Freddo, pioggia, Giro d'Italia

Alberto Bettiol è così distrutto che fatica ad alzarsi. Lo deve aiutare un uomo della sua squadra, ma le gambe sono così dure che deve appoggiarsi alla transenna alle sue spalle. Viene sollevato quasi a forza. Ha dato tutto nell’ultimo chilometro, e chissà quante cose gli stanno frullando per la mente: dopo un attacco assurdo e bellissimo ai -65, è stato più attendista e ha battezzato la ruota dell’uomo più in forma di tutto il Giro d’Italia, Derek Gee. Scatta, è troppo lungo, si pianta. Denz e Gee lo passano, prova a rimettersi a ruota: una scia buona solo per il terzo posto. Ha il viso arrossato dal freddo, dalla pioggia, forse dall’incazzatura. Bettiol ha una miriade di piazzamenti in carriera, quattro vittorie da pro (una in particolare piuttosto pesante) e svariati modi per farci credere che anche questa volta era lui il più forte.

Molti minuti dopo arriva Alberto Dainese, 82° e nel gruppone con gli uomini di classifica. È un velocista, abituato a dare e prendere mazzata nei metri finali di corsa. Oggi no, dopo tutto quel freddo e quella pioggia, no. Si colpisce il petto un paio di volte col pugno, tossisce a ripetizione, dice al massaggiatore: «Lungs». Penso volesse dire - il pensiero è piuttosto respingente - che gli facevano male i polmoni.

Due storie simili ma diverse, due storie di freddo. Due storie che racchiudono bene il perché, magari, oggi qualcuno avrà meno voglia di fare corsa dura, di sfinirsi di nuovo, o sarà impossibilitato a farlo causa gambe vuote. Qualcuno potrebbe crollare in modo aspettato, pure. Certo sarebbe bello se accadesse il contrario, se qualcuno decidesse di squarciare il Giro d’Italia: la tappa di Bergamo, forse col sole!, sarebbe lo scenario ideale.


Sulla strada

Sulla strada diventano difficili anche i gesti più semplici. Due numeri: 77 e 152. Rispettivamente il dorsale di Alberto Bettiol e di William Barta, squadre diverse, stessa fuga, stessa galleria, prima della discesa dal Passo del Sempione. Piove, fa freddo, siamo a più di duemila metri, Bettiol prende la mantellina dall'ammiraglia e cerca di indossarla. C'è vento, una manica è già infilata, la parte posteriore, invece, sfugge. È Barta, che si sta alternando nella rotazione per tirare, a tenergliela ferma, a permettergli di vestirla. Sulla strada si parte per inseguire una fuga che ha già più di due minuti di vantaggio e si è solamente in due: Mirco Maestri e Mattia Bais. E ci si riesce. Perché sulla strada si fa quel che, ripensandoci, non si farebbe mai. Si pedala con la bronchite, come Alberto Dainese, si pedala faticando a respirare, sotto una pioggia che è castigo, febbre.

Sulla strada c'è un ragazzino da solo, i genitori devono essere vicini, ma il passaggio del Giro lo vede da solo. Da solo nel luogo in cui ha scelto di vederlo. Saranno pochi metri di distanza, ma non conta, è una delle prime decisioni, fuori da casa. Sulla strada c'è un treno che passa in mezzo alle montagne e la gente che si ferma a guardarlo. Sulla strada si scopre che una tettoia strettissima può proteggere da tanta di quella pioggia che non ci si può pensare e che gli usi delle cose sono una convenzione, perché sulla strada usi e forme si adeguano: si può usare un giornale per proteggersi dall'acqua o dal freddo, si può usare un muretto per guardare meglio, una pozzanghera per vedere il riflesso delle cose e saltarci dentro come se l'acqua non bastasse.
Sulla strada si è in balia di quel che c'è sulla strada, sole, vento, acqua, nebbia, ma non solo. Sulla strada si è in balia di quel che si è e che spesso si scopre proprio sulla strada, quando non si può fare altrimenti. Di Bruno Armirail avevamo parlato qualche giorno fa, per quel suo tentativo di inseguire una fuga ormai andata. Di Bruno Armirail parliamo oggi che in fuga è riuscito ad andarci e, a fine tappa, più di diciotto minuti guadagnati, gli sono valsi la maglia rosa. Quanto si sarà sentito sconfitto quella sera, quanto si sentirà felice, incredulo, orgoglioso di essere un ciclista, stasera.

Sulla strada si cresce, cresce la condizione. Basta guardare Alberto Bettiol, leone delle Fiandre, anche se Cassano Magnago è da tutt'altra parte. Fiero, maestoso. Ci prova e ci riprova, insegue, rientra, ha la gamba, buona, ottima, muscoli ribelli, quelli che servono a un ciclista. «Quando si ha questa gamba, bisogna vincere»: dice a fine tappa. Perché sulla strada si capisce che la strada non perdona. Sulla strada si possono ampliare orizzonti o restringere possibilità. Nel giro di pochi secondi, di alcuni metri.

Sulla strada ci sono ciclisti in ogni dove, perché la strada decide insieme agli uomini che la percorrono, anche quando sembra non possa sorprendere, stupire. C'è la volata lunghissima di Oldani, istinto puro, volontà sproporzionata. Ci sono Davide Ballerini e Toms Skujiņš che ripartono, con un'altra volata, anche quando non ci si può più credere. Sulla strada c'è Derek Gee che della fuga ha fatto casa, che fa su una strada ciò che gli uccelli fanno in cielo, lui che li osserva: migra, trasmigra, scopre, conosce, stagioni e persone. Sulla strada c'è Nico Denz: un urlo di gioia l'altro giorno, mani che ballano, a smuovere l'aria e l'acqua, oggi. La seconda volta fa lo stesso effetto della prima, non è vero che ci si abitua.
Sulla strada ci sono bagagli e rotelle che scorrono, verso una nuova città e un nuovo albergo. Verso un cielo in cui si vuole ritrovare l'azzurro e un letto vagabondo, da due settimane a questa parte. E allora? Prendiamo in prestito le parole di Kerouac, sulla strada.

«Dobbiamo andare e non fermarci mai finchè non arriviamo»
«Per andare dove, amico?»
«Non lo so, ma dobbiamo andare».

E noi andiamo.


Arrivando presto, per una volta

Entriamo e non c’è nessuno. Al centro congressi di Crans Montana una sala stampa enorme, allestita con tavoloni lunghi e tovaglie rosa, è tutta per noi. Nemmeno ai miei colleghi di podcast era mai successo di arrivare arrivare alla sede di arrivo addirittura prima della partenza della tappa, per primi in assoluto. Forse, scriverebbe Buzzati, siamo arrivati prima anche della notizia dell’arrivo di una tappa del Giro da queste parti.

È successo perché la tappa è stata accorciata, certo, ma non l’abbiamo vissuta poi così male: per una volta abbiamo potuto goderci il buffet senza dover ingurgitare più cose nel minor tempo possibile. Se non fosse stata una tappa frizzantina dal chilometro zero, avremmo pure passeggiato tra i laghetti che costellano le frazioni di Chermignon, Mollens, Montana e Randogne.

Varie comodità a parte (il sogno impossibile resta quello di poter introdurre cibo in sala stampa), non mi piace stazionare in sala stampa: sono posti sempre diversi ma uguali, palestre o scuole, allestiti sempre con le stesse cose. La cosa più significativa successa finora nelle 13 sale stampa del Giro 2023 è la gradita apparizione di Gianni Savio l’altro ieri. Per il resto, nulla da segnalare. Non è di nessuna utilità o praticità se non per avere sedie su cui sedere, tavoli su cui appoggiare il pc e un pozzetto refrigerato contenente svariati pacchi d’acqua ufficiale del Giro.

In sala stampa, soprattutto, non si possono fare le due cose che, penso, contraddistinguono GIRONIMO, il podcast giornaliero che facciamo con Alvento e Shimano dalle strade del Giro: parlare coi corridori e conoscere, addentrarsi nei luoghi e nelle storie della corsa. Non è, questo, un elogio a un giornalismo di strada, che deve stare tra la gente giusto per il gusto di fornire una presunta voce del popolo. Né il nostro è l’unico modo di fare questo lavoro. Eppure, mi sento dire, è quello meno impolverato e stantio, quello che più riesce a far fruttare il privilegio di poter seguire tutto il Giro in loco.

Poi certo, ognuno il ciclismo lo pratica e lo vive, lo ascolta e ne parla, come vuole. E va benissimo così, basta che di mezzo (anzi, come mezzo) ci sia una bicicletta..


Il richiamo delle cime

C’è stato un momento, sulla Croix de Coeur, in cui il nostro sguardo ha incrociato quello di Thibaut Pinot. Anzi, per la precisione, noi fissavamo gli occhi, nascosti dagli occhiali, di Pinot, mentre Pinot guardava altrove. Proprio questo altrove è il punto: nel mezzo dello sforzo, il francese è riuscito a guardare il paesaggio. Non quello verso l’alto, quello che si fissa per capire quanto manca al Gran Premio della Montagna, quello verso il basso e non verso il gruppo che insegue, verso il vuoto, verso la valle. Pochi istanti, certo, ma importanti. Abbiamo pensato a una sorta di richiamo della montagna. Che, se volete, può anche essere naturale per un ciclista con le caratteristiche di Pinot. Ma questo richiamo della montagna non finisce lì, non si esaurisce nel gesto atletico.

Il richiamo delle vette è in quella sorta di attrazione che si sviluppa tra un essere umano e la montagna. Un’attrazione che si potrebbe assimilare a una calamita, perché c’è qualcosa di magnetico e irrazionale in un ciclista che scala: la sua posizione in sella, la sua continua proiezione verso l’alto, certamente pure gli occhi che vanno oltre, che sono sempre un metro avanti rispetto alla pedalata che si sta compiendo. Ma di richiami ce ne sono molti, almeno in astratto, quelli che contano sono quelli che sentiamo e che assecondiamo. In quello sguardo di Pinot verso la valle c’è il suo ascolto di questo richiamo.

Poi Thibaut Pinot fa il ciclista di mestiere e quell’ascolto lo declina su una bicicletta. In ogni scatto che oggi ha fatto Pinot, forse troppi, forse anche sbagliati, visto poi il risultato di tappa, c’era quel richiamo. In ogni volta in cui si è alzato sui pedali ed ha cercato di allontanare Cepeda e Rubio, c’era quel richiamo. Pure quando sbuffava, innervosito dall’atteggiamento di Cepeda, Pinot avvertiva quel richiamo. In ogni movimento, nel dinamismo di uno scalatore e, nella fattispecie di Pinot, si risentiva quella voce delle vette che, probabilmente, richiama così perché assomiglia agli esseri umani e tutti, anche chi in montagna non ci va, anche chi parla della malinconia delle montagne, la sentono.

Cime innevate, a riposo, come gli uomini che ne hanno passate tante e hanno bisogno di un inverno in solitudine per tornare. Thibaut Pinot è stato questo. Cime in piena luce, più vicine al sole, in cui il caldo è più caldo ed fresco è più fresco. Anche questo è stato Pinot. Cime tempestose, tormentate, che attraggono e respingono, che si amano e si odiano. Queste sono le cime che non si lasciano mai, a cui si appartiene sempre, perché è l’essere vetta, è l’essere montagna, è l’essere uomini a esporre a queste tormente. Pure in giorni in cui si fa come ha fatto Pinot oggi, in cui il desiderio ed il talento sono più che mai la chiave per salvarsi e salvare, ma non basta.

In quei giorni in cui, poi, capita che manchi la forza all’ultimo, che si sia secondi con una smorfia, dietro ad Einer Rubio, che oggi sembra l’unico ad aver davvero fatto tutto giusto, tutto perfetto. Capita poi che si vesta la maglia azzurra, che tanto si desiderava, con negli occhi una nostalgia primitiva, una cima tempestosa, anche se c’è luce sopra Crans Montana, perché quel richiamo non si è colmato, perché qualcosa è sfuggito. Probabilmente è proprio quel qualcosa che manca sempre a un essere umano, a far venire voglia di guardare la valle, per qualche istante. Pure nella fatica di uno scatto appena partiti, in una tappa accorciata, che inizia già arrampicandosi sulle strade strette delle vette, col respiro a tratti più stretto di quelle vie. Dall’alto si cerca la completezza.

Nel gruppo non è accaduto molto, Damiano Caruso ha acceso una fiamma, all’ultimo. Si è parlato tanto della tappa accorciata, questo sì e ognuno avrà la propria idea. Ma c’è stato un momento, sulla Croix de Coeur, in cui il nostro sguardo ha incrociato quello di Thibaut Pinot, intento a guardare la valle, per una frazione di secondo, nel pieno dello sforzo. E questo è molto, molto di più.


Il nome del Giro

Nelle "Postille a Il Nome della Rosa", uscite in un’edizione successiva del romanzo e divenute tanto celebri quanto il libro stesso, Umberto Eco rivela tante cose sulla creazione del suo capolavoro. Tra tutte, ogni volta mi colpisce il singolo motivo scatenante, uno solo, per la realizzazione del libro: «Avevo voglia di avvelenare un monaco». È una frase di una semplicità disarmante se messa a confronto con la complessità del libro e i vari livelli di lettura cui si presta: proprio questa discrepanza tra il nocciolo della questione e il risultato finale mi pare la caratteristica fondamentale delle corse a tappe di tre settimane.

La Bra-Rivoli è stata, per fare un paragone piemontese, l’impasto di cacao e zucchero che avvolge la Tonda gentile: molto buona e gradevole, ma non del tutto cruciale, perché ciò che vuoi addentare sta al centro. «Il resto», dice sempre Eco nelle Postille, «è polpa che si aggiunge strada facendo». E così la corsa è transitata ai piedi di un luogo echiano come la Sacra di San Michele, ma gli uomini da classifica generale, temendo forse il veleno sugli angoli delle pagine, non hanno voluto aprire il libro della guerra.

Oggi, forse, una sbirciata al finale del romanzo riusciremo a darla. Per la verità, non è ancora successo che uno dei contendenti al podio finale sia uscito di scena per hybris, per voglia di conoscere il contenuto misterioso non di un libro rarissimo ma delle proprie gambe. Alcuni sono usciti di scena causa malattia (Evenepoel, Vlasov, Uran), altri per sciagure di varia entità (Geoghegan Hart, Vine): tanti vorranno tenere le proprie carte in mano, giocare sulla difensiva, cercare di rimanere fuori dai guai. Come insegna il Nome della Rosa, non è sempre la strategia corretta.


Alzarsi e partire

Noi che maneggiamo parole parliamo spesso di sogni ed è giusto così, perché i sogni sono necessari per un Giro d'Italia, per qualunque viaggio ed anche solo per una giornata, dal mattino alla sera. Ma per un Giro d'Italia, per qualunque viaggio ed anche per una giornata, spesso, prima dei sogni è necessario alzarsi e partire. Sì, perché, per quanto ci si possa sforzare, quasi nessuno è capace di tenere lo sguardo sempre e solo sul sogno, anche fosse il più grande di tutti, perché la realtà si mette di mezzo. Bene, proprio quando la realtà si fa troppo ingombrante, persino invadente, bisogna ricordarselo: alzarsi e partire.

Alzarsi e partire come si sono alzati e sono partiti stamani i corridori del gruppo. Alzarsi e partire dopo giorni di pioggia e con un cielo ancora nuvoloso. Alzarsi e partire anche se è una di quelle giornate in cui non si può chiedere nulla, anche se, dentro, si è convinti di essere troppo stanchi per chiedere qualcosa a questa o ad altre giornate. Alzarsi e partire anche quando ci si sente piccoli, minuscoli, e tutti gli altri sono grandi, enormi. Anche quando sembra di essere gli unici a fare fatica a pedalare, mentre i pedali degli altri girano così bene. Alzarsi e partire perché, forse, alzandosi e partendo qualcosa succederà.

Non sappiamo in quanti, fra i trenta corridori all'attacco, stamani lo abbiano pensato: alzarsi e partire. Però a tutti e trenta qualcosa è accaduto: una fuga strana, andata via da una rotonda, in un modo strano. Samuele Battistella probabilmente lo ha pensato, lui che, pur non stando bene, pur andando spesso alla macchina del medico, era in quella fuga, in cui forse è capitato ma in cui ha fatto di tutto per restare. Pensate che era con Berwick, Denz, Skujiņš, Tonelli quando, ancora una volta in maniera quasi casuale, questi quattro hanno staccato tutti gli altri fuggitivi. Poi ha dovuto lasciare, certo, ma si è alzato, è partito e, così facendo, ha anche trovato delle forze che, probabilmente, in albergo, nemmeno pensava di avere. Succede, più spesso di quanto si creda. Per questo lo ripetiamo: alzarsi e partire.

Poi può pure capitare che, dopo essersi alzati ed essere partiti, dopo essere entrati nella fuga di giornata, gli equilibri si rompano, il nervosismo della stanchezza e delle incomprensioni prenda il sopravvento, e per ventisei di quei trenta sembri un'occasione sprecata. Probabilmente lo è. Non è facile per Davide Formolo, per Alberto Bettiol, per Christian Scaroni, per Alex Baudin, per molti altri, che, erano nel posto sbagliato nel momento giusto, che, pur in fuga, non erano sulla fuga di testa, su quella che si è giocata la vittoria. Non sarà facile perché più le occasioni sono vicine, più fa male perderle. Eppure anche loro, domani mattina, poche ore prima di una tappa che promette pioggia, freddo, salite e acido lattico, lo ripeteranno: alzarsi e partire. Il resto si vedrà.

Alzarsi e partire che è quello che si fa in volata. Quello che Nico Denz, a Rivoli, ha fatto dalla testa del terzetto, la posizione peggiore per una volata, eppure ha vinto. Ma Denz si era alzato ed era partito già stamani e ancora in salita, quando sembrava dovesse staccarsi da un momento all'altro, quando era tutto unghie e denti. Stretti. Alzarsi e partire, magari sui pedali. Sarà per questo che alzarsi sui pedali, in bicicletta, evoca tanta di quella libertà che non sta nemmeno negli orizzonti più vasti e nelle praterie sconfinate. Sì, perché ci si alza sui pedali e si parte. Non per vincere, per continuare.

A questo volevamo arrivare: i sogni restano, si custodiscono, ma spesso basta essere secondi, per vederli lontani, troppo lontani, essere scorati, quasi fosse rimasto un pezzo di cuore in meno per crederci ancora. I sogni sono un atto d'amore, ma anche continuare è un atto d'amore. Uno di quegli atti d'amore silenziosi, che, senza troppo rumore, fa la storia. Non del mondo, la nostra. A patto di alzarsi e partire. Ancora una volta.


Distanze, tempi, ritardi

Ci sono circa 600 chilometri tra Kandel, luogo natale di Pascal Ackermann, e Tortona, dove il velocista tedesco è tornato a vincere al Giro quattro anni dopo l’ultima volta. La Camaiore-Tortona di ieri era una tappa da oltre 215 chilometri, la più lunga del Giro: tre agevoli Gran Premi della Montagna, qualche acquazzone, tante curve e la categorizzazione “B” come difficoltà di tappa. Ciò significa, se ho letto bene il regolamento del Giro e se ho fatto bene i conti, che per non finire fuori tempo massimo l’ultimo arrivato avrebbe potuto prendere da Ackermann fino a circa 34 minuti.

L’ultimo arrivato, invece, è arrivato ben prima sul traguardo. Si è trattato di Alessandro Verre: il suo luogo natale, Marsicovetere, dista da Tortona oltre 900 chilometri. Il lucano ha fermato il cronometro a 18 minuti e 27 secondi di ritardo: perché Alessandro? Vedendoti all’arrivo, avrei giurato che il tuo ritardo fosse di almeno qualche giorno. La sua faccia era stravolta, nera nel vero senso della parola: stare in fondo al gruppo ha significato, probabilmente, beccarsi acqua, polvere e fanghiglia alzate dalle ruote davanti a sé.

Verre è arrivato solissimo, ultimissimo. Quasi tre minuti dopo la coppia di penultimo e terzultimo, Vanhoucke e Cherel. Nei pochi attimi in cui il mio sguardo e il suo si sono incrociati, mi è sembrato di vedere un corridore «scoppiato, distrutto, un rudere». Sono parole di Dino Buzzati, che nelle cronache del Giro del ‘49 ha descritto come nessun altro la deformazione del tempo che sembra suscitare l’arrivo sul traguardo dell’ultimissimo. Ci lasciamo con uno stralcio di Buzzati dal medesimo brano: mentre lo starete leggendo, probabilmente starò cercando Verre per chiedergli del suo arrivo.
«La luce del giorno svanisce, ecco si accendono i lampioni. “Dov’è lo stadio?” chiede. Gli fanno segno confusamente, quasi infastiditi. “Permesso, permesso” egli implora con voce fievole. Ma è già notte. Quante ore sono passate dall’arrivo dei primi? Quanti giorni? O mesi? Notte buia, coi lumi dei caffè riverberanti di là della folla. E sempre nuova ressa di popolo, una colata di lava nera a lui incontro, torbida, nemica. “Dov’è lo stadio?” domanda. “Quale stadio?” rispondono. “Quello del Giro d’Italia”. “Ah, il Giro d’Italia... bei tempi, quelli!” e scuotono il capo, commiserando. Non ore, non giorni e mesi: anni interi, dunque, sono passati dall’arrivo dei primi. E lui è solo. E fa freddo. E la fidanzata è a spasso con un altro; o si sarà già sposata. “Dov’è lo stadio?” supplica. “Stadio?” rispondono “Giro d’Italia? Che significa?”».


Via dei mancati rimpianti

Forse, proprio in giornate come questa, è importante passare da "Via dei mancati rimpianti". Una via a cui abbiamo pensato oggi, che è un non luogo, in cui, però, ci si può ritrovare. Forse proprio in "Via dei mancati rimpianti" si possono capire tante cose, quando la malinconia delle cadute, quelle di Tao Geoghegan Hart e Oscar Rodriguez, su tutte, costringe al ritiro. Mentre vedere un ciclista che non si rialza spaventa, perché il tornare in piedi e riprendere la bicicletta è un gesto automatico e, se non accade, quanto deve essere il dolore?

In "Via dei mancati rimpianti" si spiega ogni scatto, ogni fuga, si spiega quella fatica portata all'esasperazione, anche quando vorresti solo dire "respira, non fa nulla, anche se non va". Perché in quel momento, quando si deve andare via, su una barella, quando si ha male e non ci si riesce a muovere, non avere alcun rimpianto, o per quanto averne il meno possibile, è l'unica consolazione. In "Via dei mancati rimpianti" c'è la sofferenza di Alessandro Covi che, con addosso le ferite e la paura di quella caduta, è arrivato a Tortona. C'è Pavel Sivakov che, dolorante, aspetta che Tao Geoghegan Hart venga caricato in ambulanza prima di ripartire. Lì, da qualche parte, c'è anche chi, rialzatosi, sposta con delicatezza ogni bicicletta e chiede a Geoghegan Hart come stia.

In "Via dei mancati rimpianti" c'è, probabilmente, anche il motivo per cui Fernando Gaviria, talvolta, lancia la volata troppo lunga: perché può capitare di cadere come oggi, di non poterla lanciare, quella può essere voglia, desiderio. Umano. Da dietro un angolo, al ritrovo in quella via, spunterà anche Laurenz Rex: inventore della fuga di oggi, ultimo a cedere, con il gruppo che da chilometri lo braccava. Perché? Perché se si cede e, poi, si scopre che con un secondo in più, un metro in più, si sarebbe potuti arrivare, cosa si fa? Come ci si sente? Ne parleremo con lui, che certamente sa l'indirizzo di "Via dei mancati rimpianti", come ben lo conosce Stojnic, il penultimo a mollare. Tutti gli uomini delle fughe lo sanno, loro che di rimpianti proprio non vogliono averne.

Magari scopriremo che ad aspettarci c'è già Andrea Vendrame, che, dopo giorni e giorni, dopo quella brutta caduta sull'asfalto bagnato e tanto dolore, ha dovuto ritirarsi. Rimpianto è ciò che si sarebbe potuto fare e non si è fatto: chi ha corso come lui, non può averne oggi, anche se non essere più al Giro spiace. I mancati rimpianti sono quelli di Thomas Champion che sta contando i chilometri all'attacco, per totalizzarne più degli altri, per percorrere più strada, da solo o con pochi, cercando la luce di un ideale, di un sogno. Sono quelli di Pedersen e Milan che si sfidano da giorni per i punti della maglia ciclamino, anche se l'arrivo è lontano, la volata un miraggio, eppure quei punti proprio non vogliono perderli, nemmeno se sono pochi, nemmeno se è uno soltanto.

In "Via dei mancanti rimpianti" è possibile parlare con Milan di questa volata, a velocità incredibile, potente, energia e fiato. Ha ammesso di aver sbagliato posizione per partire e a questo rimedierà, ma in "Via dei mancati rimpianti" verrà volentieri, perché ha spremuto ogni goccia di aria su quel rettilineo, senza remore, anche se era difficile visto come si erano messe le cose. Davanti a lui, solo Ackermann, dietro di lui Cavendish, che erano giorni che annusava la volata e, oggi, in salita si è aggrappato ai compagni, l'unica fiducia possibile, per restare col gruppo e, nonostante, la difficoltà, disputarla quella volata.

In "Via mancati rimpianti" c'è anche un bambino: quello che, qualche giorno fa, si è fatto autografare un tappo di spumante dalla maglia rosa. Non c'era altro e ha scelto quello, ma l'autografo lo ha, non ha sprecato l'occasione, il momento. In "Via dei mancati rimpianti" ci siamo tutti, per ogni volta in cui sentivamo di dover dire o fare qualcosa e l'abbiamo detto o fatto, anche se avevamo paura, anche se non è stato capito o guardato come avremmo voluto. E, diciamo di più, lo rifaremmo. Perché crediamo a "Via dei mancati rimpianti", come ci credono i ciclisti, anche se non sappiamo bene dove sia. Per questo continuiamo a cercarla e a pedalare.


Campioni vulnerabili

Uno dei pezzi più belli che mi sia capitato di leggere durante questo Giro d’Italia si intitola “Sulla volatilità del Giro”, di Kate Wagner. Non tratta dell’appassionato di volatili Derek Gee, purtroppo, ed è uno degli ultimi che leggerò: ne ho ormai abbastanza di leggere, vedere, scrivere, parlare di ciclismo per dodici ore al giorno e ho portato Ubik di Dick nella valigia per un motivo. Il pezzo di Wagner, dicevamo, riassume bene, in solo due parole, ciò che è stato il Giro finora: «ansia e conflitto».

I due favoriti della vigilia, Evenepoel e Roglic, si sono dimostrati i dominatori che ci si poteva attendere. A parte forse la cronometro iniziale di Remco, nessuno si è elevato in modo particolare dalla concorrenza per la classifica generale: perfino Remco, dopo la vittoria di Cesena e prima dell’annuncio del ritiro, era considerato un finto vincitore della cronometro romagnola. Io e altri amanti del corridore che è Remco sognavamo una performance extra-terrestre in quella cronometro, che così tanto sembrava addirsi a lui: invece Wagner mi ha fornito un punto di vista interessante. «Sono sempre più stanca della de-personalizzazione degli atleti, di presunti avvistamenti di un sempre migliore superuomo [...] e del fintamente neutrale discorso sulla performance aliena. L’atleta è un essere umano soggetto a conflitti interiori e posizioni personali; il ritmo cardiaco aumenta quando l’uomo ha paura».

E motivi per avere paura gli uomini che corrono questo Giro d’Italia ne hanno diversi: il meteo e il Covid, per citarne due. Il passato stesso dei possibili vincitori del Giro è un campanello di allarme, che ricordano bene: Roglic ha una lista di fallimenti nel momento topico piuttosto lunga per il campione che è, Geoghegan Hart è un po’ scomparso dopo il Giro 2020, Thomas ama finire sull’asfalto, Almeida è uscito allo scorso Giro per Covid proprio sul più bello. Avremo, insomma, un vincitore del Giro vulnerabile. Queste prime dieci tappe di Giro ci hanno ricordato «della fallibilità umana, delle manchevolezze dei corpi stessi» chiosa Wagner.

Per questo ho trovato particolarmente azzeccato ciò che ha detto in conferenza stampa Magnus Cort Nielsen - un attaccante nato che prima di ieri al Giro era stato molto dietro le quinte -, dopo aver vinto a Viareggio. «In qualche modo, il mio corpo ha continuato a funzionare. Ho avuto paura che il mio corpo potesse smettere di funzionare». Meno superuomini, più campioni vulnerabili: a pensarci bene, evviva.


Maschere

Maschere. Perché Viareggio ed il suo Carnevale sono maschere. Perché sotto la pioggia battente ed il freddo, ogni volto è maschera: la pelle è modellata dal freddo e scolpita dalla pioggia. Gli occhi sono più occhi, gli zigomi diventano appigli, le sopracciglia scolpite, persino i baffi appaiono immobilizzati e gonfi. Ogni linea del volto è tratteggiata: così appare il viso di Magnus Cort Nielsen, che vince nel giorno della fuga, del Passo delle Radici, della nebbia, di un presagio di novembre. Maschere perché anche essere ciclista è una maschera, come ogni lavoro, dentro e dietro a quella maschera, desideri umani: quelli di Nielsen che vorrebbe scalare il Kilimangiaro e vedere un film sotto le stelle, accanto a una tenda.

Dietro a quella maschera, un bicchiere di buon vino a Natale ed i bambini che giocano su un tappeto: è Alessandro De Marchi, che, a trentasei anni, riesce ancora a cogliere alcune prime volte nelle fughe- lo ha fatto alla Strade Bianche ed a Napoli- seppure le sue fughe siano innumerevoli, il fatto però che, ogni volta, vi trovi qualcosa di nuovo, racconta la sua capacità di viverle quelle fughe, di guardarle e di coglierne un significato altro dalla vittoria a fine corsa. Così ha attaccato anche oggi, ha portato via la fuga, ha fatto le discese in testa, stanco, così stanco, dopo più di 190 chilometri, da perdere per un attimo le ruote di Gee e Cort Nielsen sul rettilineo d'arrivo e, poi, da ritrovare energie chissà dove e sprintare. Terzo. Chissà dove? Nella strada che ancora c'è, rifugio della paura e del coraggio. De Marchi, da tempo, ha scelto il coraggio.

Maschere come una maschera è la fuga: quasi una catarsi, una purificazione, per chi la compie e per chi la guarda. Nella società, per gli uomini e le donne fuggire, lontani da tutto e tutti, può essere un desiderio di qualche tempo, poi diventa terrore, perché degli altri si sente necessità, anche solo della possibilità degli altri, di cercarli, di sentirli, di guardarli. Vedere un uomo in fuga è come vedere un cinema, affrontare quel brivido attraverso un gesto che è realtà e metafora. Una particolare forma di teatro.

Maschere di dolore, con un braccio alzato e i denti stretti: Warren Barguil, che non riusciva neppure ad appoggiare la mano al manubrio eppure è ripartito. È arrivato centotrentanovesimo, dopo più di 23 minuti. Ovvero 23 minuti in più di pioggia e dolore. Quel tempo in più che vorrebbe chi è felice, lo ha chi patisce. Una volata vincente dura pochissimo, una caduta dura da lì a chissà quando. Le maschere più difficili da togliersi, perché non si possono levare, devono andarsene da sole. Non c'è trucco. Non è un carnevale.

Maschere di fatica: quella di Milan e di quella linguaccia a dire "sono a tutta", in salita e poi in volata. Mentre sta dando tutto e dopo averlo dato. Questo dare tutto è qualcosa che riappacifica con chi si è, con quello in cui si crede. Potrebbe scrivere molto sul tema Pasqualon, che, in una maschera sempre più disegnata dalla pioggia, è tornato in testa al gruppo per aiutare Milan. Credono in questo i ciclisti, crede in questo chiunque si sforzi di andare avanti anche quando fermarsi sembra semplice, persino ovvio, anche quando la maschera è di delusione, di freddo che ha fatto il nido nelle ossa: chiedetelo a Dainese, a Groves, a Gaviria, a Matthews e a tanti altri.
Maschere per provare a partire anche se non si è stati bene: così ha fatto Aleksandr Vlasov, maschere per tranquillizzare chi chiama da casa dopo un infortunio, una madre, un padre, una moglie, un figlio, ancora maschere di scalatori come Davide Bais che, a sera, in camera, pensa alla baita di montagna che sta ristrutturando.

Proprio in quelle camere, in un momento di solitudine, le maschere cadono: resta tutto quello che non si dice, che non si mostra, ma che si ha dentro. La delusione più profonda, il timore di sentire male, di arrendersi, di deludere. Perché, alla fine, solo di uomini si tratta. Ed è proprio questo quel che più vale.