Quando piove al Giro
10 Maggio 2023Corse,Newsletter
Quando piove, il Giro d’Italia assume tratti diversi. Sono già diversi giorni che il tempo non è esattamente quello della scorsa edizione: non c’è caldo, il sole non picchia sulla corsa, nessun ciclista sta in pantaloncini e maglia corta. Durante la Atripalda-Salerno, però, il meteo è peggiorato. Una pioggia da Blade Runner si è abbattuta sul percorso di gara dal chilometro zero, anzi da ancora prima: Damiano Caruso si è accorto della «giornata umida» già in albergo, quando lo abbiamo incontrato lungo in corridoio.
Forse l’ibleo era ironico, forse sottostimava l’assurda quantità di pioggia che cade ogni anno in Irpinia: «Siamo a soli 200 metri d’altitudine, ma qui fa sempre così. Secondo me piove almeno 300 giorni l’anno» afferma Mary, che col compagno gestisce il bar Moon’s Face, davanti al quale i bus delle squadre hanno parcheggiato per preparare la partenza. Mentre mi riparo come posso, due britannici stanno vivendo temperature molto diverse, a giudicare dalle apparenze: Mark Cavendish è in maniche corte, quasi rilassato, mentre Tao Geoghegan Hart ha tirato su lo scaldacollo fin quasi ai capelli.
Con la pioggia sul Giro, si fa più timida la gente a bordo strada e diventa meno colorato il plotone dei ciclisti: le mantelline, per esigenze di fabbricazione, sono spesso tutte nere. Remco ne ha una con l’iride e poco altro. Nemmeno Cavendish ha la mantellina di campione britannico. Sul percorso, la gente sfida la pioggia sotto gli ombrelli, come Lukas Pöstlberger per andare al foglio firma. Le strade sono più scivolose, il freddo entra nelle ossa dei corridori e avrà effetti imperscrutabili nei prossimi giorni, si bagnano le scarpe di tutti i meccanici. Anche i ciclisti più esperti possono attraversare la linea del traguardo separati dalla loro stessa bici, com’è successo a un rotolante Cavendish. Eppure il Giro va avanti e oggi scriverà un’altra pagina del suo romanzo: magari non più intrisa di pioggia.
L'attimo
Probabilmente giornate come queste sono quelle in cui risulta più difficile concepire l'attimo, gli attimi. Sì, perché, con la pioggia battente già sui vetri della finestra dell'albergo, all'alba, le ore di corsa, quattro e mezza in totale, ma apparentemente infinite, sono solo un ammasso nebuloso, informe. Un peso da portarsi sulle spalle, lì dove continua a battere fitta l'acqua, un banco di nebbia da attraversare, cercando qualcosa dall'altra parte. Qualcosa che, spesso, in giorni come oggi, non si ritrova. Un mestiere duro quello del ciclista, forse, soprattutto in giorni così, in cui i rischi sono più delle opportunità, almeno apparentemente. Non è l'altimetria a complicare una giornata che potrebbe essere una delle tante, ma un cielo cattivo che rovescia acqua e un asfalto viscido su cui si pattina quasi. Eppure l'attimo esiste anche oggi, anzi, esistono anche oggi gli attimi.
Della fuga abbiamo parlato più volte, e pare ovvio ribadirlo, ma per Champion, Gandin e Zoccarato l'attimo è stato a inizio gara, quello che li ha separati dal gruppo e li ha illusi di trovare qualcosa al di là di quella nebbia. Non ne valeva la pena se doveva essere un'illusione, dirà qualcuno. Invece, si va avanti anche per illusioni, che, se non fosse per loro, giornate così non si inizierebbero neppure. L'attimo è quello di una borraccia che, abbandonata da un corridore, finisce a bordo strada, e in quell'attimo c'è qualcuno che è proprio lì, che può raccoglierla, portarla a casa. Un attimo solo, di tempo e spazio: un attimo prima o un attimo più in qua o più in là e non c'è borraccia, non può esserci, resta l'attesa e lo sguardo verso chi quella borraccia la stringe in mano.
Gli attimi sono quelli che precedono una caduta, una scivolata, l'ultima cosa che si vede prima di finire a terra, l'ultima cosa a cui si stava pensando prima di quel momento in cui la bicicletta va altrove e si resta "senza". Gli attimi sono quelli dopo una caduta: Remco Evenepoel a terra, seduto, senza muoversi, senza parole. Gli attimi in cui si cerca di capire cosa sia successo, si teme di sentire male a muoversi, di scoprire un dolore che immobile non si sente, di non riuscire a ripartire. Sono attimi senza fine, attimi che vengono riempiti dal nervosismo del dopo, che altro non è, se non paura passata. Due cadute in una giornata per Evenepoel, apparentemente senza grosse conseguenze fisiche, ma con quegli attimi farà comunque i conti Remco. Sono attimi che fanno sentire fragili, che tolgono la sicurezza anche all'uomo più forte del momento.
Attimi che dovrebbero far riflettere anche chi è a bordo strada, a vedere, perché dalle scelte di un attimo possono dipendere quelle cadute. E anche quando si è spettatori, anche quando si sta a guardare, forse soprattutto, l'attenzione è fondamentale: non è un gesto passivo guardare, è attivo. Quando si guarda, si fa, si è lì, presenti. Quando si è presenti, ovunque, serve cura.
Anche le gallerie conoscono i loro attimi: momenti in cui le spalle, gli occhi, le mani, il volto trovano pace dall'acqua e non sembra vero. Sono attimi in cui le gocce non scorrono sulla mantellina per poi piovere a terra. Si trova l'importanza delle cose in giornate come questa, la si inventa, si conferisce una nuova importanza a quel che si attraversa.
La volata è attimo per eccellenza. L'attimo in cui l'ultimo uomo lancia il proprio velocista, l'attimo in cui il velocista stesso parte e ancora l'attimo in cui si mette la propria ruota davanti agli altri e quello in cui si arriva per primi su una fettuccia bianca che è la fine del mondo. Kaden Groves vince così, dopo una caduta, dopo una giornata difficile. Gli abbracci con i compagni sono, in realtà, uno scambio di acqua, che ha impregnato tutto. Stamani chi avrebbe cercato un attimo come questo, un attimo di felicità pura, in un alba di pioggia e freddo? Ben pochi, probabilmente. Ma è così che funziona: gli attimi importanti vanno cercati pure in mezzo al nulla, al vuoto, anzi, soprattutto lì, perché è lì che si annidano. È lì che hanno la possibilità di cambiare qualcosa. Questa è la loro funzione. La nostra, quella di chiunque, è di non smettere di cercarli, di credere che ci siano.
Per colpa di una bicicletta
Non lo faccio apposta, giuro. Vorrei davvero dormire. Lo stress di un mese di Giro d’Italia è enorme, quindi recuperare col sonno è fondamentale: semplicemente non mi sta riuscendo. Anche stamattina le tapparelle chiuse hanno funzionato all’opposto di quello per cui sarebbero preposte: sembrava che il sole sorgesse nel palazzo a fianco. Non mi resta – realizzo in cinque millesimi di secondo nonostante l’andatura cadaverica da sette del mattino – che mettermi in bici.
Non ho preparato alcun tour, perché appunto l’idea era dormire. Ricordavo però la strada percorsa il giorno prima. Per la prima volta, infatti, avrei percorso il tracciato di gara non il giorno stesso né il giorno prima, ma il giorno dopo la corsa. Meno palloncini rosa, meno entusiasmo e gente per le strade. Ci si riabitua a una vita senza Giro d’Italia: così pure a Barile e Rionero in Vulture, comuni tra i quali abbiamo fatto finta di dormire.
La strada del giorno prima, dicevo. Splendida: dai laghi di Monticchio al valico La Croce molta natura, tutto verde attorno, senza traffico. Salendo così presto al mattino, però, il freddo e la nebbia erano ben più presenti: si potevano quasi toccare. Si sono resi materia in piccole goccioline di condensa che trovavo sui freni, sul manubrio, sugli occhiali. Freddo a parte, non ci sono molte cose migliori di una salita, un bosco e la nebbia tutte assieme: sull’asfalto svariate scritte rosa “I <3 Vulture” spezzano l’armocromia di colori cupi, scuri, che il sole non ha ancora riscaldato.
Non mi aspetto di trovare nessuno, ai laghi di Monticchio, ma di nuovo le previsioni vengono disattese. Prima incontro diversi mezzi dello staff della Jumbo-Visma, che evidentemente ha passato qui la notte. È una nutrizionista della squadra olandese quella che vedo correre a bordo strada: si chiama, mi dirà poi alla partenza, Monique, e non ce la fa proprio a non tenersi in allenamento anche durante il Giro.
Poi a bordo strada trovo tante persone con casacchina catarifrangente arancione. Sono raggruppati a piccole squadre, attorno a macchine dalle quali estraggono scope e badili. Così tante mi fermo a chiedere chi fossero e cosa stessero facendo. Mi risponde una signora mentre accende sotto un fuoco da campeggio, sul quale un’altra anziana donna sta issando una moka gigante da caffè. Sono qui per pulire il bosco e la strada, in poche parole. Lo fanno ogni anno: ci tengono a tenere puliti questi luoghi che in estate si affollano di turisti. Ci mettono alcuni giorni, ma tutte (la stragrande maggioranza di chi lavora qui è donna) sembrano divertirsi e sfruttare l’occasione per passare tempo assieme.
Tra le mille cose, il Giro è anche sveglie controvoglia e incontri inaspettati. Le persone incontrate oggi sono comparse nella nebbia, quando pensavo di essere solo. E sono comparse, alla fine della fiera, grazie o per colpa di una bicicletta.
Inseguire, lasciare andare
Si era parlato così tanto di fughe, di fuga, che stamani pareva proprio che il primo scatto, quello sulla sinistra del plotone, appena sventolata la bandierina del via, per intenderci, dovesse essere quello buono, quello giusto. Invece no. Per lasciare andare la fuga, ci sono voluti quasi cento chilometri, quasi due ore di corsa, c'è voluta una discesa, mentre tutti ci provavano sugli strappi. Stasera non parlate di fuga "lasciata andare" a De Marchi, Scotson, McNulty, Cepeda, Healy, perché loro quella fuga l'hanno inseguita per minuti e minuti, in una nebbiolina di umidità insistente, ma, oggi, non era la loro giornata. Delicato equilibrio quello fra "inseguire" e "lasciare andare". Vero che il gruppo lascia andare la fuga con Andreas Leknessund, Aurélien Paret-Peintre, Toms Skujiņš , Vincenzo Albanese e Nicola Conci, fra gli altri, altrettanto vero che tutti coloro che ci avevano provato prima hanno a loro volta lasciato andare, non solo la fuga: la stessa idea di fuga, lo stesso ideale. Forse la parte più difficile. Certo anche che Leknessund e Paret-Peintre, il primo maglia rosa a Lago Laceno, il secondo vincitore di tappa, hanno inseguito la possibilità di essere lasciati andare, hanno inseguito il respiro quieto del gruppo, che mette la mantellina, torna alle ammiraglie, mangia, beve, molla la presa.
Inseguire, ovvero i battiti che aumentano, il rapporto più duro, le gambe che girano veloci e l'acido lattico che assale, oppure lasciare andare, respirare, alleggerire la pedalata e pensare a domani: equilibrio, legame stretto, talvolta imposizione con cui fare pace, altra scelta difficile, seppur senza possibilità. Prendete Bruno Armirail: quanto insegue la fuga ormai partita? Quanto ci crede, mentre è da solo e la vede avvicinarsi? Inseguire è speranza, forza, lo si intuisce. Più difficile è capire che lasciare andare non è da meno. Siamo tutti Armirail, forse, soprattutto, nel momento in cui ha detto basta, si è arreso e ha pensato che ci riproverà. Un atto di coraggio. Lasciar andare è anche questo, oltre a lasciar andare una maglia, quella rosa, come fa Evenepoel: solo che di Evenepoel dicono tutti che la ritroverà, che è ovvio, quasi certo, di Armirail non lo dice nessuno. Deve saperlo e crederci da solo: capite che è diverso, non paragonabile.
Nicola Conci insegue quello scatto, sulla salita di Colle Molella, anche se apparentemente sono gli altri a inseguirlo. Conci prima insegue lo scatto, poi lascia andare. Albanese fa il contrario: prima lascia andare, poi insegue. Warren Barguil lascia andare e basta, dopo una fuga così lunga, dopo aver inseguito quella stessa idea per tanti chilometri e probabilmente aver avuto anche buone sensazioni, altrimenti non sarebbe stato lì davanti. Il modo più difficile di lasciare andare: quello in cui credevi, quello di cui ti eri illuso o di cui il tuo corpo ti aveva illuso.
Andreas Leknessund, solo qualche tempo fa, si chiedeva: «Chissà se un giorno lotterò per la generale di un Grande Giro». Non lotterà per la generale, ma la maglia rosa l'ha addosso e non ci pensava neppure lui, forse. Il suo è un inseguimento in due tempi: dapprima nel gruppetto all'attacco, cercando anche di non dare troppo peso a quella maglia rosa virtuale, per non cadere nelle illusioni e farsi troppo male, poi attaccando e spingendo la bicicletta, persino con i denti, per evitare brutti scherzi, da quel gruppo tirato dalla Ineos. Anche Aurélien Paret-Peintre, che a Lago Laceno vince, ha lasciato andare, per qualche attimo, ha lasciato andare Leknessund e lo ha ripreso. Qualcosa vorrà pur dire, forse che, come ci sforziamo di inseguire, dovremmo imparare a lasciar andare, senza vergognarcene, perché si può vincere lo stesso. Oppure semplicemente perché nella quotidianità non è solo vincere che conta.
Andreas Leknessund, dalla Norvegia, pallido e colorato solo dallo sforzo e dalle sensazioni, ha inseguito tutto il giorno quell'idea, quella della maglia rosa di cui sistema anche il colletto. Al traguardo, ha pianto, felice. Ha lasciato andare tutto quel che c'era dentro. Anche lui.
Sfera di cristallo
C’è un motivo se tanti giornalisti, o facente funzione, si sorbiscono decine di minuti di camminata. A ogni tappa, a ogni arrivo, anche con la pioggia che inumidisce l’arrivo di Melfi. Potrebbero fare il loro lavoro dalla sala stampa (la conferenza è video-collegata anche con essa) e godersi il buffet a pochi passi.
Se tanti di noi quasi ogni giorno vanno al furgone allestito per la conferenza stampa in presenza, col vincitore di tappa e il leader della classifica generale lì a due metri, è perché lì si spera di trovare qualcosa di più interessante, occasioni in più, qualcosa che non ha nemmeno il tempo di entrare in GIRONIMO. È una speranza vana, a volte: oggi in diversi hanno preferito evitarsi il terzo giorno di domande da sfera di cristallo a Remco e l’intervista a Matthews, notoriamente non il più loquace dei grandi corridori.
Entrambi, invece, hanno detto o fatto cose inusuali. Michael Matthews si è presentato con una vaschetta di plastica contenente pasta: fusilli con pomodorini, per la precisione. In un’altra bustina di plastica ha arrotolato dentro un tovagliolo le posate e durante le domande si riempie la bocca. Non di parole, appunto, ma di cibo. «Ho preso il covid durante la Parigi-Nizza e non ho potuto fare la Sanremo e tante altre classiche. Poi una brutta caduta al Giro delle Fiandre mi ha costretto ad una stagione difficile finora» esordisce Bling, un soprannome che deriva dalla felicità con cui vive la vita. Fino a poco tempo fa, invece, stava «contemplando se continuare col ciclismo o meno» a causa di tutti i problemi avuti. Tuttavia, dopo il momento di riflessione, era così rilassato nei chilometri finali di oggi che gli è sembrato di fare «una di quelle volate ai cartelli fuori dalla città, che facciamo in allenamento»
Il circa mezzo miliardo di colleghi belgi ha permesso a Remco di arrivare in conferenza stampa solo un quarto d’ora dopo Matthews. Il belga è di nuovo nascosto dietro una mascherina rossa, ma concentratissimo: afferma di non poter certo «regalare tre secondi» a nessuno, «sarebbe stato stupido non gettarmi nella mischia» nello sprint intermedio di Rapolla. E dice una banalità, ma è bene ricordarselo per il primo arrivo in (più o meno) salita: «Chi avrà una brutta giornata, sarà nei guai».
Pensieri-rumore
Quando passa il gruppo, in un qualunque tratto di strada, tra Vasto e Melfi, si vedono e si ascoltano molte cose. Ma è quello che non si può sentire che vogliamo portarvi oggi. Sì, parliamo dei pensieri dei corridori e del loro suono. Sceglieremo alcuni rumori, per darvi l'idea di cosa sarebbe il transito del gruppo se davvero tutto si ascoltasse. Consapevoli del fatto che se ne potrebbero scegliere molti altri, ma soprattutto certi del fatto che sia un bene che non tutto si senta, perché, solo così, in ogni professionista può esserci una parte di chiunque sia mai andato in bicicletta, anche per pochi chilometri, anche per un viaggio. Le sensazioni sono le stesse, semplici, primitive, cambia il contesto, ma chi ha provato le conosce bene e così guardare la corsa è anche provare la corsa.
Veljko Stojnic e Alexander Konichev che attaccano, pronti-via, pensando che qualcuno li segua, invece restano da soli. Non si fanno riprendere, continuano. Il primo pensiero assomiglia a quello dei vetri rotti, di quando qualcosa che ci si aspetta non accade, ma bisogna lo stesso proseguire, perché è la gara. Poi subentra un pensiero simile all'acqua che lava via la polvere da una superficie da troppo impolverata: piacevole quella pioggia, un temporale estivo, l'afa che se ne va. Il pensiero si alleggerisce e si guarda a quel che c'è: tanti traguardi intermedi, per ingannare la mente, per pensare di avercela fatta prima ancora di farcela, perché si è in testa e quando si è lì bisogna dare valore al momento, perché non si sa quando ricapiterà. Non chiedersi il motivo di tanta fatica vana, ma l'opportunità.
Pensieri che sono tonfi sordi: Roglič che cerca di sorprendere Evenepoel al traguardo volante ma viene sorpreso e finisce secondo. Si volta verso il gruppo: «Pure qui sprinta adesso? Che facciamo?». Dice così, con gli occhi, con la gestualità. Quelli di Almeida, di quella bici danneggiata su cui si sforza di continuare a pedalare. Pensieri che sono aghi che trafiggono un cartone: Pedersen che, dopo aver fatto lavorare la squadra, si ritrova in coda al gruppo, di poco staccato, in vetta al Gran Premio della Montagna. Sono aghi che trafiggono perché arrivano e se ne vanno: in un momento, c'è la delusione ed il senso di colpa, nell'altro un respiro a pieni polmoni e le gocce di pioggia che, invece che dare fastidio, rinvigoriscono. Basta trovare una pedalata più rotonda delle altre, rientrare, e ci si sente di nuovo bene.
Alcuni pensieri stridono come un gesso su una lavagna: la bicicletta che, a causa dei cambi di asfalto, in discesa verso Melfi, sembra lasciarti. Resti in piedi, ma, alla curva dopo, tiri i freni, ricordi quella sensazione e ti prende il timore: «Se cado, siamo solo alla terza tappa, fra poco iniziano le salite». Una sfilza di pensieri negativi. Sono pensieri fastidiosi perché ingabbiano la libertà di improvvisare in sella e di scendere a tutta, per una volta senza fatica. Rumori che sono suoni, inizi di suono, prime note: Pinot che conquista i punti per la maglia azzurra e scatta per essere sicuro di vestirla stasera. La sua è una ripartenza, da molto tempo, e le ripartenze hanno questo di bello: non finiscono, sono un inizio continuo.
Pensieri-frastuono: quelli di Pedersen, Groves e Albanese che erano lì a giocarsela e ci hanno creduto perché la linea del traguardo continuava ad avvicinarsi senza arrivare mai. Quelli di Matthews, invece, sono pensieri-silenzio, al massimo pensieri-grido: volata lunga, vittoria, soddisfazione, la prova che va bene, che, da stasera, al Giro sembrerà tutto più facile, anche quando sarà più difficile. Almeno per qualche giorno. Basta un attimo di felicità, è semplice la regola.
Avremmo potuto sentire tutto questo, ne siamo certi. Non potendo sentirlo, abbiamo ascoltato ciò che c'era, abbiamo guardato le cose, i tetti, le strade, le maglie, le biciclette, gli scatti, le cadute. Le braccia alzate e la vittoria, la testa bassa e la sconfitta. La gara, insomma. Il Giro. Il resto, alla fine, lo sappiamo, perché quei rumori li abbiamo tutti dentro.
Ho portato una bicicletta al Giro
Non l’ho detto ieri, ma ho portato una bicicletta al Giro d’Italia. Anzi, non una: la mia bicicletta! È questo il miglioramento più significativo rispetto alla scorsa edizione della Corsa Rosa: più della presenza di Remco, più del ritorno dei buffet in sala stampa. Pedalo un po’ al mattino, prima che cominci il delirio. Dalle 9:30 circa alle 21 si lavora sostanzialmente senza sosta al Giro: riuscire a staccare la testa fa bene, ogni tanto.
Giusto una volta, per ora, sono riuscito ad alzarmi presto e inforcare la bici. Sabato, prima della cronometro, ho raggiunto Ortona da Montesilvano. Nel farlo ho percorso alcuni chilometri che i corridori hanno fatto ieri, nella Teramo-San Salvo: splendidi, soprattutto quelli vallonati verso Ortona, impreziositi dalla vista sul mare. Assetato com’ero e ignaro della dislocazione delle fontanelle sul territorio, ho trovato l’oasi nel deserto in un bar alquanto strano, in località Contrada Schiavi. L’insegna fuori, innanzitutto, non recava un nome e nemmeno sulle mappe è segnalato. C’era uno di quei cartelloni coi loghi di varie aziende telefoniche, ma scolorito e vecchio.
La prima cosa che noto, entrando, è una cesta di uova messe su uno sgabello: certo che sono in vendita, mi conferma l’anziana signora dietro al bancone. Vista la bici mia appoggiata fuori, si ferma un altro ciclista. Mentre riempio le borracce di acqua fresca (la bottiglia stava nel frigo del bar da prima del Giro di Hesjedal), l’altro avventore del bar e la signora chiacchierano in dialetto abruzzese dell’origine dei loro genitori: storia lancianesi e teatine. Poi la signora Martelli (il nome, però, non vuole dircelo) ha il fermo desiderio di portarci a vedere le galline, quelle delle uova. Sono più di 80, ma in diminuzione da quando nel vicinato sono comparsi alcuni cani di grossa taglia.
Mentre si aggira per l’orto ci racconta di un ciclista che si fermò lì, quattro anni prima. Si fermò al bar mentre la signora stava zappando l’orto, attratto - ricorda lei - dalle bellissime primule sul vialetto. Si trattava di uno psicologo di fama di Palermo, che aveva parenti in zona. Egli presto si affezionò alla signora e andava sempre a trovarla, nelle sue uscite in bici. Finché, nonostante la devozione di questo psicologo per Santa Rosalia, non ha trovato una prematura morte in circostanze sconosciute. La signora Martelli si commuove raccontando l’epilogo perché sia io che l’altro avventore del bar siamo dello stesso segno zodiacale della persona deceduta, l’ariete.
È una storia piccola, certo, del tutto laterale nell’economia del Giro. E non c’entra nulla con la tappa odierna: bravo questo Jonathan Milan, che certo non aveva bisogno di presentazioni e del quale sentiremo ancora parlare a lungo. Il bar, la storia e le uova della signora Martelli, invece, andavano scritte perché possano rimanere. Non ne ho scritto ieri perché iniziare queste cronache dal Giro con un racconto in prima persona sarebbe stato come affrontare la crono dei Trabocchi in triciclo, ma la storia della signora Martelli è più Giro d’Italia di tanti ordini d’arrivo e tante startlist. Domani torno ad inforcare la bici e magari ne verrà fuori un altro incontro come questo: o magari pedalerò e basta, e andrà benissimo comunque.
Tutto in Milan
Adesso è tutto sul volto di Jonathan Milan, sotto il sole cocente di San Salvo. Basta fermarsi a guardare e si capisce perché in molti abbiano detto e scritto di quel viso da bambino, in un corpo da gigante. Succede ai bambini, in alcuni momenti, di voler piangere ed invece di ridere, succede ai bambini di lasciarsi andare ad un pianto poco dopo una risata così forte che pare risalire da un fondo così fondo che, crescendo, non si sa più come cercare. Milan era lì, con una mano sulla bicicletta, si guardava attorno, beveva, e i muscoli facciali facevano intuire un pianto che non usciva, un riso così forte che non si sa come ridere. Tutto sul suo volto, mentre vede, non rivede, la volata, perché per lui che l'ha costruita è la prima volta, e sembra dire: "Ma sono io? Ma sono proprio io?". Nei giorni in cui ciascuno ha qualche certezza irremovibile, fa bene sapere che c'è Milan, fa bene sapere che il dubbio ci piace ancora, ci affascina, che il non riuscire a credere a ciò di cui si è stati capaci rende quel che si è fatto ancora più significativo, perché è la meraviglia a cambiare la lettura del circostante.
Poco fa, tutto era nelle gambe di Jonathan Milan, quelle che sentiva pronte, forti, energiche, potenti, eppure non si sa mai, non basta essere pronti per vincere, non basta essere preparati per farlo. Basta invece non essere pronti per perdere, non essere preparati per essere sconfitti. La legge del ciclismo, tremenda. Quelle gambe abituate al velodromo, alla pista, a sforzi enormi ed intensi, al fiato massacrato. Quelle gambe che, a febbraio, già avevano aperto un varco sul futuro. Sì, un varco, serve quello per farsi strada e andare: quello che Milan ha trovato anche oggi, mettendo nel sacco Dekker e Groves, mettendo nel sacco tutti gli altri, vincendo quasi per distacco.
La sua è l'essenza della potenza, forse, fra qualche anno, quando penseremo alla potenza potremo evocare Milan. Come si evocano le balle di fieno dorate pensando all'estate o i baci pensando agli amori. Chissà. Era nelle gambe di Milan ed è ancora lì, perché i muscoli non dimenticano, hanno una loro memoria, un loro ricordo di quello che hanno fatto, di quello che abbiamo fatto. Non solo. Tutto è stato ed è nel corpo di Jonathan Milan, in quelle spalle, in quelle mani, in quelle braccia che svuotano la felicità quel tanto che basta per farne arrivare altra, persino nei piedi che spingono sui pedali, che li schiacciano, per sviluppare velocità. Alto, forte, allo stesso tempo semplice, dalle reazioni genuine, dai pensieri genuini. Cammina continuando a sorridere, a guardarsi intorno, a cercare qualcuno o qualcosa su cui poggiare quella gioia, quasi avesse ancora bisogno di liberarla, di urlare o di correre o saltare.
Lo capiamo bene, dopo un pomeriggio in cui la noia aveva, a tratti, preso il sopravvento, con una fuga in testa ed il gruppo che ci gioca, scegliendo quando chiudere. Succede nelle tappe per ruote veloci, può succedere. Ci hanno detto che la noia non va evitata, ma vissuta, perché può essere creatività, può essere possibilità, che nella noia si scrive, si dipinge, si inventa, si gioca, si torna a giocare. Da quella noia avremmo voluto tirare fuori qualcosa di unico, usarla bene, non buttarla via, imparare a farlo. Avremmo voluto. Poi è arrivata la volata di Jonathan Milan e la realtà ha tirato fuori il meglio di tutto quel che c'è nell'immaginazione. Quanto è stata bella anche quella noia, quanto è bella ora questa felicità.
Il senso di quelli come Remco Evenepoel
Noi siamo ancora lì: alla perfezione di un uomo e una bicicletta, lungo la ciclabile della Costa dei Trabocchi, poco più in là il mare. Quasi che la velocità che batte il tempo in bicicletta fermi quello di chiunque sia al di fuori di quella galassia, tra essere umano e ingranaggi. Di quell'intesa. Altrimenti saremmo altrove, insieme ai minuti che sono passati, alle ore che passeranno, in altre faccende indaffarati, invece rivediamo Remco Evenepoel che attraversa lo spazio ed il tempo come se non ne subisse le leggi: composto, potente, a galleggiare da un'altra parte, oltre la fatica di questi diciannove chilometri, la fatica che, di solito, sconvolge e scompiglia, oggi, invece, attraversa e lascia intatto, perfetto. Ricostruisce. Cinquantotto di media, in alcuni tratti, oltre i cinquantacinque al traguardo. Di quella galassia, uomo e bicicletta, Evenepoel e bicicletta, vorremmo studiare ogni dettaglio.
Da venerdì pensavamo ai minuti dalle 16.34 alle 16.37, in fondo solo tre minuti, ed in quante occasioni si pensa per più di un giorno a soli tre minuti? Evenepoel, Roglič, Kung e Ganna: uno dopo l'altro, stregoni del tempo, ognuno con un proprio modo di batterlo e lasciarlo fermo per tutti, intenti a pensare e a riguardare, tranne che per lui. Le leve di Ganna, la potenza di Kung, la volontà di Roglič, che non basta, che paga più di quanto si pensasse, e poco fa la perfezione di Evenepoel. Il tutto, in parte, su una ciclabile, che è il luogo del linguaggio delle biciclette, ma di un linguaggio diverso, perché i professionisti pedalano sulle strade, di solito. Interessante che, in questo sabato, quell'inversione del tempo, quella velocità perfetta, abbia trovato sfogo proprio lì: un uomo che sceglie di guidare una bicicletta sceglie un'altra posizione per spostarsi, un'altra velocità, si inventa altre possibilità, cambia forma alle cose. Una ciclabile e il Giro d'Italia rappresentano questo legame.
Occhi fissi per Evenepoel, dopo il traguardo, la sua è una felicità quieta, anche in maglia rosa, vissuta e protetta da dentro, simile a quella di Jay Vine che minuti prima era il leader provvisorio della generale, e, ancora piegato sulla bicicletta, stava in silenzio, respirava solo: dietro le transenne, una ragazza lo guardava e rideva, dal profondo. Un capovolgimento, solo apparente, perché è questione di manifestazione, ma dentro c'è la stessa cosa. Lo capiremo poco dopo, dalla delusione di Vine, quando il suo tempo viene battuto. Com'è profondo quel che si prova, da queste parti si potrebbe dire com'è profondo il mare, con le sue tonalità di azzurro, blu, forse verde acqua, com'è profondo, verso il cielo e non verso la terra, persino il verde della vegetazione.
Ganna, poco dopo l'arrivo, dirà: "Io arrivavo a sessanta all'ora, lui, magari, a sessantacinque". Rende l'idea e allo stesso modo continua a bloccare il nostro tempo: "Cos'ha fatto Evenepoel?". Chiediamocelo, chiedetevelo e di risposte ce ne sono molte, tutte ad affondare in quel che esce dalla normalità, dalla quotidianità. In fondo, c'è chi ha guardato la strada in cui passavano i ciclisti dai trabocchi, da una barca, da un prato, dall'alto o dal basso: anche questo esce dalla quotidianità, perché di solito, in quei luoghi, non si va per vedere passare delle biciclette. Per vedere Evenepoel o Ganna. Ma di solito non si contano nemmeno tre minuti di una giornata qualunque e non si resta lì col pensiero per ore. Stravolgere, rendere unico anche quello che ci si può aspettare, facendolo ancora meglio: questo è il senso di Remco e di quelli come lui.
A metà tra l'impaziente e il malinconico
Chissà cos’hanno provato quei 127 corridori che, alle 02:53 del 13 maggio 1909, si trovarono alla partenza del primo Giro d’Italia. Chissà a che ora si sono svegliati, a che ora hanno realizzato che: "diamine! comincia il Giro d’Italia". Forse non ne erano nemmeno consapevoli: la Corsa Rosa non aveva ancora acquisito il fascino degli anni.
Non sembravano granché preoccupati nemmeno Alberto Dainese e Domenico Pozzovivo, della partenza del 106° Giro d’Italia. Dainese è stato avvistato ieri, nel suo albergo di Montesilvano, solo, rilassato, seduto al bar. Guardava il telefono ma la mente, con tutta probabilità, era alla prima occasione per i velocisti. Pozzovivo a poche ore dall’inizio della tappa stava ancora uscendo dal medesimo albergo, a circa tre quarti d’ora d’auto dalla costa dei Trabocchi. Stava cercando di sollevare una valigia alta quasi quanto lui.
Del tutto inconsapevole e per nulla preoccupata è la coppia di fidanzatini che si sta guardando l’arrivo della corsa sulla salita verso Ortona. Sono capitati in un tratto ottimo per vedere la corsa: i ciclisti si vedono arrivare dal tornante sottostante e rimangono visibili per una dozzina di secondi. Che non siano molto esperti lo capisco quando lui si chiede “chissà chi è questo con la bici d’oro”, quando passa Primož Roglič . Il fatto che i corridori salgano uno a uno non entusiasma lei, che più della strada guarda l’Adriatico a metà tra l’impaziente e il malinconico.
È solo la prima di ventuno tappe e sono stati percorsi venti chilometri scarsi. Eppure Remco Evenepoel, che la prima tappa l’ha sbranata, sembra aver letto il copione in anticipo: in conferenza stampa parla già della tappa in cui potrebbe decidere di perdere la maglia. Certamente consapevole, in apparenza non preoccupato.