede anche Frank Lotta mentre ne parliamo: certo è necessario un cambiamento planetario per provare a cambiare davvero qualcosa, ma le piccole abitudini, i comportamenti che ognuno di noi adotta, possono già essere importanti.
Luca Mercalli lo ha spiegato così: «Prendiamo l'esempio di un corpo ammalato, non importa tanto la malattia ai nostri fini, importa il fatto che il nostro corpo sta male, che noi stiamo male. In questi casi, si fanno degli esami clinici e, una volta individuato il problema, ci si cura per risolverlo. Il pianeta sta male, è nella stessa condizione. Il problema non è irrisolvibile, però bisogna muoversi per risolverlo. Bene, chissà perché, di fronte a questo malessere, invece di scegliere di curarci, scegliamo di ignorarlo».
Probabilmente perché, come esseri umani, facciamo fatica a percepire la pericolosità nel momento in cui non si presenta a livello personale, quindi, è verosimile, che si arrivi a comprendere il pericolo solo quando sarà irreversibile e questo è assurdo, anche perché, come aggiunge Luca Parmitano, «non è solo a rischio l'esistenza di un pianeta, è a rischio la nostra esistenza, come esseri umani. Che lo vogliamo o no, la situazione ci tocca direttamente». Tra l'altro, come precisa Paolo Cognetti, non è nemmeno detto che qualcosa si faccia nel momento dell'irreversibilità della situazione, perché l'essere umano è estremamente adattabile ed il rischio è che riesca a ritagliarsi una sfera protetta anche in un ambiente ingestibile. Una prospettiva apocalittica, da considerare, tuttavia.
Frank Lotta trova nei giovani un seme per sperare nel cambiamento, non in tutti, magari, non sempre, ma senza dubbio lì c'è una possibilità: «Io mi sono commosso quando ho incontrato per la prima volta i ragazzi dei Fridays For Future perché guardavano oltre le loro giornate, la loro quotidianità, avvertivano la preoccupazione per qualcosa di più grande e se ne occupavano. Se penso ai miei quattordici anni, non avrei avuto questa forza, questa volontà». Si parla di elettrico, che, attualmente, è una possibilità per ridurre le emissioni di CO2, un domani chissà, magari ci sarà altro, e si torna a parlare di quella bicicletta «di raggi, ruote, catene, pezzi di ferro, che non possiamo non usare, che per me è stata una vera e propria folgorazione, quando ho iniziato ad avvertire un senso di colpa profondo per l'ambiente. Allora sono arrivati i viaggi, perché è questo il bello: non solo si risparmia qualche quattrino, non solo si può andare più veloci o più lenti, ma si può essere felici, come me quando passo da Piazza Duomo, a Milano, in sella, quando sto nel silenzio con lei o quando arrivo dove non potrei arrivare con nessun altro mezzo. La bicicletta mi ha fregato, me ne sono innamorato». Allora sì, andiamoci in bici.
Il questionario cicloproustiano di Daniel Skerl
Qual è Il tratto principale del tuo carattere?
Vivacità e loquacità.
Quale è la qualità che apprezzi in un uomo?
Simpaticità, estroversione e onestà.
Quale è la qualità che apprezzi in una donna?
Se ci piacciamo reciprocamente.
Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
Il tempo che passano insieme a me.
Il tuo peggior difetto?
La pigrizia.
Il tuo hobby o passatempo preferito?
Il motorsport.
Cosa sogni per la tua felicità?
Una famiglia felice.
Quale sarebbe, per te, la più grande disgrazia?
Se mi nasce un figlio disabile.
Cosa vorresti essere?
Un figlio che ha reso i propri genitori orgogliosi e un padre ammirato dai propri figli.
In che paese/nazione vorresti vivere?
Opicina.
Il tuo colore preferito?
Rosso.
Il tuo animale preferito?
Il gatto.
Il tuo film preferito?
Cars (il primo).
Il tuo corridore preferito?
Nairo Quintana.
Un eroe nella tua vita reale?
Mio papà.
Una tua eroina nella vita reale?
Mia mamma.
Il tuo nome preferito?
Daniel.
Cosa detesti?
Se non posso fare ciò che vorrei e/o mi piacerebbe.
Un personaggio della storia che odi più di tutti?
Josef Mengele.
L’impresa storica che ammiri di più?
L’invenzione del motore a scoppio.
L’impresa ciclistica che ricordi di più?
Froome Giro 2018.
Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
Milano - Sanremo.
Un dono che vorresti avere?
Non lo so.
Come ti senti attualmente?
Parzialmente realizzato.
Lascia scritto il tuo motto della vita.
In life you make decisions and you don’t look back.
Matilde Vitillo: crescendo e cercando
Matilde Vitillo sta raccontando della sorella più piccola, dieci anni in meno, che già ora si cimenta con il ciclismo. La frase è veloce e quasi scivola via nella conversazione, però è importante, così la memorizziamo e torniamo a rifletterci pochi istanti dopo: «A quell'età, il ciclismo serve soprattutto per imparare a perdere». Già, ma cosa significa imparare a perdere e soprattutto perché è tanto importante.
«Significa che nella vita, nonostante le molte similitudini, le cose sono più complesse che in una gara di ciclismo, soprattutto la vita non è una di quelle gare in cui si vince: la coppa, i fiori, il podio, gli applausi, non sono all'ordine del giorno. Anzi, spesso non ci sono proprio. Di vincere non capita molte volte, ma fare i conti con la vittoria, fuori dalla metafora, con quel che ci riesce semplice, con quello in cui riusciamo bene, è molto più facile. Quando le cose vanno bene, del resto, è sempre facile. Il punto è che, soprattutto nella società di oggi, si ha un disperato bisogno di sapere perdere, di riconoscere il valore della sconfitta e degli sconfitti. Credo che si debba imparare da bambini, perché da adulti non si impara più. E crescere convinti che conti solo vincere, impreparati ai fallimenti, alle delusioni, è un grosso problema. Non si impara, si molla, si lascia perdere appena si soffre, si resta scottati. Le prime gare in bicicletta, quelle in cui si perde sempre, te lo fanno capire molto bene». Vitillo accompagna tante volte la sorella alle gare e vede i genitori dei bambini riversare molte pressioni sulla loro prova, sul risultato, su quel che fanno o non fanno: si chiede il perché, si ricorda che lei queste pressioni non le ha mai avute e alla sorella, che, per carattere, tende a preoccuparsi, cerca di spiegarlo.
Per lei, poi, perdere, da bambina, era una cosa naturale, la definisce proprio così: si allenava solo quando poteva, talvolta andava alle gare senza prepararsi, non si aspettava molto, non si aspettava quasi nulla e tutto quello che arrivava era un di più. A fine gara, dice, era sempre contenta. La sconfitta vera, quella che fa stare male, che non fa dormire, l'ha conosciuta qualche anno dopo, da juniores secondo anno, in una cronometro. Era andata anche in ricognizione sul percorso perché teneva particolarmente a fare bene e tutto sembrava perfetto: «In curva, ho provato a superare una ragazza. Sono scivolata e finita malamente a terra, in un'aiuola, dall'altra parte della strada: a pezzi, sia per le ferite che per il morale. Mi è dispiaciuto, certo, ma, alla fine, cosa fare? Salvare il buono, senza lamentarsi troppo. Ora non farei più quel sorpasso. Ho imparato». Ripensandoci ride e il suo sembra ottimismo, in realtà, di lì a poco, ci confesserà di essere di indole pessimista, di pensare molto a quello che potrebbe non andare, di non avere quasi mai, prima di una corsa, la sensazione di poter vincere facilmente, di avere la gamba. Forse fa parte dell'introversione, sicuramente l'aiuta perché ancora oggi, come da bambina, a fine gara riesce a essere soddisfatta, qualunque cosa sia successa. A focalizzarsi sulla parte positiva e guardare oltre.
Classe 2001, di Frinco, Asti, al ciclismo non pensava proprio. Con i fratelli ha sempre fatto sport e spesso, quasi sempre, tutti e tre facevano lo stesso sport, che fosse il tennis, lo sci ed anche la danza classica. Solo una volta, Matilde Vitillo non ne voleva proprio sapere dello sport intrapreso dal fratello: la volta in cui, quello sport, era il ciclismo. «No, non lo praticherò mai. Io continuo a fare danza classica». Sì, disse proprio così, convinta. Servì poco meno di un anno per provare e decidere che la sua strada era questa: «Due parole: odi et amo. Non ci avrei mai pensato, non volevo nemmeno iniziare e ora fatico a pensarmi se non ciclista». Gioco di contrasti, come la prima volta in pista, stranamente con una bici con i freni, che rende tutto ancora più pericoloso: una brutta caduta, tirando i freni mentre si trova fra due biciclette, per paura. Catapultata in avanti, ammaccata e intimorita.
«Ricordo come ora il momento in cui il Commissario Tecnico della Regione mi accompagnò negli spogliatoi e mi aiutò a togliere la polvere dalle ferite. Mi segnarono quegli istanti, fu molto difficile e, fosse stato per me, non sarei più tornata in pista. Quel C.T. mi fece capire che dovevo riprovare: non potevo fuggire, scappare. Riprovai». La pista le ha insegnato la tattica, l'essere pronta, attenta, a gestire lo stress. Le piace, in particolare la corsa a punti, i risultati arrivano, ma lei non si sente una pistard, non è quella la sua vocazione. Si sente una passista-scalatrice: ama la fuga, ma sulle montagne deve tornare, per migliorare. Da giovane era già brava, è solo questione di recuperare quelle sensazioni. In pista invece vuole lavorare sulla resistenza.
Se non avesse fatto la ciclista, forse avrebbe studiato architettura o qualcosa di simile. Ci ha pensato anche quando si è trattato di iscriversi all'università, ma è un percorso difficile da portare avanti correndo in bicicletta. «Ed io so correre in bicicletta, non so cosa altro potrei fare»: un appunto messo lì, significativo, genuino. Nel periodo della scuola, pensava più alle gare in bici che allo studio e oggi si chiede se fosse giusto: sicuramente ha vissuto meglio lo studio grazie al ciclismo, a quei momenti di sfogo, di libertà. Che potesse diventare un lavoro l'ha capito grazie ad una convocazione in nazionale, da junior: «Erano dei test, nemmeno una gara. Ed io, pessimista come al solito, ero certa che avrei deluso le aspettative. Però, vedi, anche in quell'occasione mi sforzavo di trovare qualcosa di positivo: "Male che vada, avrai comunque un body della nazionale a casa". Mi salvavo così». Evidentemente non andò male.
L'anno scorso è stato da ricordare. Matilde Vitillo è emersa come una rivelazione, vari risultati importanti, soprattutto una vittoria, a la Vuelta a Burgos. I pensieri che volano, su come confermarsi, sul fatto che il 2023 sarebbe stato l'anno della consacrazione, di un passaggio importante. Purtroppo il 2023, per una serie di circostanze e vari problemi fisici, l'ha delusa: si aspettava di più.
In Be-Pink c'è Walter Zini, colui che le ha insegnato praticamente tutto del ciclismo, con una visione di gara perfetta, anche dall'ammiraglia: «Walter è molto duro, rigido, ma non sbaglia un colpo. Quando ti dice di attaccare, puoi farlo ad occhi chiusi, perché è il momento giusto. Sigrid Corneo ha, invece, sempre rappresentato la parte di comprensione: "Basta l'impegno, poi quel che succede succede". Non so quale approccio preferisca, so che mi sono serviti entrambi per essere quella che sono oggi. Non è stato facile, ma ho deciso di cambiare squadra, di proseguire il percorso». Percorso è una parola chiave per Vitillo, che non parla di gare sognate o di traguardi, ma riflette molto sul continuare a crescere ed in ogni valutazione guarda il percorso più del risultato. Anche ora che deve confrontarsi con la fiducia che il nuovo team le ha consegnato: una fiducia di cui è felice, una fiducia che ha anche paura di deludere, com'è normale che sia.
Non parla nemmeno di sacrifici, ma di stile di vita, quello dei ciclisti, in cui si riconosce. Parla invece di fatica, essenziale, e dei suoi fratelli che la seguono ovunque e, se non possono partire, sono davanti ad uno schermo: loro che sono stati corridori e capiscono meglio di chiunque altro quel che prova. Nel suo vocabolario c'è anche la parola provare: da quella richiesta del team del politecnico di Torino, per testare un prototipo di bicicletta reclinata, una bicicletta su cui si corre da sdraiati: con una corona da 108 denti e un pacco pignoni da dodici velocità. «Non vedi fuori, se non attraverso degli schermi posti all'interno. Vieni lanciata ai dieci, quindici chilometri orari, poi inizi a pedalare, puoi raggiungere velocità altissime, fino ai 120 all'ora. Posso assicurare che è bellissimo: l'ho provato grazie al team policumbent, in Nevada, a "World Human Powered Speed Challenge". Ne sono grata». Un altro pezzo di percorso, per crescere.
Non ha mai avuto idoli o modelli nel ciclismo: spiega che è una domanda a cui non ha mai risposto. «Mai, tranne oggi. Perché quello che ha fatto Lotte Kopecky nell'ultimo anno mi ha toccato molto. Mi sono sentita e mi sento ispirata da lei: non solo per la ciclista che è, ma per la persona che ha dimostrato di essere. Per la sua semplicità e per come ha affrontato una perdita difficile, un grande dolore. Quindi, sì, da quest'anno ho un modello: è Lotte Kopecky». Sempre crescendo e cercando.
Milan Vader: quando tutto è possibile
Non doveva nemmeno esserci eppure c’era. Nessuno voleva andare, tranne lui. Chi conosce le dinamiche del gruppo poi, lo sa: per finire a correre in Cina a fine stagione o hai una voglia matta di farlo, o la squadra ti manda in punizione, oppure servono punti da fare per il ranking UCI e allora via si vola a sgomitare tra gli sprint del Gree Tour Guangxi, Cina. Ovviamente esageriamo: non è sempre così. Anche perché è un posto pazzesco la Cina, come quasi tutti i posti del mondo, in realtà, come tutti quei luoghi talmente lontani dal centro del ciclismo da definirli esotici per chi abitualmente corre, segue, gira intorno al mondo di quelle ruote che vanno a velocità sempre più assurde. Poi in realtà, se ci pensate, qualsiasi posto è bello quando c’è una gara di ciclismo, ma questo è un altro discorso.
Non doveva esserci eppure c'è stato, Milan Vader. Nel momento in cui avrebbero dovuto prendere una decisione in Jumbo Visma - “che si fa, si va in Cina oppure no?” lui si è fatto avanti con la sua idea. Pare avessero preso inizialmente la domanda con una boutade, ma Vader faceva sul serio. Pare avesse studiato per bene la tappa numero quattro, l’unica che avrebbe interrotto la routine del finale convulso, quello preso per mano dal treno dei velocisti e dai folli sprinter; era quel tipo di arrivo che avrebbe poi disegnato la classifica finale. L’unico. Lui l’ha controllato, visto e rivisto, si è studiato la salita su veloviewer e ha notato da subito come facesse al caso proprio. Milan Vader, che arriva dalle ruote grasse e quindi biker per vocazione, presente a Tokyo nella prova olimpica di Cross Country dove la nazionale arancione puntava tutto su van der Poel, ma ricordiamo come andò. Vader dal canto suo non sfigurò per nulla, anzi, chiudendo in top ten. Su strada? Uno con mezzi interessanti quando la salita è breve e secca, esplosivo: pienamente a suo agio in un arrivo come quello di Nongla.
Non doveva andarci Milan Vader, in Cina, ma se andiamo a scavare più in fondo ha rischiato di non esserci più su una bicicletta, andando a smuovere ancora più a fondo nella storia, sappiamo come l’8 aprile del 2022 rischiò di morire. Giro dei Paesi Baschi, tappa numero 5. Vader è professionista da pochi mesi, ha preso le misure correndo la Volta Valenciana, chiudendo 13° nella terza tappa con arrivo in salita ad Antenas del Maigmo a 1’18’’ dal vincitore Vlasov, precedendo Geoghegan Hart, Soler, Ben Hermans, Nibali. Quel risultato resterà il migliore in stagione. 50° alla Strade Bianche pochi giorni prima, corsa che, per via del suo profilo - biker ed crossista - è fra quelle che più gli si addicono. Qualche settimana dopo: Giro dei paesi Baschi. Quinta tappa, profilo mosso, basco per l’appunto, si affronta una discesa dopo circa una sessantina di chilometri. C’è una curva, passa il gruppo. C’è una bici ferma contro il guardrail. Poi immagini che non vorremmo vedere. Il corridore è per terra in un campo al di là della carreggiata, accasciato a terra, prono. Viene trasportato d’urgenza in ospedale a Bilbao dove rimarrà per diverso tempo. Frattura della colonna vertebrale in undici parti, e come contorno, se vogliamo, anche della clavicola, della scapola, un polmone perforato, frattura anche all’orbita oculare e allo zigomo. ma soprattutto a causa dell’incidente: “Ha dovuto anche subire un intervento chirurgico d'urgenza alla carotide per inserire uno stent, per aumentare il flusso di sangue al cervello”. Dodici giorni di coma farmacologico, una lunga riabilitazione, ma a fine stagione torna in sella, e, come scrisse cycling weekly: il suo fu un autentico “risveglio della forza”, giocando su quel cognome che ricorda il cattivo dei cattivi nella saga di Guerre Stellari. Perse peso: da 63 a 52 chilogrammi: «inizialmente - racconta il corridore - facevo fatica anche a stare in piedi per più di 30 secondi, facevo fatica a mangiare e a fare colazione». Poi la riabilitazione e quel miracoloso rientro in gara alla CRO Race, appena 6 mesi dopo l’incidente. Avvicinandosi a quella corsa non sentiva lo stress, fino al giorno prima quando la sera, sistemando le scarpe e pensando a quello che sarebbe stato il giorno successivo: «un misto di sensazioni mi stavano attanagliando». Riuscirò a correre in gruppo? Come sarà questa nuova prima volta? Furono alcune delle domande che gli balenavano in testa. Andò bene: Vingegaard, suo compagno di squadra, vinse la classifica generale, lui diede il giusto supporto. Un anno dopo o poco più, Milan Vader scatta quando al traguardo di Nongla manca poco più di un chilometro. Approfitta di un momento di pace apparente in gruppo, scatta e va a cogliere il primo successo in carriera. Mezz’ora dopo, raccontano i presenti, è ancora totalmente incredulo di quello che gli è successo. «Dopo tutto quello che ho vissuto l'anno scorso con l'incidente e tutta l'insicurezza che ne è derivata, non sapevo nemmeno se avrei potuto correre di nuovo o anche solo salire su una bicicletta». Ma come gli ha detto qualcuno in quegli interminabili giorni in cui da una parte voleva riprendere a correre, dall’altra continuava a sentirsi stanco e chiedeva pietà facendosi domande: “Finché sei motivato, il corpo è capace di fare un sacco di cose pazze. Finché sei motivato: tutto è possibile."
Il questionario cicloproustiano di Elena Bissolati
Il tratto principale del tuo carattere?
Testarda, determinata
Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
Simpatia, essere premuroso e socievole
Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
Personalità, semplicità
Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
Stima, rispetto e pazzia
Il tuo peggior difetto?
Impulsiva, a volte impaziente
Il tuo hobby o passatempo preferito?
Ascoltare musica, disegnare, uscire con amici, guardare film/serie tv
Cosa sogni per la tua felicità?
Di non aver rimpianti e di godermi ogni cosa che faccio con serenità
Quale sarebbe, per te, la più grande disgrazia?
Per scaramanzia meglio non pensarci
Cosa vorresti essere?
Un animale
In che paese/nazione vorresti vivere?
Sono tradizionalista, mi piace il paese in cui vivo
Il tuo colore preferito?
Verde
Il tuo animale preferito?
La pantera
Il tuo scrittore preferito?
Non ne ho uno preferito, mi piace leggere thriller/gialli, narrativa/suspense
Il tuo film preferito?
Ce ne sono tanti... The others, Miglio Verde, Genio ribelle, Sette anime ed i "fantasy" come Harry Potter, La bussola d'oro, I pirati dei caraibi...e, come serie tv, Stranger Things
Il tuo musicista o gruppo preferito?
Linkin Park
Il tuo corridore preferito?
Kristina Vogel
Un eroe nella tua vita reale?
Mio papà e mio fratello
Una tua eroina nella vita reale?
Mamma
Il tuo nome preferito?
Marco
Cosa detesti?
La falsità e l'incoerenza
Un personaggio della storia che odi più di tutti?
Hitler
L’impresa storica che ammiri di più?
Il diritto al voto delle donne
L’impresa ciclistica che ricordi di più?
Europei e mondiali in pista
Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
Da quella che devo ancora fare
Un dono che vorresti avere?
L'invisibilità
Come ti senti attualmente?
Serena
Lascia scritto il tuo motto della vita
Tutto arriva al momento giusto. Sii paziente
Trek Store, Massa
25 Ottobre 2023Newsletteralvento points
«Proviamo a pensare ad un panino, sì, ad una comune michetta di pane. Una di quelle lavorate di notte e sfornate la mattina presto, che arrivano tra le mani ancora calde. Bene, facciamo un passo indietro: al panettiere che sta preparando l'impasto mentre fuori è buio. Qualcuno seguirà scrupolosamente la ricetta: l'insieme di ingredienti sarà perfetto e certamente il panino piacerà al cliente che lo porterà a tavola. Qualcuno, invece, farà delle modifiche: non casuali, assolutamente. Per esempio considererà l'umidità dell'aria e saprà che anche quella influirà sul sapore del pane, così aggiungerà un pizzico in più di qualche ingrediente piuttosto che un pizzico in meno di un altro. Chissà se il signore o la signora che assaggeranno quella michetta lo capiranno. Forse sì, forse no. Non è nemmeno questo l'importante. Di certo, però, la seconda tipologia di panettiere avrà fatto una cosa fondamentale: avrà ascoltato. Non si ascolta quel che si fa per un riconoscimento esterno, per la voce degli altri, lo si fa per una forma di rispetto verso ciò a cui si lavora». La descrizione di Claudio Rossi, General Store Manager del Trek Store di Massa, è così dettagliata che, nel primo pomeriggio della città, quasi ricerchiamo il profumo del pane fresco, in realtà, fra le pareti del negozio, si respira l'odore degli ingranaggi delle biciclette, ma il discorso non cambia e la parola, il verbo all'infinito è sempre quello: ascoltare. «La bicicletta va ascoltata, non c'è nulla da fare. Anche da come si fa cadere il manubrio si può capire se ci sono dei problemi. Il suono della catena, quando gira, rivela moltissime cose. La linea guida deve essere la base, poi c'è quello che ti scorre fra le mani e lì anche un quarto, persino un decimo, di giro di vite fa la differenza».
Si tratta di una conoscenza antica, che affonda le proprie radici nella pratica di qualunque ciclista. Anche Claudio Rossi, infatti, ha corso in bicicletta e ricorda con una sensazione di malessere il momento in cui, talvolta, i meccanici gli riconsegnavano la bicicletta e lui continuava ad avvertire qualcosa che non andava. Forse, proprio per questo, quando ha smesso, ha voluto comprare una propria bicicletta e quella ha cercato di conoscerla nel modo più profondo possibile: smontandola, rimontandola, guardando e toccando ogni singola parte, esplorandola. Mettendoci le mani, insomma, e provando la soddisfazione di aver risolto da solo il problema del proprio mezzo che, ora, poteva tornare in strada. Così Rossi non riesce proprio a capire quei ciclisti che non conoscono la propria bicicletta, che non l'ascoltano. Sarà che lui sin da bambino era praticamente incantato dall'oggetto bicicletta: «Ricordo che le osservavo muoversi in città e restavo stupefatto dai riflessi del sole sulle parti cromate: quel loro luccicare, nel movimento, mi ha sempre affascinato. Tanto da portarmi lontano da Como, dalla mia città natale». Sì, era il 2010 e Claudio Rossi si era appena licenziato dal suo vecchio lavoro, immaginando un luogo in cui quella passione potesse diventare un mestiere. Quel luogo è in Toscana, vicino al mare: si tratta di Massa, la città in cui Rossi ha scelto di vivere.
«Lo dico spesso: venite a Massa, sedetevi su una panchina, magari proprio sul lungomare, e guardate cosa succede. Biciclette che vanno e biciclette che vengono. Si percepisce la gioia dell'andare in bici da queste parti. In questo senso, Massa assomiglia a Como. Se chi arrivasse qui dovesse inventarsi un lavoro, penso che lavorare con le biciclette potrebbe essere una buona soluzione, una bella idea». In quei giorni, per la prima volta, Rossi sentiva dire spesso da qualche ciclista: «Mi si è rotto un razzo». Non capiva di cosa si trattasse, poi glielo hanno spiegato. Il razzo, per un toscano, è il raggio della ruota: «Sinceramente, se ci penso, rido di gusto ancora oggi. Ma, allo stesso tempo, il razzo mi ricorda qualcosa che va veloce, che va lontano. La bicicletta può avere senza dubbio queste due caratteristiche: quindi vada per il razzo». Siamo, allora, nel 2010 e Rossi "crea", questo è il verbo scelto nella chiacchierata, il suo primo negozio di biciclette, con officina e servizio clienti. «Era un salto nel buio: chi avrebbe potuto dire come sarebbe andata? L'investimento era stato minimo: era uno spazio di quaranta metri quadrati, presto sono diventati centocinquanta metri quadrati ed ho inserito vari marchi di biciclette». Un agente Trek, qualche anno dopo, gli chiede se è interessato a rivendere biciclette Trek: lui accetta. Tutto diventa più grande, più importante, gli eventi si susseguono: nel 2016, quel negozio diventa il primo concept store Trek in Italia, successivamente sarà il primo negozio bandiera in Italia, con una sede ancora più grande, fino a divenire il primo negozio ufficiale di proprietà Trek, nel nostro paese. Non è solo uno scorrimento temporale, perché, in corrispondenza di ogni data, di ogni cambiamento, bisogna considerare il rapporto con i clienti, con chi torna in quei locali.
«All'inizio c'è stata una fase di assestamento, forse anche di diffidenza perché chi mi conosceva, chi mi aveva visto tirare sù la serranda di quella prima officina, ora mi vedeva in un nuovo ruolo, come dipendente, e faceva fatica a capire. Anche i rapporti, le relazioni di ogni tipologia, sono fatte di ascolto e di dimostrazioni, di spiegazioni. Qui si incontrano persone, con il loro vissuto, la loro storia, e avviene uno scambio umano. Io la definisco proprio esperienza umana. Col passare dei giorni, tutti hanno capito che il rapporto era rimasto lo stesso». L'ospitalità disegna i confini delle cose: una forma di ospitalità che, fino a non molti anni fa, non era nemmeno immaginabile in un luogo in cui, di fatto, si vende, si aggiusta o si ripara: «Le persone devono essere sempre a proprio agio, se è così, tornano. Magari anche senza acquistare: tornano perché stanno bene in quell'ambiente. Si sentono a casa, si trattasse anche solo di chiedere un consiglio. La parola giusta è empatia». Lo stabile si affaccia su viale Roma e viale della stazione, siamo nel centro di Massa, non lontano dal mare: la struttura è industriale, il parcheggio è all'interno. L'ingresso è costituito da un'ampia vetrata, coperta da sticker ed immagini di ciclismo, guardando verso l'alto, all'interno, si nota il soffitto con travi di acciaio sospese, a cui è collegata l'illuminazione. Ci sono ingressi diversi per la vendita e per l'officina.
«Sai che, ogni tanto, mi capita di passare dal vecchio negozio, il primo, quello che ha segnato l'inizio di questa avventura: ora è sfitto, non utilizzato. Quando hai passato molto tempo in un posto, ti spiace vederlo così, vorresti ancora il movimento, l'andirivieni di persone. Io, però, cerco di ricordarmelo ancora com'era, perché è da lì che tutto è partito». In Toscana si usa il termine biciclettaio per chi vende o aggiusta biciclette, Rossi racconta che, visto il livello a cui si è arrivati oggi, fa strano quel termine, molto originario, genuino, allo stesso tempo, però, è bello, è legato alle radici, è importante: «La bicicletta deve essere fatta per durare, credo sia necessario raccontarlo. Nel processo di vendita non viene mai menzionato il prezzo, nonostante colui che acquista cerchi di focalizzarsi subito su questo aspetto. Si prova, invece, a mostrare la qualità del prodotto più bello nella categoria desiderata. Si beve un caffè assieme e se ne parla. Ma non ci si ferma qui: si può provare la bicicletta, farci un giro. L'importante è che la persona che è di fronte a te capisca il valore della bici, non solo il prezzo. Si tratta anche di un fatto di cultura».
Il valore si traduce, nella quotidianità, nel prendersene cura e nel farlo con determinate attenzioni: entro ventiquattro ore dall'ingresso in officina la bicicletta deve essere sistemata e tornare nelle mani del ciclista. In generale, Claudio Rossi parla di un controllo del mezzo un paio di volte l'anno, in ogni dettaglio, in ogni ingranaggio, una sorta di revisione. In quest'ottica Trek ha una filosofia ben chiara: il cliente è l'eroe, colui che compie il viaggio, l'impresa, mentre chi lavora sulla bicicletta è la guida, qualcuno che si mette a disposizione per permettere all'avventura di prendere il là. I dubbi ci sono anche in chi lavora, in chi mette le mani fra le viti e l'olio, fra la catena, la sella, il manubrio e l'importante è che questi dubbi vengano espressi, che ci si confronti: «Serve una sensibilità particolare anche per lavorare su una bicicletta, per accorgersi di un rumore strano, di una rigidità, di una vite da stringere. La sensibilità, però, si può imparare, a patto di chiedere, di fare affidamento sull'esperienza e di scambiarsi queste esperienze. Con i miei collaboratori lavoriamo in questa direzione». La buona notizia è che sempre più persone vogliono muoversi in bicicletta, anche in bicicletta elettrica, in città e questo è indubbiamente qualcosa di grande che permette di guardare verso le città del Nord Europa, il modello a cui ispirarsi, il futuro per quanto concerne le biciclette.
Il dialogo procede fitto fino a che l'attenzione si posa su un quadro, inviato a Claudio Rossi dal presidente di Trek, John Burke. L'immagine raffigura un grosso capanno rosso, poco più sopra una dedica con un pennarello nero, ancora più sù, stampato, un altro testo, anche questo in rosso, evocativo: “Vedi qualcosa di più grande”. Rossi ci spiega che si tratta di un estratto dal libro "filosofia" di Trek. «Tu vedi un capanno rosso, giusto? Anche io ed in effetti il capanno rosso c'è ed è ben chiaro, evidente. Questa è la situazione in cui ci troviamo tutti quando iniziamo a realizzare un progetto a cui abbiamo tanto pensato, che abbiamo tanto immaginato. Muovendo i primi passi abbiamo la sensazione che ci sia poco o nulla. Un capanno rosso, forse neanche quello. Quel quadro è un invito a ricordare che, quando saremo in quella situazione, avremo l'obbligo di guardare oltre, di cercare qualcosa di più grande: quello che potremo realizzare, con impegno, con costanza, con sacrificio, con fatica. Il punto è che per muovere il primo passo è necessario vedere oltre il capanno rosso. Nonostante ci sia, ci sia sempre». Fuori, vicino al mare, anche adesso c'è il fruscio delle ruote di biciclette che partono e ritornano. Bisognerebbe fermarsi su una panchina e limitarsi ad ascoltare, ad ascoltarle. A Massa, in Viale Roma 5.