Ci vediamo domani?

SAVE THE DATE: sabato 31 agosto

BRIKO RIDE @ JAZZ:RE:FOUND

Ci sono ride organizzate ovunque e da chiunque. Alcune più belle, altre più brutte, alcune in posti magnifici, altre in posti modesti, ma tutte incontrano il nostro supporto, sempre e comunque.
E poi ci sono i ragazzi di Briko, che la banalità non sanno nemmeno cosa sia, che vi invitano a pedalare non in una situazione a caso, ma durante il Jazz:Re:Found, uno dei festival musicali più importanti e all’avanguardia a livello mondiale. Il tutto in una cornice da favola: il Monferrato.

E siccome non siamo nati ieri, quando annusiamo che la situazione è quella giusta ci intrufoliamo ben volentieri. Perciò ci saremo anche noi: prima a sudare, poi a distribuire i nostri gadget e infine a bere qualche birra e fare due salti.

Quando: Sabato 31 agosto

Dove: Jazz:Re:Found Festival, Cella Monte (AL)

Programma:

- Ore 10 ritrovo allo stand Briko
- Ore 11 partenza della ride di circa 80 km attraverso i colli del Monferrato
- Ore 16 arrivo della ride, musica e birrette

Ah, due cose abbastanza importanti:

1. Per i partecipanti alla pedalata è previsto un ingresso agevolato al festival – e ne vale davvero la pena, fidatevi.
2. Di questa giornata e del progetto in generale uscirà un bel reportage sul prossimo alvento35. Vorrete mica mancare?

Le iscrizioni sono chiuse, ma se venite un posticino lo troviamo lo stesso.

Seguiteci sui social per tutte le altre informazioni necessarie.

Questi i percorsi!

Ci vediamo lì!


La Spoleto Norcia in MTB

L’anno scorso ci siamo stati e quest’anno, ovviamente, ci ritorniamo. Domenica 1° settembre, andiamo a divertirci con le gomme grasse a La Spoleto Norcia in MTB.

Cinque percorsi, tra cui la nuova SN CHRONO che sostituisce la SN CUP. Si tratta di un percorso di 53 km e 1750 m di dislivello, non agonistico ma per questo non meno interessante, studiato nei minimi dettagli: un tracciato che prevede 2 salite davvero toste per non togliere il gusto a tutti coloro che vogliono misurarsi con se stessi e anche con gli amici. La prima salita è di 1,8 km e 237 m di dislivello con una percentuale media del 13%, la seconda è di 1,9 km e 190 m di dislivello con una percentuale media del 10%. E, ottima novità, premi Garmin per i più veloci.

Confermate le altre quattro tracce su tratti con fondo misto e single track tecnici: il percorso CLASSIC di 57 km e 1570 m di dislivello che segue il tratto più scenografico della SpoletoNorcia; il percorso EASY ROUTE, 40 km e 900 m di dislivello (una variante del Classic); il percorso HARD che, con il suo itinerario circolare di 85 km e 2.200 m di dislivello è il più impegnativo, destinato a partecipanti in possesso di certificato medico agonistico specifico per ciclismo.

Non manca infine anche quest’anno il percorso FAMILY di 15 km adatto a tutti, il cui ricavato sarà come sempre devoluto in beneficienza all’associazione Il sorriso di Teo.

Tutti i percorsi incrociano il tracciato dei binari della Vecchia Ferrovia, con viadotti di pietra e gallerie elicoidali al buio attraverso le montagne solcate dal corso del fiume Nera e punteggiate da borghi davvero spettacolari.

Per le iscrizioni e altre informazioni, cliccate qua.

Foto: MirrorMedia Art


Il C.T. a tutto campo: «Elisa Longo Borghini, la capitana assoluta»

I primi Giochi Olimpici che vengono alla mente di Paolo Sangalli, Commissario Tecnico della nazionale italiana femminile di ciclismo su strada, sono quelli di Los Angeles 1984, quando era ancora un ragazzino: in Carl Lewis, nel suo gesto atletico, c'è, a suo avviso, lo spirito olimpico, autentico, reale, anche se, nell'era moderna, altri sportivi hanno conquistato svariate medaglie, si pensi a Michael Phelps, per fare un esempio. Saranno anche i 100 metri, aggiunge, che sono un simbolo da cui è difficile staccarsi. Da atleta, sostiene Sangalli, sapeva benissimo che non sarebbe mai arrivato a partecipare ad un'Olimpiade, però quello è il sogno di ogni sportivo e restava anche il suo, nonostante tutto. La prima Olimpiade l'ha vissuta nel 2012 a Londra, in qualità di collaboratore tecnico e «sin da quei giorni, ogni edizione ha sempre aggiunto qualcosa a quel che sono, come uomo e come professionista. A Parigi questo percorso tocca il culmine: ho vissuto con questa consapevolezza i mesi di avvicinamento e vivo allo stesso modo questi giorni. La responsabilità c'è, però la responsabilità, a mio avviso, se vissuta correttamente, non deve far paura, spaventare. La responsabilità è qualcosa di alto, qualcosa di cui essere orgogliosi. Dirò di più: quel sogno di ragazzino, ora che si è materializzato, è così forte da sostenere qualunque responsabilità». A casa, restano un ragazzo e una ragazza felici di poter chiamare C.T. il padre: ai suoi figli ha provato a raccontare sempre la parte bella dello sport, depurandolo dallo stress e dalle negatività, che pur esistono. «Certo, ho sempre parlato loro della sconfitta, del non raggiungimento dell'obiettivo, ma questa è la normalità delle cose. So di essere un genitore severo, a tratti, duro, se vogliamo: credo fermamente che non esista alcun risultato senza sacrificio, credo nel sacrificio, credo nella fatica. L'ho sempre detto ai miei figli, lo dico alle atlete e, in entrambi i casi, quando sono severo, quando devo esserlo, l'unica mia preoccupazione è di essere anche giusto. Spero di esserlo sempre, l'intenzione è quella».

Anche perché Sangalli respinge completamente l'idea del "potere di decisione" in quanto tale che, comunque lo si intenda, è ovvio associare al suo ruolo. Spiega che le atlete convocate, Elisa Balsamo, Elena Cecchini, Elisa Longo Borghini e Silvia Persico, sapevano già della convocazione, senza bisogno della sua comunicazione, esattamente come chi non avrebbe partecipato ne era consapevole. L'evidenza è stata data dal percorso e il fatto che non ci siano state polemiche o discussioni, precisa, significa che, alla fine, tutte si sono riconosciute in questa scelta: «Non mi piace l'idea dell'uomo che, seduto ad un tavolo, distribuisce verdetti e decide i "destini" di altre persone, con un sì o un no, come fosse una sentenza. Mi sembra un brutto modo di svolgere un mandato, tenendo tutti sul filo dell'incertezza, intimorendo, per certi versi. No, non mi piace. Penso, anzi, alle atlete che non sono qui, so quel che provano, mi spiace. Un Commissario Tecnico non decide i destini di nessuno, fa delle scelte con un metodo che ritiene giusto e, più giusto è il metodo, meno sono i contrasti. Questo non significa che le scelte siano sempre corrette, significa, però, che sono applicate con un criterio di correttezza». La costruzione della squadra è avvenuta sulla scia di un pensiero: essere pronti a qualunque possibile scenario la gara dovesse riservare e gli scenari sono molteplici, per il percorso e per la prova olimpica che è, in quanto tale, una prova "speciale": «Si parte circa in novanta atlete, la gara, tuttavia, se la giocheranno più o meno la metà. Sarebbe banale parlare di Montmartre oppure dello strappo finale di quasi un chilometro, tutto all'insù, eppure sicuramente quelli saranno momenti decisivi. Ricordiamoci, però, che, fuori dalla città, in aperta campagna, ci troveremo ad affrontare sei côtes, curve, vento e strade strette, in cui ogni metro sarà importante. Non vorrei dimenticassimo la "lezione Kiesenhofer": a Tokyo nessuno credeva potesse arrivare quella fuga, invece dieci minuti non si possono lasciare ad alcuna atleta». Quella che, inizialmente, definiamo "lezione Kiesenhofer" è, in realtà, per Sangalli un fatto paradossale: l'assenza di radioline per comunicare con le atlete in corsa che rende quasi impossibile correggere eventuali errori.

«Non eravamo gli unici a essere spiazzati: Annemiek van Vleuten credeva di aver vinto. Noi, anzi, avevamo il vantaggio di avere l'hotel sul percorso. Risulta molto, molto difficile comunicare in questo modo. Ho fatto un calcolo: avrei bisogno di circa venticinque persone dello staff sul tracciato per passare tutte le informazioni. Quel numero sarà impossibile, cercheremo di farcela con venti o poco meno. Sicuramente le atlete non possono tornare all'ammiraglia ogni volta, devono stare davanti. Il monito principale è: non troviamoci mai nella condizione di inseguire, perché chi insegue ha perso». Qui Paolo Sangalli cita un momento del Mondiale a Glasgow, quando le azzurre non sono entrate in fuga e hanno dovuto cercare di chiudere, assieme alla Germania: «Al Mondiale le squadre hanno più atlete, si possono permettere due capitane e una outsider. Qui no: se dobbiamo rincorrere per trenta chilometri, automaticamente dobbiamo rinunciare a qualche atleta per il finale e siamo solo quattro». Startlist alla mano, Sangalli elenca come atlete temibili, fra le altre, Grace Brown, Liane Lippert, Kristen Faulkner, ma aggiunge che saranno almeno venti le rivali da controllare e precisa, inoltre, che soprattutto a nazioni come Olanda, Belgio e Francia non si possono fare sconti, «perché, se si lascia margine a Kopecky, chi colma il gap?». Con le atlete, tuttavia, della tattica parlerà solo negli ultimi giorni, per non caricarle di stress inutile o di concetti che non avrebbero modo di assorbire, in preda al momento. Con noi si concede qualche istante per tratteggiare le quattro atlete scelte, con un aggettivo che ne definisca le caratteristiche.

«Elisa Balsamo è la classe. Ha tutto quel serve per ottenere risultati e i risultati con quelle caratteristiche non possono che arrivare. Al Giro d'Italia Women le ho detto che non deve dimostrare nulla a nessuno e oggi vorrei ripeterlo. Elena Cecchini è la concretezza e l'esperienza. Seguo il suo lavoro in SD-Worx ed è impeccabile: anche alle Classiche, personalmente, sono quasi più attento a chi porta davanti le proprie compagne sui muri che a chi vince, poi chi vince si sa, lo sanno tutti e ne parlano tutti. Non sempre, invece, si rende il giusto merito a chi si mette a disposizione. Per Elisa Longo Borghini ritengo complesso individuare un solo aggettivo: è una fuoriclasse. Soprattutto è una donna che ha sempre ottenuto ogni risultato con la fatica e la gavetta, con il lavoro. Vale per tutte le cicliste, certo, ma per Elisa vale a maggior ragione. Lei e Cecchini sono atlete che sono cresciute quando il ciclismo femminile era ben diverso da oggi e ce l'hanno fatta. La loro è stata una dura rincorsa. Da questo punto di vista, le più giovani hanno qualche fortuna in più. Longo Borghini sarà la nostra capitana, la nostra capitana assoluta, mi piace definirla così. Silvia Persico è l'estro, ma non mi fermo qui. Persico, a mio avviso, non conosce ancora tutte le sue reali potenzialità, le sue capacità: parliamo di un'atleta che, quando sta bene, soprattutto quando è serena a livello mentale, su quella bici mette l'impossibile. Silvia è un esempio. Ricordate la medaglia di Wollongong? Pesa un sacco quella medaglia all'esordio».

 

2021 UCI Road World Championships Flanders - Women Elite Road Race - Antwerp - Leuven 157,7 km - 24/09/2021 - Elisa Balsamo (Italy) - Marianne Vos (Netherlands) - photo Dion Kerckhoffs/CV/BettiniPhoto©2021

Il resto è costituito dalla fiducia di «avere un gruppo di donne e atlete di intelligenza sopraffina» e di «aver lavorato come meglio non si poteva in questi mesi, con qualche intoppo che, però, è parte del percorso». Sangalli si riferisce alla caduta di Elisa Balsamo: «In quei momenti, l'unica cosa da fare è trasmettere serenità, ma deve trattarsi di una serenità reale. Non bisogna raccontare storie o favole pur di rasserenare, perché un'atleta lo capisce benissimo e, alla fine, non si fida più». Detto questo, a Parigi, si andrà a raccogliere il lavoro di questi mesi e, da ogni atleta, il C.T. pretende sincerità totale: sia quando si sta bene che quando non si sta bene: «Non so se abbiamo l'atleta più forte, però penso che siamo la squadra più forte. Non a caso all'estero ci chiamano proprio "la squadra" e questa squadra non è mia o di pochi eletti, è di tutti, appartiene a tutti, per questo è "la nostra squadra". Questo non deve mancare. Soprattutto in una gara che non si sa che piega prenderà ed a Parigi che "lo dico per esperienza, può passare dai venti ai quaranta gradi da un giorno all'altro: ora non c'è molto caldo, ma chissà il 4 agosto».
Infine, Paolo Sangalli ci lascia con una suggestione, pensando al recente Giro d'Italia Women, conquistato da Elisa Longo Borghini: «Si è parlato molto del suo duello con Kopecky, di questo "uno contro uno" che ha tenuto tutti con il fiato sospeso, fino all'ultimo metro. Bene, credo sarà qualcosa di simile a quel che vedremo sulle strade di Francia. Non dico altro, andiamo a correre»


Parigi 2024: guida alla pista

Dopo tre anni di preparativi l’attesa è finalmente giunta al termine: da lunedì 5 agosto il circus del ciclismo su pista animerà il velodromo di Saint-Quentin-en-Yvelines per i Giochi olimpici di Parigi 2024. Il ciclismo su pista ha sempre orbitato attorno all’appuntamento olimpico, sin dalla sua introduzione ai primi Giochi moderni nel 1896. Da allora il velodromo è sempre stato protagonista dei Giochi di De Coubertin, eccezion fatta per la rassegna di Stoccolma 1912, e molte cose sono cambiate. In primis le discipline, con la rimozione del mezzofondo e del fondo, che ad Atene 1896 comprendeva gare come i 10 chilometri e la 24 ore, e l’introduzione di altre prove come l’inseguimento a squadre nel 1908 e il keirin, la madison, la velocità a squadre e l’omnium (la cui introduzione portò alla rimozione di inseguimento individuale e corsa a punti) nel ventiduesimo secolo. Negli anni ottanta un’importante novità fu l’introduzione delle competizioni femminili a partire da Seul 1988, ma la completa parità si è ottenuta solo a Tokyo 2021, quando le donne hanno gareggiato per la prima volta nella madison.

Le discipline

Il programma olimpico, rimasto invariato rispetto a Tokyo 2021, presenta solamente sei discipline, tre di velocità e tre di endurance. Le discipline veloci sono la velocità individuale, la velocità a squadre e il keirin, mentre quelle di fondo sono l’inseguimento a squadre, la madison e l’omnium. La velocità individuale, presente ai giochi decoubertiani sin dalla prima edizione, è la regina della pista. Il torneo della velocità inizia con una fase di qualificazione in cui i pistard corrono contro il tempo nei 200 metri lanciati. I tempi registrati stabiliscono le teste di serie del tabellone e gli atleti qualificati al primo turno. Da lì iniziano le sfide gomito a gomito tra due avversari, eccezion fatta per i ripescaggi dove si gareggia in tre. Gli incontri sono “secchi” fino agli ottavi di finale, mentre dai quarti di finale in poi si decidono al meglio delle tre. Le gare si corrono sulla distanza di un chilometro, ovvero quattro giri di pista, ma solo dopo una fase di studio che dura circa tre giri si inizia ad aprire il gas e in un battibaleno si toccano velocità vicine agli 80 chilometri orari. I protagonisti della velocità individuale si affrontano anche nel keirin. Nato in Giappone, dove gli è stato costruito attorno un sistema di scommesse da miliardi di yen, una gara di keirin dura sei giri di pista. Durante le prime tre tornate una moto, chiamata derny, guida sei pistard ad alte velocità, fino ai 50 all’ora, per poi lasciarli a 750 metri dall'arrivo, quando iniziano i preparativi della volata. Per eccellere nel keirin servono grande intelligenza tattica e colpo d’occhio, oltre ovviamente a delle gambe eccezionali. La terza e ultima disciplina veloce è la velocità a squadre. Come accade nel più conosciuto inseguimento a squadre, due formazioni, in questo caso composte da tre atleti, si sfidano simultaneamente in pista, partendo dai due rettilinei opposti, con l’obiettivo di far segnare il tempo più basso possibile. La gara dura tre giri, cioè 750 metri, e ogni componente del terzetto affronta un giro in testa al plotoncino per poi staccarsi o dare il colpo di reni vincente. Passando al settore di fondo troviamo proprio l’inseguimento a squadre. Nell'inseguimento a squadre due quartetti partono ai lati opposti del velodromo e devono percorrere quattro chilometri nel minor tempo possibile. Il torneo inizia con un turno di qualificazione in cui vengono distinte le migliori quattro squadre, che si possono giocare l’oro, da quelle qualificate con il quinto, il sesto, il settimo e l’ottavo tempo, che possono ambire al massimo al bronzo. Infatti dalle semifinali delle teste di serie si decidono le due finaliste assolute, mentre a giocarsi il bronzo sono le due squadre che hanno fatto segnare il miglior tempo nel secondo turno, indipendentemente dal loro risultato nel turno di qualificazione. Molto differente è la madison, una disciplina estremamente situazionale, in cui il tempo non conta nulla. Nella madison gareggiano quindici squadre composte da due atleti, che non competono mai contemporaneamente. Infatti i due si possono alternare dandosi un "cambio all'americana" o semplicemente toccandosi. La distanza di gara è di 50 chilometri (200 giri) per gli uomini e 30 chilometri (120 giri) per le donne, in cui le coppie possono guadagnare punti doppiando il gruppo (20) o piazzandosi agli sprint che avvengono ogni dieci giri (5, 3, 2, 1). Lo sprint finale vale doppio (10, 6, 4, 2) e funge da tie-breaker in caso di parità. Inoltre si perdono punti (-20) se si viene doppiati dal gruppo. L’omnium è invece la gara più completa, adatta ai tuttofare, e presenta le seguenti prove: scratch, 10 chilometri (40 giri) per gli uomini e 7,5 chilometri (30 giri) per le donne, in cui ci si gioca la vittoria proprio come in una gara in linea, con una volata sul traguardo finale; tempo race, 10 chilometri (40 giri) per gli uomini e 7,5 chilometri (30 giri) per le donne, in cui dopo i primi cinque giri chi passa per primo sotto al traguardo ottiene un punto ad ogni giro, mentre se ne ottengono venti doppiando il gruppo con una “caccia”; eliminazione, in cui ogni due giri l'ultimo ciclista a passare sul traguardo viene eliminato; e corsa a punti, 25 chilometri (100 giri) per gli uomini e 20 chilometri (80 giri) per le donne, in cui vigono i medesimi sistemi di punteggio della madison. Le prime tre specialità assegnano 40 punti al primo classificato, 38 al secondo, 36 al terzo e così via, mentre i punti della corsa a punti vengono sommati direttamente alla classifica generale.

I favoriti

Velocità individuale maschile

L’uomo da battere è assolutamente il campione in carica, e cinque volte campione mondiale nella disciplina, Harrie Lavreysen. Il neerlandese Lavreysen, a soli 26 anni, è già tra i migliori velocisti della storia con i suoi 14 ori mondiali, 12 europei e 2 olimpici. Negli ultimi anni è svanita la rivalità col compagno di squadra, e di medaglie, Jeffrey Hoogland, il quale ha ormai perso lo scatto dei giorni migliori, ed è iniziata quella con l'australiano Matthew Richardson. Richardson in realtà non è mai riuscito a infastidire più di tanto l’orange nelle discipline individuali, ma negli ultimi grandi appuntamenti internazionali si è limitato a spartirsi le posizioni di rincalzo con il connazionale Matthew Glaetzer, il quale però è in ballottaggio con Leigh Hoffmann per il secondo slot a disposizione per l’Australia, il britannico Jack Carlin, bronzo a Tokyo 2020, il trinidadiano Nicholas Paul, detentore del record del mondo nei 200 lanciati con 9.100 secondi, il francese Rayan Helal, la speranza più concreta per i padroni di casa, e il polacco Mateusz Rudyk, vicecampione europeo di specialità dietro allo stesso Lavreysen e riammesso in extremis dopo che è risultato positivo all’insulina pur essendo un atleta diabetico. Sono da tenere d’occhio anche due giovani emergenti: l’israeliano Mikhail Yakovlev e il giapponese Kaiya Ota. L’inizio di carriera di Yakovlev è stato tutt’altro che facile. Dopo tanti successi a livello giovanile, un bronzo mondiale nel keirin, un bronzo europeo nello sprint e il record del mondo ufficioso sui 200 con la maglia della Russia ha deciso di cambiare nazionale in seguito alla sospensione degli atleti russi e bielorussi dalle competizioni internazionali, ottenendo la cittadinanza israeliana. Yakovlev con i suoi nuovi colori è tornato su un podio internazionale soltanto agli scorsi europei. Kaiya Ota è invece la più grande rivelazione di questo 2024. Il classe ‘99 è molto differente da Yakovlev sia fisiologicamente, 199 centimetri e 106 chili per il moscovita contro i 174 centimetri e 78 chili del giapponese, che per caratteristiche. Infatti nel modo di correre di Ota si vede la sua formazione nel keirin giapponese, che gli ha fornito le basi per fare sempre la decisione giusta in gara. Assieme al Giappone, un’altra nazionale da non sottovalutare è quella cinese, allenata da due leggende della velocità come Denis Dmitriev e Theo Bos, la quale schiera Yu Zhou e Qi Liu. Nessun italiano si è qualificato in questa disciplina.

⭐️⭐️⭐️ Lavreysen

⭐️⭐️ Richardson, Carlin, Ota, Paul

⭐️ Yakovlev, Zhou, Helal, Quintero, Hoogland, Glaetzer/Hoffmann, Rudyk, Awang

Keirin maschile

I favoriti del keirin sono pressoché gli stessi della velocità individuale. Salgono però le quote di Kevin Quintero, campione del mondo in carica e portabandiera colombiano, che corre la disciplina eccellentemente. Con le sue anche quelle dei giapponesi e di Awang. Il paese del sol levante schiera due giovani prodotti della sua scuola: il solito Ota e Shinji Nakano, che prenderà parte anche al quartetto. Il malese Aziz Awang invece è alla sua quinta edizione dei Giochi, sedici anni dopo la prima apparizione a Pechino 2008, dove è stato portabandiera, e la sua esperienza gli sarà certamente d’aiuto in una disciplina tecnica come il keirin. L’esperienza sarà un’alleata anche del polacco Mateusz Rudyk e del tedesco Stefan Bötticher, il quale dovrà però ritrovare il colpo di pedale dei giorni migliori dopo un lungo periodo ai box. Nessun italiano si è qualificato in questa disciplina.

⭐️⭐️⭐️ Lavreysen

⭐️⭐️ Ota, Quintero, Richardson, Nakano, Yakovlev

⭐️ Zhou, Paul, Carlin, Hoogland, Glaetzer/Hoffmann, Rudyk, Awang, Bötticher

Velocità a squadre maschile

I Paesi Bassi sono i dominatori assoluti di questa disciplina dal 2018, ma in questo ciclo olimpico, come mai prima, hanno visto minacciata la loro supremazia. Il terzetto oranje, composto da Roy Van den Berg, Harrie Lavreysen e Jeffrey Hoogland, ha vinto il mondiale nel 2023, ma è arrivato dietro all’Australia nel 2022. Sono Leigh Hoffmann, il terzo uomo ad essere sceso sotto i 17 secondi nei 250 metri da fermo, Matthew Richardson e Matthew Glaetzer i prescelti degli “aussies”, che si sono potuti permettere il lusso di lasciare a casa un fuoriclasse come Thomas Cornish. Tuttavia l’Australia avrà bisogno di una prestazione perfetta per scalzare i Paesi Bassi dal gradino più alto del podio. Per altre piazze d’onore sarà invece battaglia tra la stessa Australia, la Francia di Florian Grengbo, Sebastien Vigier e Rayan Helal, il Giappone di Yoshitako Nagasako, Kaiya Ota e Yuta Obara, la Gran Bretagna di Alistair Fielding, Hamish Turbulll e Jack Carlin, e l'emergente Cina di Shuai Guo, Qi Liu e Yu Zhou. L’Italia, campionessa europea under 23, non si è qualificata.

⭐️⭐️⭐️ Paesi Bassi

⭐️⭐️ Australia

⭐️ Cina, Francia, Gran Bretagna, Giappone

Velocità individuale femminile

Durante l’ultimo ciclo olimpico è cambiato molto nella velocità femminile. Si sono riconfermate le tedesche Emma Hinze e Lea Sophie Friedrich e la canadese Kelsey Mitchelll, campionessa olimpica uscente, ma sono salite alla ribalta altre giovani leve come le britanniche Emma Finucane e Sophie Capewell, le neerlandesi Hetty Van den Wouw e Steffie Van der Peet e la francese Mathilde Gros. La favorita numero uno è proprio la gallese classe 2002 Emma Finucane, la campionessa mondiale ed europea in carica. Finucane ha dimostrato di essere la più forte, ma spesso pecca ancora di inesperienza e pertanto non possono darsi per vinte le tedesche, la padrona di casa Gros e l'esperta Mitchell. In quanto ad atlete esperte non vanno dimenticate la neozelandese Ellesse Andrews, la colombiana Martha Bayona e la giapponese Mina Sato, tutte e tre molto abili nell’uno contro uno. Può invece essere una mina vagante Miriam Vece, che ha portato la velocità femminile italiana ai Giochi olimpici per la prima volta dal 1988, quando Elisabetta Fanton partecipò al primo torneo olimpico della storia della velocità femminile. Accanto a Vece ci sarà anche Sara Fiorin, ventenne brianzola che è però specializzata nelle discipline di fondo e non ha avuto l'occasione di cimentarsi nelle discipline veloci neanche agli scorsi europei under 23, dove avrebbe potuto acquistare un po’ di dimestichezza con la disciplina. Anche lo storico delle cinesi Shanju Bao e Liying Yuan, quest’ultima classe 2005, non è dei migliori, ma senza dubbio non vanno sottovalutate, visto il loro attuale stato di forma.

⭐️⭐️⭐️ Finucane

⭐️⭐️ Hinze, Gros, Friedrich

⭐️ Capewell, Mitchelll, Andrews, Sato, Bayona, Van de Wouw, Bao

Keirin femminile

Il keirin è sempre imprevedibile, ma ci sono alcune pistard che sanno più di altre padroneggiare la disciplina. Su tutte Mina Sato - la scuola giapponese si conferma una garanzia in questa disciplina - , Martha Bayona, l'australiana Kristina Clonan e la campionessa del mondo in carica Ellesse Andrews, che agli scorsi Giochi si è dovuta accontentare dell’argento dietro a Shane Braspenninckx, assente a Parigi. Tra le outsider, invece, si può citare il nome della francese Taky Marie Divine Kouame, della canadese Laurent Genest e della belga Nicky Degrendele: tre pistard tanto diverse quanto pericolose in ottica medaglia. Lontana dai riflettori troviamo anche la campionessa asiatica Nurul Izzah Izzati Mohd Asri, che in Malesia è già paragonata al “pocket rocket” Awang.

⭐️⭐️⭐️ Sato, Friedrich

⭐️⭐️ Finucane, Bayona, Hinze, Andrews

⭐️ Capewell, Mitchell, Gros, Van der Peet, Van den Wouw, Kouame, Guo

Velocità a squadre femminile

Per la prima volta nella storia dei Giochi, la velocità olimpica femminile si correrà su tre giri, e non più su due, proprio come quella maschile. Il cambio di regolamento ha rimescolato le carte, ma a conti fatti la Cina, campionessa olimpica a Tokyo 2021, si presenta ancora come favorita. Infatti, dopo un triennio senza grandi acuti, il terzetto cinese, composto da Yufang Guo, Shanju Bao (entrambe olimpioniche a Tokyo) e la giovanissima Liying Yuan, ha fatto segnare un nuovo record del mondo poche settimane fa, fermando il cronometro a 45.487, quasi quattro decimi in meno del precedente record stabilito dalla Germania. Saranno proprio le tedesche Pauline Grabosch, Emma Hinze e Lea Sophie Friedrich a giocarsi l’oro con le avversarie di sempre, che la spuntarono anche a Tokyo. Dietro a queste due corazzate troviamo la Gran Bretagna, la quale si presenta con un bel mix di gioventù ed esperienza con Sophie Capewell, Emma Finucane e Katy Marchant, che ha sostituito Laurent Bell. Le britanniche, con Bell in formazione, hanno trovato l’argento agli scorsi campionati del mondo di Glasgow, a solo un decimo dalla Germania: una frazione di secondo che a Parigi potrà determinare il metallo di un’ipotetica medaglia. Le altre nazioni che possono ambire al podio sono i Paesi Bassi di Kyra Lamberink, Hetty Van den Wouw e Steffie Van der Peet e il Messico di Jessica Salazar, Yuli Paula Vedugo e Luz Daniela Gaxiola. Sono invece più indietro la Polonia, la Nuova Zelanda e il Canada. L’Italia non ha partecipato a nessuna prova di qualificazione per questa disciplina.

⭐️⭐️⭐️ Cina

⭐️⭐️ Germania, Gran Bretagna

⭐️ Paesi Bassi, Messico

Inseguimento a squadre maschile

Il ricordo della rimonta di Ganna a Tokyo è ancora lucido nella memoria dei tifosi italiani, ma nel frattempo il livello nell’inseguimento a squadre si è alzato ulteriormente. Come tre anni fa, i favoriti principali sono i danesi, che in questo ciclo olimpico hanno riconfermato Rasmus Pedersen, Frederik Rodenberg e Niklas Larsen, e fatto spazio al giovane Carl Frederik Bevort, ma l’Italia vuole rovinargli nuovamente la festa con i quattro olimpionici di Tokyo: Francesco Lamon, Jonathan Milan, Simone Consonni e Filippo Ganna. A rivoluzionare la propria squadra è stata invece la Gran Bretagna di coach Ben Greenwood che schiera l’ingegner Dan Bigham, il fuoriclasse Ethan Hayter, il poliedrico Ethan Vernon e la garanzia Charlie Tanfield. Negli ultimi tre anni queste tre nazioni si sono alternate sul gradino più alto del podio dei Campionati del mondo: prima l’Italia, poi la Gran Bretagna e infine la Danimarca, ma non è impossibile spodestare dal podio. Ci proveranno senz’altro l’esperta Nuova Zelanda con il portabandiera Aaron Gate, Keegan Hornblow, Tom Sexton e Campbell Stewart, i padroni di casa della Francia che schierano Thomas Boudat, Thomas Denis e Valentin Tabellion al fianco del fortissimo Benjamin Thomas e gli australiani di Oliver Bleddyn, Conor Leahy, Kelland O’Brien e Sam Welsford. Dietro a queste sei troviamo quattro formazioni con meno esperienza: la Germania, che in sede di convocazione ha sacrificato il quartetto per le discipline di gruppo; il Belgio, che è stata la nazione più in crescita in questo ciclo olimpico; il Giappone, che per fargli spazio nel keirin schiera Shinji Nakano in posizione di lancio: e il Canada, orfano del suo capitano Derek Gee, che quest’anno ha lasciato la pista.

⭐️⭐️⭐️ Danimarca

⭐️⭐️ Italia, Gran Bretagna

⭐️ Australia, Nuova Zelanda, Francia

Madison maschille

Probabilmente la madison è la prova più impronosticabile: ci sono almeno nove coppie che possono ambire all’oro. Nel gioco dei pronostici, i belgi Robbe Ghys e Lindsay de Vylder, dominatori delle ultime due edizioni della Sei giorni di Ghent, e i campioni del mondo Joeri Havik e Willem Van Schip dai Paesi Bassi partono in prima fila, ma hanno alle calcagna la coppia britannica formata da Ethan Hayter e Oliver Wood e i francesi Benjamin Thomas e Thomas Boudat. Non bisogna sottovalutare neanche l‘esperienza dei tedeschi Roger Kluge e Theo Reinhard e del danese Mørkøv, che eccezionalmente non sarà affiancato né dal compagno di sempre Lasse Norman Leth né dal giovane Theodor Storm, ma da Niklas Larsen. Non si può sorvolare neanche sulla consolidata coppia italiana composta da Elia Viviani e Simone Consonni, sebbene abbia fatto un po’ di fatica nell’ultimo ciclo olimpico. A brillare negli ultimi tre anni sono stati invece i neozelandesi Aaron Gate e Campbell Stewart. In attesa di sapere anche in questa disciplina chi schiererà l’Australia, che sta passando decisamente inosservata in ottica madison, l’ultima coppia che merita una menzione è quella formata dai portoghesi Iuri Leitão e Rui Oliveira, entrambi molto abili nella caccia.

⭐️⭐️⭐️ Belgio, Paesi Bassi

⭐️⭐️ Gran Bretagna, Francia

⭐️ Italia, Nuova Zelanda, Germania, Danimarca, Portogallo

Omnium maschile

Nell’omnium troviamo quattro grandi favoriti: il padrone di casa Benjamin Thomas, l’esperto neozelandese Aaron Gate, il campione del mondo Iuri Leitão dal Portogallo e il londinese Ethan Hayter, che dovrà difendere l’oro conquistato a Tokyo dal compagno di squadra Matthew Walls, il quale invece non è presente a Parigi. Mentre Thomas ha a proprio favore il fattore casa, Gate l’esperienza e Hayter le gambe, Leitão sarà il più fresco di tutti perché il Portogallo non si è qualificato nell’inseguimento a squadre. Assente nel quartetto anche il primo degli outsider: il campione olimpico di Rio 2016 Elia Viviani. Viviani non è né quello di otto né quello di tre anni fa, ma l’esperienza e il colpo d’occhio contano tantissimo nell’omnium. Lo sanno bene, e ne fanno un’arma, anche il neerlandese Jan-Willem Van Schip, il danese Niklas Larsen, il giapponese Kazugishe Kuboki e il colombiano Fernando Gaviria, l’unico ad uscire dal Tour de France. Tra le giovani leve invece non bisogna sottovalutare il tedesco Tim Torn Teutenberg, il canadese Dylan Bibic e il belga Fabio Van den Bossche. Sarà della partita anche un pistard australiano, sebbene non sia ancora stato deciso se correrà Oliver Bleddyn o Sam Welsford. Rispetto a tre anni fa, il recupero tra una prova e l’altra conterà sempre di più perché l’omnium sarà tenuto in appena tre ore.

⭐️⭐️⭐️ Hayter

⭐️⭐️ Gate, Thomas, Leitão

⭐️ Viviani, Van Schip, Teutenberg, Gaviria, Bleddyn/Welsford

Inseguimento a squadre femminile

È altrettanto incerto l’inseguimento a squadre femminile. La Gran Bretagna poteva dirsi favorita, ma dopo l'infortunio di Katie Archibald, che si è rotta una gamba in un incidente domestico, si sono rimescolate la carta in tavola. Le britanniche si presenteranno ai blocchi di partenza con Elinor Barker, Neah Evans, Josie Knight e Anna Morris; un quartetto sullo stesso livello di quello italiano composto da Guazzini, Balsamo e due tra Paternoster, Fidanza e Consonni, che a inizio anno si è laureato campione europeo. A proposito di campionesse continentali, le neozelandesi hanno trionfato nei campionati oceanici e occupano saldamente la prima piazza nel ranking olimpico di categoria, pertanto sono anche loro candidate alla medaglia d’oro con Bryony Botha, Emily Shearman, Nicole Shields e Ally Wollaston. Attraversando il pacifico troviamo gli Stati Uniti, ovvero i campioni panamericani in carica, che si presentano alla vigilia delle competizioni con cinque pistard di altissimo livello come Chloé Dygert, Jennifer Valente, Lily Williams, Kristen Faulkner e Olivia Cummins. Non bisogna mai sottovalutare neanche la Germania, che a Parigi cercherà un canto del cigno con Franziska Brauße, Mieke Kröger, Lisa Klein e Laura Süßemilch, e la Francia delle solite Marie Borras, Clara Copponi, Valentin Fortin e Marie Le Net, che ancora non hanno trovato una grande finale internazionale. A differenza della Francia padrona di casa, non ha grandi pressioni su di sé l’Australia, sottotono in questo ciclo olimpico, ma che può contare su pistard esperte come Georgia Baker, Alex Manly, Maeve Plouffe, Chloe Moran e Sophie Edwards

⭐️⭐️⭐️

⭐️⭐️ Gran Bretagna, Italia, Stati Uniti, Nuova Zelanda

⭐️ Germania, Francia, Australia

Madison femminile

In queste Olimpiadi molte gare presentano un pronostico molto aperto, ma nessuna come la madison femminile. La Gran Bretagna campionessa olimpica in carica si presenta con una coppia totalmente differente da Tokyo, Elinor Barker e Neah Evans, dopo il ritiro di Laura Kenny e l’infortunio di Katie Archibald. Invece la Danimarca che fu argento tre anni fa punta sulle solite Amelie Dideriksen e Julie Norman Leth, anche se quest’ultima non ha ancora brillato in pista dopo il ritorno dalla maternità. Sono da verificare anche le condizioni di un’altra pistard di altissimo livello: Elisa Balsamo, che però dopo la caduta alla Vuelta a Burgos ha già trovato un piazzamento d’onore alla seconda tappa del Giro d’Italia. Tuttavia, se non se la dovesse sentire, Letizia Paternoster può essere schierata al fianco di Vittoria Guazzini. Come Balsamo, anche Lotte Kopecky deve ancora confermare la propria partecipazione al fianco di Katrijn de Clercq, la quale in caso di forfait della campionessa del mondo su strada gareggerebbe con la giovane Helene Hesters. Sono invece delle certezze la Polonia delle sorelle Daria e Wiktoria Pikulik, gli Stati Uniti di Jennifer Valente e Lily Williams, l’Australia di Georgia Baker e Alexandra Manly, la Nuova Zelanda di Byrony Botha e Emily Shearman e la Francia di Marion Borras e Clara Copponi.

⭐️⭐️⭐️ Gran Bretagna

⭐️⭐️ Italia, Francia, Stati Uniti

⭐️ Belgio, Danimarca, Australia, Polonia

Omnium femminile

Tokyo 2020 Olympic Games - Olimpiadi Tokyo 2020 - Izu Velodrome - Cycling Track Day 7 - Women's Omnium Point Race - 08/08/2021 - Jennifer Valente (USA) - photo Luca Bettini/BettiniPhoto©2021

Anche l’omnium sarà orfano di Archibald, ma con Valente e Lotte Kopecky non mancheranno certo le campionesse. Sono proprio loro due le grandi favorite, con l’americana che parte da campionessa mondiale e olimpica in carica e la belga che invece insegue un successo internazionale nella disciplina dopo la caduta a Tokyo 2021. Tra le outsider si possono citare specialiste del calibro della neozelandese Wollaston, tre volte vincitrice dell’omnium in Nations’ Cup, la norvegese Anita-Yvonne Stenberg, campionessa europea in carica, la giapponese Yumi Kajihara, argento alle Olimpiadi di casa, la danese Amelie Dideriksen, la portoghese Maria Martins, la neerlandese Maike Van der Duin, la canadese Maggie Coles-Lyster e la polacca Daria Pikulik. Invece non hanno ancora sciolto le proprie riserve Gran Bretagna e Italia, dove i ballottaggi sono tra Elinor Barker e Neah Evans e Letizia Paternoster e Elisa Balsamo: quattro atlete da medaglia. Come nella prova maschile sarà interessante vedere se la diminuzione dei tempi di recupero tra una prova e l’altra potrà influenzare il risultato finale.

⭐️⭐️⭐️ Valente

⭐️⭐️ Kopecky, Balsamo/Paternoster

⭐️ Wollaston, Stenberg, Kajihara, Dideriksen, Pikulik, Martins, Barker/Evans

Programma

Lunedì 5 agosto - Giorno 1

17:00-19:40

  • Sprint a squadre femminile - qualificazioni
  • Inseguimento a squadre maschile - qualificazioni
  • Sprint a squadre femminile - 1° turno
  • Sprint a squadre maschile - qualificazioni
  • Sprint a squadre femminile - finale

Martedì 6 agosto - Giorno 2

17:30-19:55

  • Inseguimento a squadre femminile - qualificazioni
  • Sprint a squadre maschile - 1° turno
  • Inseguimento a squadre maschile - 1° turno
  • Sprint a squadre maschile - finale

Mercoledì 7 agosto - Giorno 3

12:45-15:30

  • Sprint maschile - qualificazioni
  • Keirin femminile - 1° turno
  • Inseguimento a squadre femminile - 1° turno
  • Sprint individuale maschile - 32esimi di finale
  • Keirin femminile - ripescaggio
  • Sprint individuale maschile - 32esimi di finale, ripescaggi

17:30-19:50

  • Sprint individuale maschile - 16esimi di finale
  • Inseguimento a squadre maschile - finale
  • Sprint individuale maschile - 16esimi di finale, ripescaggi
  • Inseguimento a squadre femminile - finale
  • Sprint individuale maschile - ottavi di finale
  • Sprint individuale maschile - ottavi di finale, ripescaggi

Giovedì 8 agosto - Giorno 4

17:00-19:55

  • Omnium maschile - scratch 1/4
  • Keirin femminile - quarti di finale
  • Omnium maschile - gara a tempo 2/4
  • Sprint individuale maschile - quarti di finale
  • Keirin femminile - semifinali
  • Omnium maschile - gara a eliminazione 3/4
  • Keirin femminile - finale 7-12
  • Keirin femminile - finale 1-6
  • Omnium uomini - corsa a punti 4/4
  • Sprint maschile - posti 5-8

Venerdì 9 agosto - Giorno 5

14:00-15:45

  • Sprint individuale femminile - qualificazioni
  • Sprint individuale maschile - semifinali
  • Sprint individuale femminile - 32esimi di finale
  • Sprint individuale femminile - 32esimi di finale, ripescaggi

18:00-19:55

  • Madison donne - finale
  • Sprint individuale femminile - 16esimi di finale
  • Sprint individuale maschile - finali
  • Sprint individuale femminile - 16esimi di finale, ripescaggi

Sabato 10 agosto - Giorno 6

17:00-19:50

  • Sprint individuale femminile - ottavi di finale
  • Keirin maschile - 1° turno
  • Sprint individuale femminile - ottavi di finale, ripescaggi
  • Madison uomini - finale
  • Sprint individuale femminile - quarti di finale
  • Keirin maschile - ripescaggio

Domenica 11 agosto - Giorno 7

11:00-14:15

  • Omnium donne - scratch 1/4
  • Sprint individuale femminile - semifinali
  • Keirin maschile - quarti di finale
  • Omnium donne - corsa a tempo 2/4
  • Sprint individuale femminile - posti 5-8
  • Keirin maschile - semifinali
  • Omnium donne - corsa a eliminazione 3/4
  • Keirin maschile - finale 7-12
  • Keirin maschile - finale 1-6
  • Sprint individuale femminile - finale
  • Omnium donne - corsa a punti 4/4

*Il programma potrebbe subire variazioni.


Appunti sul Tour de France

Il Tour è terminato qualche giorno fa, andiamo in pace. Più o meno. Il Tour è terminato pochi giorni fa e proietta in maniera definitiva Pogačar nella storia di questo sport. Stando larghi, andando a naso, a sensazione, senza che tutto ciò sia suffragato da numeri - e i numeri in ogni caso suffragherebbero, eccome se suffragherebbero - la stagione 2024, che sta trascorrendo veloce come veloce affrontano le salite i corridori, lo inserisce (almeno) tra i dieci più grandi che questo sport abbia mai visto. La doppietta Giro-Tour dopo 26 anni è simbolo di ciò che è lo sloveno e di ciò che resterà delle sue gesta in questo sport negli anni a venire.

NON SOLO POGI

Il Tour appena trascorso, però, non è soltanto lo sloveno. C’è la resistenza - la volta che userò il termine resilienza abbattetemi - del suo più forte rivale, Jonas Vingegaard, che rientra alle corse proprio al Tour dopo aver rischiato perlomeno la carriera un paio di mesi prima ai Paesi Baschi. Il danese, tanto grintoso in sella quanto sfuggente e introverso nel dopo corsa - e adoro questo suo volto contraddittorio - è stato l’unico, a sprazzi, a provare a tenere la ruota di Pogačar, tanto da farci pensare, a un certo punto, come il Tour 2024 potesse avere una sfida da raccontare in chiave maglia gialla. Ma troppa, esagerata, la superiorità dello sloveno in versione 2024. Un Pogačar che ha raggiunto la maturità agonistica, fisiologico vista l'età, e pare che sul suo periodo di forma stia avendo un certo peso il cambio di allenatore e di allenamenti.

Il podio lo chiude Remco Evenepoel, sorpresa, ma fino a un certo punto. Fino a un certo punto perché in quanto a talento il corridore belga appartiene a quel gruppo lì, dei Pogačar e pochissimi altri. C’era qualche dubbio sulla tenuta, in alta montagna, soprattutto in tappe con salite ripetute, ma si è gestito benissimo e a questo punto, con una vittoria alla Vuelta nel 2022, un dodicesimo posto lo scorso anno sempre in Spagna (uscì di classifica a causa di una giornata di crisi dalla quale comunque si riprese benissimo, una giornata no) dove arrivarono, però, tre vittorie di tappa e la maglia a pois, un ritiro al Giro nel 2023, quando era in piena lotta per vincerlo e un podio al Tour, si può dire come sia attualmente uno dei più forti interpreti anche delle corse di tre settimane. Margini? Da scoprire, da capire quali e se ci saranno. Argomento interessante per il 2025 dove, molto probabilmente, lo rivedremo in corsa in Francia, stavolta, però, con la pressione di dover per forza salire sul podio se non addirittura trasformare il duello in una lotta a tre. Poi se magari, per mettere pepe, gli organizzatori aggiungessero cinquanta, sessanta chilometri a cronometro ci si potrebbe divertire ancora di più.

E ci sono tante altre cose da dire, partendo dal regolarista Almeida (quarto) che non sbaglia una corsa a tappe che sia una, con un ritiro al Giro per un malanno quando era lì a giocarsi il successo e poi tanti risultati di rilievo, uniti ad una certa costanza di rendimento ne fanno uno dei corridori più forti al mondo nelle corse di tre settimane, Tutto questo oltre a una grande capacità di svolgere, a livelli importanti, il ruolo di uomo-squadra.

 


C’è poi il ritrovato Landa che a quasi 35 anni firma un notevole quinto posto in classifica, migliorando anche lui ogni prestazione in ogni singola tappa di montagna rispetto a quello che era il suo meglio almeno a livello di età. Ci sono le difficoltà della Ineos, vittima di malanni in serie e che non va al di là del settimo posto di Carlos Rodriguez: per lui un passo indietro rispetto al 2023 ma con l’attenuante di aver corso mezzo malato, per l’appunto, dopo aver corso mezzo incidentato lo scorso anno: ancora da capire quale sia il suo vero volto e in questo caso da scoprire quali sono i margini. Per motivi legati anche alla giovane età non ho ancora capito molto del corridore spagnolo se non che è uno che va forte un po’ ovunque e quando sta bene non ha paura di attaccare.

C’è Adam Yates (sesto posto) che, senza strafare, chiude ancora in alto in classifica, anche se non tanto quanto il 2023, ma lavorando con profitto per il suo capitano; c’è Matteo Jorgenson, completo come pochi altri in gruppo, dotato di fondo e recupero, capace anche lui di svolgere al meglio il lavoro di gregario, ma anche di ritagliarsi spazio personale. Chiude ottavo al Tour dopo aver vinto una classica delle pietre questa primavera: ecco, in questo è stato persino superiore a Tadej Pogačar che quest’anno la campagna fiamminga l’aveva saltata a piè pari. C’è Derek Gee che toglie spettacolarità al suo modo di correre, ma si testa per la classifica: nono al Tour è un risultato enorme e chissà che nel 2025 non gli venga in mente di provare a venire al Giro e magari cercare pure di vincerlo o di salire sul podio.

Un accenno alle tre settimane strepitose di Carapaz. Veste la maglia gialla, vince quella a pois, conquista una tappa e ne sfiora altre due. Corridore spettacolare, esaltante, quando scatta fa male (quasi) a tutti. Si deve inchinare in un paio di circostanze soltanto alla rimonta di quel diavolo vestito in giallo che porta il nome di Tadej Pogačar. Due righe anche sul Tour di Bini Girmay che porta a casa la maglia verde, fa pari e patta come numero di vittorie di tappa con Jasper Philipsen e questa è stata una grande sorpresa: alzi la mano chi si sarebbe mai immaginato di vederlo così competitivo in volate di gruppo. Certo, voglio fare il rompiscatole: il livello di queste volate, una volta tanto, non era così alto, anzi, rispetto a quello che il 2024 sa offrire. Mancavano due dei tre più forti al mondo, Milan e Merlier, oltre a Groves e Kooij, tutti questi ce li siamo goduti al Giro. E in più è come se a Philipsen fosse mancato qualcosa in termini di brillantezza. A lui e al suo treno.

 


Altri spunti: le vittorie di tappa di Bardet, Vauquelin e Turgis, tre corridori francesi appartenenti a tre mo(n)di differenti. Il primo, all’ultimo Tour, che questa corsa pareva potesse vincerla un giorno e a volte c’è davvero andato vicino, ma l’avversario si chiamava Froome. All'ultimo Tour vince una tappa dopo sette anni dall'ultima volta e veste per la prima volta la maglia gialla. Il secondo avanza senza essere mai stato uno di quei talenti da strapparsi i capelli (e in Francia ne hanno, di talenti non solo di capelli) ma ogni stagione ha messo un piccolo mattoncino finendo per costruire un palazzo che si fa guardare, piazzando all’entrata la vittoria di tappa di Bologna dopo essere stato in fuga tutto il giorno. Va forte a cronometro, è veloce, apprezza le brevi corse a tappe: non sarà colui che sfaterà il tabù Tour per i francesi, ma è corridore da seguire. Nazione sempre più prolifica, grazie alla programmazione e al sistema che permette a un numero altissimo di corridori di esprimersi restando competitivi anche una volta passati professionisti - a differenza di quello che succede da noi in italia. La terza vittoria di tappa francese porta la firma di Anthony Turgis che invece appartiene agli incompiuti, di quelli che le grandi vittorie le hanno soltanto sfiorate. Vive una giornata di gloria incredibile nella tappa degli sterrati salvando il Tour, e in parte la stagione, di una (mezza) disastrosa, sin qui, TotalEnergies. Ci sarebbe da parlare di quanto è forte Jonas Abrahamsen che ha trasformato completamente il suo fisico per diventare un corridore vero alla soglia dei 30 anni e un giorno potrà giocarsi pure qualche classica del Nord. Al Tour non vince, ma veste la maglia a pois per diversi giorni, è il corridore con più chilometri in fuga, avrebbe meritato il premio di supercombattivo, ma gli viene preferito Carapaz. E a proposito di trasformazioni: Campenaerts, che da un po’ di anni si occupa meno delle crono e più delle fughe, trova il successo più importante della carriera dopo averne sfiorati anche lui diversi. Tre parole sui due van: Aert e der Poel. Entrambi a secco anche se il primo più volenteroso del secondo, oltre ad esserci arrivato molto più vicino. Per i due l’obiettivo sarà fra pochissimi giorni e si chiama Parigi 2024.


AZZURRO TENEBRA

 

Infine e in breve: quanto è messo male il ciclismo italiano che, tolti i due campioni di cui possiamo vantarci (Ganna e Milan), ormai è ben poca cosa? Ciccone fa classifica chiudendo undicesimo alle spalle di Buitrago: il duello con il colombiano, anche in un post tappa, è uno dei pochissimi momenti in cui l’Italia si fa vedere, anche se nella seconda settimana, quando arriva al quinto posto in due tappe di montagna, mi aveva illuso potesse lottare per qualcosa di meglio in classifica, ma al Tour il livello è troppo alto per pensare di entrare nei primi sei, sette, otto. L’anno prossimo lo aspettiamo al Giro e magari nelle classiche delle Ardenne.

Può bastare il suo undicesimo posto senza guizzi a salvare la spedizione? Assolutamente no, ma se Ciccone, pur bravo sia chiaro, non esalta, gli altri che fanno? Sobrero, dopo il ritiro dei due uomini di classifica della Red Bull, fatica a riciclarsi in un altro ruolo e si vede a malapena in un paio di fughe dove aiuta i compagni di squadra (da gregario per la classifica a gregario per i compagni in fuga, siamo questi); Moscon è l’emblema di ciò che sempre più spesso diventano i ciclisti italiani: ottimi compagni di squadra, valorosi aiutanti, dopo aver vestito i panni delle speranze, dopo averci illuso.

Bettiol, non pervenuto, ritirato per stanchezza; Ballerini e Mozzato hanno fatto l’uno guardia del corpo a Cavendish e con buoni risultati (tappa vinta dal corridore britannico), l’altro apripista di un velocista che da un anno a questa parte è diventato un ex. Gazzoli è stato il primo a ritirarsi al Tour, Formolo si è visto un paio di volte tirare il gruppo per qualche centinaia di metri. A memoria non ricordo un Tour così insipido corso dagli italiani e succede proprio nell’anno in cui la corsa parte dall’Italia. Ma, come detto, siamo questi: senza squadre di livello nella massima categoria, con talenti che passano professionisti dopo aver fatto buone cose nelle categorie giovanili e in un modo difficile da spiegare e comprendere o scompaiono dai radar o diventano gregari. Senza ottenere risultati di vertice nelle corse che contano e stanno scomparendo pure i risultati che contano nelle gare di secondo piano, fateci caso. Stiamo entrando in quello che forse è uno dei peggiori momenti della storia del ciclismo italiano. Problemi? Tanti, diffusi in maniera capillare in tutto il sistema. Soluzioni? Nessuno le conosce o ne parla, anzi, spesso alcuni buoni risultati vengono usati per nascondere ciò che non va. Vedremo il futuro cosa riserverà a questo sempre più evidente azzurro tenebra che ultimamente sta bene con tutto.

Foto: Sprint Cycling Agency


Italy Divide: da Pompei a Torbole

Articolo e foto di Benedetto Conte

1270 chilometri e 22000 metri di dislivello da Pompei a Torbole. Dati alla mano non sembrava una cosa grossa o, almeno, non così tanto: dividendo i chilometri e il dislivello per il numero di giorni a disposizione si trattava di mettere in fila 210 chilometri e circa 3500 metri di dislivello al giorno, per diversi giorni. Che potesse essere una cosa grossa sembrava emergere solo dalle esclamazioni dei non addetti ai lavori ma alla fine dei conti, cosa potevano saperne? Bisognava solo pedalare, senza nient’altro a cui dover pensare.

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Il meteo non sembrava favorevole fino al giorno della partenza, con neve e temperature polari fino a -10 °C ad attenderci una volta entrati in Abruzzo, dove gli organizzatori avevano decretato uno stop obbligato dalle 22 alle 5 per evitare problemi sui 40 chilometri di nulla sul sentiero in quota che separa Rivisondoli dal lago di Scanno. Un problema che avrei ormai affrontato l’indomani, considerando che alle 21 mi trovavo incollato su una discesa fangosa, scastrando con le mani il fango che continuava ad ammassarsi tra la ruota e il telaio mentre i pronosticati 30 minuti per raggiungere Castel di Sangro si dilatavano sempre e sempre più.
La prima alba, e le prime 3 ore di sonno, partono con un anomalo fastidio al ginocchio destro, che decide di rivendicare la propria esistenza dopo 35 anni, esattamente in quel preciso momento, dopo una vita passata in sordina. Decido di ignorarlo concentrandomi invece sul vento tagliente dell’altopiano abruzzese, nell’attesa di trovare l’anticipata neve in quota. La salita è costante, scenografica e maestosa ad ogni curva fino a quando il paesaggio innevato appare, catapultandomi in un luogo che potrebbe essere tanto remoto quanto quasi impossibile da trovarsi qui. Una discesa scassata sembra farmi planare alle porte di Roma, ben oltre le più rosee aspettative, ferme un centinaio di chilometri più indietro.

La seconda alba, e le seconde 3 ore di sonno, partono sui basoli della Via Appia Antica che dopo 20 chilometri sfociano su un Colosseo semi-deserto illuminato dalle prime luci del sole. 3 brioche al lato di Piazza San Pietro e via verso Viterbo, a testa bassa fino a che la via Francigena non diventa più verde, sempre più fitta, sempre più fangosa. Mi godo i diversi passaggi tecnici, mi diverto, fino a che non ne esco e posso mettermi alla ricerca di un supermercato da svaligiare. Sono da poco passate le 15 e l’Umbria e la Toscana sono poco più in là, cadenzate da Montefiascone, Bagnoregio, Orvieto. Alle 20 solo una discesa e 20 chilometri sullo sterrato compatto di un bosco nel crepuscolo avanzato mi separano da Proceno, da 2 pizze e un letto.

La terza alba, con le sue 4 ore di sonno, inizia tra le colline toscane e la curiosità della salita verso Radicofani di cui tutti parlano. Iniziarla a stomaco quasi vuoto è un’idea che appare sbagliata solo a danni fatti e lo capisce subito anche la signora all’ingresso del paese che, senza proferire parola, mi conduce in silenzio assente a svaligiare il bancone del suo bar vincendo e assicurandosi il premio “Appostamento dell’anno”. La giornata è eccezionale e con i muscoli caldi andare su e giù per la Toscana è puro piacere. Sono tra i primi 20 e la bellezza è tale da farmi attraversare tutto d’un fiato San Quirico d’Orcia, Bonconvento e Siena senza che mi accorga di aver scalato anche diverse posizioni. Prima di attraversare le colline del Chianti, con il sole a picco, faccio una pausa e riparto; le salite ora sono dure e scassate e mi riprometto che oltre il 15% di pendenza, considerando ancora i giorni mancanti, non vale la pena pedalare, anche solo per cambiare postura e rilassare quanto più possibile i muscoli coinvolti. Alle 19 sono pronto per la discesa al tramonto verso Radda in Chianti ma, al primo colpo di pedale, qualcosa non va: il deragliatore penzola affianco alla ruota, completamente staccato dal telaio. Mantengo la calma, so di avere la soluzione ma non so ancora di avere una vite spanata e nulla con me per poter rimediare. Provo e riprovo mentre il sole si abbassa sempre di più, mi abbatto e inizio a pensare al treno che mi riporterà a casa, è domenica e l’unica cosa che posso fare è raggiungere il paese e poi…chissà! Mentre sono lì a tentare il tutto per tutto, un’auto mi si ferma accanto e chiama il meccanico del paese che, accertatosi che avessi il ricambio necessario, si rende disponibile ad aprire la sua bottega. Quanto più rapidamente possibile e incredulo, rimetto tutti i pezzi apposto, smaglio la catena e la infilo nella tasca posteriore, lego il deragliatore al telaio con nastro e fascette e giù sparato per la discesa, tra gli in bocca al lupo di tutta la famiglia stipata nell’auto che mi ha soccorso e che mi sta facendo sentire un campione. Il signor Ramuzzi è costretto ad imprecare un paio di volte, ed io con lui, per riuscire a tirar via quel maledetto forcellino ma poi, mentre io tengo gli occhi stretti e chiusi, girato di spalle, come all’ultimo rigore di una finale mondiale, con un ultimo e decisivo colpo riesce nell’impresa e alle 20.30 mi rimette in corsa, direzione Firenze, un po’ più tardi del solito ma solo 25 chilometri prima delle più ottimistiche delle aspettative.

La quarta alba, con le sue 3 ore di sonno, ha con sé tutti gli acciacchi del caso e il pensiero fisso e costante che oggi bisognerà valicare gli Appennini verso Bologna su salite proibitive e strade scassate chissà quanto. Il primo indizio sull’andazzo della giornata dovrebbe darlo l’attacco della salita al 25% dopo Prato ma bado bene a non farci caso. Al termine della prima salita e della prima discesa tra single track e freni tirati, l’orario e l’umore sono ancora più che fiduciosi. Al termine della seconda salita tutto sembra ancora possibile e nella mia mente si fa largo l’idea di una gloriosa discesa verso Bologna ma non sarà assolutamente così; tra terreni sconnessi, single track e frane da superare, Bologna sembra sempre più lontana e il Santuario di San Luca si rivela, nella sua veste migliore, dopo soli 130 chilometri in ben 13 ore, alle luci del tramonto, quasi come a farlo apposta per vomitarmi addosso quell’emozione tutta adolescenziale di farmi sentire di nuovo come quel “Girardengo appena appena più basso e rock”. Voto 10 per il tempismo: alla fine, che fretta c’era di arrivare se doveva essere nel momento sbagliato?

La quinta alba suona quasi come l’ultima ma non bisogna abbassare la guardia, un rischio grosso nel momento in cui ci si inizia a sentire quasi arrivati. I 100 chilometri di dritta ed infinita pianura che portano a Verona mettono a dura prova la concentrazione ed è meglio rallentare per non buttare alle ortiche quanto fatto finora. Verona arriva dopo ben 5 ore e alle 11 del mattino, sotto un sole che batte, non rimane che l’ultima salita per la Lessinia e l’ultima discesa a picco verso il lago di Garda tenuto nascosto dal Monte Baldo. Mi godo ogni pedalata in salita, tutto il vento in faccia in discesa e tutti gli ultimi 40 chilometri sulla ciclabile finale, messi lì sicuramente non solo per decantare l’adrenalina, la tensione e la stanchezza accumulata fin lì ma per cementare la valanga di ricordi prima del traguardo finale in 5 giorni e 10h. Ora sì che sembra una cosa davvero grossa.


Bikeboobs: una strada rosa in costruzione

«Ero una ragazza con le idee abbastanza confuse, tanto riguardo a quel che volevo, quanto riguardo al mio essere, alle mie potenzialità. Ho intrapreso studi creativi e un lavoro che ha a che vedere con la creatività, ma sentivo che qualcosa mancava per definire il quadro. Quel pezzo mancante, alla fine, era la bicicletta: mi ha permesso di scoprirmi davvero, di dirmi, quasi sorpresa, "ecco, io sono così, io sono questa persona qui". Ha ampliato la visione di me stessa e solo quando hai ben presente chi sei tu riesci a vedere davvero gli altri nella giusta prospettiva. Ora le pedalate sono i miei "spazi vuoti", quelli in cui mi libero di tutto ciò che frulla in una mente iperattiva e metto tutto in ordine, per ricominciare, per riprendere. Seduta ad una scrivania, questo processo mi è impossibile. Che lusso è stata per me quella bicicletta: scoprirmi, definirmi e rifiatare».

Il lieve accento toscano con cui vengono scandite queste parole è quello di Agnese Gentilini, fondatrice di Bikeboobs. Si tratta di una associazione tutta al femminile, nata con l'idea di avvicinare le donne all'attività ciclistica, sportiva, performativa, oppure amatoriale, legata solo al piacere di pedalare, che, in realtà, nel tempo, ha iniziato a occuparsi a tutto campo del tema benessere, salute e di tutte le tematiche che hanno a che vedere con il femminile: alimentazione, prevenzione, violenza di genere e diritti. Bicicletta e attivismo, insomma. «Purtroppo- sottolinea Agnese- c'è un pregiudizio sulla figura della donna, come se non potessimo fare certe cose, riservate agli uomini, o, perlomeno, non potessimo farle da sole, in autonomia. Noi invitiamo le donne a tenere gli occhi aperti, a non farsi definire, a non farsi escludere, a non lasciare che siano gli uomini a dibattere e decidere su questioni che le riguardano».

Il progetto inizia nel 2019 da un incontro fra tre amiche, oltre ad Agnese, Giulia Vinciguerra e Sara Paoli, ma ha radici profonde, probabilmente già nel 2014, nel giorno in cui le venne l'idea di percorrere il Cammino di Santiago non a piedi, ma in bici, assieme al marito che già si cimentava nell'enduro: di fatto un modo per stare in compagnia, per andare via assieme. I primi allenamenti sono finalizzati a questo, un filo che si riallaccia con la bicicletta che aveva da ragazzina, con il cestino in cui metteva gli oggetti della quotidianità che portava nei suoi giri in città. Anni in cui tutto avrebbe pensato tranne che questo. Una cosa, però, aveva già iniziato a notarla: «Spesso, in bicicletta, ci si trovava tra tanti uomini e l'atteggiamento era, talvolta, di derisione, di giudizio, con occhi strabuzzati. Della serie: "Tanto non siete capaci". Credo sia una cosa che abbiamo provato tutte o quasi. Al Tuscany Trail del 2021, probabilmente, la volta che ha acceso in me, Giulia e Sara il desiderio di raccontare questa esperienza e condividerla, affinché chiunque la viva sappia di non essere sola». Racconta Agnese che aumentare il numero di donne che pedalano è la via principale per sconfiggere il pregiudizio: se si è poche si può essere un'eccezione, se si è tante, tantissime, si è la regola, questo è l'assunto.

Anche perché per proseguire un'attività di qualunque tipo dopo certi giudizi è necessaria perseveranza che non tutti hanno e che, soprattutto, non è un dovere avere: «Talvolta, dopo questi sorrisi, dopo queste battute, si smette, si cambia strada, specialità. Sia chiaro: è possibile cambiare, certe volte è necessario, ma dobbiamo essere noi a volerlo, per scelta, non per delusione o perché qualcuno ha provato a non farci sentire capaci. Se si condivide, si scopre che la sensazione non è solo tua e soprattutto che si può rallentare, ci si può fermare, portare la bici a mano per qualche tratto, avere dubbi, incertezze. senza timori». Bikeboobs origina quindi Bikeboobs Trail, quest'anno alla seconda edizione. L'intento è quello di dare forma ad una sorta di "strada rosa" fra Toscana e Lazio, una sorta di testimonianza e di monito che si andrà a costruire in cinque edizioni programmate.

Nel 2024, il 5-6 settembre, si parte da Pontedera e si va verso Piombino, verso Livorno: due percorsi, un lungo e un corto, 304 chilometri circa e 248 chilometri circa, con dislivello attorno rispettivamente a 2000 ed a 3500 metri. I due tracciati si incontrano spesso, in modo che sia possibile, per chi lo desidera, unirli, in una sorta di nuova variante: «Nella mente ho una serie di "fotografie" bellissime che fanno venire voglia di partire: la strada sterrata della Via Alta dei Cavalleggeri, con la vista della costa proprio lì sotto, l'entroterra toscano, dai fiumi, ai laghi, al mare, fino a Casale Marittimo e all'ingresso a Pisa che è da togliere il fiato, in quanto vi si arriva da una stradina stretta che, da un momento all'altro, spalanca la vista sulla città e sulla Torre. Tra il giallo, il verde ed il blu, il profumo del mare e della macchia». Agnese Gentilini si augura il sole, la stessa atmosfera del 2023, la voglia di far gruppo e stare assieme. Sì, la bicicletta è proprio un lusso, un lusso attraverso cui andare oltre: parole inutili, giudizi e pregiudizi.

Le iscrizioni sono aperte sino al 31 luglio. Si accede dal seguente link:

https://www.eventbrite.it/e/biglietti-bikeboobs-trail-2024-la-via-dellacqua-753062980647


Benvenuta Cima Alfonsina Strada

Lungo la strada asfaltata che porta al Rifugio Pomilio, nonostante la luce accecante di un sole di metà luglio che non sembra avere pietà per gli esseri umani, è impossibile non notare un segnale stradale diverso dal solito. Doveva essere un semplice stop, invece lo street artist toscano Dela Vega, il cui vero nome è Matteo Filippeschi, ha aggiunto un rosa “don’t” e sotto ha disegnato una ragazza in bicicletta. Non è casuale nemmeno lei, soprattutto non quest’anno, non qui in cima al Blockhaus. Lo dicono lo sguardo sfidante, i capelli corti neri e la scritta sulla maglia che quella non è una ciclista qualsiasi, ma Alfonsina Strada.

Cento anni fa, con grande riluttanza del mondo ciclistico e dopo aver corso già due Giri di Lombardia, Alfonsa Rosa Maria Morini, da coniugata Strada, si iscrisse al Giro d’Italia. Qualcuno sostiene che Emilio Colombo e Armando Cougnet, direttore uno e amministratore l’altro della Gazzetta dello Sport, avessero ceduto solo perché i grandi nomi, come Girardengo e Bottecchia, avevano deciso di non prendere parte alla corsa rosa se non fossero state garantite loro ricompense in denaro. La risposta dall’alto fu un secco no e così Alfonsina divenne per qualcuno un elemento promozionale, per altri la ragione per cui il Giro d’Italia si prospettava una pagliacciata. Non le importava molto, né del fatto che il suo nome, a pochi giorni dalla partenza, non compariva nella lista dei partecipanti, né che la Gazzetta dello Sport si perse una “a” riportandola come “Alfonsin Strada di Milano” e che il Resto del Carlino le andò dietro rinominandola “Alfonsino Strada”. Partì come tutti gli altri, con il numero 72 cucito sulla divisa nera, pronta a percorrere 3.613 chilometri. È stata dedicata a lei la cima della settima tappa del Giro d’Italia Women, quella regina, quella di un Blockhaus su cui il peloton femminile non era ancora mai salito: se gli uomini hanno da moltissimo tempo una Cima Coppi, da quest’anno le donne hanno una Cima Alfonsina Strada.

A Lanciano, in partenza, le ragazze sono state accolte da un caldo afoso che ha tenuto loro compagnia dall’inizio della gara, ma anche dall’affetto della gente del posto: l’atmosfera assomigliava a quella fatta di fiori e striscioni che attendeva sempre Alfonsina alla fine di ogni tappa. Il percorso, a guardare l’altimetria, si capiva che, fin dall’inizio, di tempo per rifiatare non ne avrebbe dato molto: le strade in pendenza verso Guardiagrele, Bocca di Valle, Pretoro e La Forchetta erano solo l’antipasto di una doppia ascesa a Passo Lanciano e poi l’arrivo in cima al Blockhaus. Duro è l’unico aggettivo che è venuto in mente a Mavi García per definire ciò che le aspettava: non credeva ci sarebbe stato spazio per pensare a strategie, sarebbe stata una lotta di resistenza, le gambe avrebbero deciso chi avrebbe avuto la meglio. Sarebbe potuta essere una tappa per lei, per scalatrici pure come lo sono anche Juliette Labous e Niamh Fisher-Black, ma la verità è che tutti gli occhi erano puntati su due cicliste in particolare: la maglia iridata della SD Worx, Lotte Kopecky, e la maglia rosa della Lidl-Trek, Elisa Longo Borghini, avevano solo 3 secondi di distacco nella classifica generale. La domanda che si rincorreva fin dal mattino era se la tappa regina sarebbe stata anche quella della resa dei conti o se, invece, sarebbe stata rimandata al giorno successivo, che non si prospettava decisamente più gentile.

 

Nei primi chilometri, si sono alternati tentativi coraggiosi di attacchi e ritiri, come quello di Martina Alzini e delle sorelle Giada e Letizia Borghesi, le prime di una lunga lista. Solo Claire Steels, 37 anni e al suo primo Giro d’Italia Women, è riuscita a prendere abbastanza distanza dal gruppo per non esserne risucchiata di nuovo al suo interno. È stata, però, solo questione di tempo, perché all’attacco della prima salita verso Passo Lanciano, il peloton si è ricompattato con facilità. La pendenza all’8,6% ha fatto la sua scrematura, risparmiando la belga Justine Ghekiere, che si è aggiudicata il gran premio della montagna e, complice il ritiro di Clara Emond, anche la maglia azzurra da miglior scalatrice alla fine della giornata. Quando è arrivato l’attacco del Blockhaus, a valle c’erano 35 gradi ed è stata Gaia Realini, nata a non molti chilometri da lì e conoscitrice a menadito di quelle strade, a tirare il gruppo per la sua capitana e a mietere vittime, anche di un certo calibro, con il suo ritmo. Ha provato addirittura a fare la differenza ad un certo punto, accelerando ulteriormente, ma è stata Neve Bradbury a sorprendere il gruppo con un attacco deciso. La giovane australiana è riuscita a creare un gap interessante, mentre dietro la maglia rosa e quella iridata si studiavano. Almeno è stato così fino a sette chilometri dall’arrivo quando Elisa Longo Borghini ha provato a staccare la campionessa belga, che non aveva alcuna intenzione di mollare la sua ruota. Ha tentato una, due, anche tre volte, ma l’altra sembrava fosse un magnete. Arrivati all’ultimo chilometro, era chiaro che sarebbe stata la giovane ventiduenne della Canyon-SRAM a vincere la tappa regina di questo Giro d’Italia Women e che dietro ci si preparava ad una volata: Kopecky è partita a pochi metri dal traguardo, Longo Borghini ha cercato di eguagliare la sua esplosività ma la belga è riuscita a spuntarla, arrivando davanti. Seconda e terza, il distacco era diventato di un solo secondo. Il giorno dopo è una pagina del nostro ciclismo che aspettavamo di scrivere da 15 anni.

Il resto del peloton è arrivato frammentato con distacchi altissimi: qualcuna aveva mollato la presa e si è goduta la salita, qualcun’altra aveva il viso rigato dalle lacrime per via della fatica e del caldo. Si sono incrociate lungo la strada quelle che scendevano verso i pullman e quelle che, invece, erano ancora alle prese con gli ultimi chilometri. Chi non aveva ceduto alle lacrime in salita, si è lasciata andare in discesa: Gaia Realini è stata una di loro, ha chiesto scusa a Paolo Dalla Costa, direttore sportivo di Eletta Trentino cycling Academy, che era proprio all’attacco dell’ultimo chilometro lungo la strada, avrebbe voluto fare di più, magari anche vincere davanti alla gente di casa sua. Paolo le ha tenuto il viso tra le mani, le ha asciugato le lacrime, ma soprattutto l'ha fatta ragionare, l’ha riportata a sé, a quello che ancora non realizzava di aver fatto e che era stato fondamentale per la sua squadra. Io ero seduta sull’asfalto proprio accanto a Paolo, che mi aiutava a riconoscere le atlete, mi raccontava le loro storie, mentre le incitavamo una ad una. Altre si sono fermate per un saluto, un abbraccio. Mi chiedo ancora adesso perché mi abbia così sorpresa un gesto così semplice e umano. Forse lo sport mi aveva preparato ad altro. Il caldo, per fortuna, mi ha distratto dal nodo in gola che avevo accumulato nel vederle arrivare, nonostante tutto, alla meta.

 

Durante l’ottava tappa del Giro d’Italia del 1924, Alfonsina Strada arrivò fuori tempo massimo, ma non fu esclusa dalla gara: si applicò la stessa decisione presa qualche giorno prima per Aperlo e Cividini, dunque le fu permesso di continuare a pedalare ma i suoi tempi non sarebbero stati conteggiati ai fini della classifica. Da Milano partirono in novanta e solo trenta arrivarono in fondo, tra loro c’era anche Alfonsina. Non aveva fatto un passo indietro nemmeno nell’infinita tappa tra Bologna e Fiume, che la tenne in sella per 21 ore. Al termine della corsa rosa, in un’intervista al Guerin Sportivo disse: Sono una donna, è vero. E può darsi che non sia molto estetica e graziosa una donna che corre in bicicletta. Vede come sono ridotta? Non sono mai stata bella; ora sono... un mostro. [...] Ho le gambe buone, i pubblici di tutta Italia (specie le donne e le madri) mi trattano con entusiasmo. Non sono pentita. Ho avuto delle amarezze, qualcuno mi ha schernita; ma io sono soddisfatta e so di avere fatto bene.”

Al termine di un’altra tappa di un altro Giro, quello a noi contemporaneo, è abbastanza evidente che abbiano fatto bene e possano essere soddisfatte, per usare le parole di Alfonsina, tutte le 106 cicliste che sono riuscite ad arrivare in vetta alla cima a lei dedicata. Anche quelle che sono partite da Lanciano, ma che non sono riuscite a compiere la stessa impresa. Tutte hanno pedalato al meglio delle loro capacità, hanno sofferto finché sono riuscite a soffrire e forse anche oltre, sono riuscite a trasformare la fatica in quella bellezza che Alfonsina non trovava più in sé stessa dopo la corsa rosa. Perché le donne che corrono in bicicletta sono bellissime: vanno veloci, salgono in alto, spingono con tutta la forza che hanno sui pedali, emozionano loro stesse e anche chi si trova lungo un percorso di gara a guardarle, lo fanno come chiunque abbia mai provato le due ruote e se ne sia perdutamente innamorato.

Foto: Sprint Cycling Agency


Le jardin reste ouvert pour ceux qui l'ont aimé

Articolo di Carlo Giustozzi

Prima di partire per il Tour del 1967, Tom Simpson era passato in una concessionaria Mercedes di Gent, la città belga dove viveva. Appassionato di motori, aveva versato l’anticipo per l’auto più costosa. Il resto lo avrebbe pagato al ritorno con i soldi della vittoria della Grande Boucle. Era il suo modo di motivarsi per la corsa più importante del mondo, il grande successo che mancava nel suo palmares.

Non ci era mai andato neanche vicino, in realtà. Cinque anni prima aveva indossato per un giorno la maglia gialla, diventando il primo britannico a guidare la classifica generale del Tour. Un risultato storico, che sarebbe stato eguagliato solo più di 30 anni dopo da Chris Boardman. Alla fine era riuscito ad arrivare sesto – il suo miglior risultato in carriera – a oltre 17 minuti da Monsieur Chrono Jacques Anquetil.

Dire che era stato colpito dalla sfortuna nel 1965 è ingeneroso. Prima cade nella discesa dell’Aubisque, poi si prende una bronchite, fora perdendo quindici minuti e rimedia pure un’infezione alla mano. Il medico della corsa gli consiglia che sarebbe meglio fermarsi, ed è costretto al ritiro. A un luglio disgraziato segue però l’autunno migliore della carriera, in cui vince prima i Mondiali a San Sebastian e poi il Giro di Lombardia.

Con la maglia iridata è sicuro che gli andrà meglio, questa volta la Grande Boucle sarà sua. E invece la bici scivola sulla discesa del Galibier, il braccio si apre e ha bisogno di cinque punti. Un altro ritiro, e la delusione è sempre più grande. Sta per compiere trenta anni, e la finestra per vincere è ormai ristretta.

 

Thomas Simpson, professione: ciclista
Thomas Simpson nasce nella cittadina mineraria di Haswell, Inghilterra settentrionale, il 30 novembre 1937. È l’ultimo dei sei figli di Tom Simpson, minatore ed ex velocista di atletica, e sua moglie Alice. Dal padre eredita il diminutivo e una certa propensione allo sport. Ma più che all’atletica si avvicina al ciclismo. Fa la sua prima gara a 13 anni, correndo con la bici con cui consegnava la carne per il macellaio del suo paese. Capisce subito che il ciclismo può essere il modo per fare il grande salto, salire di classe sociale e condurre una vita più agiata rispetto a quella dei suoi genitori.

Come per tanti altri ciclisti dei suoi anni, la bici non è (solo) uno sport, una passione, ma diventa il mezzo per migliorare la propria vita. Fin da giovane è metodico, attento a ogni aspetto, tanto nella meccanica quanto nella sua alimentazione. Forse sarà questa stessa cura del dettaglio a portarlo, anni dopo, a far uso di doping per migliorare le sue prestazioni. Ora però è ancora un giovane talento, che batte in ogni gara i suoi pari età. I risultati migliori li raccoglie in pista, dove a soli 19 anni entra a far parte del quartetto inglese per l’inseguimento a squadre alle Olimpiadi di Melbourne. Si dovranno accontentare della medaglia di bronzo, e Simpson si assumerà le colpe per la mancata vittoria. Vince per due anni il titolo britannico nell’inseguimento individuale, e capisce che è il momento di fare il grande passo. Se vuole diventare come il suo idolo Fausto Coppi deve attraversare la Manica e correre in Europa continentale.
Così a 22 anni arriva in Francia con cento sterline in tasca e due valigie, una per le bici Carlton e una per il completo pulito. Va ad abitare a Saint-Brieuc, un villaggio della Bretagna dove sente subito la mancanza di casa. Non parla il francese, rimedia frequentando la biblioteca locale e conoscendo una giovane inglese che fa la ragazza alla pari sulla sua stessa via. Si chiama Helen, e pochi mesi dopo diventerà sua moglie.

Nel frattempo la sua carriera da ciclista inizia a decollare. In poco più di un mese vince cinque gare, e i suoi successi non passano inosservati. La Saint-Raphael, la squadra di Raphaël Géminiani, lo firma con un contratto sbalorditivo per un dilettante. Nel 1960 prende parte al suo primo Tour de France, e nell’anno successivo inizia a togliersi le soddisfazioni più importanti.
Tra il ’61 e il ’65 vince Giro delle Fiandre, Milano-Sanremo, Giro di Lombardia e i Campionati del mondo. È il primo britannico a vincere una classica monumento, a indossare la maglia gialla, a diventare campione del mondo. Dell’Inghilterra della Swinging London, dei Beatles, la minigonna e Carnaby Street, si fa rappresentante nel mondo del ciclismo.

Oggi siamo abituati a campioni che vengono da ogni parte del mondo: sloveni, colombiani, statunitensi, eritrei. Ma negli anni sessanta il ciclismo è uno sport dell’Europa continentale. Nel gruppo dominano i belgi, i francesi e gli italiani. I britannici sono pochi, e i loro successi ancora meno. Le vittorie di Tom Simpson fanno scalpore nel suo paese, attirando molti nuovi appassionati.

Anche se viveva a Gent, dove il tempo era migliore e i trasferimenti per le corse più veloci, Simpson amava ancora la sua patria. Quando poteva rientrava nel Regno Unito e al Tour, dove all’epoca partecipavano le nazionali, indossava con orgoglio l’Union Jack, e sembrava andare ancora più forte quando rappresentava il suo paese.

Uno dei suoi obiettivi, poi, era quello di aprire una squadra professionistica britannica. Lui avrebbe avuto il doppio ruolo di capitano e di manager, con il sogno di farne il faro di un nuovo movimento ciclistico. Quello che abbiamo vissuto negli ultimi decenni, con gli investimenti inglesi prima nel ciclismo su pista e poi su strada, e i successivi trionfi – Cavendish, Froome e Wiggins, per dire tre nomi – sarebbero forse arrivati trent’anni prima, se Simpson avesse potuto portare avanti il suo progetto.

Il Tour del 1967
Per il 1967, il grande obiettivo di Tom Simpson è il Tour de France. Per prepararsi al meglio decide di correre alcune gare a tappe di una settimana. Vince la Parigi-Nizza, dove si mette in luce anche un suo giovanissimo compagno di squadra. Si chiama Eddy Merckx, ha già una Milano – Sanremo in bacheca ed è un ottimo velocista. Simpson non farà in tempo a vederlo vincere praticamente tutto. A fine aprile è in Spagna per correre la Vuelta. Bisogna preparare le gambe in vista del Tour, ma la condizione è così buona che riesce comunque a portare a casa due tappe.
Il 29 giugno è ad Angers, nella Loira, per la Grande Partenza del Tour. Vuole vincere la classifica generale, ma un ottimo piazzamento andrebbe comunque bene. In un’intervista alla rivista Cycling ha detto che a 33 anni vuole ritirarsi dal ciclismo su strada, per dedicarsi alla pista e alla famiglia. Nella sua mente sono rimasti solo tre anni prima di lasciare il professionismo. Fare bene al Tour vorrebbe dire anche firmare nuovi contratti con gli sponsor e partecipare ai criterium a invito che permettono di portare a casa dei premi ricchissimi.

Storicamente il Tour de France era l’unica corsa nel calendario in cui non partecipavano i Club ma le nazionali. Simpson era felice di questa cosa. La Pegeout era un’ottima squadra, ma il britannico non era mai l’unico capitano. La nazionale britannica era composta da corridori molto meno forti, ma Simpson sapeva che poteva contare sul loro servizio. Tra gli otto gregari presenti c’erano alcuni dei suoi migliori amici: Vin Denson, il veterano che aveva corso con Rik Van Looy e Jacques Anquetil, Arthur Metcalfe e i giovani Michael Wright e Barry Hoban, che dopo la morte di Simpson sposerà la sua vedova Helen.

I favoriti per la vittoria finale del Tour sono il campione in carica Lucien Aimar, lo spagnolo Julio Jimenez e l’eterno secondo Raymond Poulidor. Nelle prime tappe Simpson non prende rischi, ed è tra i primi in classifica generale. Quando la corsa arriva sulle Alpi, la sfortuna lo colpisce ancora una volta. Nella tappa che prevede la scalata del Galibier ha fortissimi dolori allo stomaco e diarrea. Non riesce a mangiare, ma limita i danni e si ritrova settimo in classifica generale.

A Marsiglia, alla vigilia della tredicesima tappa, la nazionale britannica ha dei forti dubbi. Daniel Dousset, il manager della squadra, vuole che Simpson provi ad attaccare per recuperare sugli avversari. Gaston Plaud, manager della Peugeot, vorrebbe invece che si ritirasse, perché il giorno dopo nel percorso è prevista la scalata del Mont Ventoux, e non crede che Simpson sia nelle condizioni di affrontarla.

Maledetto Ventoux
Un proverbio provenzale recita: “Non è stolto chi sale sul Ventoux, ma chi ci ritorna una seconda volta”. Nel cuore della Provenza si erge un gigante, un monte calvo che non appartiene né alle Alpi né ai Pirenei. I geologi dicono che la sua costruzione sia iniziata circa 100 milioni di anni fa, nel Cretaceo. In pochi però nella storia si avvicinarono a quella cima pericolosa. Le leggende raccontavano di venti devastanti, animali mostruosi e crateri che lo collegavano ai meandri dell’Inferno.

La prima scalata documentata l’abbiamo studiata tutti a scuola. È la Ascesa al monte Ventoso che Petrarca compie insieme al fratello nell’aprile del 1336. Per il poeta quella scalata è un’allegoria della crisi spirituale che sta vivendo: mentre il fratello Gherardo sale velocemente, lui si perde nel tentativo di trovare un sentiero meno ripido.

Ma solo a Petrarca era piaciuto arrivare su quella cima. Il Mont Ventoux arrivò al Tour nel 1951, e il gruppo lo accolse con maggior freddezza. Nel 1955 era stata la scena dell’ultimo atto dello svizzero Ferdi Kubler. Cinque anni dopo la vittoria della Grande Boucle, Kubler si ritirò al termine della tappa del Ventoux, e disse che era troppo. Non si possono affrontare certe salite, non corro più. Nel 1958 Charly Gaul vinse la cronoscalata, ma arrivò sul traguardo in asfissia e si temette il peggio.

Il 13 luglio 1967 a Marsiglia, sede di partenza della tredicesima tappa del Tour, non si respira. Un caldo torrido affatica i corridori dalle prime pedalate. Bisogna stare attenti a mangiare e a bere, o si rischia di non superare il Ventoux. Lo soprannominano monte calvo perché in cima si apre un paesaggio lunare. Non c’è vegetazione, non ci sono alberi che possano riparare dal sole che batte forte.

Dopo la prima metà dell’ascesa, Tom Simpson entra in difficoltà. I big stanno facendo un ottimo ritmo, ma il britannico non può permettersi di perdere le loro ruote. Quel giorno si gioca un pezzo importante del suo futuro, e non è ammissibile mollare. Cerca di restare idratato. Rimasto senza acqua, a inizio salita aveva preso una borraccia da dei tifosi. Dentro ci avevano messo il cognac. Secondo alcuni ne bevve solo un sorso, poi sputò e buttò via la bottiglia. Secondo altri se ne versò più di metà in gola. Uno degli aspetti da tenere a mente di questi ultimi attimi di vita di Simpson è che ci sono tante versioni della storia, tutte in contrasto tra loro.

Di certo sappiamo che, quando mancano un paio di chilometri allo scollinamento, Simpson si ferma una prima volta. Sembra al limite. I meccanici vorrebbero fermarlo, è troppo, ma l’inglese non vuole. Chiede di essere rimesso in sella. Riparte, ma è un continuo zigzagare finché non si accascia a terra un’altra volta. Non si rialzerà più. Arriveranno la sua ammiraglia, il medico del Tour, un elicottero per portarlo all’ospedale più vicino. Non ci sarà nulla da fare.

La sua morte rimarrà un mistero, un insieme di tanti fattori, non si saprà mai quale sia stata la causa principale. Il caldo torrido, la disidratazione, i problemi fisici dei giorni precedenti o quelle fiale di anfetamina trovate nelle sue tasche posteriori. Jacques Anquetil, fino agli ultimi giorni strenuo difensore del doping, dirà che la morte era colpa del medico del Tour, perché il viaggio in elicottero gli aveva causato un arresto cardiaco.

Di certo si sa che quel giorno un uomo sorridente, che amava il suo lavoro e la sua vita, aveva lasciato per sempre sua moglie Helen e le loro due bambine, senza nemmeno poter dire addio. Avrei potuto prolungarmi di più su questo finale, ma non sarebbe stato giusto. È bello ricordarlo con le parole che scrisse Gianni Mura, all’epoca inviato ventiduenne a seguito del Tour per la Gazzetta dello Sport:

“E già discutevano se era morto bene o male e già cominciava il girotondo delle verità e l’interrogativo era: omicidio o suicidio? Come se morire non fosse abbastanza e non fosse ovvio che chi muore ha sempre torto. Morire è come aprire una porta e chiudersela dietro. Chi è senza chiave non entra. «Le jardin rest ouvert pour ceux qui l’ont aimé», come disse un poeta. Simpson l’ha trovato aperto. È passato”

 

Fonti:
William Fotheringham, Put Me Back on My Bike: In Search of Tom Simpson, Yellow Jersey Press 2002
Francesco Petrarca, L’ascensione del Monte Ventoso
Leonardo Piccione, Diapositive dal Monte Ventoso, Rivista Undici 2016
Gianni Mura, Simpson, chi muore ha sempre torto, Gazzetta dello Sport, 15 luglio 1967
Gianni Mura, Maledetto, caldo Ventoux, La Repubblica, 21 luglio 2002


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Non resta che scegliere il Percorso, volendo puoi salvarlo e scaricarlo per l’utilizzo off-line, oppure utilizzarlo immediatamente per la navigazione.

Siccome questa, come tante altre opzioni, viene creata anche grazie ai feedback degli utenti, è importantissimo che ognuno di noi, alla fine del proprio giro, lasci il proprio riscontro e dica cosa è piaciuto e cosa no. È democrazia, e a noi la democrazia piace parecchio.

È una funzione davvero fighissima, a cui è difficile rinunciare una volta provata. Basti pensare a tutto il tempo investito per tracciare di testa nostra, in posti che non conosciamo, e che invece possiamo investire per aggiungere qualche chilometro o, perché no, per goderci una birra in più a fine giro. Mica male eh.

Ed ora tocca a te provarla!

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