Da Apeldoorn fino a Parigi: il punto della situazione
In questo inizio gennaio, come da recente tradizione, i ciclisti professionisti si sono divisi tra Spagna e Australia, per i ritiri e le prime corse della stagione, ma alcuni specialisti della pista hanno preferito i Campionati Europei su pista di Apeldoorn, Paesi Bassi, piuttosto che il caldo e le salite. Organizzare un evento come gli Europei durante il clou della preparazione della stagione su strada è significato dover ricevere qualche forfait, su tutti quelli di Viviani, Ganna e Tarling, impegnati in Australia, e di Dideriksen, che ha deciso di rimanere in ritiro con la sua Uno-X. Assenti anche gli atleti russi per una decisione delle autorità neerlandesi. Secondo il cittì Sergei Kovpanets, l’Unione Ciclistica Europea aveva garantito la partecipazione dei suoi corridori, per i quali la qualificazione olimpica è sempre più lontana. Infatti, in questi campionati continentali erano in ballo punti importanti in chiave Parigi 2024, ma i ticket olimpici saranno assegnati solo dopo le prove di Nations Cup di Adelaide, Hong Kong e Milton, quindi non sono da escludere ribaltoni dell’ultimo minuto.
Archiviate le polemiche su forfait ed esclusioni forzate, all’Omnisport di Apeldoorn la prima giornata di gare si è consumata senza grandi sorprese. Come da copione, ad assicurarsi le medaglie d’oro nella velocità a squadre sono stati i Paesi Bassi al maschile e la Germania al femminile. Nel regno indiscusso dell’Oranjetrio, composto da Van den Berg, Lavreysen e Hoogland, si sono fatti notare anche gli Azzurri di Ivan Quaranta, che hanno fatto segnare un nuovo record nazionale (43.497), che è valso il sesto posto finale. Ad essere decisivo per il salto di qualità è stato Mattia Predomo, finalmente schierato in seconda frazione dove può esprimere al meglio la propria potenza. Tuttavia, per la velocità a squadre italiana il percorso verso le Olimpiadi di Parigi è tutt’altro che facile.
Gli Azzurri si trovano al quattordicesimo posto del ranking olimpico, ben lontani dalla Polonia - bronzo ad Apeldoorn -, che occupa l’ottava e ultima piazza utile per Parigi. A rompere un digiuno che dura dalla qualificazione di Roberto Chiappa a Pechino 2008 non saranno neanche le due prime medaglie europee élite della storia della velocità italiana: Matteo Bianchi e Stefano Moro, entrambi molto lontani dalla qualificazione nelle discipline individuali.
All’Omnisport di Apeldoorn i due hanno conquistato rispettivamente l’oro nel chilometro - che non è parte del programma olimpico - e il bronzo nel keirin, due grandi risultati che però non devono illudere Quaranta e i suoi atleti. Nel chilometro, Bianchi, ventiduenne bolzanino in forze al Team Colpack, ha fatto registrare il miglior tempo sia nella fase di qualificazione (59.687) che in finale (1:00.272), ma al via era assente il neo recordman del mondo Jeffrey Hoogland, da anni su un altro pianeta. Più fortunoso, ma altrettanto degno di merito, il risultato di Moro. L’ex corridore di endurance, che ha virato da poco più di un anno sul settore veloce, ha fatto la propria fortuna seguendo meticolosamente e con grande intelligenza la ruota del polacco Rudyk, sia in semifinale che in finale. Una tattica rischiosa, che però ha dato i suoi frutti ed è valsa un bronzo contro un Harrie Lavreysen che si è preso gioco di tutti e ha vinto per più di mezzo secondo proprio su Rudyk.
Moro ha così migliorato il quarto posto di Predomo ottenuto all’Europeo di Grenchen dello scorso anno. Anche nella velocità individuale, Moro è riuscito a superare il promettente Predomo, che non ha ancora replicato le buonissime prestazioni fatte vedere nella velocità a squadre e non è riuscito ad andare oltre il diciassettesimo posto in qualificazione, registrando un deludente 9.983 nei 200 metri lanciati, per poi uscire al primo turno contro il ceco Topinka. Moro, invece, si è qualificato con il quattordicesimo tempo (9.942) ed è uscito solo al secondo turno contro l’israeliano Yakovlev, il quale ha poi strappato il bronzo ad Hoogland, tornando sul podio di una grande competizione internazionale, dopo tre anni e tante peripezie.
A vincere l’oro è stato il solito Lavreysen, qualificatosi nei 200 lanciati con il record della pista di 9.366, che in finale ha avuto la meglio su un sorprendente Rudyk. Al femminile, l’omologa del neerlandese è stata Emma Finucane, la quale però, oltre all’oro nella velocità individuale, si è dovuta accontentare di due medaglie d’argento nel keirin, vinto da Lea Sophie Friedrich, e nella velocità a squadre, vinta dal terzetto tedesco. La sprinter gallese è l’astro nascente della pista made in Britain - assieme a Josh Tarling nell’endurance maschile -, ma i suoi successi, tra cui spicca il mondiale di velocità vinto a Glasgow a soli vent’anni, sono solamente la punta dell’iceberg della rinascita della velocità femminile britannica iniziata sotto l’ala protettiva dell’australiana Kaarle McCulloch.
Ne è testimone anche l’oro di Katy Marchant nei 500 metri con i tempi di 33.252 in qualificazione e di 33.319 in finale, che sono bastati a mettersi alle spalle Kouame, Grabosch e l’italiana Vece. Tuttavia, a differenza delle sue colleghe, Marchant è l’ultimo rimasuglio di una generazione precedente, infatti accanto a lei nella velocità a squadre hanno corso la classe 1998 Sophie Capewell ed ovviamente la classe 2002 Emma Finucane.
Non solo velocità femminile, per la Gran Bretagna sono piovuti successi anche nell’endurance maschile. Dopo l’argento di Tidball nell'eliminazione - vinta da Tobias Hansen - nella prima giornata di gare, è arrivato il titolo nell’inseguimento a squadre. Il quartetto composto da Bigham, Vernon, Tanfield e Hayter ha superato in finale una Danimarca che sembrava quasi imbattibile dopo i primi due turni: non a caso il tempo fatto segnare dai danesi nella semifinale contro la Germania è stato di quasi tre decimi più basso del tempo con cui sono stati battuti in finale. I britannici guadagnano così punti di fondamentale importanza nella corsa al ticket olimpico, dopo che il disastroso Mondiale di Glasgow li ha trascinati fuori dai dieci quartetti virtualmente qualificati ai Giochi.
A completare il podio sono stati i campioni olimpici dell’Italia, orfani di Filippo Ganna, sostituito da Davide Boscaro alla luce dell’assenza di Manlio Moro, con una prestazione sicuramente migliorabile. È andata invece meglio al quartetto femminile, composto da Fidanza, Paternoster, Balsamo e Guazzini, che ha superato la Gran Bretagna in finale con il tempo di 4:12.551, prendendosi una bella rivincita dopo l’argento di Grenchen. Per le azzurre è una grande iniezione di fiducia in vista delle Olimpiadi, dopo l’addio di Rachele Barbieri e il deludente quarto posto di Glasgow. C’è però un’altra inseguitrice azzurra che ha sorpreso tutti all’Omnisport di Apeldoorn: Federica Venturelli. La classe 2005, convocata in extremis da Marco Villa, nell’inseguimento individuale ha centrato la finale per il bronzo, poi persa con il tempo di 3:27.475 contro la britannica Anna Morris. Una prestazione notevole, considerando che Venturelli era al primo test sulla distanza di tre chilometri: chissà se la diciannovenne cremonese entrerà nella rotazione del quartetto già in vista delle Olimpiadi di Parigi.
Non si può definire altrettanto positiva l’uscita degli uomini di Villa: il quartetto si è rivelato ancora una volta Ganna-dipendente e sono mancati i risultati anche nelle discipline di gruppo, in cui Consonni e Scartezzini non hanno replicato le prestazioni degli scorsi Europei e il giovanissimo Fiorin ha corso lo scratch - vinto da Leitão - solamente per fare esperienza. Proprio come Fiorin, un altro uomo del magico quartetto azzurro juniores detentore del record del mondo è stato lanciato nella mischia ad Apeldoorn, ovvero Luca Giaimi, neo acquisto della Uae Gen Z, che ha chiuso l’inseguimento individuale al dodicesimo posto con il tempo di 4:17.379, ben lontano dal vincitore Dan Bigham, che battendo in finale il connazionale Charlie Tanfield ha ottenuto il primo titolo internazionale individuale della sua carriera.
Ironia della sorte, questo primo successo dell’ex recordman dell’ora è arrivato proprio contro uno dei suoi compagni di squadra al Team KGF, la squadra di quattro dilettanti britannici - gli altri due erano Wale e Tipper - che nel 2017 vinse il titolo nazionale dell’inseguimento a squadre contro la nazionale britannica e diverse medaglie in Coppa del Mondo, rivoluzionando per sempre il modo di correre questa disciplina con le loro innovative tattiche. Nel 2017, in quella nazionale britannica era già presente il futuro vice-campione olimpico della madison Ethan Hayter, che ad Apeldoorn, oltre all’oro nel quartetto, ha conquistato il titolo europeo nell’omnium, battendo il danese Niklas Larsen in virtù del piazzamento all’ultimo sprint della corsa a punti. Il londinese, che su strada difende i colori della Ineos, si è così riscatatto dopo una deludente madison chiusa al settimo posto con lo scozzese della Corratec Mark Stewart, il quale dopo quest’ultima uscita difficilmente sarà il compagno di Hayter a Parigi.
La vera delusione dell’americana è stata però la coppia neerlandese composta da Havik e Van Schip, campioni del mondo in carica, che non è riuscita ad andare oltre all’ottavo posto. I padroni di casa avevano addirittura fatto anticipare la gara per poter partecipare alla Sei giorni di Brema, ma lì sono stati battuti dai neo campioni europei Reinhardt e Kluge, due leggende della madison tedesca che a Parigi tenteranno di coronare il proprio duraturo sodalizio con una medaglia. A differenza dei teutonici, i danesi si stanno avvicinando a Parigi lanciando una nuova strana coppia. La leggenda della pista Michael Mørkøv ha infatti corso tutto l’inverno con il classe 2005 Theodor Storm, neo acquisto della Ineos, e probabilmente lo vorrà al suo fianco anche nella sua ultima madison olimpica, malgrado i vent’anni di differenza tra i due. Consonni e Scartezzini, noni, non hanno brillato a differenza delle colleghe donne.
Guazzini e Balsamo hanno confermato il bronzo europeo dello scorso anno piazzandosi alle spalle delle francesi Fortin e Borras e delle belghe De Clercq e Kopecky. Per Lotte Kopecky questa è stata la terza medaglia europea della rassegna, dopo i due ori conquistati il sabato con una prestazione degna di una pluri campionessa mondiale come lei. La fuoriclasse belga ha prima vinto la corsa a punti piazzandosi in quasi tutti gli sprint e dopo neanche cinque minuti ha dominato l’eliminazione come solo lei sa fare. Due titoli europei in poco più di un quarto d’ora: fortunatamente Kopecky è la maglia iridata di entrambe le discipline e non ha dovuto perdere tempo per cambiare body!
Questi Campionati Europei non ci avranno detto chi tornerà a casa con una medaglia dai Giochi Olimpici di Parigi, ma senz’altro sono serviti per capire a che punto sono i pistard di tutta Europa: c’è chi è già pronto, come Lavreysen e Finucane; chi deve apportare ancora qualche miglioramento, come il quartetto danese; e chi deve dare il massimo nelle prossime tappe di Nations Cup per strappare una difficile qualificazione olimpica, come la velocità a squadre italiana.
In cerca di successo: 10 corridori che inseguono la prima vittoria da professionista
La stagione sta per iniziare, non pare vero. Il tempo vola se ci riferiamo a un arco ristretto, ma accade lo stesso e ci guardiamo indietro: “sembra ieri” diciamo il più delle volte. E allora facciamo un gioco, direbbe "L’Enigmista" (non Bartezzaghi anche se pure stamattina gli saranno fischiate le orecchie, lo si ama e lo si odia).
Tuttavia, non sbrodoliamoci e veniamo al dunque: sembra ieri che alcuni corridori, che qui elencheremo, sono passati professionisti, invece è già qualche anno, e alcuni di questi non hanno ancora assaporato il gusto della vittoria. C’è stato chi, come Pastonesi in passato, ne fece un vero e proprio cavallo di battaglia, oggi, noi, almeno chi scrive, non persegue lo stesso lato romantico della faccenda, ma vuole far conoscere 10 corridori (ce ne sono di più, logico, alcuni interessanti sono rimasti fuori) che non hanno ancora vinto e che inseguiranno il primo successo da professionista in questo 2024.
Una sola regola: non si è tenuto conto di chi è passato professionista nel 2023.
TIM DECLERCQ
Il trattore ha cambiato squadra, dalla Quick Step alla Lidl-Trek. Fa quasi rima. Ha cambiato squadra, ma non attitudine, con gli americani lo troveremo a tirare, tirare, tirare, tirare, tirare, eccetera. Qualche anno fa, quando ritirò il premio del miglior gregario dell’anno, indetto da non ricordo bene quale rivista, sito o cose simili, usò una delle frasi fatte più note che accomunano corridori lenti come la melassa (cit.): “in una volata a tre, io arrivo quarto". Tra l’altro pare sia successo davvero. Si sbloccherà?
% di possibilità di ottenere la prima vittoria nel 2024: 0%
FREDERIK FRISON
Un vecchio adagio del ciclismo afferma come i corridori in scadenza di contratto all’improvviso inizino ad andare più forte. In particolare questa sindrome - lo racconta, se non sbaglio, De Gendt nel suo libro - colpisce duramente i belgi. Forse è qualcosa nell’aria, nell’acqua, nella birra o nel cioccolato. O forse è colpa degli abitanti di Namur e della loro invenzione (le patatine fritte!). Insomma, Frison, dopo anni di anonimato lo scorso anno volava al Nord, fino a ottenere il rinnov… no, non è vero Lotto non l’ha rinnovato ma lui è andato in una squadra ambiziosa, simpatica e che al posto di un nome ha una sigla strana. Avrà il suo spazio per provarci.
% di possibilità di ottenere la prima vittoria nel 2024: 5%
JUANPE LOPEZ
Non lo sapevo e ci sono rimasto male, ero convinto che al Giro avesse vinto una tappa, poi sono andato a riprendere l’arrivo sull’Etna - ero lì, ma faceva freddo e c’era vento e stavamo mangiando cannoli e arancini (sì, arancini e non arancine) - e ho visto che vinse Kämna, mentre Lopez prese la maglia rosa che gli stava pure bene. Ho come un sogno su di lui, un articolo che non ho mai più ritrovato e che raccontava un fatto curioso: prima di correre o forse nel tempo libero, faceva il panettiere o pasticcere, se trovate qualche informazione aiutatemi. Ah, per vincere deve arrivare tutto solo soletto e in una tappa di montagna. Difficilissimo, ma non del tutto impossibile.
% di possibilità di ottenere la prima vittoria nel 2024: 10%
HAROLD TEJADA
Ci sono corridori e corridori. Ci sono quelli che vincono e scompaiono per mesi e anni, altri che diventano corridori di livello assoluto e ci rimangono, che sanno vincere e sanno essere pure continui. Ci sono quelli che sembrano persino crescere stagione dopo stagione! E li si può anche aspettare con calma. Com’è possibile? Ci sono quelli regolari su cui puoi contare, e Tejada è uno di questi. Ha l’età giusta pure per vincere una tappa al Giro d’Italia, però prima c’è da chiedere il permesso a Pogačar.
% di possibilità di ottenere la prima vittoria nel 2024: 15%
MATTEO FABBRO
Segna per noi, Matteo Fabbro, segna per noi Matteo Fabbro oooh-oooh ecc ecc. Il friulano sarà la punta di diamante della scintillante nuova squadra di Bassoeccontador, il team Polti. Peccato solo non aver scelto una maglia con il design che richiami quella degli anni ‘90 (ma secondo me hanno in serbo qualche sorpresa, una maglia speciale per il Giro pronta a sbancare il botteghino), altro discorso. Insomma, Matteo Fabbro, come dobbiamo fare per vincere? Per me si può fare, ma la strada è solo una e si chiama F-U-G-A. Se vogliamo vincere una robetta di peso, una tappa al Giro, alla Tirreno cose così. Se invece vogliamo iniziare, com’è giusto anche che sia da qualcosa di piccolo, allora fatti portare in Spagna, dove si sta bene e c'è il terreno adatto e cerchiamo di rosso un bell’arrivo in salita, possibilmente in una gara con una concorrenza non elevatissima e sprigioniamo i cavalli friulani, quelli che da Under facevano presagire un buon futuro. Per me, ripeto, si può fare.
% di possibilità di ottenere la prima vittoria nel 2024: 25%
MAX KANTER
Ha un nome a metà tra un filosofo e un pornostar, se lo guardi in faccia sembra appartenere alla gioventù kitteliana, è un velocista di buon livello, tiene pure bene se il finale è tortuoso. Ha già 27 anni, e tra una cosa e l’altra questa è l’ottava stagione tra i professionisti. Insomma: cos’è andato storto? Non si sa, pare un giorno abbia comprato uno strano oggetto al mercato e abbia scoperto che strofinandolo (non sappiamo cos’era quell’oggetto, e non ci teniamo a scoprirlo, ne sappiamo cosa si intenda per "strofinandolo" né dove, né come) avrebbe dovuto rispondere alla domanda: preferisci arrivare 50 volte secondo o vincere una corsa? Ha scelto la prima perché la domanda gli era stata posta in kazako e lui la lingua non la conosce, andando in confusione.
% di possibilità di ottenere la prima vittoria nel 2024: 40%
ANDREA PICCOLO
Andrea, piccolo grande uomo. A sprazzi ci fai godere, ad altri ci fai arrabbiare (si fa per dire, ti si vuole un mondo di bene), abbiamo un desiderio (magari proviamo a strofinare anche noi l’oggetto di Kanter, anche se in effetti non funzionava proprio così…) ovvero quello di vederti vincere una corsa, anzi adesso barattiamo noi, fateci parlare con chi ha inventato quella cosa che al mercato Maxkanter comprò. Insomma, in cambio di una carriera opaca o di alti e bassi ti vogliamo one-season-wonder e quest’anno vinci tutto il possibile. Affare fatto?
% di possibilità di ottenere la prima vittoria nel 2024: 50%
LEWIS ASKEY
L'ho visto salire sull’Alpe d’Huez zaino in spalla, divisa della FDJ, sorridente. Era il 14 luglio e c'era una festa assurda su quella salita tanto mitica quanto brutta. Tutti aspettavano Pinot, lui era un ragazzo in gita, anche se ben tirato. Askey fa così perché ama l’aria aperta e il ciclismo, il ciclismo per il momento non sembra amare lui, se è vero che alla Roubaix ha chiuso con un ginocchio aperto in diversi punti, e se è vero anche che, non ce lo siamo immaginati, lo scorso anno ha perso la Paris-Tours da favorito, almeno in quel gruppetto, la volata con uno stagista americano di età non ben definita e che sinceramente non avevo mai sentito nominare. Gli do buone chance, però deve essere più cattivo e iniziare a odiare questo sport di merda.
% di possibilità di ottenere la prima vittoria nel 2024: 75%
ANDERS HALLAND JOHANNESSEN
Ci sono gemelli e gemelli, ecco lui è il gemello meno forte, ma non per qualcosa, perché Tobias non è solo quello forte dei due, ma perché Tobias lo è proprio a livello assoluto. Anders è un po’ la sua stessa versione con qualche watt in meno, ma si può lavorare per limare alcuni aspetti. Nel caso non dovesse riuscire a sbloccarsi entro fine stagione pare abbiano già fatto il patto che l’uno prenderà i panni dell’altro per andare a vincere. Poi come succede in questi casi capaci che a parti invertite finisca per vincere Anders nei panni di Tobias, e che Tobias nei panni di Anders finisca secondo. Chiaro il concetto, no?
% di possibilità di ottenere la prima vittoria nel 2024: 90%
NICOLA CONCI
Un altro che mi ha lasciato senza parole alla scoperta delle zero vittorie in carriera, anche perché questo da Under 23 andava fortissimo, vinceva, scattava, era esplosivo, eccetera, eccetera. Io faccio una scommessa, con chi se la sente, per me quest’anno si sblocca e vince una corsa importante.
% di possibilità di ottenere la prima vittoria nel 2024: 100%
Inizio anno con vista Parigi: intervista a Elisa Balsamo
Era il 26 maggio e la tarda primavera 2023 di Elisa Balsamo si infrangeva sulle strade che vanno da Saffron Walden a Colchester, nel corso della prima frazione della RideLondon Classique: «Fino ad ora credo sia stata la più brutta caduta della mia carriera, in un momento in cui, dopo la crescita che avevo mostrato alla Vuelta a Burgos Feminas, arrivavo in Inghilterra per fare risultato, per vincere, con una buona condizione». La diagnosi è un cucchiaio gelato che scava lo stomaco: frattura dello scafoide del polso destro e, soprattutto, doppia frattura, destra e sinistra, a carico della mandibola. Quando torna a casa, il suo compagno è in America, per lavoro, una difficoltà in più, una mancanza: saranno i genitori ad accompagnarla a Milano, per le cure. L'aria di giugno, che cambia la natura, per la venticinquenne cuneese, è un quadro da vedere dietro le finestre di casa: anche pranzare diventa impossibile, si riescono a deglutire solo liquidi ed il cibo deve assumere questa forma per essere preso, perde tanti chili e conseguentemente tanta massa muscolare.
Nei primi giorni in cui risale in sella, sui rulli, il mondo sembra crollarle addosso: «Non avevo forza, riuscivo solo a far girare le gambe, ma con la bocca chiusa non riuscivo a respirare e, quindi, qualsiasi sforzo diventava impossibile». Da lì, settimane di fisioterapia, tre volte al giorno, per provare a ritornare. Nel tempo abbiamo conosciuto bene l'indole di Elisa Balsamo, così, quando in un intermezzo di intervista ci dice che «forse questa volta posso davvero dire di essere orgogliosa di me», a quell'orgoglio siamo in grado di dare tutto il peso che effettivamente ha. L'aggiunta non tarda ad arrivare: «Da soli non ce la si fa quasi mai, senza Davide e senza mamma e papà, chissà...».
Il ritorno è nell'estate torrida del Tour de France, dopo sole tre settimane di allenamento, qualcosa di quasi impensabile. Eppure per Balsamo è stato importante partire per la Francia, per buttarsi da subito nella mischia, per ritrovare confidenza con il gruppo, le sue dinamiche, in una corsa dalla forte competitività. Soprattutto importante è stata una mattina, quella della terza tappa, il 25 luglio, partenza da Collonges-la-Rouge e arrivo a Montignac Lascaux, quella in cui la squadra chiede a Elisa Balsamo se se la senta di provare a fare la volata: «Sapevano come lo sapevo io che non avrei potuto vincerla, ma si sono fidati e fidarsi, quando si parla di volata, vuol dire metterti una squadra a disposizione, lavorare sodo, senza alcuna certezza. Per me è stato un segnale importante». Quando parte la volata, Balsamo è nella migliore posizione possibile, allora si alza sui pedali e prova a lanciarsi: «Mi sono dovuta risedere sul sellino, le gambe erano vuote, non potevo spingere. Ho fatto quinta in una volata che poteva essere perfetta, ma non ne avevo». In quelle gambe vuote c'era fatica, male, stanchezza, non c'era, però, timore che, dopo un infortunio simile, avrebbe ben potuto essere presente: «Quando dico, e lo dico spesso, che mi fido ciecamente di Ilaria Sanguineti, l'ultima donna del mio treno, non faccio della retorica. Nel momento in cui sono sulla sua ruota, so che la traiettoria scelta sarà quella giusta e mi sento sicura. Senza parlare più di tanto». Sarà perché Balsamo e Sanguineti si conoscono da tempo, perché c'è un rapporto di amicizia oltre che di lavoro, ma fra di loro non si parla molto neppure di sogni, anche se il più grande, ciclisticamente parlando, lo sanno entrambe e Sanguineti, lo scorso inverno, ce lo aveva confessato: portare Balsamo a vincere il Fiandre. «Sì, è il sogno condiviso, ma non ce lo diciamo, pur continuando a lavorare per la stessa cosa. Se accadrà, allora ammetteremo di averlo sognato da sempre».
Dopo il Tour de France, in Scandinavia sono arrivati i primi podi in volata, a rassicurarla, a farle capire che, nonostante tutto, era ancora lì. Solo al Simac Ladies Tour, però, alla prima tappa, Balsamo ha trovato nuovamente la vittoria: «Fossi arrivata seconda, anche di pochi centimetri, sarebbe cambiato tutto, anche i discorsi che sto facendo ora. Ad un certo punto, pensavo anche alla necessità di ripagare il lavoro della squadra e si ripaga con le vittorie, c'è poco da dire. La felicità che ho provato quando Shirin van Anrooij ha vinto il Trofeo Binda, davanti a me, è una felicità simile al giorno dell'anno prima in cui vinsi io. In una squadra succede così. La vittoria al Simac Ladies Tour è la vittoria che ha salvato la mia stagione, sono sincera. Era fondamentale mentalmente, prima che fisicamente». Una stagione sfortunata, non solo per lei, per la squadra, che si è trovata a correre con poche atlete: la gravidanza di Ellen van Dijk, qualche problematica che ha riguardato anche Elisa Longo Borghini e altre compagne coinvolte in cadute ed infortuni. Per questo, se Elisa Balsamo pensa alle volate della prossima stagione e a come battere Lorena Wiebes, chiede solo un poco più di fortuna, perché «la nostra è una bella squadra e la chiave per superare certi talenti è proprio la squadra».
La stagione 2024 sarà una stagione importante, intensa, per cui Balsamo sente di aver messo nelle gambe, con i ritiri invernali e con il lavoro in palestra, una buona base di preparazione, solida, quella che la caduta le aveva portato via. Per la prima volta, dopo tanti anni, però, non ci sarà la scuola, lo studio, l'università, visto che Elisa Balsamo si è laureata la scorsa primavera: «Mi è piaciuto studiare e mi è piaciuto scrivere la tesi. Ho studiato credendo che dovesse esserci qualcosa di altro nella quotidianità oltre al ciclismo, ben sapendo che, per quanto tutte noi lo trattiamo come se fosse l'intera nostra vita, il ciclismo non è la vita. Deve esserci altro, bisogna cercarlo e metterlo nelle nostre giornate, altrimenti diventa un problema. L'università era questo per me e ora che è finita sento la differenza. Riempio il mio tempo libero, condivido passioni con Davide e quando non sono in sella non mi annoio mai. Anzi, mettiamola così: ho scelto di non annoiarmi mai». La passione per la scrittura non l'ha mai nascosta, vorrebbe diventare giornalista, dopo la carriera o, forse, addetta stampa, sulle orme del suo addetto stampa attuale, Paolo Barbieri.
Il primo appuntamento è con gli Europei su pista, i ritiri sono in previsione di quell'appuntamento, ma anche, in generale, della stagione che culminerà con l'Olimpiade, a Parigi. Si dice sicura che la nazionale farà il massimo agli Europei, ma la valutazione non sarà e non dovrà essere focalizzata solo sul risultato: «Ritrovarsi con il quartetto, stare assieme, è un primo punto. Si tratta di un gruppo di ragazze che lavorano assieme sin da giovanissime: crescendo si cambia a livello fisico, a livello mentale ed anche a livello di potenza e watt che si sprigionano. La nostra evoluzione è questa ed è all'interno della stessa che bisogna muoversi: per esempio, facendo in modo che ciascuna abbia la possibilità di esprimersi nel ruolo in cui più si riconosce. Credo che queste siano le fondamenta di tutto quello che stiamo facendo». Dell'Olimpiade non si può non parlare, anche se manca molto e questa distanza di tempo rende più difficile rifletterci, soprattutto per chi, come Balsamo, ha scelto di concentrare la sua stagione in piccoli blocchi, per una questione di gestione, di concentrazione e di produttività: «Voglio esserci e voglio ottenere il miglior risultato possibile».
La frase lapidaria, senza dubbi o sfumature. Poi un salto all'indietro, a Tokyo, la sua prima Olimpiade: «Non ho un ricordo positivo, non posso parlarne come di un'esperienza che mi ha lasciato un bel segno, però ho sempre pensato che da ogni fatto che viviamo sia possibile trarre qualcosa di buono, quindi sì, la presenza a Tokyo è servita: non sarà la prima volta, saprò come meglio gestire l'ansia da prestazione e non ripeterò gli stessi errori». A guidare la nazionale su pista, Marco Villa che sta lavorando, tra l'altro, affinché, a livello tecnico, si riesca ad indurire il rapporto nell'inseguimento a squadre, il resto si inserisce nel rapporto umano, nell'ascolto e nel miglioramento quotidiano. Su strada Balsamo ha già la mente alle classiche di inizio stagione, poi penserà alle tappe al Giro d'Italia e al Tour de France. Dentro c'è l'orgoglio per quello che ha passato e per come lo ha oltrepassato.
Ma davvero i fenomeni uccidono il piacere dell'incertezza?
Guardavo scendere Marco Odermatt dalla Gran Risa. Era lunedì mattina, era il 18 dicembre. Lo ammiravo mentre lui annichiliva gli avversari. Più lo osservavo e più nella mia testa si faceva spazio una domanda, mi chiedevo fino a quale punto si potesse ritenere spettacolare l’ennesima impresa di uno sciatore che a tutti gli effetti può ritenersi, già oggi, uno dei più grandi di sempre. Il più forte della sua generazione, senza ombra di dubbio.
Pensando a Marco Odermatt, al modo in cui vince e chiude la pratica in (quasi) ogni Slalom Gigante, soprattutto, mi è venuto istintivo il parallelismo con Tadej Pogačar, non fosse altro poi che, proprio qualche ora dopo la vittoria di Odermatt nel Gigante della Val Badia 2023, vittoria in entrambi gli slalom giganti, arrivava la notizia della partecipazione di Pogačar al Giro d’Italia 2024.
L’annuncio della sua presenza ha, prima di tutto, regalato entusiasmo ai tifosi, ma in generale a tutto il mondo che ruota attorno al ciclismo. A coloro i quali a dicembre possono consolarsi solo con il ciclocross o con le prime foto - e giri su strava - dai ritiri. La notizia ha aperto il dibattito, che, personalmente, si è sviluppato in maniera definitiva quando un amico e collega mi ha scritto in privato - mi perdonerà se riporto il suo messaggio, e mi perdonerà, almeno spero, se lo faccio più o meno fedelmente, al netto di qualche omissis:
“Pogačar è un bel colpo per il Giro. La mia paura è che venga, schianti tutti subito e il Giro diventi noioso. È già successo? Sì, non sarebbe la prima volta, ma che palle. Speriamo si inventi modi diversi di vincere, se no è veramente un corteo. Io spero di sbagliarmi, ma che Quintana, van Aert e Ciccone, faccio tre nomi a caso, lottino alla pari o anche poco sotto con lui non ci credo nemmeno se lo vedo e non lo dico perché è Pogačar eh, avrei detto uguale se fosse venuto Vingegaard. Pogačar, più un altro big, sarebbe uno spettacolo davvero; Pogačar e basta in questa mediocrità, secondo me, rischia di dar vita allo spettacolo più noioso degli ultimi anni. E tu dirai: ma Merckx è diventato Merckx perché dominava. Sì, infatti a volte doveva essere di una noia mortale.”
Lo trovo un punto di vista necessario, anche se diametralmente opposto al mio. Uno spunto di riflessione da cui partire.
Ma davvero “i grandi campioni ammazzano lo spettacolo”? Sono convinto valga un discorso opposto e non lo dico per il debole nei confronti del corridore sloveno. Il gesto tecnico o, nel caso di un corridore in salita o allo sprint, perlopiù il gesto atletico, agonistico, che i primi della classe sanno imprimere e di conseguenza riescono poi a trasmettere, restano unici. Sono quelli che fanno la differenza e ti fanno innamorare dello sport - a me basta pensare agli anni di formazione da appassionato di sport e tornando a sci e ciclismo, penso a Tomba e Pantani, è vero, due modi diversi di concepire vittorie e domini, quello di Tomba spesso arrivava dopo seconde manche in rimonta, la poetica pantanesca spinge verso tutto un altro tipo di significato. Restano comunque i gesti di atleti, di corridori sopra tutti gli altri. Gesti che catturano, che si infilano direttamente nella testa e restano vivi nella memoria.
Pogačar fa parte proprio di questa categoria: di quelli che trascinano un movimento, che fanno innamorare di uno sport, che fanno parlare di sé, travolgono. Di questi tempi sono pure parte di un meccanismo che sarei ipocrita se definissi deprecabile, per quanto possa essere moralmente discutibile: è una perfetta operazione di marketing. Nei giorni dell'annuncio e di Pogačar al Giro non si è parlato di altro nel mondo del ciclismo, mica male, eh? Altro che Tour con il suo tratto in sterrato, la partenza dall’Italia, il finale a Nizza oppure altro che Vuelta - presentata abbastanza in sordina un paio di giorni dopo, e un paio di giorni dopo si parlava ancora della presenza di Pogačar al Giro. E immagino anche cosa sarà sulle strade il coinvolgimento ancora più emotivo che ci sarà in attesa di veder passare Pogačar anche solo per una frazione di secondo. Ecco, quello per me, che ancora conservo qualche languido atteggiamento non privo di sentimentalismo, è spettacolo.
Importa davvero se Pogačar dovesse ammazzare il Giro il secondo giorno a Oropa? Anzi, tifo per lui, e per la ricerca della storica doppietta - vien da sé nuovamente il paragone Pogačar-Pantani, con il filo conduttore non solo della superiorità in salita, ma anche unito da un luogo, Oropa. Questo per me sarà spettacolo.
Lo scorso anno abbiamo assistito a un Giro noioso, corso col braccino da tutti i pretendenti alla maglia rosa finale, in attesa della penultima tappa. Eppure quei pretendenti erano vicini l’un l’altro. Dove stava lo spettacolo? Meglio quello visto lo scorso anno, giocato sul filo dell’incertezza, ma senza attacchi, senza verve, senza un vero e proprio slancio, senza che qualcuno spiccasse su un altro o un possibile dominio dal secondo all’ultimo giorno dello sloveno? Io non ho dubbi su cosa sceglierei. D’altra parte pure nel Giro 2023, dopo il ritiro di Evenepoel, è un po’ calato l’interesse. Perché, dominatori o meno, abbiamo bisogno di certi grandi nomi.
Del Giro di due anni fa ricordate di una sfida accesa tra i pretendenti alla maglia rosa finale? Ma quando mai. A parte Torino e gli ultimi due chilometri del Fedaia, calma piatta, ciò che resta più impressa è la presenza, ingombrante, di van der Poel, in fuga quasi tutti i giorni - persino nelle tappe di montagna. Lo spettacolo risponde ai nomi di van der Poel, di Pogačar (e al Giro 2024, per fortuna, anche quello di van Aert, mi sento di dire: grazie Vegni); lo spettacolo, concetto forse più soggettivo di quello che pensassi, lo trasmette quel gruppo di corridori che stanno facendo la storia di questo sport; e pazienza se ce ne sarà soltanto uno, forse due, ben venga lo sloveno al Giro, pur con il piglio del cannibale, ben venga a scrivere la storia di questo sport, passando per le strade italiane. Io mi accontento così. Anzi, che dico mi accontento, bramo già quelle tre settimane di Giro.
Freddo, fango, oche, corse a piedi: una settimana di ciclismo invernale
Bisognerebbe fare come Andreas Leknessund. Fregarsene. È uscito a -24 gradi, ha fatto un video in cui si mostra sorridente. ha fatto un video per dimostrare di essere uscito davvero a quelle temperature - una volta si diceva: ”se non è scritto su Internet non esiste”, ora è l’epoca in cui se non lo fai vedere sui social, non è mai accaduto. Nel breve tempo in cui si è inquadrato con il telefono si vedono pezzi di ghiaccio formati sulle sopracciglia. Lo scenario, poi, è delizioso: in mezzo alla neve, in Norvegia, ed essendo lui norvegese, pedalare gli pesa molto meno che a noi, o comunque a me. È vero: tutto molto bello, ma se dovesse capitarmi una proposta di uscita a certe temperature probabilmente non accetterei nemmeno a pagamento, sotto tortura, ricatto o minaccia, vi direi: prendete tutto quello che volete ma lasciatemi stare. Il freddo in bicicletta è mio nemico e in questi giorni i miei due compagni di giochi in bicicletta mi stanno chiedendo di uscire, ma non mi avranno mai.
Ma appunto Andreas Leknessund è norvegese e quando era un ragazzo molto più giovane di come appare adesso, oltre a essere uno specialista giocoliere abilissimo nel diablo, era pure un provetto sciatore, sci di fondo per l'esattezza. E quando senti dire che in Norvegia “si nasce con gli sci ai piedi” capisci come non sia un luogo comune certificato, anche se il futuro corridore della Uno X Pro Cycling (dove ritorna dopo esserci cresciuto da giovane e dopo la parentesi agrodolce in DSM) ha sempre sostenuto di non essere così bravo con gli sci ai piedi. Già, meglio affrontarli con il giusto mezzo come si vede nel video: meglio usare una bici. Che pare fatta apposta per ogni situazione.
Leknessund è bravo in bici, ma sugli sci niente a che vedere con i suoi più giovani connazionali: Per Strand Hagenes, lui sì, sciatore provetto nelle categorie giovanili, e soprattutto Nordhagen. Uno che sembra uno sportivo fatto in provetta.
L’anno prossimo Per Strand Hagenes correrà la sua prima stagione da professionista a tempo pieno, in maglia Jumbo Visma, e qualcosa mi fa pensare che al Nord, quando farà freddo, ci sarà pioggia, lui potrebbe essere da subito uno dei protagonisti - trasformazione in gregario da corse a tappe permettendo, ma voglio fidarmi di una certa lungimiranza tra gli olandesi. Quest’anno è già accaduto che in una delle prime gare corse tra i grandi - era la quarta della sua carriera - vincesse. Era una Ronde Van Drenthe fredda e piovosa e dove si arrivò al traguardo stremati battendo i denti. In una corsa così selettiva Hagenes apparve un demonio e vinse in solitaria attaccando nel finale. Pur essendo dotato di un interessante spunto veloce, se ne fregò, meglio non correre rischi, avrà pensato.
Nordhagen, invece, sarà al suo primo anno tra gli Under 23, vestirà la maglia che ha appena mollato Hagenes: quella della Jumbo Visma Team Devo (che si chiamerà Team Visma -Lease a Bike Devo). E lui nel fondo andava forte forte, tanto da piazzarsi anche ai campionati nazionali correndo in mezzo ai senior, battendo pure un certo Sjur Roethe (veterano della nazionale norvegese tra gli sci stretti), impressionando una come Therese Johaug, una delle più grandi fondiste della storia: «Sono sbalordita» - disse quella volta. E immagino anche che faccia abbia fatto dopo aver visto uno junior che va tra i senior e li batte. Chiuse, se la memoria non mi inganna al 6° o al 7° posto. Tempo fa, Nordhagen disse di non aver preso una decisione in merito al suo futuro o meglio, che avrebbe continuato a dare allo sci di fondo la stessa importanza che dà al ciclismo, ma io credo che aver firmato un contratto fino al 2027 con la squadra olandese abbia messo abbastanza in chiaro qual è il suo futuro. Tra gli junior, parlo di ciclismo in questo caso, arriva da due buone annate dove a tratti ha dimostrato di essere tra i più forti 2005 al mondo, ma, nonostante i numeri che hanno fatto innamorare di lui i tecnici della futura Visma-Lease a Bike, l’impressione è che ci siano dei margini, abbastanza ampi, su cui lavorare.
Dove non è arrivata la neve c’è il fango, nell’ultimo week end di ciclocross ci sono state anche le oche. Ronhaar per la verità non dà la colpa a Qui, Quo, Qua come li ha definiti, se è scivolato, nella prova di Coppa del mondo a Flamanvile, Francia, dal 1° al 3° posto. «All’improvviso mi sono trovato davanti Huey, Dewey e Louie». In realtà come ha raccontato a fine corsa, era in calo già da prima, venendo rimontato poi da Iserbyt e van der Haar. Nemmeno Nys cerca alibi di nessun genere: dopo aver vinto il Koppenbergcross è entrato in una sorta di spirale negativa che vado qui ad elencare: ritiro al Campionato Europeo, 27° al Superprestige di Niel, 7° e 6° in Coppa del Mondo a Troyes e Dublino, 6° a Boom, 19° a Flamanville. Mal di schiena, stanchezza, vuole vederci chiaro. Sbaglio o anche lo scorso anno, a un certo punto, la sua stagione del cross prese una piega simile, per poi rilanciarla nel finale con tanto di titolo iridato tra gli Under 23? Se tanto mi dà tanto un po’ di risposo e poi si può andare a Tabor a sognare una medaglia tra i grandi, prima di un’intensa stagione su strada dove è atteso a un ulteriore salto di qualità, alla ricerca di quella maturità che significherebbe raggiungere gli obiettivi prefissi con maggiore continuità. Il ragazzo c’è e verrà fuori, non ho dubbi al riguardo.
Dove invece non sono arrivati fango, neve, cross, oche o mal di schiena, è arrivato David Gaudu. Però non in bici, ma a piedi. L’occhialuto ciclista francese che si diletta nel portare avanti carriere nel videogioco Pro Cycling Manager, ha corso la mitica staffetta a coppie di SaintéLyon insieme a un veterano del trail come Alexandre Fine. Gaudu, che da ragazzo andava forte correndo a piedi prima di capire che il ciclismo sarebbe stata la sua naturale vocazione - a̵l̵t̵r̵i̵m̵e̵n̵t̵i̵ ̵n̵o̵n̵ ̵s̵i̵ ̵p̵a̵s̵s̵a̵n̵o̵ ̵o̵r̵e̵ ̵a̵ ̵g̵i̵o̵c̵a̵r̵e̵ ̵a̵ ̵P̵C̵M̵ , altrimenti non si vince un Tour de l'Avenir o si sfiora un podio alla Boucle - prima della partenza si era visto davanti a un bivio: «Vincere o andare in ospedale». La corsa si è disputata in notturna e i due, che si sono conosciuti qualche anno fa proprio durante una corsa invernale a piedi, hanno chiuso la gara, in mezzo al freddo e alla neve, al secondo posto. «Penso che il Trail running sia la cosa che più si avvicini al ciclismo in termine di sforzo. È una lotta contro te stesso, come quando sei in salita, su un passo di montagna. Ci sono i tuoi avversari, ma i limiti che devi superare sono i tuoi e devi fare affidamento solo su te stesso. E poi mi aiuta a staccare dalla bici, fa bene ai muscoli, e mi fa bene alla testa perché io ho sempre amato correre. Ecco, per esempio, Thibaut Pinot praticava sci di fondo in inverno, è la sua passione. La mia è il trail running!»
La Madison di Parigi inizia alla Sei Giorni di Gent
C’è stato un tempo in cui ogni inverno fiumi di spettatori riempivano i palazzetti di tutto il mondo per assistere allo spettacolo delle sei giorni. Dal Madison Square Garden al Palasport di San Siro, per anni il ciclismo su pista ha intrattenuto migliaia e migliaia di tifosi con rapidi cambi all’americana e volate alla ruota di un derny. Il fascino delle sei giorni è ormai decaduto, ma ancora oggi vengono corse e celebrate in delle cattedrali della disciplina come il ‘t Kuipke di Gent. La Zesdaagse van Vlaanderen-Gent, come viene chiamata in lingua fiamminga la sei giorni locale, si corre dal 1922 e, salvo poche interruzioni, ha da sempre rappresentato un punto fisso nella stagione dei migliori seigiornisti al mondo e non solo, tant’è che nell’albo d’oro della competizione si possono trovare coppie dal calibro di Patrick Sercu (plurivittorioso con undici successi) e Eddy Merckx, Donald Allan e Danny Clark (che nel 1994 ha trionfato a 43 anni per la settima volta), Silvio Martinello e Marco Villa e più recentemente Bradley Wiggins e Mark Cavendish e Elia Viviani e Iljo Keisse. Sebbene l’appellativo di seigiornista sia caduto in disuso a causa dell’ormai striminzito calendario della specialità, ancora oggi alcuni tra i migliori pistard del mondo si sfidano al ‘t Kuipke per tenersi in forma durante l’off season e affinare l’intesa di coppia in vista delle gare di americana più importanti della stagione, quella mondiale e quella olimpica. Infatti le sei giorni si corrono in coppia e la classifica generale si basa sui giri guadagnati nelle madison. Tuttavia si può ottenere un giro di vantaggio anche ogni cento punti racimolati nelle varie prove, che a Gent sono corsa a punti, giro di pista a coppie, eliminazione individuale, eliminazione a coppie, derny, 500 metri a cronometro in coppia, scratch e ovviamente madison.
Quest’anno a Gent si sono presentate dodici coppie, molto eterogenee tra loro: i nazionali neerlandesi Havik e Van Schip, la collaudata coppia tedesca composta da Kluge e Reinhardt, i campioni in carica De Vylder e Ghys, i britannici Stewart e Wood, le riserve di De Vylder e Ghys nella nazionale belga ovvero Van den Bossche e Hesters, le riserve delle riserve cioè Vandenbranden e Dens, due astri nascenti della pista come Pollefliet e Teutenberg, gli esperti Norman Leth e Rickaert, una coppia già collaudata con un terzo posto alla Tre giorni di Copenhagen come Gate e Malmberg, i giovani olandesi e francesi Hoppezak e Heijnen e Nillson Julien e Tabellion e infine l’esperto Scartezzini con il 2005 Van den Haute. Ad avere la meglio sono stati nuovamente De Vylder e Ghys, che hanno chiuso con più di cento punti di vantaggio sui primi inseguitori, ovvero Havik e Van Schip, e con un giro e quasi ottanta punti su Van den Bossche e Hesters. Già dalla seconda giornata di gare proprio queste tre coppie sono emerse nella lotta al gradino più alto del podio, ma i campioni uscenti solo alla quarta serata sono balzati definitivamente in testa alla classifica mettendo a segno 58 punti, contro i 28 di Havik e Van Schip, grazie ai successi nell’eliminazione, nel giro di pista e nel derny con Ghys. Tuttavia, nelle ultime due sessioni di gare, i principali avversari di Ghys e De Vylder si sono rivelati i connazionali Van den Bossche e Hesters. I due, in forza rispettivamente alla Alpecin Deceuninck e alla Sport Vlaanderen Baloise, rappresentano le principali insidie alla convocazione olimpica per i campioni della Zesdaagse, anche se dopo Gent la questione potrebbe essere definitivamente chiusa. Van den Bossche (classe 2000) e Hesters (1998) infatti sono due specialisti dell’americana giovani e collaudati proprio come Ghys (classe 1997) e De Vylder (1995): chissà se la nazionale belga sceglierà di mischiare le carte alla partenza della madison di Parigi?
A scippare la seconda piazza a Van den Bossche e Hesters sono stati i campioni del mondo Havik e Van Schip, i quali, al contrario dei due belgi, sono senz’altro certi della qualificazione olimpica. L’estate prossima infatti la coppia oranje avrà probabilmente un’ultima occasione per agguantare una medaglia olimpica dopo l’argento e l’oro europeo di Apeldoorn 2019 e Grenchen 2021 e il recente titolo iridato conquistato a Glasgow. Parigi potrebbe essere sede di un’ultima danza ai giochi olimpici anche per la coppia tedesca Kluge - Reinhard, che corre mano nella mano dal 2018. In queste sei stagioni i due teutonici si sono laureati due volte campioni del mondo di specialità (Glasgow 2018 e Pruszkow 2019) e campioni europei negli ultimi due anni. Nel palmares di entrambi, che complessivamente conta nove medaglie mondiali, 11 europee e l’argento di Kluge nella corsa a punti di Pechino 2008, manca solo un oro olimpico, che li renderebbe una delle coppie più vincenti della storia della madison. Parlando di ori olimpici non si può non citare il campione olimpico uscente dell’americana: Lasse Norman Leth. Il danese, che ha corso assieme al pesce pilota della Alpecin Deceuninck Jonas Rickaert, al ‘t Kuipke non ha brillato particolarmente, piazzandosi in penultima posizione a ben trentacinque giri di distanza dai vincitori, solamente davanti alla strana coppia Scartezzini - Van den Haute, ma per sua fortuna Parigi è ancora molto lontana e il prossimo anno si dedicherà esclusivamente alla pista scendendo di categoria su strada. A non essere certo del ticket olimpico è invece il britannico Oliver Wood, decimo a Ghent assieme allo scozzese Mark Stewart, che dovrà vedersela con Matthew Walls, Ethan Vernon e William Tidball per il posto da compagno di squadra di Ethan Hayter.
Tuttavia in settimana è arrivato il forfait di Fred Wright, campione nazionale su strada e amico d’infanzia di Hayter, che ai Giochi si dedicherà esclusivamente alla prova in linea. Ancora più complicata la convocazione per Michele Scartezzini, per il quale Villa e Bennati dovrebbero rinunciare ad Elia Viviani o portare due specialisti del quartetto nella prova in linea: i pochi posti a disposizione pongono i cittì di tutto il mondo davanti a scelte complicate e dolorose. Con così poche gare in calendario, la sei giorni di Ghent è stato un importante banco di prova in vista di Parigi: l’avvicinamento dei grandi campioni della madison all’appuntamento più importante degli ultimi quattro anni è passato per il ‘t Kuipke.
Avere le idee chiare: intervista a Samuele Privitera
Diciotto anni compiuti da poco, e non lo diresti: avete mai provato a scambiarci due chiacchiere o a leggere (o ad ascoltare) una sua intervista? Determinato, ambizioso, Samuele Privitera ha idee chiare su quello che è il suo futuro e persino su quello che è il sistema del ciclismo italiano Under 23, argomento sempre caldo da diverse stagioni. Idee chiare e pochi fronzoli. Allo stesso tempo piedi saldi per terra.
Classe 2005, da Soldano, in Liguria, paesino nell'entroterra ligure, a pochi chilometri da Bordighera, ed è proprio con la squadra di ciclismo del comune in provincia di Imperia, con quelle montagne a picco sul mare, le viste da lasciarti senza fiato, noto per le sue numerose bellezze architettoniche, che ha mosso i suoi primi passi nel ciclismo.
Salito in bici a sette anni, e da quel momento, ci tiene a specificare, non è più sceso da un mezzo che si caratterizza per essere gioia e dolore di praticanti, professionisti o aspiranti tali, come lo è il giovane corridore passato tra gli juniores con il Team F.lli Giorgi, dove cresce, come persona, come corridore, e di cui avrà sempre un bel ricordo. Salito in bicicletta nel modo più classico: una passione trasmessa dal nonno e dal papà, ciclisti amatori. Ciclistica Bordighera fino agli allievi, Team F.lli Giorgi tra gli juniores prima di cambiare completamente dal prossimo anno: correrà tra gli Under 23 con la Hagens Berman Axeon di Axel Merckx, squadra da cui sono passati diversi talenti che si stanno imponendo nella massima categoria. Volete qualche nome? Eccoli: Philipsen, Almeida, Powless, Geoghegan Hart, Guerreiro, Dunbar, Neilands, i fratelli Oliveira, Narvaez, Bjerg e tanti altri, in attesa dei vari Leo Hayter o Rafferty, di Herzog o Andersen, di Romeo, De Pooter o Shmidt.
La tua presenza nella squadra di Merckx rappresenta una novità assoluta per il ciclismo italiano: insieme a Mattia Sambinello sarete i primi corridori di casa nostra a vestire la maglia del team di affiliazione americana. Perché questa scelta? Da parte loro, da parte tua.
I primi contatti sono avvenuti al termine della scorsa stagione; a febbraio di quest'anno, invece, ho fatto una stage con ritiro e sono rimasti impressionati dalla mia voglia di fare e da quanto andavo forte. E sono rimasto colpito anche io dal loro modo di lavorare. Perché fanno le cose bene, ma senza essere tutto estremizzato. Perché c'è poca pressione, poco stress, ma allo stesso tempo un approccio scientifico, professionale. A metà stagione ero già tentato di firmare con loro, ma altre squadre mi hanno cercato. Poi, però, quando è arrivata la notizia della collaborazione dal 2024, come Team Devo della Jayco AlUla, insieme al mio procuratore, Alessandro Mazzurana, abbiamo pensato fosse la scelta migliore da fare.
Sei rimasto colpito, ma da cosa?
Hanno una filosofia che io reputo quella giusta. Per come ragionano, come lavorano: pensavo fosse la squadra perfetta per me, e per come stiamo lavorando in questo inizio 2024 sono convinto lo sia. Il fatto, poi, che diventeremo squadra sviluppo della Jayco, andrà a colmare anche alcune lacune che magari poteva avere la squadra in precedenza: per esempio abbiamo iniziato a lavorare con lo staff del team World Tour, nutrizionisti, preparatori, eccetera. Hagens Berman resta la squadra vera e propria, ma in fin dei conti saremo un vero e proprio Team Development. Prima forse mancava qualcosina per essere una squadra di livello top per la categoria, ma ora quello step è stato fatto.
Torniamo alle tue origini ciclistiche. Si stato ispirato da tuo padre e tuo nonno, ma di sicuro avrai avuto degli idoli da bambino.
Più che idoli dei punti di riferimento. Ho sempre avuto questa passione per gli scalatori spagnoli: Contador, Purito Rodriguez e Valverde su tutti. Ecco Valverde è il mio riferimento attuale: ha corso tantissimo, per tantissimi anni, ha smesso in là con gli anni, ha vinto un mondiale a quasi 40 anni e ora che ne ha 43 lo vedi ancora che pedala, che fa gare Gravel. Corridore incredibile.
E oltre alla bici?
Poco altro, ma perché non ho tempo di fare altro. La mia vita è scuola e allenamenti. Però ho una grande passione: seguo tantissimo il tennis e in questi giorni è andata bene perché c'è stato anche da festeggiare.
Quali sono le tue caratteristiche?
Scalatore, resistente, con tanta durability. È che non potevo essere altro perché in volata sono piantato, ma per fortuna ho un buon motore.
Margini?
Mentalmente mi manca quella cattiveria per vincere, però ad esempio sono uno che si mette molto a disposizione della squadra.
Scalatore, dotato di fondo: sei il prototipo del corridore da grandi giri.
Esatto, sono sicuro che se in questi anni crescerò anche a livello di cattiveria mentale e a livello di motore continuerò a crescere in questa maniera, posso diventare un corridore un po’ à la Kuss. Un corridore forte, che fa la differenza in salita per i suoi compagni, ma che come abbiamo visto sa ritagliarsi anche il suo spazio.
Quindi, da regolarista, forse ti manca l’esplosività?
In realtà no. O meglio, mi spiego: sono piantato dai cinque ai quindici secondi e quindi in volata non posso fare molto. Ma ora sto lavorando tanto sugli sprint sui trenta secondi e sto migliorando questo aspetto. Su sforzi dai trenta secondi ai due minuti vado forte. Di sicuro mi manca quel picco di watt che nelle categorie giovanili mi sarebbe servito per vincere di più.
Nei due anni da junior, tuttavia, sei andato sempre molto forte, il primo anno tanti piazzamenti, quest'anno un paio di vittorie alla Coppa 1° Maggio e al Memorial Antonio Colo.
Però soprattutto il primo anno avrei potuto vincere diverse gare, ma da una parte ho sbagliato alcune cose dal punto di vista tattico, dall’altra io mi sono sempre messo a disposizione della squadra, senza che questo mi pesasse, chiaramente. Quest’anno, però, nelle gare che contavano ho dimostrato di avere motore. In Italia corriamo tanto, troppo, e le corse che contano veramente saranno un terzo di quelle che facciamo, quindi in tante giornate di gara mi sono messo a disposizione della squadra perché è un aspetto determinante, che ti fa crescere e maturare, impari a conoscere tutte le sfaccettature di questo mestiere. Poi nel resto delle gare magari non ho vinto, ma in tante corse importanti ho fatto bene.
Torniamo alla tua scelta di andare a correre all'estero, per parlare di questa tendenza che coinvolge il ciclismo giovanile italiano.
Intanto voglio togliermi un sassolino dalla scarpa: leggo commenti, riferiti anche ad alcune altre mie interviste, in cui gente, tifosi, lettori, ci dicono che dobbiamo restare in Italia, che sono andato via dall'Italia perché non volevo studiare o l'ho fatto solo per soldi. Quando ho firmato per la squadra di Merckx non pensavo nemmeno di prendere una lira; io sono voluto andare all’estero perché i numeri parlano chiaro. E per numeri parlo di risultati, crescita; le corse più importanti quest'anno le hanno vinte quasi tutte i corridori delle Devo o comunque di squadre straniere. Il Giro Next Gen: Staune-Mittet (JUmbo Visma Devo) su Rafferty (Hagens) e Wilksch (Tudor U23); il Val d’Aosta? Rafferty; a San Daniele tripletta Jumbo; il Recioto lo ha vinto Graat (sempre Jumbo Devo), il Piccolo Lombardia Lecerf (Soudal Devo) su Ryan (Jumbo Devo). All’estero qualcosa di giusto lo fanno, che dici?
E il campione italiano è Busatto, che correva con il team di sviluppo della Intermarché e che l'anno prossimo correrà nel World Tour con la squadra belga.
E la corsa l’hanno fatta lui, Belletta e Mattio (Jumbo). È un dato di fatto che all’estero si corra meglio. La crescita a livello di performance dei ragazzi andati all’estero è palese anche solo alla vista. E poi c’è il calendario. Io senza aver iniziato a correre ho già visto come sarà impostato il mio 2024 ed è totalmente diverso da quello di una Continental italiana. Siamo nel 2024 e bisogna iniziare a ragionare in maniera differente, però attenzione, io non me la prendo con le Continental italiane, ma semmai è colpa del sistema in cui devono correre.
Zeppo di storture.
Ti faccio un esempio: ti pare mai possibile che una squadra un fine settimana si divida per fare tre corse diverse, e tutte e tre gare regionali? Per cosa? Per vincere 40/45 gare all’anno, e finire sul giornale perché hanno vinto 40/45 gare in un anno così lo sponsor è contento. E in Italia i dirigenti lo sanno che per preparare i ragazzi questa non è la via, ma il problema è che lo sponsor vuole visibilità.
Tu hai colto l’occasione, ma perché ti sei cercato questa occasione.
Se io posso finire a correre per una Devo di una squadra World Tour, di avere la possibilità di migliorare come persona, imparare l’inglese, non capisco perché io debba restare in Italia.
Cosa ti aspetti da questa stagione in arrivo.
Migliorare mentalmente e come motore. Lo dico sempre: uno dei motivi che mi ha spinto ad andare all’estero è la voglia che ho di imparare a fare il corridore, intendo il corridore vero. Voglio fare la vita da atleta e per me l’unico modo per farlo è prendere schiaffi a livello sportivo, fare gare di qualità con gente che ha più motore di me, che in salita mi apra in faccia in modo che io capisca che ho ancora tanto da lavorare.
E a livello di risultati?
Nessun obiettivo vero e proprio, mettiamola così. Fare bene nelle corse in Italia, correre il Giro Next Gen con un ruolo importante all’interno della corsa, per me stesso o per la squadra, così come disputare le internazionali dure, il Val d'Aosta. Però ribadisco: prendere più batoste possibili per imparare a gestirle quando le prenderò più avanti, perché è inevitabile che quelle le prenderai sempre. Poi dal secondo anno, quando avrò imparato a fare il corridore, ci risentiamo e ti dirò quali corse posso provare a vincere. E poi voglio imparare a essere un uomo squadra perché devi sapere anche fare il gregario.
Andando ancora a scuola come coniughi la tua routine giornaliera tra scuola e allenamento?
La scuola in questo mi sta aiutando parecchio perché due giorni alla settimana esco un’ora prima degli altri e questo mi permette di fare più volume.
Che tipo di allenamento stai facendo ora?
Perlopiù volume. In queste prime quattro settimane ne ho fatte tre di volume/adattamento a circa 24/26 ore a settimana, e poi la settimana appena passata ho fatto i primi quattro giorni di scarico e poi dal giovedì ho ricominciato a fare volume inserendo intensità, facendo blocchi in zona 3, medio lunghi e poi sessioni di sprint. Anche se queste in realtà le ho inserite sin dall’inizio: due sessioni alla settimana circa di sprint, facendo sprint brevi di dieci secondi e soprattutto massimali da trenta secondi. Diciamo che ora le mie sessioni settimanali sono: due di sprint, due, tre di intensità media e treshold e il restante volume in z2. Ora sto girando sempre sulle 24/27 ore a settimana e faccio anche due, tre sessioni di palestra a settimana dove faccio forza massima ed esplosività.
Queste sono tabelle specifiche personalizzate o sono lavori che vi stanno facendo fare a tutti in squadra.
Tabelle personali: noi in squadra possiamo avere il nostro preparatore personale, io sono seguito da Gaffuri e Pinotti, quest'ultimo è comunque uno dei preparatori della squadra World Tour. Però tutte queste tabelle, se arrivano da preparatori esterni, passano tutte sotto gli occhi del nostro Head Coach e vengono approvate da lui. Credo, tuttavia, che i miei compagni lavorino su questa falsariga. Certo, considerando che molti vivono al Nord Europa, non credo riescano a fare il volume che faccio io, ma per dire, anche già solo Sambinello che abita a Varese non riesce a fare lo stesso mio volume. Abitando in Riviera, per dire, oggi sono andato a fare 3 ore, ho scollinato oltre i 1000 e c’erano 14 gradi lassù. 14 gradi al nord Italia se li sognano. Su questo sono avvantaggiato.
Corsa dei sogni?
Sogno di partecipare alla Sanremo, perché la guardo da quando ho 2 anni, ma sogno di vincere il Tour.
Il tuo anno, il 2005, e il 2006, sono annate piene di talento. Tra i corridori contro cui hai corso chi ti ha impressionato maggiormente?
Jarno Widar. Motore pazzesco, corridore esplosivo. Si mette davanti tutta la gara e tira. Ho fatto lo stage con lui in Hagens Berman Axeon, eravamo compagni di stanza, poi lui ha fatto altre scelte (correrà con la Lotto Devo). Per farti capire che tipo è: dopo che ha perso il Lunigiana - in discesa - è tornato a casa, è uscito, ha aperto sulla Redoute e ha preso il KOM a Evenepoel. In Italia mi hanno impressionato Finn e Giaimi. "Lollo Finn" ha gran motore, deve solo migliorare nel correre, ma quest’anno ha scelto la squadra giusta per farlo.
All’estero con l’Auto Eder, squadra affiliata alla BORA-hansgrohe.
Lui, lì, può diventare davvero forte.
Al Lunigiana si è fatto sorprendere nelle prime tappe, restando un po’ dietro nelle fasi cruciali.
Sì, esatto, lui ha un po’ questa caratteristica di correre in fondo, e questo lo penalizza, ma quando la strada sale va forte. E poi c’è Giami, io lo definisco "un treno".
Giami, Finn, Privitera, tre liguri: cosa sta succedendo dalle vostre parti?
Solo motori sulla costa! Con Giaimi ci alleniamo assieme ancora adesso quando siamo a casa ed uno spettacolo uscire assieme a lui. Ci mettiamo lì, z2 a 37/38 all’ora e via sulla costa. Il problema è quando dice “facciamo una volata?”. Quasi 1800 watt di picco fanno un po’ paura… gran corridore. Ecco lui anche a correre in gruppo ha qualche problema, ma ha una mentalità che definirei “folle”. Se qualcuno gli dice qualcosa, gli scatta qualcosa in testa e magari il giorno dopo ti fa 80 km di fuga. Un po' altalenante magari a livello mentale, ma il suo motore sui 4 minuti ce l’hanno in pochi, e lo dimostra il record del mondo di categoria nell’inseguimento su pista.
Abbiamo un bel biennio in Italia tra 2005 e 2006.
Ti posso fare altri nomi che quest’anno sono andati veramente forte: Sierra, Gualdi, i Sambinello, Mottes, Negrente, altri. Quello che la gente deve accettare è che noi facciamo la scelta di andare a correre all’estero. Quello che bisogna capire a livello di sistema è che il problema non è tra i giovanissimi, allievi, juniores, ma tutto quello che arriva dopo. Perché non è possibile che si arrivi dagli Under 23 e si inizi a fare fatica a esprimere il talento. Tutti lo devono capire, non solo le squadre, ma tutti i dirigenti. Devono capire che se noi in Italia facciamo in un modo, ma all’estero fanno in un altro bisogna fare anche noi come si fa all’estero. Prima passava un corridore all’anno in squadre straniere, ora sta diventando una tendenza diffusa, due, tre, cinque, sette. Ma in Italia nulla cambia e ci si ostina a fare in un certo modo.
Una mentalità, per i motivi che hai anche spiegato prima, difficile da cambiare.
E io ti faccio un esempio sulla mentalità da grande squadra. Prendi la Tudor, esiste da un paio di anni e guarda che squadra hanno messo su, fanno tanti punti per il ranking e puntano a entrare nel World Tour. Ma al di là dei punti è una squadra che ha dimostrato di lavorare bene, basta guardare anche la campagna acquisti fatta.
Hanno un budget importante, ma lo sanno usare bene. Quando prendi corridori di spicco come Dainese e Trentin, vuol dire che punti in alto.
Esatto, non è solo una questione di budget, ma di come lo si usa. Loro devono essere un esempio. Ci sono riusciti loro, dobbiamo provarci anche noi. E poi potrei fartene altri di esempi, ma ti porto solo quello della Hagens Berman Axeon: in otto anni hanno portato tra i professionisti una cinquantina di corridori, va bene che prendono quasi sempre solo corridori con motore, però se è uscito un numero del genere, vuol dire che almeno più della metà delle cose che fanno, la fanno giusta. Perché non riusciamo a farlo anche in Italia? Se loro corrono poco, ma corrono bene, perché non lo facciamo anche noi? E poi prima dell’arrivo di Jayco non erano di certo la squadra più ricca, ma guarda cosa facevano, mica correvano tutti i week end? Ma un calendario specifico che aiutava a crescere i corridori misurandosi spesso con i professionisti. A fare quello che dicevo prima: prendere schiaffi per crescere. Tornavano dopo aver corso per qualche settimana o per mesi con i professionisti per vincere le gare Under 23. Quello che voglio dire è che i soldi che una squadra spende per fare 6 gare regionali, li spendono in una gara e poi si raccolgono i frutti. Si fa motore, si impara a correre, il ragazzo cresce e diventa corridore. Ma il problema non è chi prende decisioni su come investire il budget, ma è proprio il sistema che è sbagliato. Queste squadre, se l’anno dopo vogliono avere i fondi dagli sponsor, devono vincere la corsetta regionale per avere visibilità.
Foto in evidenza: Rodella, per gentile concessione del Team F.lli Giorgi
Correre a testa in giù: il racconto del Tour of Southland 2023
Nel vecchio continente i mesi autunnali sono sinonimo di ciclocross e ciclismo su pista, ma dall’altra parte del mondo, dove in questo periodo le temperature sorridono all’attività su strada, la stagione è appena entrata nel vivo. Infatti, nella regione più meridionale della Nuova Zelanda si è appena conclusa la sessantasettesima edizione di una delle corse più belle del calendario non-UCI e non solo: il Tour of Southland.
Dal 1956, a cavallo tra ottobre e novembre, nella regione neozelandese del Southland, si snoda una gara ciclistica di più giorni tra i fiordi, i laghi e le aspre montagne del Te Wahipounamu - il più grande parco nazionale della Nuova Zelanda - e le strade cittadine di Invercargill - capoluogo della regione -, considerata dai locals come il Tour de France neozelandese: il Tour of Southland. Nell’albo d’oro della corsa, dove le Croci del Sud appaiono a perdita d’occhio, si susseguono nomi di maggiore e minore fama: da pionieri del pedale māori in Europa come Warwick Dalton e Tino Tabak, il primo modesto pistard ed il secondo addirittura campione nazionale neerlandese nel 1972 (Tabak godeva infatti della doppia cittadinanza essendo nato proprio in Olanda), a vecchie e nuove conoscenze del Pro Tour e del World Tour come James Oram, Aaron Gate, James Piccoli, Michael Vink e Josh Burnett, passando per lo straordinario Brian Fowler, plurivittorioso con otto successi tra anni ‘80 e ‘90 che però non trovò grande fortuna in Europa. Dalton e Tabak, ormai più di sessant’anni fa, hanno aperto la strada ai Kiwis nel ciclismo europeo, che nella stagione appena conclusasi erano ben diciassette a livello World Tour (sei nel Women’s World Tour e undici in quello maschile) e diciannove a livello Pro Continental, di cui sedici tra le file della Bolton Equities Black Spoke, la prima - e, vista la sua imminente chiusura, speriamo non l’ultima - compagine professionistica neozelandese.
Quest’anno ha corso con la maglia giallo-viola dei neozelandesi anche il campione uscente del Tour of Southland 2022, ovvero il ventitreenne Josh Burnett, il quale alla terza uscita da pro’ aveva già centrato il successo, vincendo la tappa regina della New Zealand Cycle Classic. Tuttavia lo scorso 29 ottobre Burnett non era presente al Queen’s Park di Invercargill per difendere il titolo, lasciando il trono del Southland a nuovi pretendenti. La prima delle sei giornate di gara consisteva in un cronoprologo a squadre di 4,2 chilometri, seguito da uno dei più classici Criterium oceanici. La prima semitappa di giornata ha visto prevalere i body, chiaramente ispirati alle fantasie anni ‘90 della Mapei, della Quality Food Services Southland di Boris Clark, uno dei favoriti in ottica classifica generale, il quale però è riuscito a racimolare solo una manciata di secondi sui suoi principali rivali. Nel pomeriggio, invece, ad imporsi è stato il classe 2005 James Gardner, fresco vincitore del Tour of Southland Juniors ad inizio ottobre con quasi cinque minuti di vantaggio sul primo inseguitore, ovvero Carter Guichard del vivaio dell’AG2R. Il diciottenne di Dunedin è evaso dal gruppo con un’azione da finisseur al suono della campana, quando mancavano poco più di quattro chilometri alla conclusione, ed è riuscito a contenere la rimonta del gruppo fino alla volata finale grazie alle sue doti da pistard ed a una posizione super aerodinamica per un ragazzo di oltre un metro e novanta. Gardner ha quindi anticipato sul traguardo un altro pistard della nazionale neozelandese, Nicholas Kergozou, che grazie agli abbuoni ha vestito la maglia arancione di leader della classifica generale.
Il menù della seconda tappa in linea presentava vari settori di gravel, molti dei quali in salita, che hanno premiato l’australiano Samuel Jenner, il quale sulla salitella sterrata di Glenure Hill si è lanciato in una fuga solitaria di poco più di dieci chilometri. Dopo un lungo braccio di ferro, Jenner ha avuto la meglio sugli inseguitori, anticipando per un solo secondo un gruppo di una ventina di elementi sul traguardo di Lumsden. Grazie al secondo posto di giornata e al tesoretto guadagnato nella cronosquadre, Regan Gough ha strappato la maglia di leader a Kergozou, suo compagno di nazionale di ciclismo su pista. Dopo due colpi di mano nelle prime due frazioni, la terza tappa, da Riverton a Te Anau, si è finalmente conclusa in volata, con Zakk Patterson che ha bissato il successo dello scorso anno ottenuto proprio sul traguardo di Te Anau.
Il giorno seguente la carovana al seguito del Tour of Southland è ripartita alla volta di Queenstown, da dove ha inizio l’ascesa più dura di tutta la gara: quella alla stazione sciistica di The Remarkables. La salita, che domina la città e i fiordi del Lago Wakatipo ai suoi piedi, misura 7 chilometri e presenta quasi 600 metri di dislivello e quest’anno ha sorriso all’azione della fuga, da cui è emerso Eliot Crowther. Crowther, un ragazzino di 36 anni che il primo Tour of Southland lo ha corso nel 2005, dopo il traguardo ha affermato: “Questa è, secondo me, la miglior corsa dilettantistica del mondo. In che altro luogo puoi correre a questo livello senza essere un pro’?”. La salita tuttavia non è terminata con la tappa di The Remarkables, infatti nella frazione successiva i corridori hanno scalato Bluff Hill, un vero e proprio trampolino nebbioso verso il Mar di Tasmania, dove nel 2020 ha vinto l’allora campione del mondo di corsa a punti, e oggi professionista con la Israel Premier-Tech, Corbin Strong. Ad imporsi in cima a Bluff Hill è stata una certezza del ciclismo locale neozelandese, ovvero l’inglese Dan Gardner, che da due anni a questa parte vive in terra māori. Il britannico della PRV - Pista Corsa ha preceduto sul traguardo il gruppo inseguitore guidato da Craig Oliver e Hayden Strong - fratello maggiore di Corbin -, ottenendo la testa della classifica a generale con 35” di vantaggio su Arthur Meyer, 43” su Joseph Cooper, 51” sullo stesso Oliver e 56” su Boris Clark.
Nella sesta tappa, i principali avversari di Gardner hanno fatto temere il peggio alla maglia arancio, che tuttavia, dopo una frazione di attacchi e contrattacchi corsa a 47 chilometri orari di media, è riuscito a chiudere con il gruppo dei big, a 20” dal vincitore di giornata Kane Richardson. L’ultima giornata di gare, proprio come la prima, presentava due appuntamenti decisivi per chiudere i giochi della classifica generale: una cronometro individuale di 13 chilometri al mattino e un’ultima tappa pianeggiante verso Invercargill nel pomeriggio. Nella prima semitappa, le lancette del cronometro hanno sorriso al biker Ben Oliver, il quale per qualche centesimo ha ottenuto la vittoria sull’esperto Joseph Oliver, che però è balzato in seconda piazza in classifica generale a soli 15” da Gardner. Nell’ultima semitappa, tuttavia, la squadra della maglia arancione, composta da soli giovani di Auckland e Cambridge oltre all’esperto britannico, è riuscita a tenere chiusa la corsa fino alla volata conclusiva, vinta da Kergozou su Josh Rivett e sull’argento mondiale dello scratch Kazushige Kuboki, regalando così la classifica generale al suo capitano. Assieme a Gardner sono saliti sul podio finale Joseph Cooper (Central Benchmakers - Willbike) e Boris Clarke (Quality Food Services Southland).
“Fino all’ultima pedalata non credevamo che sarebbe potuto succedere. Sono molto felice e fiero e grato verso i miei compagni, lo staff, tutta la mia famiglia e i miei amici. Qualche anno fa lavoravo in un negozio di biciclette quando Tim, il proprietario di PRV (lo sponsor della squadra di Gardner, ndr), mi ha proposto di fare da chioccia a questi giovani ragazzi e alla fine si è tutto capovolto e loro hanno aiutato me”. Ha commentato il neo campione del Tour of Southland, che tra poco si ricongiungerà con la sua fidanzata, l’ex ciclista Kate Wightman, nel cammino del Te Araroa Trail per raccogliere fondi per la ricerca contro il cancro uterino. Il Te Araroa Trail è un percorso escursionistico di 3000 chilometri che taglia in due la Nuova Zelanda, dal punto più settentrionale dell’Isola del Nord - Capo Reinga - al punto più meridionale del Paese, ovvero Bluff Hill, dove Dan Gardner ha appena conquistato il successo più importante della sua carriera e presto farà ritorno assieme alla sua dolce metà.
A cura di Tommaso Fontana.
Un'altra settimana di ciclismo: 5 cose viste, 5 cose da dire
La Vuelta e il suo disegno: ce ne vuole, ma lo sapevamo già. Il fatto è che poi quando ci sbatti il muso il mattino della tappa, ti rendi conto di quanto le cose non funzionino per il verso giusto, ovvero il ciclismo di ASO che incontra quello della Vuelta e partorisce tappe di montagna troppo brevi o le solite “unipuerto” come le definiscono da quelle parti, roba da far strabuzzare gli occhi, da farti perdere la fede, da farti venire voglia di prendere la bici e, invece di organizzare un giro lungo, di fare 10 km e tornare a casa tanto la proporzione è quella. L’emblema è la frazione di martedì 12 settembre, che segue il giorno di riposo: 120 km con una salitella nel finale un po’ rampa di garage, un po’ strappetto, che fa tanto Vuelta, un disegno che pare non abbia nemmeno richiesto troppo impegno. A parte gli scenari interessanti, ma quelli per fortuna li trovi un po’ ovunque.
Parliamo di disegni: ecco a voi signore e signori il Tour of Britain: 8 tappe, 6 volate. Eppure da quelle parti ci si poteva sbizzarrire con percorsi collinari, persino con il pavé. Le volate però, sono state tutto sommato un discreto vedere. Il pericolo è sempre dietro l’angolo quando si parla di ciclismo, figuriamoci a quelle velocità, in quei finali, su quelle bici, con certa gente che non ha coscienza (gli invasati delle volate), però si sono fatte guardare. Olav Kooij, classe 2001, ne vince quattro di fila, il quinto giorno Jumbo Visma si inventa il numero con van Aert, pesce pilota nelle frazioni precedenti, che approfitta di un buco fatto da un compagno - e studiato, parole proprio di van Aert, a tavolino la sera prima - per involarsi verso il successo che diventerà poi fondamentale per vincere la classifica generale della breve corsa a tappe. Dove, a proposito di volate e pesci pilota, brilla ancora una volta la stella di Danny van Poppel, corridore di cui si parla sempre troppo poco a nostro avviso. Corridore solido che quando ha il suo spazio sa essere (molto) vincente e non solo prezioso ultimo uomo del treno BORA.
Remco Evenepoel scottato come Tadej Pogačar qualche mese prima. Logorato da una Jumbo che mette in campo una superiorità a tratti imbarazzante. Salta per aria, non letteralmente, ma si fa per dire, nella tappa del Tourmalet, ma il giorno dopo va in fuga e vince. L’abbraccio con Bardet, secondo di tappa e a lungo suo compagno di fuga, vale tutto. Così come le parole sempre di Bardet a fine gara: “«Il ciclismo come piace a me. Grazie per il passaggio Remco: ci sono corridori che vogliono vincere, altri che vogliono lasciare il segno». Peccato solo vedere un corridore incredibilmente forte come Evenepoel lottare "soltanto" per i successi di tappa e per i punti della classifica dei GPM, ma si passa anche da questo.
A proposito di lasciare il segno: Filippo Ganna. Unico fuoriclasse del nostro ciclismo. Vince la crono contro Evenepoel, si prende la rivincita sul Mondiale. Poi va in fuga nel giorno in cui il segno lo lascia, ancora una volta, Jesus Herrada - terza vittoria di tappa alla Vuelta in carriera. Quel giorno Ganna ci costringe a qualcosa che non avremmo mai pensato di fare: ci fa iscrivere al partito del “GANNA POTEVI VINCERE!” perché non sarebbe potuta andare altrimenti - come invece andrà - con quella gamba che portava a spasso il gruppetto dei fuggitivi lungo Laguna Negra. Ma Ganna è così: c’è Thomas in fuga e la squadra quel giorno è tutta per il galllese e Ganna ci si butta a capofitto per i compagni di squadra. Peccato, ma è un bel vedere. Altri Ganna cercasi in Italia, non certo soltanto per caratteristiche, ma per piglio e capacità di costruirsi un palmarès.
Le corse in Canada che bellezza - oddio, il Gp di Quebec molto meno rispetto al Gp Montreal ma tant’è. Intanto l’orario per “noi europei” che regala il ciclismo in prima serata. E poi quel circuito cittadino che quest’anno è stato reso ancora più complicato dalla pioggia. Un vecchio canovaccio: in mancanza di quei matti che fanno esplodere le corse lontano dal traguardo con una serie di accelerate in prima persona - Pogačar, Pedersen, van der Poel, van Aert, Evenepoel, tanto per fare dei nomi a caso - le squadre che si mettono a testa bassa a fare l’andatura e giro dopo giro scremano il gruppo. A Quebec City, corsa tutto sommato noiosetta fino all’arrivo, vince De Lie, e che soffrendo va persino all’attacco a Montreal due giorni dopo, andando in contro alla sorte segnata, ma che razza di corridore che è il Toro. Montreal 2023, tuttavia, con i suoi quasi cinquemila metri di dislivello premia un altro profilo di corridori. E infatti vediamo una corsa selettiva, da dietro, da davanti, a ogni curva e strappo che è un rilancio. Corridori che stringono il manubrio con i denti per stare attaccati al gruppo (Alaphilippe, Matthews), altri che zampettano verso la vittoria (Adam Yates), e pure qualche segnale italico: Velasco, pound for pound il migliore italiano in stagione nelle corse di un giorno con un certo dislivello, ma c’è piaciuto molto pure Garofoli, talento che tutti aspettiamo. In fuga a Quebec City, tiene finché può con i migliori a Montreal. Chiude 43°. Al momento ci accontentiamo di questo, poi vedremo.
Foto in evidenza: UNIPUBLIC / SPRINT CYCLING AGENCY
Dove si sfidano i giovani: il Giro della Lunigiana
Il futuro del ciclismo, spesso, passa da queste terre, la Lunigiana, spesso è proprio da questa corsa, il Giro della Lunigiana, da cui puoi trarre interessanti conclusioni su cosa aspettarti dal ciclismo a venire, quali corridori cercare in gruppo, su chi puntare. Hanno messo la bandierina sulla corsa a tappe ligure, arrivata nel 2023 alla sua quarantasettesima edizione, corridori che poi una volta “passati di là”, come si dice in gergo, anche se non è la migliore delle espressioni, ma si fa capire, hanno lasciato il segno. Vi facciamo qualche nome: tra i vincitori del “Lunigiana” troviamo ben sei vincitori di (almeno) un Giro d’Italia dei grandi: Franco Chioccioli, Gilberto Simoni (quest’ultimo è l’unico corridore ad aver conquistato Lunigiana, Giro Under, Val d’Aosta e Giro d’Italia), Danilo Di Luca, Damiano Cunego, Vincenzo Nibali, Tao Geoghegan Hart; qui al Lunigiana quattro delle ultime sette edizioni le hanno vinte corridori come Pogačar, Evenepoel, Lenny Martinez e Morgado… scusate se è poco.
Dello spirito di questa corsa, della sua importanza nel calendario giovanile, ma anche o soprattutto nel dettaglio di come si è sviluppata questa ultima e spettacolare edizione, abbiamo parlato con Valerio Bianco, ufficio stampa del Giro della Lunigiana dal 2019.
Raccontaci un po’ questo Lunigiana, Valerio, qual è la forza di una corsa che da anni è un riferimento anche a livello internazionale per la categoria juniores.
La forza principale è il confronto tra selezioni internazionali, con le nazionali e tutte le selezioni regionali italiane. Normalmente è prima del Mondiale, quest’anno prima dei campionati europei, e quindi spesso è un banco di prova tra i migliori corridori della categoria, tra le varie squadre che dovranno scegliere i capitani. Tra le squadre italiane c’è tanta competizione: vengono portati i migliori corridori e quindi il livello è alto. Il Lunigiana, poi, è una vetrina importante anche in chiave futura per quelli che vogliono continuare a correre. Rispetto al primo anno in cui l’ho fatto è cresciuta proprio la qualità della corsa, il modo di interpretarla tatticamente. Il primo anno per esempio ricordo attacchi e contrattacchi fratricidi: ricordo la Germania che perse il Giro con Brenner perché fu attaccato dai compagni di nazionale, mentre ora trovi squadre che corrono già compatte, corridori già pronti, la Francia da questo punto di vista è stata impressionante, come la Norvegia. Il livello è stato davvero alto. E poi c’è una bella atmosfera, sono dei giorni intensi, ma che valgono la pena di essere vissuti.
Potresti indicarci i maggiori aspetti positivi di questa corsa, soprattutto a livello organizzativo.
Il primo grande successo è aver portato per il secondo anno di fila la corsa a Portofino. La Portofino-Chiavari ha significato per la corsa sconfinare nel Tigullio: vuol dire che c’è grande interesse anche al di fuori delle zone normalmente battute. Lo scorso anno per esempio siamo partiti da Portofino, sì, ma poi siamo tornati subito in Lunigiana e invece quest'anno abbiamo fatto un’intera tappa “all’estero”. Il secondo successo: nonostante un’organizzazione fatta perlopiù da volontari, non è facile, siamo riusciti a fare ben due tappe per il Giro della Lunigiana femminile. Lo scorso anno era una soltanto e ora abbiamo raddoppiato e speriamo che nei prossimi anni si possa aumentare ancora.
Qual è stata la risposta del pubblico sulle strade.
Ottima cornice di pubblico sin dalla vigilia a Lerici quando abbiamo aperto con un dibattito sul ciclismo giovanile al quale erano presenti Bugno, Podenzana, Fondriest. Martedì e mercoledì, poi, nonostante il tempo fosse brutto, c’era tanta gente e alcuni arrivi come Bolano, soprattutto, erano scenograficamente davvero belli, intensi, perché pieni di gente, ma in generale ottima risposta in ogni tappa.
Voi fate un lavoro a livello di comunicazione soprattutto sui social, a livello di una corsa World Tour, quale riscontri avuto avuto con i media?
Sui social abbiamo avuto tante visualizzazioni, abbiamo avuto buoni ascolti nella differita andata in onda sulla Rai, eravamo fissi sui giornali della zona, Tirreno, La Nazione, Il Secolo XIX, articoli pure su L’Eco di Bergamo e in Emilia Romagna e hanno parlato di noi tanti siti internazionali, in Polonia i siti specializzati erano sul pezzo, DirectVelo in Francia, hanno parlato della corsa in Belgio, su Ciclismo Internacional in Colombia nonostante la Colombia non avesse una squadra di grande livello.
Parliamo della corsa: iniziando da un disegno del tracciato selettivo.
Quest’anno abbiamo tolto la tappa di volata disegnando solo tappe adatte alla selezione, anche perché poi queste sono strade che si sposano con percorsi del genere, mossi, vallonati. E poi anche perché visti i comuni interessati era più semplice avere un percorso che esaltasse le qualità di un altro tipo di corridori. Però c’è anche da dire che pure gli anni scorsi, a parte una tappa, il tracciato è sempre stato su questa falsariga. 4 tappe mosse o dure e 1 volata, quest’anno cinque selettive.
Che corsa è stata?
Incerta fino alla fine: i primi tre giorni è cambiato tre volte il leader della classifica, spesso per vicissitudini legate a cadute, mentre negli ultimi due anni Martinez e Morgado, favoriti alla vigilia, si sono imposti praticamente sin dall’avvio, indirizzando la corsa sui loro binari. Invece quest’anno la Portofino-Chiavari, con il suo attacco all'inizio da parte di quasi tutti i nomi più importanti e le squadre più forti, ha cambiato gli equilibri, ed è un peccato non ci fosse la diretta, perché è stata una tappa bellissima.
Quella dove Widar si è staccato nelle discesa del Portello…
Esatto. Sin dall’inizio ci sono stati attacchi, sin dalla prima salita dove è andato via un gruppetto con Mottes, Finn, Guszczurny, Ingegbritsen, e altri, e su di loro è rientrato Bisiaux (il vincitore finale NdA) da solo con un'azione importante. Poi in discesa è rientrato Nordhagen, anche lui da solo, perché Widar che era con lui si è staccato. Una giornata ricca di storie di corsa: tattiche quasi da professionisti con Norvegia e Francia coperte con la fuga, Widar in difficoltà perché con Francia e Norvegia ben rappresentate davanti si è dovuto muovere in prima persona.
E poi il giorno dopo si è decisa la corsa.
Con la caduta di Nordhagen. Io ho parlato con Mottes e Finn riguardo alla caduta ma non è molto chiara la dinamica perché era una discesa molto semplice e forse ha toccato la ruota di un corridore che gli era davanti.
Veniamo ai ragazzi, tu eri a stretto contatto con loro e allora vogliamo capire un po’ intanto chi è il vincitore, uno dei corridori più attesi di tutta la stagione su strada, lui che è stato dominatore della categoria jr nel CX: chi è Leo Bisiaux, corridore di cui sicuramente avremo modo di parlare negli anni perché questo è un grande talento, in una Francia che ne sforna per ogni classe, questo sembra avere qualcosa in più.
La Francia ha corso compatta al suo fianco. Era il capitano designato e così hanno corso, a parte nella prima semitappa dove erano tutti per Grysel. Hanno corso come squadra di club, nelle prime fasi di corsa Fabrie a fare il ritmo, e nel finale a muoversi solitamente Decomble (che ha vinto una tappa e ha chiuso 8° in classifica generale Nda) e Sanchez (9°). Bisiaux è stato da subito uno dei più attivi: a Bolano, seconda semitappa, ha attaccato per primo rimbalzando nel finale e perdendo qualche secondo nel finale. È un corridore secondo me molto più adatto alle salite lunghe che a quelle brevi, si è visto anche sul Portello: lui è rientrato da solo sui sedici corridori davanti.
Poi quest’anno è stato fermo per un po’ per problemi di salute e aveva fatto del Lunigiana il suo grande obiettivo della seconda parte di stagione. Ma se dovessimo paragonarlo a un corridore che già conosciamo tra i professionisti?
Il cittì della Francia mi ha detto che come caratteristiche gli ricorda molto Lenny Martinez. Io lo trovo anche uno molto bravo nel leggere la corsa e anche altruista: nella tappa vinta da Decomble, nonostante fosse in lizza per la maglia di leader, ha attaccato anticipando nel finale e quando è stato ripreso da Nordhagen è partito Decomble che ha vinto.
Parliamo degli altri due big: Jorgen Nordhagen e Jarno Widar. Quest’ultimo corridore per il quale stravedo, in passato il suo allenatore lo ha paragonato - esagerando sia chiaro - a una via di mezzo tra Paolo Bettini e Lucien Van Impe, in effetti per certi versi al Grillo assomiglia davvero anche fisicamente. Poi ha una faccia incredibile, che a me fa impazzire.
Sono praticamente già due professionisti. Nordhagen corre già con la bici della Jumbo, casco con livrea Jumbo, sembra fatto con lo stampino a immagine e somiglianza di Staune-Mittet, i due si conoscono bene, oltretutto, provengono dalla stessa zona, hanno fatto sci di fondo (sci di fondo che Nordhagen ancora pratica ad alto livello e che per il momento in accordo con il suo team - la Jumbo Visma con la quale ha firmato fino al 2027 - continuerà a praticare NdA). Ha avuto sfortuna perché una caduta ha precluso la possibilità di vincere la maglia verde (quella del leader della classifica generale NdA): è stato molto continuo sin dalle prime due semitappe dove ha ottenuto due piazzamenti alle spalle di Widar. In questi giorni scherzavamo sul fatto che la Norvegia non vincesse una tappa da quarant’anni e alla fine su cinque tappe hanno fatto 4 secondi posti.
E di Widar che mi dici?
Si è lamentato molto per la discesa il secondo giorno, ma la strada era perfetta e non ci sono state cadute.
Mi piace sempre di più, un corridore polemico è quello di cui abbiamo bisogno. E poi ha vinto le prime due semitappe dominando nettamente, la seconda con uno scatto bruciante, potentissimo, suo marchio di fabbrica.
Se vedi anche nella sintesi se la prende a un certo punto con il cameraman che lo riprendeva invece di stare sul gruppo davanti. Lui a me ricorda Cian Uijtdebroeks, come si muove, come corre, sembra quasi un po’ gobbo. Nella seconda delle due semitappe, vinte entrambe da lui, è stato devastante. Dopo l’arrivo erano tutti mezzi morti e lui sembrava che ne avesse ancora e ha vinto con distacco. Nel Belgio segnalerei anche Donie che è andato molto forte.
Veniamo all’Italia, iniziando da uno dei più attesi, Lorenzo Finn, che arrivava da un periodo molto brillante e si è dimostrato al livello di alcuni fra i corridori più interessanti in assoluto della categoria, alcuni di loro già secondo anno tra gli juniores e che passeranno con squadre Devo del WT e un futuro praticamente assicurato per diversi anni. Bel corridore…
Gran bel prospetto. Io l’ho conosciuto quando aveva 14 anni ad Adelboden che avevamo fatto un ritiro con la Corratec, lui doveva venire a correre con gli allievi della Ballerini. È un ragazzo che ha una calma incredibile, molto posato e tranquillo.
Tranquillità che poi in bici si trasforma in agonismo.
Ha corso con grande coraggio: sia nella seconda che nella terza tappa è stato lui ad accendere la miccia. Mentre ha pagato un po’ di secondi (alla fine chiuderà il Lunigiana al 2° posto a 12” da Bisiaux NdA) nelle prime due semitappe secondo me a causa del posizionamento in gruppo nell’approccio al finale di tappa. Ed era il corridore più giovane in gara: è nato a dicembre del 2006.
Un mese ed era ancora allievo.
Sì, è un corridore veramente, veramente interessante. Oltretutto la Liguria, per la quale correva Finn, non andava sul podio da quasi vent’anni - e questa corsa non l’ha mai vinta. E hanno anche perso Privitera, uno dei pezzi da novanta della squadra.
Se da Finn ci aspettavamo un buon Lunigiana, Mottes è stata la grande sorpresa. 3° sul podio, vincitore di tappa…
Veniva da un buon periodo e infatti lo avevo evidenziato fra quelli da seguire, ma nessuno si aspettava andasse così forte e ha preso anche il premio della combattività oltre ad aver una bellissima volata a Terre di Luni grazie alla quale ha conquistato la tappa. Ovviamente è un corridore tutto da scoprire e da formare, ma mi sembra uno da salite brevi più che da salite lunghe, ha spunto veloce, è uno esplosivo, può diventare corridore da Ardenne, se proprio vogliamo sbilanciarci. Aggiungo anche che la sua squadra, Trento, ha corso molto bene, una delle più attive e compatte.
Simone Gualdi, invece?
C’era attesa su di lui, è il campione italiano, lo scorso anno è stato il miglior italiano in classifica e anche il miglior giovane in assoluto, però è arrivato al Lunigiana purtroppo dopo una brutta caduta rimediata qualche giorno prima e questo ha condizionato la sua corsa. E dopo essere rimasto tagliato fuori dall'azione che ha disegnato la classifica finale, era anche demoralizzato.
Bisiaux ha vinto la corsa di pochi secondi, qual è stato il momento chiave che ha deciso questo Lunigiana?
Il tratto di salita tra Caprile e Portello ha indirizzato la corsa, ma i momenti chiave sono state le due discese: nella seconda tappa, quella del Portello dove Widar non è riuscito a seguire i nove che poi hanno fatto la differenza in classifica generale, e poi nella terza tappa quando è caduto Nordhagen.
Parlando di ciclismo giovanile italiano, senza nulla togliere ovviamente ai ragazzi passati di categoria negli ultimi anni, la mia impressione è che il biennio 2005, 2006 sia davvero molto valido. Secondo te da cosa è dovuto? Il caso, come spesso accade, di avere annate buone e meno buone, è cambiato qualcosa nella preparazione dei ragazzi, sempre di più vengono seguiti da preparatori anche di spicco, la presenza influente di un certo Dino Salvoldi come CT, un cambio radicale di mentalità, c’è dell’altro? Che idea ti sei fatto?
Mi sembra che tutto venga fatto in maniera molto meno, passami il termine, artigianale, alla bell’e meglio, come si faceva prima. Ora vengono seguiti maggiormente anche nei pre gara: sembrano ormai degli under 23 più che degli juniores. Poi è notevole la presenza di preparatori e procuratori, gli staff in ogni squadra è aumentato: questa categoria ormai è diventata quasi quella di passaggio al professionismo. Li vedo maturi e formati come fossero under 23.
Ultima domanda. Visto che segui molto da vicino il ciclismo giovanile. È una domanda a cui, ammetto, è difficile trovare una risposta, una domanda a cui io non so mai rispondere. Spesso ci ritroviamo, non dico a dominare, ma a ottenere risultati di peso tra juniores e under 23, ci esaltiamo per i talenti che poi una volta passati fanno fatica, spesso prendendole, passami il termine, da corridori che magari venivano regolarmente battuti nelle categorie giovanili. Perché?
Qualcuno è stato sicuramente sfortunato, Baroncini, Battistella, Tiberi. Io non vorrei fare il discorso che fanno tutti che manca una World Tour italiana, ma sostengo l'importanza di una squadra che dia la chance a questi corridori di correre in prima persona. Aleotti, quando ha avuto la possibilità, ha corso il Sibiu da capitano e l‘ha vinto. Green Project sta facendo un ottimo lavoro con i suoi ragazzi e i risultati si iniziano a vedere, vedi Zana prima e ora Pellizzari che hanno la possibilità di giocarsi le proprie carte. Invece spesso questi ragazzi forti, passano in squadre straniere che hanno grande profondità di rosa e gli tocca fare da gregario e qualcuno magari si siede sugli allori. Mentre in una squadra in cui puoi e devi giocarti le tue carte hai delle responsabilità diverse e cambia la mentalità. Io sono curioso di vedere per esempio Busatto che in una squadra come la Intermarché avrà il suo spazio, però se passi in UAE o Ineos o Jumbo è difficile avere la possibilità di provare a giocarti le tue chance in prima persona. Prendi Tiberi: va in Bahrain, ma alla Vuelta ha Buitrago, Caruso, Landa, Poels ed è difficile imporsi. E poi ci sono pochi soldi nelle professional italiane: non è facile nemmeno riuscire a prendere il corridore di talento, ma devi sgrezzarlo.
Per chi volesse passare un'intera e interessante ora con le immagini salienti del lunigiana, questo è il link giusto:
https://youtu.be/G8daZLes5Xw?si=o-LfRVppqm64mAOD
Foto: Michele Bertoloni per gentile concessione del Giro della Lunigiana