Di maglie gialle

Oggi si parte con questo ragazzo qui in foto, dal volto raggiante, in giallo. Dopo la dedica al traguardo, gli occhi rossi, la fronte imperlata di sudore, le urla disteso a terra, le lacrime che solcano il viso, la voce rotta per un pianto a dirotto. «Ci sono voluti cinque minuti buoni per capire che avevo preso anche la maglia gialla» dirà.

E la indosserà 37 anni dopo suo padre Adrie, che la prese il 2 luglio del 1984 e la vestì in corsa il 3 luglio, nella tappa che portava il gruppo da Béthune a Cergy-Pontoise. Come la prese la perse subito perché davanti andò via e poi arrivò la più classica delle fughe bidone: oltre 17' il vantaggio sul traguardo.

«Con mia moglie e la compagna di Mathieu eravamo a cinque chilometri dal traguardo quando un gruppo di tifosi ci ha fatto salire sul camper per vedere il finale di gara» ha raccontato ieri emozionato Adrie a un giornale francese. Orgoglio e felicità le parole che descrivono il suo stato animo. «Sì, abbiamo pianto, mi pare logico: questo era il miglior omaggio che poteva fare a suo nonno».

Il nonno di Mathieu van der Poel, Raymond Poulidor, lo abbiamo detto in tutte le salse, quella maglia non l'ha mai vestita e perciò un giorno disse: «La maglia gialla? Se l'avessi indossata non sarei Poulidor. Se avessi vinto un Tour sono sicuro che nessuno parlerebbe più di me». Oggi per la dinastia Poulidor-van der Poel sarà il giorno più speciale di tutti.


L'orto di Tadej

Chissà come avranno vissuto l'arrivo della tappa del Mûr de Bretagne a Komenda, il piccolo quartiere della cittadina di Klanec, in Slovenia, dove è cresciuto Tadej Pogačar. Ieri, il suo secondo posto ed il terzo di Roglic sono stati dei segnali molto chiari: i due sloveni vogliono contendersi anche le briciole di questo Tour de France.

Ora sono uno davanti all'altro in classifica, un solo secondo a dividerli: Pogačar a tredici secondi, Roglič a quattordici.
Noi vi riportiamo a Komenda perché lì è cresciuto Tadej e ogni anno, a maggio, se non è in corsa, vi ritorna per trascorrere del tempo con la famiglia. Sua madre, Marjeta, ha un orto fuori da casa. Forse nelle fasi iniziali della tappa sarà stata lì e qualcuno l'avrà chiamata all'avvicinarsi del Mûr. Lì coltiva verdure sin da quando Pogačar era bambino.

Per questo Tadej conosce perfettamente ogni ortaggio e ogni legume. La sua è stata un'infanzia come quella di molti altri ragazzi cresciuti in paesi rurali, un'infanzia che è ancora vicina sebbene siano cambiate tante cose e Pogačar sia per tutti il vincitore del Tour de France, perché il talento sloveno ha solo ventidue anni e quei momenti se li ricorda bene.

Accanto a lui il fratello, Tilen, di tre anni maggiore: "Vedete? Là in fondo c'è la fattoria di mio zio" racconta Tadej a L'Equipe. "Da bambini, io e Tilen andavamo tutti giorni laggiù a prendere il latte e lo mettevamo in un barattolo di ferro per portarlo a casa. Sapete quante volte ci è capitato di rovesciarlo?". Un villaggio e una famiglia poveri. I due fratelli per molti anni hanno un solo monociclo e lo condividono, per andare a scuola, dai familiari o dagli amici, perfino in chiesa. "Un giorno ci è stato rubato e non siamo più riusciti a ritrovarlo".

Qualche segnale di ciò che sarebbe stato, tuttavia, c'era e Pogačar ci scherza su: "Non è che avessi molte altre possibilità, sono cresciuto circondato dal giallo. Questa casa ha sia i muri esterni che quelli interni dipinti di giallo". In camera sua, poi, un disegno fatto a matita fuoriesce leggermente da un armadio ricolmo di trofei: si tratta di un ciclista che sta per iniziare a scalare una montagna.

La mente di Pogačar, in realtà, non è lì, ma già proiettata in avanti. Spiega che soffre solo a pensare a quando, un domani, non potrà più andare in bicicletta. Di più. Racconta proprio di non riuscire a immaginarsi quel giorno. Probabilmente perché, quando vieni dal niente, quel ricordo ti resta sempre dentro e sai meglio di chiunque altro che le cose possono, o forse devono, finire. Così ci pensi e provi paura anche se sei in Francia a giocarti il tuo secondo Tour de France a soli ventidue anni.

Foto: Bettini


Estate bretone

L'estate bretone porta con sé un velo di malinconia sulle strade di Perros-Guirec, che sembra il nome di uno champagne o di una marca di orologi francesi invece è una città della Costa di Granito Rosa. Di prima mattina, la pioggia cade su un asfalto già scivoloso, si rabbuia il cielo e le ferite fanno più male. Anche quelle cicatrizzate. Ci avrà pensato Chris Froome che ieri si è aggrappato alle braccia di un massaggiatore per rimettersi in piedi: lui sa che le cadute possono capitare, con questa pioggia a fitte ancor di più. Non devi pensarci, altrimenti in sella non torni. E invece devi tornarci il prima possibile perché la paura si infiltra nelle ossa come l'umidità nei fari all'orizzonte e poi è troppo tardi.

Ognuno di quei fari ha una storia, forse pura leggenda, ma qui tutti le raccontano quelle storie, così sembrano vere. Anche la storia di Mathieu van der Poel e di Raymond Poulidor è raccontata da tutti in questi giorni. Forse anche troppo e forse, come per i fari, nessuno sa cosa si dissero tanti anni fa. Nessuno tranne Mathieu che ieri all'arrivo era sofferente. Non per il dolore ai muscoli o per l’amarezza della sconfitta. Per le promesse che si fanno e non si riescono a mantenere. Tante ne chiedono i nonni ai nipoti: van der Poel aveva promesso che avrebbe conquistato quella maglia gialla che a Poulidor era sempre sfuggita. Ci pensava, probabilmente da stanotte, perché quando prometti a chi non c'è più non puoi scusarti per la promessa, non puoi spiegare, devi solo accettare e guardare avanti.

La sua mente è sempre stata lì. Sin da quando è partita la fuga con un destino già segnato, perché al Mûr de Bretagne si attendono i grandi. Ci pensava mentre in gruppo si limava per prendere le posizioni di testa ed oggi sembrava davvero ci fosse una lima od una lama a sfiorare i corridori perché il gruppo si rimescolava come un puzzle e sulle scarpe degli atleti qualche striata ci sarà di certo. Una prova del rischio che ci si prende tutti i giorni, qualcosa che non si può spiegare razionalmente, perché è istinto puro, mestiere come quello dei falegnami o dei panettieri e delle loro botteghe che si aprono quando solo il mare sibila sulle coste.

Un primo scatto e la testa a guardare indietro, a sperare che il gruppo non fosse più lì, che non dovesse avere paura di Alaphilippe o di Pogačar. Una prova generale e poi, forse, lo sconforto, misto a rabbia, perché le cose ancora una volta rischiavano di non andare come avrebbe voluto. Una rabbia cieca, lucida, col groppo in gola per scalare un muro ed i muri sono verticalità senza dubbi, l'opposto di una bicicletta, di una ruota che gira.

Mathieu van der Poel che segue Sonny Colbrelli sull'ultima ascesa al Mûr de Bretagne non è solo un ciclista in cerca di gloria. Ha qualcosa in più, lo si vede da come spinge sui pedali. Siamo convinti che non ricorderà quasi nulla di quegli ultimi metri, che non avrà sentito quasi nessuna delle voci di coloro che gridavano il suo nome. Sì, perché le promesse fatte a chi non c'è più sono particolari anche quando vengono mantenute. Ti riportano alla mente il passato e, per qualche attimo, vorresti tornare nel passato, per tranquillizzare nonno, per chiedere scusa per ieri e per essere certo di aver fatto bene. Vorresti sentire solo quella voce. Per questo Mathieu van der Poel ha detto solo: "Ho pensato a nonno" e poi è scoppiato a piangere. Perché le mancanze opprimono il petto anche a promesse mantenute. Sì, quando sei felice, ma ti manca l’unica persona con cui vorresti esserlo.

Foto: bettini


Spingersi più in là

Il punto del discorso potrebbe essere quello di spingersi sempre più in là: come vorrebbe fare Alaphilippe. Ieri giornata complicata al Tour, un po' per tutti, non per lui. Con quell'azione che ogni tanto ci ritorna in mente, impressa per bene nella sua memoria muscolare. Come quando vuole prendere e andare mostrandosi insaziabile, famelico. «Ho corso come se non ci fosse un domani» ha detto, più o meno banalmente, ma sincero. Se lo definiamo con la faccia da insolente è perché esprime i tratti del campione.

Alaphilippe vuole spingersi più in là, sì, ma dove potrebbe arrivare? Presto, prestissimo per dirlo. Prematuro, forse retorico e sin troppo raffazzonato. Prendere la maglia il primo giorno si può rivelare uno stress indicibile, ma il disegno di questo Tour non è che sia proprio di quelli che mettono una paura da nascondersi sotto il letto o tenere la luce sul comodino accesa tutta la notte.

Le Alpi sono solo un assaggino quest'anno, le crono potrebbero persino sorridergli. La chiave sarà il Ventoux e lo stress di portare ogni giorno quella maglia, che magari, però, come nel 2019, invece che spremerlo, gli darà carburante in più. Poi c'è la terza settimana dove i Pirenei fanno giusto un po' più di paura. E stare in piedi che vale per tutti, sarà un'altra base su cui fondare un'idea bizzarra, un po' pazza che non diciamo e di cui lui non ne vuol sapere. Stare in piedi: perché dopo cinque ore di corsa si contano già ritardi, guai e feriti.

Spingersi più in là. Perché è vero che ieri la prima grossa carambola è stata provocata da uno spettatore cretino e sul quale non ritorniamo, ma il secondo incidente, brutto, altrettanto pericoloso e drammatico, è stato provocato dai nervi, dal cercare di rischiare tutto per infilarsi in uno spazio, per prendere la posizione e affrontare lo strappo davanti.

Madouas ha raccontato di aver avvertito i suoi compagni di squadra sulla pericolosità del finale di corsa con quelle sue stradine che lui conosce a memoria e che per esempio un brillante Gaudu ha evitato. Mentre Guillaume Martin ha sentenziato, con la sua ormai proverbiale sagacia, «Forse qualcuno dovrebbe essere un po' più distaccato e dire a se stesso che questo è solo uno sport: non possiamo giocare con la nostra vita sfiorandoci a ottanta chilometri orari».
Ed è così che oltre ai diversi ritiri già avvenuti, stamattina non partirà Soler che è arrivato al traguardo ultimo e con entrambe le braccia fratturate, mentre Hirschi e Froome, non due qualunque, partiranno, ma potrebbero non arrivare. Lemoine ha fatto paura per le condizioni in cui è arrivato all'ospedale, in giro per il gruppo è pieno di gomiti e di ginocchia sbucciate. Contusioni di ogni genere. È vero che è il ciclismo, mica roba banale, ma oggi è un altro round da sospiri e speriamo niente conta dei feriti. Il cuore in gola e l'affanno ce li teniamo per i finali di tappa e le azioni à la Alaphilippe.

Foto: ©Christof Kreutzer


L'idea di Schelling

Quando, a ottanta chilometri da Landerneau, col gruppo a poco più di due minuti, Ide Schelling, BORA-Hansgrohe, ha staccato i suoi compagni di fuga, in molti gli avranno dato del folle. Se già c'erano poche possibilità di arrivare al traguardo in sei, figuriamoci da soli. Infatti Schelling al traguardo non è arrivato, non davanti almeno, ma di lui bisogna parlare per un altro motivo.

Sbarbato, soli ventitré anni, ma ne dimostra anche meno, il ragazzo de L'Aia ha un cognome da filosofo, l'eco di Friedrich Schelling si fa sentire, e una parlata veloce. Dice di essere il classico ragazzo della porta accanto, uno di quelli a cui piace ridere e scherzare e non prendersi troppo sul serio. In bicicletta lo dimostra facendo una volata solitaria al traguardo volante di Brasparts solo per vedere il pubblico esaltarsi e battere le mani contro le transenne. Forse ha pensato che al traguardo finale non sarebbe mai arrivato, così ha voluto sentire la sensazione che si prova quando tutti sono lì per te. Oppure, semplicemente, gli è passato quello per la testa e lo ha fatto, come i ragazzi semplici, un poco “matti”.

Quando gli chiedono cosa vorrebbe in bicicletta risponde la cosa più scontata, banale, ma forse anche la più vera, perché, alla fine, senza ipocrisie, tutti corrono per vincere e lui lo dice senza tentennare: «Vorrei provare a vincere una corsa. Credo sia una sensazione unica che non si può spiegare». Ma non si ferma lì. «Mi piace andare in bicicletta perché mi piace soffrire. So di essere sulla buona strada, sto lavorando molto per crescere e per essere una versione migliore di me stesso. Sto lavorando per essere più preciso, più attento e ci riuscirò».

Ed è questo che ci piace raccontare di Schelling: un ragazzo che lavora sodo per essere la versione migliore di se stesso, che non parla di campioni a cui assomigliare o di idoli, ma dei piccoli passi che lo porteranno a essere più attento o più preciso. Che va ad allenarsi sulle pietre o sul pavé anche se «sono la cosa più simile al dolore». Che in fuga si sente a casa propria e che, fra dieci anni, non vorrebbe altro che essere dov'è adesso perché è felice.

Soprattutto Schelling ci piace perché ha fatto qualcosa di apparentemente senza senso che in realtà il senso l'aveva eccome. Perché, se pesassimo sempre tutta la vita sulla bilancia della razionalità, avremmo una mera serie di calcoli matematici, così invece possiamo crederci, sognare e illuderci perché anche l'illusione serve, ogni tanto. Non solo. Ci piace perché la storia di Schelling è la storia di chi ha tenuto fede a quello che era il suo dovere fin dal mattino presto: andare in fuga. E lo ha fatto senza esitare, anche quando sembrava un pazzo. Appassionatamente, dignitosamente, senza prendersi troppo sul serio, ma prendendo con estrema serietà ogni metro di strada.

Foto: Ralph Scherzer


È la fine del mondo

Il primo giorno è già passato, volato via, e ha quella faccia un po' insolente di Julian Alaphilippe. Il primo giorno è già passato accendendosi con lo spettro dei colori della maglia di campione del mondo. Il primo giorno è schizzato, da pallido a lucente, da drammatico a evocativo, tra cadute e primi rimpianti, debolezze ed errori, gesti atletici superiori e altre piccole e grandi storie che il Tour de France, in poco meno di cinque ore, ha già raccontato.

Ci aspettava una sfida di irripetibile fascino oggi, un gioco pieno di significati. Van der Poel per Poulidor, van Aert per battere van der Poel, Colbrelli per farci sognare, Sagan per far vedere che c'è ancora, Alaphilippe per tutta la Francia, e poi Pogačar contro Roglič, e altro ancora.

E il primo giorno è passato: può essere espresso tutto in quello scatto ai meno due dall'arrivo o forse era qualcosa in più. Vola via nelle mastodontiche sembianze da trattore di Declercq che alle 12.30 è davanti al gruppo, e quattro ore dopo è ancora lì a dare cambi, a chiederne a sua volta, a comandare, a mietere, a guidare.

Scivola via: nella tirata di Cattaneo, nell'imbeccata di Devenyns. "Vai e scatta" sembra dire girandosi verso il fedele amico e capitano. Vola via: su quella rampa che sembrava non finire mai, che si estingueva nelle gambe di Alaphilippe che spingeva per spogliarsi dell'iride e andare a vestirsi di giallo.

Il primo giorno è già volato ed è in Colbrelli che sognava, ma annaspava, in Nibali che chiudeva davanti a van der Poel, in van Aert che rimbalzava, in Gaudu che rimontava, in Roglič e Pogačar che un po' giocavano tra di loro, un po' soffrivano, perché pare giusto che anche i più forti, a volte, debbano un po' concedere.

Il primo giorno è passato: nelle cadute, tremende, quelle che non vorremo mai vedere, che vorremmo chiudere gli occhi e dimenticare, e che purtroppo fanno parte di uno sport che non è un gioco, anche se è tremendamente bello. Il primo giorno di un Tour de France che in (poco) meno di duecento chilometri ha già gettato via la maschera esprimendo la sua drammatica grandezza, il suo irreversibile giudizio. Il suo irreparabile frastuono.

D'altro canto la partenza è in una terra che è la fine del mondo, tanto da chiamarsi Finistère -"Tout commence en Finistère" è una scritta enorme sulla spiaggia, messa lì a ribaltarne il concetto - dove tutto ha inizio e fine, dove le strade sono strette da ricordare strazianti viuzze, i tifosi tanti e troppi. E il Tour si adatta rivoltandosi prima ancora di dare un segnale di vita.

E così il primo giorno vola via nel gesto all'arrivo di uno che fino a pochi minuti fa vestiva la maglia di campione del mondo e da domani quella gialla. Merci Julian, non fanno che urlare i francesi, mentre lui ringrazia Asgreen subito dopo il traguardo. In un Tour partito dalla fine del mondo e che in poche ore ha già fatto il pieno di storie.


Sogni di un pomeriggio di Tour de France

Il mondo corre. A volte così veloce che ti scuote e ti ribalta. Ti mescola e ti confonde. Dirada e cancella. Il ciclismo non si sottrae a queste semplici regole. È il 13 luglio del 2019. È il Tour de France. È l'ottava tappa. I francesi pensano in grande e Alaphilippe è l'uomo dei loro sogni. Si arriva a Saint-Étienne, ma sarebbe potuto essere un qualsiasi altro posto. La tappa la vince De Gendt: non sarebbe potuto esserci epilogo migliore. Dietro, dal gruppo della maglia gialla indossata da Ciccone, scatta, per conquistare l'abbuono, Alaphilippe. Lo segue Pinot. I due vanno forte abbastanza da staccare il gruppo, ma non così tanto da riprendere De Gendt.

Alaphilippe fa sua la maglia gialla, grazie a quell'abbuono e a quel margine risicato sul traguardo. La maglia la terrà fino alla tappa dell'Iseran facendo sognare i suoi compatrioti. Pinot lo precede sul traguardo di Saint-Étienne in un giorno in cui non avrebbe dovuto nemmeno rispondere alla miccia accesa dal suo connazionale. La fantasia, se ben impugnata, può più di ogni idea tattica.

De Gendt vince, Pinot secondo, Alaphilippe terzo. I due francesi si abbracciano, subito dopo il traguardo, in un'immagine che fece il giro del mondo evidenziando, nelle increspature di un epoca a volte disumana, lo spessore umano dei due corridori. Sognano, i francesi, con Alaphilippe e Pinot. Si esaltano.
Quel Tour, allora, sembrava possibile persino vincerlo: dopo più di trent'anni in Francia ne hanno due in grado di riportare a Parigi le maillot jaune, di sfatare una delle più lunghe maledizioni della storia del ciclismo. Con un ragazzo a volte persino istrionico, febbrile, tarantolato, attaccante nato. L'altro più tenebroso, quasi intellettuale, un po' atipico, ma forte in salita, e nella narrazione dei Grandi Giri, un predestinato.

Qualche giorno dopo Alaphilippe vince la cronometro di Pau, gonfiando il proprio margine sulla concorrenza. Pinot, sul Tourmalet qualche ora dopo, si mostra il più forte in salita. Di colpo altro che sogno: è realtà.

Poi: tutto come un incubo. Un cambio repentino, uno scolastico esempio di tragedia shakeaspeariana. Incorniciato dalle Alpi francesi più che dalla brughiera scozzese; lampi e tuoni come nel Macbeth. Superstizioni che si fanno reali, lacrime, i compagni di squadra di Pinot lo sorreggono e lo abbracciano. All'improvviso Pinot è vuoto. Di energie, ha la testa piena di troppe emozioni. Non va più avanti. Si ferma e da lì sembra ( a parte qualche lampo) che non si sia più ripreso.

Da lì il suo volo non è più spiccato, tanto che oggi è fermo ai box, tanto che si manifestano espressioni in grigio scuro sulla sua futura carriera. Alaphilippe quello stesso giorno, nella tappa dell'infinito Iseran, quasi 3000 metri d'altitudine, dove tutto franava verso Tignes, cederà la maglia gialla. Franava Alaphilippe, franava Pinot, franava la montagna. Il giorno in cui Bernal conquistò il Tour.

Fra poche ore si parte con il Tour numero 108, con Alaphilippe che veste la maglia iridata e con Pinot che oggi non c'è e domani chissà. Il mondo da quella volta è cambiato in maniera repentina. Pinot lo aspettiamo prima o poi, Alaphilippe invece ha un sogno.

Foto: ASO/Alex Broadway


Vive Le Tour

In Francia è semplicemente “Le Tour”. La Grande Boucle, il grande ricciolo che si snoda tra le strade francesi immerse nella canicola di luglio, fino a Parigi. Un vezzo da masochisti, in fondo, perché Henri Desgrange, colui che ideò il Tour de France anche per promuovere il giornale L'Auto da lui fondato, voleva una gara talmente dura da portare un solo corridore sugli Champs-Élisées. Un rincorrersi di richiami e sfumature che Gianni Mura definì simile a una chanson de Geste. Qualcosa che si incontra tra i campi di lavanda e i campi di girasole della Provenza. È il Tour de France numero 108, quello che partirà sabato da Brest. Qualcosa che assomiglia alla poesia, a Verlaine, Rilke e Apollinaire, ma anche a Brassens o Piaf, perché, come in Provenza, non sei tu che ci entri al tal chilometro dell'autostrada, ma è lui che ti viene incontro seminando segnali. Anche questo diceva Gianni Mura.

Per esempio la carovana voluta da Robert Desmarets, braccio destro di Desgrange. Fu proprio lui a notare le automobili della Chocolats Menier che, a fine anni '20 del novecento, distribuivano tavolette di cioccolato lungo il percorso. Così si aggiunsero da subito i Biscotti Delft, la Fromagerie Bel, gli orologi Noveltex e ancora salumi e marche di abbigliamento. Ad oggi sono ben 150 i veicoli, a volte avveniristici, della carovana, circa trenta minuti di spettacolo tra musica e costume, dieci chilometri di corteo e più di 450 persone a distribuire souvenir al pubblico. Anche il pubblico ha una filosofia legata alla carovana: a bordo strada, davanti restano i bambini e gli anziani, gli adulti aspettano in seconda fila.

Ma anche i piccoli villaggi addobbati a festa sino a settimane prima a richiamare il giallo, il bianco, il rosso ed il verde, i colori delle maglie. Le scenografie nei campi di grano, disegnate da uomini o da trattori, visibili dall'aereo delle riprese televisive. Scenografie provate giorni e giorni prima, per non perdere l'attimo, per mantenere la sincronia. E poi i tavolini e le sedie di vimini appostati accanto alla strada, con tovaglie a quadri, acqua gelata, una caraffa di vino e magari birra. I camper appostati sulle salite sin dalla notte prima e le tende con il fornellino per il caffè appena fuori. Già la nenia delle salite del Tour, le Alpi e i Pirenei: Galibier, Aspin, Tourmalet, Alpe d'Huez, Mont Ventoux, Col de la Colombière e chi più ne ha più ne metta.

Il Tour è anche un linguaggio, una lingua di parole di gara evocative: peloton, il gruppo, flamme rouge, il triangolo rosso dell'ultimo chilometro, baroudeur, il dinamitardo che fa esplodere la corsa, bidon, la borraccia, ardoisier, l'uomo che a bordo di una moto segnala i distacchi su una lavagna, soigneur, il massaggiatore, crevaison, la foratura, sommet, la cima. Parole che conoscono e pronunciano correttamente anche i non francesi perché sono un fatto di costume più che di grammatica. Come le squadre storiche che al Tour hanno corso: Banesto, Kelme, T-Mobile, Festina, Mercatone Uno, Molteni e così via.
Tutto nella memoria del Tour, le rivalità, e le tragedie, i sogni costruiti e quelli infranti, i grandi vincenti, Eddy Merckx ad esempio, e gli eterni secondi, Raymond Poulidor che nemmeno sul letto di morte ebbe ragione di Anquetil che quel giorno gli disse: «Caro Raymond, anche questa volta arrivi secondo».

Qualcosa che sa di amaro come la sofferenza che si dura a pedalare il Tour e le sue strade ingrate. Così le avrebbe raccontate Ocaña a terra, sul Col de Menté, in discesa, sotto la pioggia, centrato in pieno da Zoetemelk. Oppure quelle gloriose di Parigi, infarcite della grandeur francese e della vanità per avere la corsa più importante del mondo, invecchiata come un buon vino, rigorosamente francese, un Laurent Perrier o uno Château Latour.
Così ritorna il Tour e tutti lo stanno già aspettando.

ASO / Thomas MAHEUX


La possibilità di Colbrelli

Il mercato della domenica, a Bellaria, si staglia sotto un cielo che soffoca ogni filo d'aria, senza alcuna pietà. Alla bancarella della frutta, accanto ai cesti delle albicocche e delle pesche, qualche signora inizia a sventolare un ventaglio fiorato, cercando refrigerio mentre sceglie la frutta. Piazza Matteotti è solo qualche metro più in là: qualche tempo fa, forse, avresti visto i corridori prendere al volo qualcosa dalle bancarelle, appendere il sacchetto al manubrio e pedalare verso l'albergo, come un qualunque turista a passeggio. La pandemia non lo permette più, ma chi vive il ciclismo è sempre vissuto di queste situazioni e le immagina appena può.

Del resto, a mollo in quell'aria pesante ci sono proprio tutti. C'è chi ne ha vissute talmente tante da non sorprendersi più per nulla e chi, invece, vive con meraviglia già il fatto di essere qui. Il Campionato Italiano è anche questo: lo vedi dal modo in cui i ciclisti più giovani fissano l'arrivo di Vincenzo Nibali, di Domenico Pozzovivo o di Giulio Ciccone al palco firme. Per alcuni quella che parte subito dopo il via è la solita fuga, il copione consolidato di quasi ogni corsa, per loro quella è la fuga, la possibilità. Per loro è tutto nuovo, per altri è tutto già visto. Eppure, a conti fatti, sono tutti qui per lo stesso motivo, anche chi non lo ammette, e tutti hanno almeno una possibilità. Non c'è storia che tenga.

Bergullo, Mazzolano, Riolo Terme e Gallisterna sono lì, impassibili. Non impossibili, certo. Sono qualcosa che avvolge e stringe. Sempre più forte. Ad ogni tornata, mentre il sudore scivola copioso e quasi sembra sciogliere la pelle. Una lenta tortura fino a che la fuga non esplode e si fraziona. Zoccarato, Maestri, Affini, Konychev e Tarozzi, fra gli ultimi a cedere, sentono il fiato del gruppo, mentre l'acido lattico graffia i muscoli. Maledicono Davide Formolo che scattando sveglia il gruppo e si porta dietro Nibali, Cattaneo, Masnada, Colbrelli, Oss, Carboni e Pozzovivo. Quelli che in gergo ciclistico vengono definiti cagnacci, perché temibili, perché non prevedibili e niente spiazza più di ciò che non si sa controllare. Se Zoccarato reagisce, se riesce a tenere il ritmo, è perché ripesca quella possibilità, quella che hanno tutti ogni volta in cui attaccano un numero alla schiena. Si incolla alla ruota di Sonny Colbrelli e Fausto Masnada e per diversi chilometri riesce a non perderla, poi si stacca ma continua a spingere a tutta. Si tratta della sua possibilità, può anche essere improbabile ma buttarla via significa non rispettare la fatica, non rispettarsi. Arriverà terzo, ma non conta. Quel podio racconta più di ciò che mostra.


Il tempo del tricolore

Un signore, seduto su una panchina accanto alla stazione di Faenza, canta ad alta voce “A mano a mano” di Rino Gaetano. La cappa di umidità avvolge la città già di primo mattino e lascia alcuni passanti in canottiera. Se non fosse per pochi dettagli, Faenza, questo venerdì, potrebbe davvero essere un nuovo assaggio degli anni settanta, forse ottanta. Ci sono anche i bar che tornano a riempirsi, qualche sigaretta accesa nel portacenere e una partita a carte in sospeso sotto un portico. Il tempo non sembra essere mai passato, invece ci sono circa quarant'anni a dividere ciò che sembra da ciò che è. La causa è il ciclismo che col tempo sembra giocare a rimpiattino per poi salvare nei ricordi poche cose, quasi sospese fuori dal tempo, pur in una giornata, la cronometro, in cui il tempo è tutto. In ogni minuto, in ogni secondo.

Le parole di Matteo Sobrero, nuovo campione italiano a cronometro, ad esempio, vanno oltre il tempo. Ieri mattina Matteo ha scherzato con Filippo Ganna, gli ha detto: «noi tutti corriamo per il secondo posto con te in gara, ma va bene così». Ieri sera, dopo aver vinto, ha ribadito il concetto. «Filippo è davvero un campione del mondo contro il tempo. Non so se mi spiego». Certo che Matteo si spiega, perché un conto è la maglia che indossi, un altro quello che gli altri ti riconoscono. Per lui Ganna è campione del mondo a prescindere da quella maglia e dal quarto posto della cronometro. «Forse ho vinto io anche perché Filippo sta preparando altri traguardi» aggiunge alla fine, proprio mentre scherza. «Domenica vado al mare, inizio a essere anche stanco». Ed è bello così, perché questo ragazzo di soli ventiquattro anni sembra quasi di altri tempi.

È senza tempo il gesto di Sofia Bertizzolo che, appena arrivata al traguardo, va in mezzo al pubblico e cerca con lo sguardo Soraya Paladin dall'altra parte della strada, sotto il tendone delle premiazioni. Sa che la compagna è giunta seconda e il primo pensiero è quello di farle sentire la sua presenza. Sofia esulta, alza le mani tra folla. Si ferma a parlare con un'anziana signora che vuole filmarla qualche secondo con il telefono. Sembra dirle «è come se avessi vinto io, se la meritava». Così la signora sorride, abbassa il telefono, quasi compiaciuta, e finge di batterle il cinque.

Sofia, qualche tempo fa, mi ha confessato che forse il ciclismo è raccontato con troppa enfasi, forse anche con troppa poesia: in fondo, dice lei, per chi lo pratica è un lavoro, con gli onori e gli oneri di tutti i lavori. Non le piace romanzare, ama la concretezza dei gesti. Così le cose le fa, non le dice.
Fuori dal tempo, poi, c'è Elisa Longo Borghini, campionessa italiana èlite a cronometro, che ha percorso gli ultimi chilometri senza contatto radio, non avendo più la percezione esatta del vantaggio sulle rivali. Fidandosi delle sensazioni e di ciò che aveva visto e sentito quando aveva provato il tracciato. C'è Elisa che l'altra sera ha ricevuto un messaggio che le ricordava come, in fondo, la cronometro sarebbe stata una formalità e ha subito pensato che non era d'accordo, perché lei lo scontato proprio non lo conosce, per rispetto delle avversarie e «perché in strada può succedere di tutto».

In un tempo sospeso, che resta nonostante tutto, è Francesca Barale che ieri ha corso più veloce perché non stava pensando a ciò che gli altri si aspettavano da lei. Perché nelle ultime prove non si era sentita all'altezza e questo le aveva restituito la possibilità di provare senza troppe aspettative.
Resta nel tempo anche quella bambina che non ha voluto essere presa in braccio dal padre e, per vedere la gara, si è messa in punta di piedi vicino alle transenne, a costo di stancarsi il doppio. Perché al tempo sopravvivono poche cose. Di certo, però, resistono quelle fatte sinceramente e quelle costruite con le proprie forze.

Foto: BettiniPhoto