Cuori infranti

È già nostalgia. Di Pirenei che si allontanano e di tutta quella gente sul Tourmalet. Di pendenze e sudore. Ma non ditelo ai corridori che hanno sofferto, seppure a un'andatura costante, e con sprazzi di moderato ottimismo, almeno a vedere Geoghegan Hart che non sorrideva mentre faceva il ritmo. No, a un certo punto rideva proprio.

Senza voler urtare la sensibilità di nessuno ammettiamo che oggi Pogacar sembrava fresco come il pesce del magazzino dove lavorava Vingegaard prima di diventare corridore a tempo pieno; freddo come il cuore degli Ineos quando davanti scattava Gaudu, rinfrancato, ma arrivato fuori tempo massimo all'appuntamento con il successo. Voleva vincere, Gaudu, per il suo capitano, che da queste parti - Tourmalet 2019 - pensava di scrivere l'inizio della storia, ma fu solo un capitolo di quelli da cui trarre aforismi da usare al massimo nelle citazioni con una bella foto a corredo, e al quale non ha potuto mai dare un lieto fine. Niente da fare per Gaudu: Ineos imperterrita col suo ridondante trenino.

E oggi scrittura lineare: Tour banale quanto rincuorante in questo senso, almeno sappiamo cosa aspettarci da questo mondo. Un mondo che sarebbe più brutto senza Alaphilippe che non ha di certo le gambe migliori, ma ci prova. Sempre. Senza Woods e Poels che si battono (inutilmente) per i punti della maglia a pois, che tanto quella si sapeva sarebbe finita sulle spalle di quel fenomeno lì.

E cos'altro aggiungere al racconto di un Tour che ci ha fatto vedere sui Pirenei un dominatore dal ciuffo ribelle e dall'infallibilità dell'uomo senza nome di quel famoso western all'italiana.

Rimane qualche bella diapositiva: il temperamento astratto di Gaudu che a dieci dall'arrivo sembrava ripetersi "che faccio? vado o resto?", o L'Equipe in bocca a Latour prima della discesa, la sofferenza di Uran, la stasi di Mas, il talento di Vingegaard, i ricordi di Valverde, l'andatura un po' gaglioffa di Danielmartin.
Diapositive e premi. Ce ne fossero altri Pogačar li avrebbe presi: tappa, maglia a pois, maglia gialla, rossa, nera, a strisce, premio produttività. Di sicuro, non ce ne vorranno le anime fredde, anche il nostro cuore, rapito dall'azione di uno splendido dominatore.


Ecce Homo

Può Pogačar vincere senza dominare? Risposta semplice a domanda ambigua: oggi sì. Perché gli basta uno scatto sul traguardo per poi rischiare di strapparsi di dosso la maglia gialla dalla gioia, lassù, sul Col du Portet, dove la nebbia nasconde sullo sfondo l'assidua imponenza dei Pirenei. Per poi distendersi, stravolto, in una posa dove sembra stare lì a prendere il sole e a godersi ogni momento della sua vita.

Semplice la risposta, vero? Perché far sembrare tutto semplice è il paradigma dei fuoriclasse; perché ai tre dall'arrivo sembrava su una Graziella in ciclabile, gli mancavano solo la busta della spesa attaccata al manubrio e la ragazza di fianco, ma di fianco aveva un danese (forte, sorprendente) e un ecuadoriano (furbo, scaltro, ma non forte quanto vorrebbe).

Perché dopo aver fatto sfogare Carapaz in quell'ultimo assalto all'arma bianca ha deciso di vincere - e ha vinto. Perché sul suo volto la fatica si nasconde bene, mentre quello dei suoi avversari è tutto un compendio di stregua resistenza a volte malcelata.

Come il bel profilo di Perez che si trasforma da acqua e sapone a quello dell'ecce homo: da pulito come piace alle ragazze, a sconvolto come un martire, cercando l'impresa nel giorno più importante per i francesi. Che spingono Gaudu, finalmente un bel Gaudu. Che senza una giornata orrenda come quella sul Ventoux oggi lotterebbe per ben altro.

Perché il viso di Uran è quello scavato dalle intemperie: più che un ciclista sembra non abbia fatto altro che tirare su palle di fieno nei campi per tutta la vita. Perché la faccia di O'Connor non si è praticamente mai vista, se non quando chiude quinto al traguardo. Mentre Mas all'arrivo sembra sorridere, col cerotto sul naso come Casiraghi a Euro '96. Ma non è un sorriso: è solo un ghigno di fatica.
E allora si ritorna alla domanda iniziale: si può vincere senza dominare? Dipende, oggi Pogačar lo ha fatto, ma solo perché come i fuoriclasse fa sembrare tutto semplice. Non una bella notizia per gli altri, per chi lo segue, invece, vederlo vincere, un discreto piacere.


A volte basta l'idea

Ci esalta Colbrelli. È vero non ha ancora vinto al Tour, ma è lana caprina. Certo: vincesse metterebbe il punto esclamativo al suo Tour e forse pure alla carriera. Ma diciamolo: non avere ancora vinto ce lo rende persino più simpatico, quell'emozione che trasmette chi ci prova, ma arriva secondo, sfuggendo la retorica del primo dei perdenti.

Colbrelli, con i suoi secondi posti, è tutt'altro che un perdente. I primi giorni c'erano tappe adatte a lui, ma aveva notato come altri (Alaphilippe, van der Poel) mostravano un passo migliore e allora ha rischiato, anticipandoli. Furbizia non ripagata, ma che ci ha fatto dire: "Bravo Sonny, c'hai provato".

Poi sono arrivate le montagne, soprattutto la pioggia e il freddo. Ecco, poi glielo chiederemo a fine Tour: cosa gli succede quando il clima è avverso? Diventa un corridore diverso. Secondo a Tignes, tappone alpino, superando nel finale Guillaume Martin, solo O'Connor gli è sfuggito. Secondo ieri a Saint-Gaudens, antipasto dei due tapponi pirenaici, resistendo al forcing di Gaudu, che non sarà il miglior Gaudu, ma resta pur sempre un buon Gaudu.

Diversi punti in comune nelle sue azioni: intanto il tricolore che, in un bagno nazionalpopolare che ci travolge in questo periodo, non può che farci piacere vederlo aperto sventolante sul petto. La grinta che trasmette, e poi, con pioggia e freddo, mentre i corridori soffrono, lui, che soffre, sì, e stringe i denti, riesce a dare un quid in più.

E poi: il viso simpatico, il corpo tozzo, la tranquillità nelle risposte a fine corsa. Sì, c'è un gesto di stizza al traguardo, ma la consapevolezza di andare forte come non mai e di averci comunque esaltato in un Tour avaro di gioie per i colori italiani. Ora, se in questi due giorni di montagna immaginiamo possa stare più tranquillo, venerdì ci sarebbe l'ultima occasione per vincere.

Eventualmente facciamo come antichi credenti e chiediamo a Giove di mandarne giù un po'. Nulla di che, quello che basta per esaltare Colbrelli e di conseguenza farci sognare. Sì, ci accontentiamo così, perché non sempre serve vincere, a volte basta un pensiero, un'idea, un'azione.


Chef Konrad

Non fosse stato per il ciclismo oggi Patrick Konrad avrebbe un ristorante e farebbe lo chef. «Cucina austriaca e italiana, le mie preferite» ripete spesso, anche se poi, quando cita i suoi piatti prediletti viene da sorridere. «Tortine di riso con miele e cannella: hanno lo stesso sapore dello strudel» dovere che probabilmente gli impone il suo mestiere.

Oggi ha scritto il suo romanzo, cogliendo l'attimo «come quando hanno vinto Mohorič e Mollema, anticipando» e senza quel calcolo, sul traguardo di Saint-Gaudens avrebbe forse esultato Colbrelli, che non finisce di stupire, che si vorrebbe unire alla festa italiana di questi giorni, che bastano due gocce di pioggia e un po' di freddo e si trasforma nel più poliedrico dei corridori, ma d'altra parte non può essere sempre tripudio tricolore.

E oggi, Konrad, cuoce il miglior piatto. Cuoce Bakelants, uno che viene definito l'intellettuale del gruppo, che sulla mappa di cicatrici che porta addosso potrebbe scrivere una quantità di libri inferiore solo al numero di letture accumulate durante l'anno. Una volta si lasciò andare ad un'esternazione infelice quando disse: «Mi porto dietro una scatola di preservativi, perché con le miss del podio al Tour non si sa mai». Voleva forse essere una battuta, chissà, uscì male e finì in bufera.

Tempo fa Konrad, con un cognome a metà tra la letteratura e lo sport che pratica (rad, in tedesco, vuol dire ruota) disse che il ciclismo è lo sport più figo del mondo, testuale, perché è l'unico che il tifoso può toccare con mano, perché sulle grandi montagne lo sforzo viene attutito dalle urla della gente e che per questo dobbiamo essere grati a loro.

Oggi le montagne erano spaventose, un cuore di tenebra attorniato da oscuri presagi sotto forma di pioggia o dietro la terribile fama del Col de Portet d'Aspet che rievoca il peggiore dei momenti: Casartelli, 1995. La battaglia dei fuggitivi, ci ha fatto dimenticare per un attimo le cose brutte, mentre lo Chef Konrad ci deliziava cucinando il più gustoso dei suoi piatti.


Fenomeno Lachlan Morton

Ce l'ha fatta. Lachlan stamattina è arrivato a Parigi mentre la maggior parte di noi ancora si rigirava nel letto. 5.510 chilometri percorsi in 18 giorni, oltre 65mila metri di dislivello per 220 ore di corsa.
Era l'alba quando Lachlan, fenomeno, e non stiamo nemmeno qui a discutere di una definizione che gli si addice perfettamente, ha chiuso il suo Alt Tour, una settimana prima del vero Tour de France. È arrivato sugli Champs-Élysées festeggiando a piedi nudi con una bottiglia di champagne.
Fra le sue imprese (che potete seguire su https://alttour.ef.com/) restano giornate (e spesso nottate) pedalando in montagna, Alpi e Pirenei, imprese come venerdì quando ha percorso 350 km e affrontato 5000 metri di dislivello con arrivo sul Col du Portet.
Forse una delle sue giornate più difficili. Ma a Lachlan piacciono i momenti tormentati, al limite del dolore umano, lo elevano spiritualmente e mentalmente, esempio di brillante avventuriero che ha superato altri interminabili istanti molto complicati. Come i dolori al ginocchio e ai piedi che lo hanno quasi dilaniato; giornate sotto la pioggia e con il freddo, giornate che gli hanno fatto venire qualche dubbio sulla buona riuscita dell'impresa.
Per fortuna per strada ha incontrato qualcuno che ha dato linfa alla sua idea. C'è chi ha pedalato con lui come nel caso anche del compagno di squadra Whelan, o come quando ha pranzato con sua moglie, oppure quando Rohan Dennis gli ha portato il rifornimento: pane alle banane fatto in casa.
Una delle ultime sere ha trovato lo stimolo per dare il calcio finale verso Parigi incontrando suo padre che lo aspettava al campeggio facendogli una sorpresa.
Uno spettacolo, Lachlan Morton e la sua avventura in bikepacking. Azione degna dei vari van Aert e compagnia che abbiamo esaltato in queste settimane.
«Quello che sta facendo Lachlan è pazzesco. Non ci posso credere che presto sarà a Parigi» diceva qualche giorno fa Neilson Powless, suo compagno di squadra impegnato al Tour in questi giorni.
Credeteci invece, stamattina si è chiusa la sua ennesima impresa.


Io non ho paura

Bisogna fare come Wout van Aert quando si ha paura. Stamattina alla partenza si diceva fiducioso e motivato, ma con una sensazione dominante, che poi era la stessa che aleggiava, come uno spirito maligno, per tutti in gruppo: la paura per quello che avrebbero affrontato. Montagne, discese, caldo, partenza di quelle che ti friggono gambe e cervello.
Van Aert ha preso la paura e se l'è scrollata di dosso nel modo più naturale che ci sia: andando in fuga, facendo fatica. Perché è solo in quell'automatismo sensuale, il pedalare, che si scacciano i cattivi pensieri; è solo nello sforzo che si mandano via quei turbamenti che si annidano, silenti, nell'acido lattico che riempie i muscoli dopo due settimane di Tour.
Non solo van Aert ha scacciato la paura, ma ha aiutato Kuss a non averne. Il cuore di Kuss, sotto l'impulso di van Aert, ha preso a pulsare trascinandolo alla vittoria. Kuss, che da ragazzo la mattina si alzava e guardava le montagne rocciose con aria di sfida, che facendo sport di ogni genere ha imparato ad affrontare la vita con coraggio.
Anche Armirail è un inno alla baldanza, tira tutta la tappa per Gaudu che qualche giorno fa di paura ne ha avuta tanta sul Mont Ventoux e che oggi ha provato a ribaltare la sua sorte. Ma è andata com'è andata. E Valverde? A lui fa paura solo l'idea di smettere, e oggi a 40 anni per poco non vince e ci convince.
Quando Kuss conquistò una tappa due anni fa alla Vuelta, prima di tagliare il traguardo rallentò per battere il cinque a tutti i tifosi assiepati sulle transenne. A fine tappa disse: «Il ciclismo è l’unico sport dove si tifa anche chi arriva ultimo e sapete perché? Molti dei tifosi pedalano e sanno cosa vuol dire far fatica. Il mio è un gesto per omaggiare chi rende grande questo sport e ci aiuta a sopportare la sofferenza». E, aggiungiamo, da oggi, anche per scacciare la paura.


La Colombia è lontana

Le gambe di Sergio Higuita sono cavalli pazzi, nervi scoperti. Quasi nessuno si è sorpreso vedendolo all'attacco ieri in una tappa, tra Carcassonne e Quillan, che del nervosismo ha fatto il piatto principale, nell'avvicinamento ai Pirenei di oggi. Non molto tempo fa, Jonathan Vaughters, dirigente della Education First ha raccontato a Cyclingtips che in Higuita c'è un qualcosa di irrefrenabile. «Nelle corse in Cina non ci sono grossi strappi, anzi spesso sono dei tracciati piatti. Lui, però, partiva ad ogni cavalcavia. Faceva quasi sorridere perché vedevi questo scalatore minuto fare azioni impensabili su terreni improbabili».
Medellín è sempre stata troppo lontana per un ragazzo che voleva fare il mestiere del ciclista. Troppo lontana per conoscere l'Europa e anche per farsi conoscere. Non è un caso se Rigoberto Urán, quando gli chiesero un parere su questo ragazzino, disse: «Non l'ho mai sentito nominare. Non so chi sia». Per chi viene da quella terra, la bicicletta, all'inizio, può essere un'idea, forse un mezzo di spostamento. Higuita probabilmente non poteva neppure immaginare che, per fare il ciclista, avrebbe dovuto misurare i millimetri della sella o del manubrio.

Il suo era istinto puro. Quando disputò la sua prima gara in Europa arrivò con più di venti minuti di ritardo dal vincitore. Non un esordio facile, insomma. Lui non ci pensò molto. «Volevo fare il ciclista, ma volere non basta. Devi combattere per quello che vuoi». Tra l'altro, quella volontà Higuita la maturò per puro caso, dopo che un insegnante lo iscrisse a una gara del paese e da lì, quasi per evitargli altre strade, qualcuno gli consigliò di andare al velodromo per incontrare Efraín Domínguez. In fondo, è grazie a lui se Higuita è il ciclista che è oggi, se attacca, un po’ alla maniera dei barodeur, un po’ a quella degli scalatori, per non lasciare che la corsa passi nella noia. Perché Higuita attacca anche quando potrebbe aspettare, quando forse gli converrebbe. Soprattutto è grazie a Domínguez se Higuita non ha paura delle discese e scende che è un piacere, dote rara per i colombiani.

Solido, sicuro, convinto di ogni decisione. Con lui le apparenze ingannano. Ne sono testimoni i compagni che lo hanno accolto all'arrivo in Europa. Alla prima riunione, arrivó con vecchie scarpe al limite dell’inutilizzabilità e con vestiti non proprio da ciclista. Qualcuno chiese. Higuita, consapevole del materiale di pregio che avrebbe trovato in Europa, aveva lasciato le cose più belle che aveva ai ragazzi di Domínguez. Sembra che quella non sia stata l’unica volta, sembra che Sergio Higuita continui a mandare del materiale a quei ragazzi. Perché la Colombia è lontana, ma scordarsela è impossibile.


La solitudine dell'aquila

A vederlo pedalare curvo in bicicletta, con le spalle che ondeggiano come dicesse sempre no a qualcuno o qualcosa, Bauke Mollema appare un goffo levriero. Ma quando gli chiedono che animale vorrebbe essere, risponde senza pensarci: «Un'aquila. Per aprire le ali e spiccare il volo».
Divoratore di libri, durante il Giro per rilassarsi ha letto un romanzo di Lize Spit, qui al Tour "Utopia Avenue" di David Mitchell, l'autore tra gli altri di Cloud Atlas.
Efficace come l'abito di un sarto italiano, se lo metti in fuga lui sta, controlla, tira, parte, vince. Secco archibugio esperto, sciorinatore di causa-effetto.
Vince poco, ma bene, a lunga gittata appare quasi infallibile. Ha pure un marchio di fabbrica nelle sue azioni: gli altri si guardano e lui parte. Poi non lo riprendi più.
Ha un motto: "Se passi per l'inferno, continua ad andare per la tua strada" e non si vincono tappe al Tour per caso, né un San Sebastian, né un Giro di Lombardia, come quando nel 2019 sfruttò il marcamento per partire e, appunto, andare. Come oggi: infallibile il suo fiuto a quarantuno chilometri dall'arrivo.
Di corsa e da corsa, come quel levriero a cui lo abbiamo paragonato, soffre il freddo forse per quella forma fisica, ama il caldo, oppure in certi momenti semplicemente si trasforma. Coglie l'attimo.
Oggi scappare via dal gruppo appariva impossibile: la fuga era ustionante come il panace di Mantegazza, come l'hogweed cantato dai Genesis. Si è fatto di tutto per estirparla. Quando è partita, finalmente, era composta da corridori così forti che avresti fatto fatica a scegliere un nome e allora quando lo hai visto hai pensato: "Se Mollema fa il suo scatto, chi lo rivede più?". Veloce come un levriero ha seguito il suo istinto, ha aperto le ali, rapace, un'aquila in solitaria che fa quello che gli riesce meglio: controllare, tirare, partire, vincere.


Testacoda

«Tutti mi chiamano trattore e mi piace. È vero: so di non essere una Ferrari, so di non aver mai vinto, ma ogni tanto chiudo gli occhi e immagino come possa essere vivere quel momento».

Tim Declercq in carriera non ha mai vinto una corsa: paradossale per la squadra che da anni è la più vincente del gruppo. Ieri, mentre il suo compagno di squadra Cavendish eguagliava Merckx a quota 34 successi al Tour, El Tractor, come viene chiamato da un po' di tempo per l'intuizione di un telecronista argentino, doveva ancora percorrere gli ultimi dieci chilometri di corsa.

L'importanza di Declercq in gruppo la capisci accendendo la televisione quando all'arrivo mancano centinaia di chilometri. Sempre in testa a chiudere, a tirare, a dare cambi, a portare a spasso, ad arare, come si addice a chi porta quel soprannome. Fuori dalle corse lo definiscono docile come un bambino, in corsa farebbe paura al più impavido degli eroi.

Ieri, Tim Declercq, da anni considerato il più forte gregario del gruppo, tanto da aver vinto un paio di stagioni fa un premio ideato da una rivista inglese, è caduto, ma non ha desistito. Si è rialzato ed è arrivato al traguardo nonostante le botte e le ferite. Mark Cavendish aveva un appuntamento con la storia e lui, che delle vittorie degli altri è sempre uno dei fautori, avrebbe dato in pasto ai cani anche il suo cuore pur di arrivare alla fine.

È arrivato, ultimo, ma è arrivato. Quando è arrivato, Cavendish aveva già festeggiato sul podio. Ma un pezzetto di vittoria è comunque suo e da oggi proverà a ripartire con il solito spirito: menare, menare, menare, per gli altri e per realizzare se stesso. Senza vittoria? Non importa, prima o poi arriverà anche quella, al massimo chiuderà gli occhi e inizierà a sognarla.


Tra il pubblico

Ogni volta che la nostra macchina passa fra le roventi strade del percorso del Tour de France, qualcuno, guardando la targa, esclama ad alta voce: «L'Italie, l'Italie». Sembra che Alfredo Martini dicesse che il ciclismo è amicizia. Forse, di sicuro è conoscenza.

Di Rafael, ad esempio. Un signore incontrato a Saint-Paul-Trois-Châteaux che ci ha raccontato di conoscere Azzurro, la canzone di Adriano Celentano che l'altra mattina era trasmessa al villaggio di partenza e, quando ha capito che eravamo italiani, si è avvicinato a noi provando a canticchiarla. In realtà, inizialmente, voleva solo sapere se la sua pronuncia fosse corretta, successivamente, però, ha ammesso di essere da sempre un appassionato di musica e di avere sentito quella canzone per la prima volta a Roma nell'estate del 1971.

Jacques, invece, intento a bagnare i suoi fiori, su un balcone di una vecchia casa di Carcassonne, ci dice che se pensa all'Italia gli vengono in mente i Trulli di Alberobello. Spiega che gliene hanno sempre parlato tutti, ma lui non è mai riuscito ad andarci. In Puglia è stato solo una volta, era su un pullman turistico che si è guastato in mezzo ad una strada di campagna. «La strada non era male, ho pensato fosse una fermata».

Conoscenza perché ti incontri per caso, ma raramente vai via senza aver detto qualcosa. Una famiglia in albergo a Beziers vuole che raccontiamo qualcosa del Giro d''Italia. Loro del Tour ci dicono che, un anno, hanno seguito tutta un'edizione in camper. «Il momento più difficile è stato quando siamo rimasti senza energia elettrica. Lì ci siamo davvero chiesti come facessero tanto tempo fa e abbiamo capito quante cose non sappiamo più fare».

Qualcuno si chiede se l'Italia vincerà l'Europeo e scherza: «Dopo il blu francese, il vostro azzurro è il mio colore preferito». Qualcuno non chiede nulla, non dice nulla, se non “benvenuto” quando capisce che non sei di qui, che è poi un linguaggio universale. Perché c'è un senso di appartenenza particolare al Tour. «Sulle strade del Tour c'è tanta gente a cui del ciclismo non interessa nulla» dice Monique. «Scende in strada perché può fare festa e stare insieme. Pensare che qualcuno venga da un altro paese alla tua festa è più bello, no? Sì, perché non si trova lì per caso, ci arriva apposta e lo fa solo per vedere la tua festa».