Il questionario cicloproustiano di Bryan Olivo

Il tratto principale del tuo carattere?
L’altruismo.

Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
Lealtà.

Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
L’eleganza.

Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
La fiducia.

Il tuo peggior difetto?
Testardaggine.

Il tuo hobby o passatempo preferito?
Motorsport.

Cosa sogni per la tua felicità?
Passare professionista.

Quale sarebbe, per te, la più grande disgrazia?
Perdere i miei genitori.

Cosa vorresti essere?
Un ciclista professionista.

In che paese/nazione vorresti vivere?
Spagna.

Il tuo colore preferito?
Blu.

Il tuo animale preferito?
Cane.

Il tuo scrittore preferito?
Leopardi.

Il tuo film preferito?
Unbroken.

Il tuo musicista o gruppo preferito?
Russ Millions.

Il tuo corridore preferito?
Van der Poel.

Un eroe nella tua vita reale?
Mio papà.

Una tua eroina nella vita reale?
Mia mamma.

Il tuo nome preferito?
Bryan.

Cosa detesti?
La poca professionalità.

Un personaggio della storia che odi più di tutti?
Stalin.

L’impresa storica che ammiri di più?
L’impero Romano.

L’impresa ciclistica che ricordi di più?
Froome al Giro d’Italia.

Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
Mondiale.

Un dono che vorresti avere?
L'esplosività.

Come ti senti attualmente?
Felice

Lascia scritto il tuo motto della vita.
Crederci sempre.

Foto: Sprint Cycling Agency


Eroica Caffè Milano e Padova

Giancarlo Brocci racconta spesso i suoi pomeriggi di ragazzo, quelli in cui scoprì il ciclismo. Accadde in qualche caffè della Toscana, sì, caffè, non bar, come si chiamavano in quegli anni, mentre da qualche parte si correva il Giro d'Italia od il Tour de France, era maggio, oppure luglio, e, sul bancone, c'erano i quotidiani con l'articolo riferito alla tappa del giorno prima. Qualcuno gli chiedeva di leggere quei pezzi a voce alta, lui apriva il giornale, lo spalancava, il profumo della carta svolazzava, come i fogli, ed iniziava la lettura: la gente si fermava, restava ad ascoltare la sua voce e, non potendo vedere, si permetteva il lusso di immaginare le vette, le discese, le volate, persino le crisi e le cadute. Anche il bottegaio diventava romanziere e qualunque tappa era ad immagine e somiglianza di chi la stava ascoltando, nonostante le parole fossero le stesse per tutti, vibrate dalle corde "del Brocci", impregnate di toscano.

Sono passati più di cinquant'anni da quei giorni, i bar sono cambiati quasi quanto le strade che si arrampicano sulle montagne, anche le biciclette ed il ciclismo sono diversi, ma la sostanza, in fondo, è sempre quella: di sudore, di fatica, di immedesimazione e di piacere, qualcosa che ricorda la felicità. «Le radici- spiega Andrea Benesso, che cura la comunicazione di Eroica- sono antiche e sono le stesse, il ciclismo resta condivisione. Fa piacere pensare ad un bicchiere di vino davanti alla tv, ad un arrivo sul Mortirolo o sull'Alpe d'Huez, con nel piatto della ribollita o della finocchiona, quei vecchi caffè all'italiana li ricordiamo tutti, come quei pomeriggi, anche chi non li ha vissuti, in fondo, li ricerca, perché oggi si sono un poco persi». Allora, per la prima volta nel racconto degli Alvento Points, la nostra sarà una storia discontinua nel tempo e nello spazio, come avrebbe detto Italo Calvino, ne "Le città invisibili", tra Padova e Milano, dove hanno sede i due Eroica Caffè, nati da queste constatazioni: «Le due chiavi sono bellezza e cultura. La bellezza della fatica, coniugata con la conoscenza dei luoghi, tra storia e geografia, con il sollievo di una sosta, di quella forchetta o di quel cucchiaio che pescano nei sapori forti della tradizione ed anche la tradizione è cultura, il tutto in compagnia, perché la bicicletta è piacere, profondo, originale». Nasce così questa storia.

Foto: Chiara Redaschi

Eroica Caffè Milano sorge, di fatto, su un vecchio locale di ricambi per auto e moto, all'esterno c'è ancora la vecchia insegna, mantenuta, tale e quale, allo stesso modo di parte della struttura interna che conserva aspetti industriali, come il soppalco del magazzino, su cui l'architetto ha insistito molto, affinchè si potesse respirare l'aria della Milano di ieri, per poi guardarsi attorno e orientarsi nel mondo eroica, tra bici storiche, cimeli e vecchie maglie. I locali sono ampi, grandi sono i tavoli: la velocità non è di qui, serve, invece, il tempo, la tranquillità per restare assieme, per farsi compagnia, per accogliere anche chi non fa parte di questo mondo, che deve sentirsi bene, a casa, perché essere ospitali significa questo ed è valore fondante di Eroica. La città è complicata, chi vi abita, di solito, in bici va verso l'esterno ed è difficile che qualcuno prenda la bicicletta per entrare a Milano. Si vedono ciclisti urbani, il mondo delle Cargo Bike, la realtà di chi lavora in bicicletta ed è questa la community che si ritrova su quei tavoli, in un'atmosfera bike friendly. A parlarci è Giacomo, che vi lavora da fine 2020, lui che rimase colpito dalla prima volta a Gaiole in Chianti, ma anche a Montalcino: «In piazza ho visto un gruppo di persone ballare lo swing: insieme c'erano signori di settanta anni e ragazzi di venti. Incredibile». Lui che ha ascoltato Lorenzo Barone e Willy Mulonia, in Mongolia ed in Alaska, e riesce solo a narrare lo stupore: «Quanta forza di volontà serve? Quanto bisogna essere tosti per farcela, per resistere?». Non vuole, invece, parlare di clienti, dice che sono persone e come tali vanno trattate, provando a conoscerle, a stabilire un rapporto. Fanno così anche gli eroici di Milano e dintorni che, ogni tanto, accolgono un nuovo eroico, che passa dal locale, magari per caso, probabilmente proprio in cerca dell'incontro da cui verranno altre pedalate e altre storie, scambiate a pranzo o a cena.

Foto: Chiara Redaschi

A Padova, Eroica Caffè è uno dei più spaziosi della città ed anche questo si abbina perfettamente all'ospitalità: in caffè più piccoli può capitare di sentirsi a disagio ad occupare per molto tempo i tavoli, quasi si rubasse spazio ad altri ospiti, qui no. Anzi, c'è stupore da parte di chiunque entri: si fanno foto alle biciclette ed alle maglie, ci si sorprende, come due signore, qualche giorno fa, per quei menù con a fianco l'indicazione dei chilometri da percorrere per smaltire i piatti degustati. Benesso prosegue: «Un invito a godere delle cose belle: mangiate con gusto, ci sarà poi modo di smaltire, è sbagliato privarsene». L'arredamento è a cavallo tra passato e futuro, riviste e libri sono un omaggio alla cultura delle storie e dei racconti, come gli incontri e le presentazioni che si tengono, nelle sere qui. Notevole è anche la panca lunga dieci metri a celebrare il record dell'ora di Francesco Moser. Mentre i viaggiatori scoprono Padova ed anche gli stranieri sono incuriositi dal locale e fiduciosi in un brand internazionale. Qui è Davide ad accoglierci: appassionato di bici e di gravel, un classico in città, ha esplorato i Colli Euganei, le zone intorno, in Veneto. Viene al lavoro in bicicletta ed a fianco a lui ha un amico con cui condivide ogni cosa, sin dalla nascita, ad un giorno di differenza, dalla prima infanzia, dalle elementari. Il lavoro l'ha imparato da papà e dice orgoglioso che «non lo cambierebbe mai».

Certo, negli anni l'ha modernizzato, ha affiancato alla ristorazione altri aspetti che le persone ricercano. «Quando si entra qui, tra le luci soffuse del locale e quell'arredamento ordinato-disordinato, siamo tutti uguali. Essere ciclisti significa anche spogliarsi della maschera sociale che indossiamo sempre, salutarsi con un ciao e soprattutto con il nome. Non si può capire che differenza faccia sentirsi chiamare con il proprio nome. Ci si siede più volentieri, si torna sorridendo». Lo sguardo cade sui menù: pasta e fagioli, trippa alla parmigiana, in inverno la ribollita e poi quelle "ruote", quell'impasto panificato e poi farcito in ogni modo, anche con la mortadella. Ci sono anche momenti più complicati, quelli in cui gli incontri finiscono, la festa si silenzia e c'è da sistemare tutto, oppure nei giorni di overbooking. L'auspicio è che Padova possa ancora crescere nell'attenzione alla mobilità, negli eventi dedicati alla bicicletta.

Foto: Paolo Penni

Si ritorna a Giancarlo Brocci, al suo ricordo di quelle letture da ragazzo e alle persone che ascoltavano. «L'idea è quella che chiunque abbia una bella storia e voglia raccontarla possa pensare di passare di Eroica Caffè e trovare qui persone curiose di sentire. Certo, ospitiamo anche nomi importanti, famose, professionisti, penso a Lachlan Morton e Nathan Haas, contenti di essere passati da noi- prosegue Benesso- ma la fiducia di cui parliamo è quella nelle storie. Ha fatto qualcosa di bello? Bene, sai che questo è il tuo spazio. Vuoi sentire una bella storia? Allo stesso modo, è il tuo luogo, anche se non conosci per nulla chi racconterà, perché qui le storie sono pane quotidiano».

Si commentano anche le gare, trasmesse in diretta televisiva, come in occasione di "Mai dire Milano-Sanremo", dello scorso anno. Insieme alle biciclette che i clienti possono portare all'interno: a Padova, un giorno, c'erano circa 890 bici nel locale, accanto al tavolo in cui pranzare o cenare, senza il bisogno di continuare a guardare fuori, per controllare che nessuno l'abbia toccata: «Si tratta di un gesto di cura e le persone hanno voglia di questi gesti, i ciclisti, poi, in particolare». Quando la porta si apre e qualcuno arriva, tutto si muove affinché quell'approdo sia un momento piacevole, di risate, divertimento, accoglienza ed inclusione, ogni volta fra persone diverse, più o meno giovani, famiglie e ragazzi: «Dovreste vedere gli stranieri che si presentano, fanno conoscenza, scoprono luoghi, attraverso le ride e sanno di essere nel posto giusto, stradisti o gravellisti che siano. A Padova, c'è la città, i Colli Euganei, dove il 99% dei ciclisti padovani fa il suo giro, si può salire nel verde, oppure andare verso il mare, verso Chioggia, attraverso gli argini dei fiumi che collegano le città, praticamente senza auto. A Milano, è interessantissimo il progetto "AbbracciaMi": uscendo in qualsiasi direzione dalla città, si può pedalare attorno e ritrovarsi, nel giro di pochi chilometri, in zone con tanto verde e tanta acqua. Non sono di certo io a scoprire i Navigli». Si pensa anche a delle mappe che possano essere messe a disposizione per suggerire una gita, un tragitto.

Foto: Paolo Penni

Non è stato facile, soprattutto all'inizio, in piena pandemia, il successo che è arrivato è speranza, forza per pensare ad altre aperture, anche all'estero: ogni settimana arrivano richieste di persone che si riconoscono in Eroica ed è un orgoglio perché è come riconoscersi nel “made in Italy": «La radice del ciclismo storico la troviamo in Italia, come in Francia. Sono questi i paesi in cui ci sono ricordi così profondi: mio padre vedeva il Giro ed il Tour al bar, esattamente come Brocci. Il ciclismo era quasi una religione, a tratti più del calcio, della nazionale italiana. era uno sport in cui poteva emergere l'italianità: il sacrificio, ma anche il piacere, la gioia, la bellezza, la capacità di assaporare la realtà, anche quando complessa. Quella socialità molto toscana, sarà per questo che, se penso ad Eroica me la immagino come una vecchia cartolina che ritrae la Toscana, con tutti gli elementi caratteristici tipici».

L'arredamento all'interno dei locali può variare, soprattutto cambiano le biciclette di volta in volta esposte: Benesso cita la bicicletta di Fausto Coppi, della Cuneo-Pinerolo, oppure delle Colnago di raro pregio, convivono biciclette da strada e da pista, oggetti unici ed inestimabili, custoditi e valorizzati. Qualcuno parte da casa e si ferma ad Eroica Caffè per mangiare una fetta di torta prima o dopo il giro quotidiano, altri vengono per pranzo o cena, soprattutto adulti, mentre i giovani affollano le ore dell'aperitivo. Ogni tanto si risente la voce di Giancarlo Brocci e lo si vede arrivare, sedersi al tavolo ed iniziare a chiedere, a raccontare una qualche avventura, come fosse a casa e Brocci, ad Eroica Caffè, ha proprio la sensazioni di essere a casa, in una seconda casa, mentre incontra il suo popolo e parla di biciclette e di ciclismo eroico. Alla fine, non è cambiato poi così tanto, nonostante gli anni che sono trascorsi.

Foto in evidenza: Chiara Redaschi


Avere le idee chiare: intervista a Samuele Privitera

Diciotto anni compiuti da poco, e non lo diresti: avete mai provato a scambiarci due chiacchiere o a leggere (o ad ascoltare) una sua intervista? Determinato, ambizioso, Samuele Privitera ha idee chiare su quello che è il suo futuro e persino su quello che è il sistema del ciclismo italiano Under 23, argomento sempre caldo da diverse stagioni. Idee chiare e pochi fronzoli. Allo stesso tempo piedi saldi per terra.

Classe 2005, da Soldano, in Liguria, paesino nell'entroterra ligure, a pochi chilometri da Bordighera, ed è proprio con la squadra di ciclismo del comune in provincia di Imperia, con quelle montagne a picco sul mare, le viste da lasciarti senza fiato, noto per le sue numerose bellezze architettoniche, che ha mosso i suoi primi passi nel ciclismo.

Salito in bici a sette anni, e da quel momento, ci tiene a specificare, non è più sceso da un mezzo che si caratterizza per essere gioia e dolore di praticanti, professionisti o aspiranti tali, come lo è il giovane corridore passato tra gli juniores con il Team F.lli Giorgi, dove cresce, come persona, come corridore, e di cui avrà sempre un bel ricordo. Salito in bicicletta nel modo più classico: una passione trasmessa dal nonno e dal papà, ciclisti amatori. Ciclistica Bordighera fino agli allievi, Team F.lli Giorgi tra gli juniores prima di cambiare completamente dal prossimo anno: correrà tra gli Under 23 con la Hagens Berman Axeon di Axel Merckx, squadra da cui sono passati diversi talenti che si stanno imponendo nella massima categoria. Volete qualche nome? Eccoli: Philipsen, Almeida, Powless, Geoghegan Hart, Guerreiro, Dunbar, Neilands, i fratelli Oliveira, Narvaez, Bjerg e tanti altri, in attesa dei vari Leo Hayter o Rafferty, di Herzog o Andersen, di Romeo, De Pooter o Shmidt.

La tua presenza nella squadra di Merckx rappresenta una novità assoluta per il ciclismo italiano: insieme a Mattia Sambinello sarete i primi corridori di casa nostra a vestire la maglia del team di affiliazione americana. Perché questa scelta? Da parte loro, da parte tua.

I primi contatti sono avvenuti al termine della scorsa stagione; a febbraio di quest'anno, invece, ho fatto una stage con ritiro e sono rimasti impressionati dalla mia voglia di fare e da quanto andavo forte. E sono rimasto colpito anche io dal loro modo di lavorare. Perché fanno le cose bene, ma senza essere tutto estremizzato. Perché c'è poca pressione, poco stress, ma allo stesso tempo un approccio scientifico, professionale. A metà stagione ero già tentato di firmare con loro, ma altre squadre mi hanno cercato. Poi, però, quando è arrivata la notizia della collaborazione dal 2024, come Team Devo della Jayco AlUla, insieme al mio procuratore, Alessandro Mazzurana, abbiamo pensato fosse la scelta migliore da fare.

Sei rimasto colpito, ma da cosa?

Hanno una filosofia che io reputo quella giusta.  Per come ragionano, come lavorano: pensavo fosse la squadra perfetta per me, e per come stiamo lavorando in questo inizio 2024 sono convinto lo sia. Il fatto, poi, che diventeremo squadra sviluppo della Jayco, andrà a colmare anche alcune lacune che magari poteva avere la squadra in precedenza: per esempio abbiamo iniziato a lavorare con lo staff del team World Tour, nutrizionisti, preparatori, eccetera. Hagens Berman resta la squadra vera e propria, ma in fin dei conti saremo un vero e proprio Team Development. Prima forse mancava qualcosina per essere una squadra di livello top per la categoria, ma ora quello step è stato fatto.

La Flèche Wallonne 2022 - Alejandro Valverde (ESP - Movistar Team) - Foto Rafa Gomez/SprintCyclingAgency©2022

Torniamo alle tue origini ciclistiche. Si stato ispirato da tuo padre e tuo nonno, ma di sicuro avrai avuto degli idoli da bambino.

Più che idoli dei punti di riferimento. Ho sempre avuto questa passione per gli scalatori spagnoli: Contador, Purito Rodriguez e Valverde su tutti. Ecco Valverde è il mio riferimento attuale: ha corso tantissimo, per tantissimi anni, ha smesso in là con gli anni, ha vinto un mondiale a quasi 40 anni e ora che ne ha 43 lo vedi ancora che pedala, che fa gare Gravel. Corridore incredibile.

E oltre alla bici?

Poco altro, ma perché non ho tempo di fare altro. La mia vita è scuola e allenamenti. Però ho una grande passione: seguo tantissimo il tennis e in questi giorni è andata bene perché c'è stato anche da festeggiare.

Quali sono le tue caratteristiche?

Scalatore, resistente, con tanta durability. È che non potevo essere altro perché in volata sono piantato, ma per fortuna ho un buon motore.

Margini?

Mentalmente mi manca quella cattiveria per vincere, però ad esempio sono uno che si mette molto a disposizione della squadra.

Scalatore, dotato di fondo: sei il prototipo del corridore da grandi giri.

Esatto, sono sicuro che se in questi anni crescerò anche a livello di cattiveria mentale e a livello di motore continuerò a crescere in questa maniera, posso diventare un corridore un po’ à la Kuss. Un corridore forte, che fa la differenza in salita per i suoi compagni, ma che come abbiamo visto sa ritagliarsi anche il suo spazio.


Quindi, da regolarista, forse ti manca l’esplosività?

In realtà no. O meglio, mi spiego: sono piantato dai cinque ai quindici secondi e quindi in volata non posso fare molto. Ma ora sto lavorando tanto sugli sprint sui trenta secondi e sto migliorando questo aspetto. Su sforzi dai trenta secondi ai due minuti vado forte. Di sicuro mi manca quel picco di watt che nelle categorie giovanili mi sarebbe servito per vincere di più.

Nei due anni da junior, tuttavia, sei andato sempre molto forte, il primo anno tanti piazzamenti, quest'anno un paio di vittorie alla Coppa 1° Maggio e al Memorial Antonio Colo.

Però soprattutto il primo anno avrei potuto vincere diverse gare, ma da una parte ho sbagliato alcune cose dal punto di vista tattico, dall’altra io mi sono sempre messo a disposizione della squadra, senza che questo mi pesasse, chiaramente. Quest’anno, però, nelle gare che contavano ho dimostrato di avere motore. In Italia corriamo tanto, troppo, e le corse che contano veramente saranno un terzo di quelle che facciamo, quindi in tante giornate di gara mi sono messo a disposizione della squadra perché è un aspetto determinante, che ti fa crescere e maturare, impari a conoscere tutte le sfaccettature di questo mestiere. Poi nel resto delle gare magari non ho vinto, ma in tante corse importanti ho fatto bene.

Torniamo alla tua scelta di andare a correre all'estero, per parlare di questa tendenza che coinvolge il ciclismo giovanile italiano. 

Intanto voglio togliermi un sassolino dalla scarpa: leggo commenti, riferiti anche ad alcune altre mie interviste, in cui gente, tifosi, lettori, ci dicono che dobbiamo restare in Italia, che sono andato via dall'Italia perché non volevo studiare o l'ho fatto solo per soldi. Quando ho firmato per la squadra di Merckx non pensavo nemmeno di prendere una lira; io sono voluto andare all’estero perché i numeri parlano chiaro. E per numeri parlo di risultati, crescita; le corse più importanti quest'anno le hanno vinte quasi tutte i corridori delle Devo o comunque di squadre straniere. Il Giro Next Gen: Staune-Mittet (JUmbo Visma Devo) su Rafferty (Hagens) e Wilksch (Tudor U23); il Val d’Aosta? Rafferty; a San Daniele tripletta Jumbo; il Recioto lo ha vinto Graat (sempre Jumbo Devo), il Piccolo Lombardia Lecerf (Soudal Devo) su Ryan (Jumbo Devo). All’estero qualcosa di giusto lo fanno, che dici?

Samuele Privitera al Trofeo Paganessi, una delle corse in linea più importanti e prestigiose del calendario internazionale di categoria, vinta nel 2023 da Jarno Widar. Il portacolori del Team F.lli Giorgi è giunto al traguardo 6°, primo degli italiani, e davanti ad alcuni tra i nomi più importanti della stagione come Leidert, Donie, Gualdi e Negrente. Foto: Rodella, per gentile concessione del team F.lli Giorgi.

E il campione italiano è Busatto, che correva con il team di sviluppo della Intermarché e che l'anno prossimo correrà nel World Tour con la squadra belga.

E la corsa l’hanno fatta lui, Belletta e Mattio (Jumbo). È un dato di fatto che all’estero si corra meglio. La crescita a livello di performance dei ragazzi andati all’estero è palese anche solo alla vista. E poi c’è il calendario. Io senza aver iniziato a correre ho già visto come sarà impostato il mio 2024 ed è totalmente diverso da quello di una Continental italiana. Siamo nel 2024 e bisogna iniziare a ragionare in maniera differente, però attenzione, io non me la prendo con le Continental italiane, ma semmai è colpa del sistema in cui devono correre.

Zeppo di storture.

Ti faccio un esempio: ti pare mai possibile che una squadra un fine settimana si divida per fare tre corse diverse, e tutte e tre gare regionali? Per cosa? Per vincere 40/45 gare all’anno, e finire sul giornale perché hanno vinto 40/45 gare in un anno così lo sponsor è contento. E in Italia i dirigenti lo sanno che per preparare i ragazzi questa non è la via, ma il problema è che lo sponsor vuole visibilità.

Tu hai colto l’occasione, ma perché ti sei cercato questa occasione.

Se io posso finire a correre per una Devo di una squadra World Tour, di avere la possibilità di migliorare come persona, imparare l’inglese, non capisco perché io debba restare in Italia.

Cosa ti aspetti da questa stagione in arrivo.

Migliorare mentalmente e come motore. Lo dico sempre: uno dei motivi che mi ha spinto ad andare all’estero è la voglia che ho di imparare a fare il corridore, intendo il corridore vero. Voglio fare la vita da atleta e per me l’unico modo per farlo è prendere schiaffi a livello sportivo, fare gare di qualità con gente che ha più motore di me, che in salita mi apra in faccia in modo che io capisca che ho ancora tanto da lavorare.

E a livello di risultati?

Nessun obiettivo vero e proprio, mettiamola così. Fare bene nelle corse in Italia, correre il Giro Next Gen con un ruolo importante all’interno della corsa, per me stesso o per la squadra, così come disputare le internazionali dure, il Val d'Aosta. Però ribadisco: prendere più batoste possibili per imparare a gestirle quando le prenderò più avanti, perché è inevitabile che quelle le prenderai sempre. Poi dal secondo anno, quando avrò imparato a fare il corridore, ci risentiamo e ti dirò quali corse posso provare a vincere. E poi voglio imparare a essere un uomo squadra perché devi sapere anche fare il gregario.

Luca Giami, altro fiore all'occhiello della squadra lombarda, l'anno prossimo dovrebbe passare anche lui in una Devo straniera (UAE?) Foto: per gentile concessione del team F.lli Giorgi.

Andando ancora a scuola come coniughi la tua routine giornaliera tra scuola e allenamento?

La scuola in questo mi sta aiutando parecchio perché due giorni alla settimana esco un’ora prima degli altri e questo mi permette di fare più volume.

Che tipo di allenamento stai facendo ora?

Perlopiù volume. In queste prime quattro settimane ne ho fatte tre di volume/adattamento a circa 24/26 ore a settimana, e poi la settimana appena passata ho fatto i primi quattro giorni di scarico e poi dal giovedì ho ricominciato a fare volume inserendo intensità, facendo blocchi in zona 3, medio lunghi e poi sessioni di sprint. Anche se queste in realtà le ho inserite sin dall’inizio: due sessioni alla settimana circa di sprint, facendo sprint brevi di dieci secondi e soprattutto massimali da trenta secondi. Diciamo che ora le mie sessioni settimanali sono: due di sprint, due, tre di intensità media e treshold e il restante volume in z2. Ora sto girando sempre sulle 24/27 ore a settimana e faccio anche due, tre sessioni di palestra a settimana dove faccio forza massima ed esplosività.

Queste sono tabelle specifiche personalizzate o sono lavori che vi stanno facendo fare a tutti in squadra.

Tabelle personali: noi in squadra possiamo avere il nostro preparatore personale, io sono seguito da Gaffuri e Pinotti, quest'ultimo è comunque uno dei preparatori della squadra World Tour. Però tutte queste tabelle, se arrivano da preparatori esterni, passano tutte sotto gli occhi del nostro Head Coach e vengono approvate da lui. Credo, tuttavia, che i miei compagni lavorino su questa falsariga. Certo, considerando che molti vivono al Nord Europa, non credo riescano a fare il volume che faccio io, ma per dire, anche già solo Sambinello che abita a Varese non riesce a fare lo stesso mio volume. Abitando in Riviera, per dire, oggi sono andato a fare 3 ore, ho scollinato oltre i 1000 e c’erano 14 gradi lassù. 14 gradi al nord Italia se li sognano. Su questo sono avvantaggiato.

Corsa dei sogni?

Sogno di partecipare alla Sanremo, perché la guardo da quando ho 2 anni, ma sogno di vincere il Tour.

Il tuo anno, il 2005, e il 2006, sono annate piene di talento. Tra i corridori contro cui hai corso chi ti ha impressionato maggiormente?

Jarno Widar. Motore pazzesco, corridore esplosivo. Si mette davanti tutta la gara e tira. Ho fatto lo stage con lui in Hagens Berman Axeon, eravamo compagni di stanza, poi lui ha fatto altre scelte (correrà con la Lotto Devo). Per farti capire che tipo è: dopo che ha perso il Lunigiana - in discesa - è tornato a casa, è uscito, ha aperto sulla Redoute e ha preso il KOM a Evenepoel. In Italia mi hanno impressionato Finn e Giaimi. "Lollo Finn" ha gran motore, deve solo migliorare nel correre, ma quest’anno ha scelto la squadra giusta per farlo.

Jarno Widar, qui vincitore di tappa al Lunigiana 2023, è stato uno dei grandi protagonisti dell'ultimo biennio juniores.

All’estero con l’Auto Eder, squadra affiliata alla BORA-hansgrohe.

Lui, lì, può diventare davvero forte.

Al Lunigiana si è fatto sorprendere nelle prime tappe, restando un po’ dietro nelle fasi cruciali.

Sì, esatto, lui ha un po’ questa caratteristica di correre in fondo, e questo lo penalizza, ma quando la strada sale va forte. E poi c’è Giami, io lo definisco "un treno".

Giami, Finn, Privitera, tre liguri: cosa sta succedendo dalle vostre parti?

Solo motori sulla costa! Con Giaimi ci alleniamo assieme ancora adesso quando siamo a casa ed uno spettacolo uscire assieme a lui. Ci mettiamo lì, z2 a 37/38 all’ora e via sulla costa. Il problema è quando dice “facciamo una volata?”. Quasi 1800 watt di picco fanno un po’ paura… gran corridore. Ecco lui anche a correre in gruppo ha qualche problema, ma ha una mentalità che definirei “folle”. Se qualcuno gli dice qualcosa, gli scatta qualcosa in testa e magari il giorno dopo ti fa 80 km di fuga. Un po' altalenante magari a livello mentale, ma il suo motore sui 4 minuti ce l’hanno in pochi, e lo dimostra il record del mondo di categoria nell’inseguimento su pista.

Abbiamo un bel biennio in Italia tra 2005 e 2006.

Ti posso fare altri nomi che quest’anno sono andati veramente forte: Sierra, Gualdi, i Sambinello, Mottes, Negrente, altri. Quello che la gente deve accettare è che noi facciamo la scelta di andare a correre all’estero. Quello che bisogna capire a livello di sistema è che il problema non è tra i giovanissimi, allievi, juniores, ma tutto quello che arriva dopo. Perché non è possibile che si arrivi dagli Under 23 e si inizi a fare fatica a esprimere il talento. Tutti lo devono capire, non solo le squadre, ma tutti i dirigenti. Devono capire che se noi in Italia facciamo in un modo, ma all’estero fanno in un altro bisogna fare anche noi come si fa all’estero. Prima passava un corridore all’anno in squadre straniere, ora sta diventando una tendenza diffusa, due, tre, cinque, sette. Ma in Italia nulla cambia e ci si ostina a fare in un certo modo.

Una mentalità, per i motivi che hai anche spiegato prima, difficile da cambiare.

E io ti faccio un esempio sulla mentalità da grande squadra. Prendi la Tudor, esiste da un paio di anni e guarda che squadra hanno messo su, fanno tanti punti per il ranking e puntano a entrare nel World Tour. Ma al di là dei punti è una squadra che ha dimostrato di lavorare bene, basta guardare anche la campagna acquisti fatta.

Hanno un budget importante, ma lo sanno usare bene. Quando prendi corridori di spicco come Dainese e Trentin, vuol dire che punti in alto.

Esatto, non è solo una questione di budget, ma di come lo si usa. Loro devono essere un esempio. Ci sono riusciti loro, dobbiamo provarci anche noi. E poi potrei fartene altri di esempi, ma ti porto solo quello della Hagens Berman Axeon: in otto anni hanno portato tra i professionisti una cinquantina di corridori, va bene che prendono quasi sempre solo corridori con motore, però se è uscito un numero del genere, vuol dire che almeno più della metà delle cose che fanno, la fanno giusta. Perché non riusciamo a farlo anche in Italia? Se loro corrono poco, ma corrono bene, perché non lo facciamo anche noi? E poi prima dell’arrivo di Jayco non erano di certo la squadra più ricca, ma guarda cosa facevano, mica correvano tutti i week end? Ma un calendario specifico che aiutava a crescere i corridori misurandosi spesso con i professionisti. A fare quello che dicevo prima: prendere schiaffi per crescere. Tornavano dopo aver corso per qualche settimana o per mesi con i professionisti per vincere le gare Under 23. Quello che voglio dire è che i soldi che una squadra spende per fare 6 gare regionali, li spendono in una gara e poi si raccolgono i frutti. Si fa motore, si impara a correre, il ragazzo cresce e diventa corridore. Ma il problema non è chi prende decisioni su come investire il budget, ma è proprio il sistema che è sbagliato. Queste squadre, se l’anno dopo vogliono avere i fondi dagli sponsor, devono vincere la corsetta regionale per avere visibilità.

 Foto in evidenza: Rodella, per gentile concessione del Team F.lli Giorgi


Ricordati di Urán

Ho un ricordo preciso di Rigoberto Urán Urán- l’ho sempre chiamato Urán, nel modo più semplice possibile, mai Rigo. Ricordo preciso, anche se con quella solita demenziale tendenza che ha la memoria di sfocare immagini: fa persino venire in mente cose che non sono accadute veramente. Oppure sbiadisce e confonde, e allora, per non rischiare, sono andato a controllare e sì, l’episodio a cui mi riferisco è esistito davvero.

Era il 2007, Rigoberto Urán correva con la maglia della Unibet e aveva già dimostrato un certo talento. Oggi, in un fastidioso linguaggio terra terra a cui raramente mi sottraggo, lo definiremmo semplicemente pazzesco. Aveva appena vent’anni e la sua stagione era iniziata vincendo una corsa in Colombia, proseguita conquistandone una a inizio estate in Spagna, anzi nei Paesi Baschi, una cronometro di venti chilometri, in una corsa che ora non esiste più, ma dove fece vedere come quel ragazzo, vincitore di corse in pista poco tempo prima, forte in salita e sul passo sin dalle categorie giovanili, era un corridore adatto e molto, alle grandi corse a tappe.

Poche settimane dopo il suo talento emerse in maniera imperiosa al Giro di Svizzera, nella tappa con arrivo a Schwarzsee, penultima giornata della celebre breve corsa a tappe - piccola nota curiosa, sia alla Euskal Bizikleta, a cui mi riferivo prima, sia al Tour de Suisse, Urán vinse la penultima tappa, entrambe le volte a fine giornata il leader era uno dei due gemelli Efimkin, Vladimir, entrambe le volte Efimkin perse la maglia di leader e la classifica generale, il giorno successivo. Urán vinse attaccando nel finale e alcuni giornali e siti, persino quelli specializzati, si chiesero da dove fosse sbucato quel semisconosciuto colombiano - in realtà, in Urán, la Colombia poneva grosse speranze e su di lui, come si vedrà le maglia che andrà vestire poco dopo, erano puntati gli occhi delle squadre più forti del ciclismo mondiale, anzi, la più forte in quegli anni, il team Sky.

Ma torniamo al primo ricordo, a quel ragazzo nato vent’anni prima in Colombia e apparso da poco sulla scena europea. In una discesa durante il Giro di Germania del 2007 finisce dritto in un fosso, spaccandosi tutto lo spaccabile. Rottura di due gomiti su due disponibili e di un polso su due. Poteva andare peggio. Attimi di paura che fecero temere quel peggio, poi Urán si alzò, prima di accasciarsi nuovamente a terra iniziando a contorcersi dal dolore, e io ho questo ricordo vivissimo di lui davanti, in fuga, nell’azione buona per vincere la tappa. Quella caduta servì, se ce ne fosse ancora bisogno, anche a convincere i suoi tecnici a fargli prendere confidenza con il mezzo, allenandolo, dove e come possibile, anche nella tecnica di guida.

Peripezie di vita, nel passato di Urán, che tutti più o meno conosciamo, il padre ucciso in un agguato, l’adolescenza passata a vendere biglietti della lotteria fondamentale per portare il pane a tavola, e una domanda che si faceva spesso: farò questo per tutta la vita o riuscirò a diventare un corridore professionista? E corridore lo è diventato con risultati importanti: vice campione olimpico a Londra nel 2012, battuto sul traguardo in volata da Vinokourov, uno sprint da perderci il sonno, ma una medaglia che non si cancella, anzi lo rende orgoglioso, e proprio a Parigi 2024 ha deciso di chiudere la sua carriera. Un cerchio che si chiude e sullo sfondo i cerchi olimpici - una banalità, ma pare servita su un piatto d'argento.

Poche vittorie in carriera rispetto a quello che è riuscito a trasmettere: uno dei più amati in patria, uno dei miei rispettati in gruppo. Per tutti gli altri colombiani una specie di punto d’arrivo, di ispirazione, un padre come esempio da seguire, amare e rispettare. Avete mai chiesto a un colombiano quale sia il suo punto di riferimento? Non serve, vi risponderebbe sempre e solo Urán. Urán che spesso si è messo a disposizione dei suoi connazionali anche quando questi correvano in altre squadre.

Due podi al Giro e uno al Tour, una maglia bianca sulle strade della Corsa Rosa nel 2012 anno in cui, alla Volta Catalunya, tornò al successo cinque anni dopo le braccia alzate al Tour de Suisse, quando fu dipinto come uno uscito da chissà dove. Una miriade di piazzamenti nelle grandi corse di tre settimane, vittorie di tappa in tutti e tre i grandi giri - l’ultima, alla Vuelta Espana 2022, quando ormai pensavamo non fosse più competitivo ad alti livelli. Due podi al Giro di Lombardia, il primo nel 2008, giovanissimo.

Lascerà il ciclismo come quello che ricorda vagamente Mick Jagger, come quello che ha sempre una parola di conforto per tutti in gruppo e alcune frasi del suo repertorio, “tranquilo papito”, sono diventati un tormentone. Lascerà il gruppo come uno di quelli che ha sempre qualcosa di intelligente ai microfoni, che non si sottrae mai dal dire quello che pensa. Lascerà il gruppo Rigoberto Urán, e questo ci rende più tristi, ma probabilmente anche più saggi.


Fatica e dolore, gioia e orgoglio: il ciclismo di Samantha Arnaudo

Difficile pensarlo oggi, ma c'è stato un momento in cui Samantha Arnaudo e la bicicletta avevano ben poco in comune. Nonostante la solarità, quando va a riprendere quegli attimi, nei ricordi, dalla voce di Arnaudo filtra ancora un poco di sofferenza, di quel senso di inadeguatezza che si prova cimentandosi in qualcosa che sentiamo non appartenerci o, per quanto, non appartenerci ancora. La frase principale è: «Non volevo più soffrire», lì, come una lama, con cui ci si taglia ancora oggi. Samantha Arnaudo suonava il violino e su quella bicicletta "l'aveva messa" il suo ragazzo: «Ogni strappo era una salita interminabile, dolore ai muscoli, quasi impossibilità di proseguire. Il peggio è che il malessere non iniziava lì. Faticavo persino a mettere le tacchette, cadevo, spesso in maniera assolutamente ingenua. Uscivo in bici solo nel fine settimana, ma era già troppo».

Le parole spaziano rapidamente fra i vari episodi, soffermandosi su quelli più significativi, i primi tentativi di scalare il Colle Fauniera, ad esempio. Quel giorno in cui, dopo vari tentativi, dal versante di Demonte, si fermò: «Basta, torno a casa. Sono stanca, non è possibile». E voleva veramente tornare indietro, rinunciare, lasciar perdere, poi chissà cosa accade nella mente, certe volte, quando si cambia idea, da un momento all'altro e si tramuta la rabbia ed il dolore in qualcosa di differente. Per Samantha Arnaudo è uno scatto: «Era pura rabbia, non c'era altro. Sono arrivata così e, per molto tempo, non ho più voluto percorrere quel versante». Fino a che, quando ci è tornata, tutto era più facile ed il segreto si annidava proprio in quei giorni in cui la fatica era maggiore.

«Mi sono detta che non volevo più stare così e per evitarlo c'era solo un modo: pedalare, allenarsi, abituarsi alla salita, alle montagne». Così, a sette anni di distanza da quei momenti, Samantha Arnaudo ha vinto la Gran Fondo Fausto Coppi, la Haute Route Alpes, la Maratona delle Dolomiti, la Haute Route Ventoux e molte altre corse. Così, come dicevamo, a sette anni di distanza pensare alle prime pedalate fa strano: «Dico spesso che il ciclismo mi ha resa più forte: a livello fisico, certo, ma soprattutto a livello mentale e su questo voglio soffermarmi. Pensiamo alla maggior parte dei dubbi e delle paure di tutti i giorni: perché ne soffriamo? Spesso perché ci sentiamo deboli e temiamo di non riuscire ad affrontare le difficoltà, se e quando si presenteranno. Attraverso il ciclismo, ho iniziato a sentire di avere le capacità per andare oltre. Questo cambia tutto, rende più coraggiosi, più consapevoli». Allora si può anche stare da soli, in alta montagna, dopo 240 chilometri, più di 5000 metri di dislivello, e pensare solo a spingere sui pedali, azzerando tutto il resto: questo è il bello della fatica in sella, secondo Samantha Arnaudo. «Se riesco ad andare più veloce, ci metto meno tempo e, se ci metto meno tempo, soffro meno. Il principio è lo stesso di quel primo scatto sul Fauniera. Dipende solo da te: può fare paura, nel mio caso è una tranquillità. Scelgo io cosa fare e come farlo».

Il tono si fa riflessivo e Arnaudo riprende a raccontare: «Sai che, talvolta, chi va piano, chi fa più fatica, è quasi visto come "sfigato" da chi va forte, io, per storia personale, mi rivedo negli ultimi. Alla prima Gran Fondo Fausto Coppi puntavo solo ad arrivare al traguardo, ma alla Madonna del Colletto volevo fermarmi, andarmene. Non l'ho fatto solo perché il mio ragazzo, che era lì, si sarebbe arrabbiato se non avessi continuato, ma volevo farlo, so cosa si prova. Non serve dire molto a chi fa più fatica, a chi sta iniziando, serve provare a fargli capire che può, che anche lui può. Serve dirgli che la sua fatica ha molto più valore di quella di tutti gli altri, perché non è ricompensata, non subito almeno. Perché si fa fatica solo per arrivare in fondo, senza altri desideri». Arrivare alla linea di partenza, essendo conosciuti, non è semplice: c'è controllo, tutti sanno che correrai per vincere e non vogliono lasciarti la ruota. Arnaudo ci pensa e ripensa alla Haute Route Alpes di agosto.

Quell'idea fissa: «Voglio staccare Janine Meyer. Devo staccarla». A bruciare c'era ancora il secondo posto all'Ötztaler Radmarathon di circa un mese prima: «Non tanto per la seconda posizione, quanto per quei venti minuti di distacco che mi sembravano troppi per come avevo affrontato la corsa». Anche in questo caso, è la possibilità di essere da sola, di andare all'attacco, come fosse una gara di un giorno, come l'arrivo fosse dietro l'angolo, la sua arma vincente, il suo segreto: «Piuttosto mi sfinisco, ma devo staccarla, devo vincere io». Sono queste le frasi nella sua testa, in salita, «l'unico luogo in cui faccio meno fatica degli altri». Talvolta pensando a Marco Pantani, un corridore che l'ha emozionata, ispirata in quello che fa. In salita stacca Meyer, in pianura può essere tranquilla: vince in questo modo, si gode il successo ma pensa già agli altri obiettivi, con voglia di costruire, di continuare. Si emoziona per la vittoria, si emoziona perché con lei c'è la sorella Susanna e basta l'inciso per dire tutto: «Bellissimo condividere tutto questo con una sorella». In famiglia, sono quattro sorelle: Stefania non è legata al mondo dello sport, ma segue le sue gare, la più piccola, invece, è ancora una bambina, Era in piazza a Cuneo, il giorno della Fausto Coppi, tra tantissima gente, alla gara di casa: «Ha un'emotività molto forte. Quando mi ha vista arrivare, è scoppiata in un pianto che non riesco a scordare».

Samantha Arnaudo che, forse, in sella non sarebbe nemmeno salita, e che da quella sella ha pensato più volte di scendere. Certamente in bicicletta ha trascorso tantissime ore ad allenarsi per soffrire un poco meno, per sentirsi a proprio agio, per riuscirci. Ci racconta che, soprattutto agli inizi, le capitava di restare a guardare atlete professioniste, ammirata. In particolare la colpiva Lizzie Deignan, il modo in cui pedalava, avrebbe voluto assomigliarle. Qualche tempo fa, il suo ragazzo le ha detto: «Ora le somigli». E lei è rimasta lì, senza molte parole, perché dopo anni, ora davvero si sente una ciclista.


Il questionario cicloproustianto di Chloé Dygert

Il tratto principale del tuo carattere?
Capacità di superare le difficoltà.

Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
Fiducia e lealtà.

Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
Fiducia e lealtà.

Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
Onestà.

Il tuo peggior difetto?
Troppi per citarne solo uno!

Il tuo hobby preferito?
Pulizia e organizzazione.

Cosa sogni per la tua felicità?
Sogno di essere la miglior ciclista del mondo.

Quale sarebbe, per te, la disgrazia più grande?
Perdere la mia mentalità.

Cosa vorresti essere?
La migliore del mondo.

In quale paese ti piacerebbe vivere?
Stati Uniti d'America.

Il tuo colore preferito?
Rosa.

Il tuo animale preferito?
Mi piacciono le scimmie o le rane.

Il tuo scrittore preferito?
Stephenie Meyer.

Il tuo film preferito?
Ever After.

Il tuo musicista o gruppo preferito?
Michael Jackson.

Il tuo ciclista preferito?
Pauline Ferrand-Prévot

Un eroe/eroina nella tua vita reale?
Molte persone che ammiro, non solo una.

Il tuo nome preferito?
Vesper o Aston.

Cosa odi?
Un sacco di cose... ah!

Il personaggio della storia che odi più di tutti?
Quelli fastidiosi, ditemi qualcuno o qualcosa e vi dirò chi è fastidioso.

Quale impresa ciclistica ricordi di più?
Vincere la cronometro nello Yorkshire 2019.

Da quale gara non vorresti mai ritirarti?
Campionati del mondo.

Un regalo che vorresti avere?
Mi piacerebbe saper cantare, o avere pazienza.

Come ti senti attualmente?
Davvero bene, ho appena mangiato un cioccolatino Ferrero Rocher!

Scrivi il tuo motto di vita
Prefissati standard elevati. Non importa quanto sia bello, può sempre essere migliore.


Sono sempre una ciclista: intervista a Chiara Doni

Era ormai diverso tempo che Chiara Doni aveva deciso: avrebbe voluto diventare una ciclista professionista. Da sempre, il suo lavoro le assorbe ogni istante e Chiara racconta di sentirsi in gabbia, di non essere pronta a passare, in quella gabbia, tutti gli anni di una carriera lavorativa: «Per il mio lavoro ho rinunciato a tanto. Dirò di più: da molto tempo la mia vita è ed è stata solo e soprattutto lavoro. Qualcosa che assorbe ogni attimo della quotidianità e, come sempre, quando accade così, a risentirne è tutto il resto: i rapporti, le relazioni, il tempo libero. Come sostenere questa situazione?».
La boccata d'aria è, per lei, la corsa a piedi, infatti si cimenta spesso nelle mezze maratone, almeno fino a che un problema ad un piede glielo impedisce: dopo dieci chilometri di gara inizia ad accusare dolore e proseguire diventa impossibile. Il caso vuole che, proprio in quel momento, in palestra, cominci a interessarsi di biciclette, di ciclismo: settecento euro per una bici. Un tentativo, un diversivo all'inizio, qualcosa che possa accompagnarla fuori dai pensieri: «Si dice "pannolati", giusto? Ecco, i miei primi giri in bicicletta erano proprio assieme ad un gruppo di "pannolatissimi", non sto esagerando. Però stavo bene, mi divertivo. Uscivamo al mattino alle sette, sette e mezza, perché, per mezzogiorno, le loro mogli li volevano a tavola, a pranzo. Se tardavamo, ricordo che iniziavano a squillare i cellulari: "Dove siete? Quando arrivate?". Era il segnale che bisognava pedalare per non tardare troppo». Chiara Doni non pensava ad altro, però, nei suoi giri, accumulava coppette su Strava e questo qualcosa doveva pur voler dire.

Tre Valli Varesine Women 2023 - Chiara Doni (ITA - Team Jayco AlUla) - Foto Alessandro Perrone/SprintCyclingAgency©2023

«Non mi sono mai sentita abbastanza, non mi sono mai piaciuta: è valso per ogni campo della mia vita. Riconoscersi brava in qualcosa, o, ancora di più, molto brava non era per me. Si tratta di una forma di insicurezza che non so da dove origini, con cui però bisogna convivere ed io a conviverci ho imparato, tra alti e bassi. Tra le cose che mi permettono di conviverci c'è lo sport. Vogliamo parlare della bicicletta? Parliamo della bicicletta: l'insicurezza c'è ed è tanta fino a che non agganci il pedale e parti, dopo sparisce, ed è bellissimo liberarsene per chi se la porta sempre addosso». Talmente è tanta l'insicurezza che, alcune volte, si sceglie anche di non andare, di non partire: a Chiara Doni è successo così per la Maratona delle Dolomiti, che pur aveva atteso, aveva voluto. Niente, non è riuscita ad affrontarla: il timore e l'insicurezza l'hanno bloccata. Non è partita. Racconta Chiara del momento in cui quei dubbi svaniscono, in cui si prende consapevolezza, e questo ci porta dritti alla Zwift Academy che Doni ha frequentato, arrivando alla fase finale. «Il momento in cui attacchi e resti da sola: ti volti e non c'è nessuno. Quello è lo snodo di ogni cosa. Alla Zwift Academy, in salita, mi è successo e quella salita me la sono goduta: affaticata, ma serena, tranquilla. Qualcuno ha ritenuto che non fossi la migliore, che non dovessi vincere io e va bene così. Chissà se le cose fossero andate diversamente. Di sicuro quello che è accaduto lì, mi ha convinto del fatto che i numeri li ho».

Giro dell'Emilia Internazionale Donne Elite - Chiara Doni (ITA - Team Jayco AlUla) - Foto Roberto Bettini/SprintCyclingAgency©2023

Ed allora si torna all'inizio, ve l'avevamo già detto: Chiara Doni aveva deciso che avrebbe voluto diventare una ciclista professionista. Al suo fianco c'è Luca Vergallito, dapprima coach, poi compagno. Vergallito analizza i numeri, le prestazioni, con il distacco e l'oggettività necessaria per confermare che quella possibilità c'è, che, se vuole, può provarci, deve provarci. Doni non lo dice in casa, in famiglia. A saperlo, all'ultimo, sarà suo padre: «Mi ha detto che stavo facendo una follia: mollare il lavoro che avevo scelto, a trentotto anni, dopo essermi affermata, era una sciocchezza. Soprattutto era assurdo farlo senza avere alcuna certezza. Sono sincera, quel discorso me l'aspettavo, forse anche per questo avevo aspettato a parlarne. Lo capisco bene, alla luce dell'affetto che un genitore ha per i figli. Ma non lo condivido, non ci riesco. Forse il mio lavoro non l'ho nemmeno scelto desiderandolo veramente, forse l'ho scelto perché le circostanze, l'ambiente che vivevo, mi hanno convinto che fosse giusto così. In ogni caso, perché non dovrebbe esserci la possibilità di cambiare? Soprattutto: perché questa possibilità deve essere preclusa solo per l'età, per i miei trentotto anni?». Il ragionamento non finisce qui: Doni è perfettamente consapevole dei rischi di una scelta del genere, sa che, a trentotto anni, si possono avere due, tre, quattro anni nel professionismo, poi bisogna smettere. Ha già pensato ad un percorso, un progetto strutturato, che parta dalla sua laurea in biologia, dalla specializzazione in tossicologia, e, attraverso un master all'estero, le permetta di lavorare nel mondo del ciclismo anche al termine del professionismo. Un progetto che le permetta di leggere, di studiare, cosa che ora non riesce a fare perché passa già tutto il giorno sulle pagine ed a sera è stanchissima. Un progetto che, però, probabilmente, non viene capito.
L'età, i trentotto anni, sono uno dei punti a cui chi l'ha criticata si è aggrappato spesso: «In alcuni casi, mi hanno fatto sentire davvero vecchia. I commenti sulla mia età si sono susseguiti per mesi. Ripeto: perché a trentotto anni non si deve poter credere di cambiare, di farcela? A qualsiasi età ci si può evolvere». A fine luglio, la telefonata che aspettava, mentre sta pedalando sulla Forcola: Jayco AlUla le propone di correre, come stagista, il Giro dell'Emilia e la Tre Valli Varesine. All'inizio piange per la felicità, poi la tensione, la preoccupazione, tutto quello che c'è da fare ed i conti con le aspettative che chi propone una possibilità di questo tipo legittimamente nutre, ma anche con le proprie aspettative. Si tratta di un qualcosa che la prende completamente per settimane e si placa solo quando incontra la squadra: «Se avessi potuto scegliere, per la preoccupazione che avevo e per la solita insicurezza, non sarei partita nemmeno questa volta, come per la Maratona delle Dolomiti, non potevo, così ho corso». La difficoltà maggiore è nello stare in gruppo: ci sono spallate, spinte e Doni si sposta appena qualche atleta vuole farsi strada in mezzo al plotone: «Letizia Paternoster mi ha fatto da mamma, mi ha aiutato a mettere il numero, mi ha spiegato che dovevo provare a tenere la posizione e che una ciclista non cede mai il posto che ha conquistato. Poi arriva la fatica ed a me la fatica piace, entusiasma cercare il miglioramento, mettermi alla prova». La gara termina, Chiara arriva sessantasettesima e le voci della gente si fanno sentire : «Motorone, motorone e poi arriva oltre il sessantesimo posto?».

Tre Valli Varesine Women 2023 - Chiara Doni (Team Jayco AlUla) - Foto Alessandro Perrone/SprintCyclingAgency©2023

Cita questa, ma ce ne sono molte altre a cui si sforza di non pensare: «Sanno che sono caduta? Che la mia bici non frenava? Ho fatto tutta la gara con l'angoscia di andare addosso a qualcuno, di provocare una caduta. A San Luca non funzionava il cambio, mi è scesa la catena, un signore ha cercato di aiutarmi ma c'era poco da fare. Sono ripartita con la bici di scorta, anche se, a quel punto, avrei potuto tranquillamente ritirarmi, non l'ho fatto, perché non volevo un DNF nella mia prima e forse unica volta al Giro dell'Emilia, e, nonostante i crampi, sono andata a riprendere atlete che mi avevano superato. Questo chi critica non lo sa. Purtroppo c'è ignoranza, non ci si rende conto di quanto possa far male un giudizio non pesato, molte persone, poi, parlano per frustrazione personale. Credo che si debba davvero dare retta a poche persone: ascoltare tutti, ma capire quali parole fare proprie e quali invece ci avvelenano. Noi affidiamo tutto ai social, ma le persone non sono come appaiono su Instagram, quello è, di fatto, un modo per nascondersi».
Chiara Doni si chiede cosa avrebbe potuto dire oggi, se quelle gare fossero andate diversamente, se avesse avuto tra le mani quel contratto che invece non avrà. Parla di due ferite, la Zwift Academy e questa avventura, ferite che, come sempre, sono andate ad incidere nei sogni, nelle cose a cui più si è legati. Ferite che, spesso, sono connesse a quel che si è, a quel che si fa: «In discesa, qualche volta ho pensato di lasciare andare di più i freni, ma, proprio in quell'istante, mi veniva in mente il mio lavoro, il fatto che, se fossi caduta facendomi male, sarebbe stato un problema ed il giorno dopo mi aspettavano in ufficio. Non posso negarlo, nella mia testa c'era anche questo». Ma, nonostante le ferite, la bicicletta resta importante nella quotidianità di Chiara ed in quel mondo continua a credere ci sia un posto anche per lei, senza farsi spaventare eccessivamente dalle paure, perché, altrimenti, non varrebbe la pena esserci, avere la possibilità di fare, di impegnarsi. Questo è il punto e Chiara Doni lo racconta con convinzione, mentre ci saluta: «Sono insicura, ma ho imparato a battermi per le cose in cui credo, per far sentire la mia voce e spronare chi ha un dono, un talento, a non lasciare perdere. La storia di Luca Vergallito la conosciamo tutti».


Gialdini Sport, Brescia

Non appena qualcuno, passando da via Triumplina 45, a Brescia, scorge la vetrina di Gialdini e varca l'ingresso, dopo essersi guardato bene intorno, una fra le prime domande che pone, a Paolo Gialdini, a Matteo, il fratello maggiore che segue l’amministrazione, oppure agli altri ragazzi che lavorano in negozio, è tanto semplice quanto dalle radici profonde. Magari accanto ad una bicicletta oppure ad un'attrezzatura da bikepacking, da sci, mentre si chiacchiera di percorsi e avventure, di materiali e di dettagli, ecco l'interrogativo: «Ma tu l'hai provato? Tu l'hai fatto? Ci sei stato?». Vale per qualunque cosa, è una sorta di testimonianza diretta che viene richiesta a chi sta affidando una bici oppure il consiglio di un viaggio, quasi un punto d'appoggio per la fiducia che si cerca di instaurare mentre si conversa: «Non è così strano, in fondo. Succede anche quando ci si incontra tra amici; qualcuno propone qualcosa e l'istinto umano è di trovare un appiglio, una certezza, per potersi fidare e, semmai, sperimentare la proposta. A me pare, anzi, molto bello perché è come se la persona con cui stai dialogando dicesse: "Mi fido della tua impressione, delle tue sensazioni". E, se fra amici è cosa normale, quando non ci si conosce, è fatto raro. Il punto è provare a non deludere quella aspettativa: per farlo è necessario mettersi in gioco in prima persona, conoscere nei dettagli ciò di cui si racconta. In una parola: provare, essere dentro quel che si racconta». La lezione di Paolo viene da suo padre ed è una di quelle lezioni tanto forti perchè non trasmesse solo a parole, ma legate ad un modo di essere e di fare. Potremmo anche dire che la lezione venga da lontano, nel senso sia cronologico che spaziale. Due coordinate: Africa, 1978.

L'anno è quello in cui il padre scopre l'Africa: inizia a studiarla, a conoscerla, ne resta affascinato, ne parla spesso, a casa e con i conoscenti, sogna, spera, pensa, ipotizza e progetta di andarci. Il crescendo rossiniano dei verbi è lo stesso delle azioni, l'idea si fa sempre più concreta: viene allestito un camper, con tutto quello che può servire e non resta che partire, per toccare con mano ciò che la mente aveva esplorato da tempo. Già, ma l'Africa è lontana e le comunicazioni sono quasi impossibili con Brescia: si fa ponte a Napoli e da lì al capoluogo lombardo. Arriva dicembre, per due settimane c'è solo silenzio: nessuna notizia, nessun contatto. Un quotidiano locale, una mattina, titola: "Bresciani dispersi nel deserto". A casa si ha paura: è l'ansia, è il panico. Per fortuna sarà un falso allarme: papà Gialdini tornerà a Brescia, entusiasta del viaggio, innamorato dell'Africa, contento dell'esperienza vissuta. «La sua prima riflessione era stata: "E se questo entusiasmo potessero viverlo anche molti altri? Alla fine, non serve molto, forse potremmo provare a mettere a disposizione delle persone che passano da qui quel che serve, in modo che quel desiderio, magari nascosto dalla quotidianità e dall'apparente impossibilità del viaggio, possa diventare realtà". Detto, fatto. Attraverso l'allestimento di furgoni e camper per il deserto, ha cercato di trasmettere ai suoi clienti quel che aveva vissuto in quei giorni». Il negozio Gialdini esiste dal lontanissimo 1860, inizialmente come bulloneria e ferramenta, ma da quel 1978 comincia il cambiamento: abbiamo parlato di attrezzature per camper e furgoni, verrà, poi, la passione per la speleologia, le gite in montagna e quell'amico che gli parla dell'outdoor. Gran parte di quel che il signor Gialdini conosce arriva in negozio e si migliora di anno in anno, un luogo di condivisione di idee e progetti. Tanti sipari che si aprono in quello spazio: il running, il trekking, l'outdoor, lo sci, lo scialpinismo, l'alpinismo, il camping. Paolo Gialdini cresce in questa atmosfera.

Praticamente di fronte a casa, c'è il Monte Maddalena e sono tanti i giorni che trascorre in montagna: fa snowboard alle Deux Alpes, inverni su inverni a Madonna di Campiglio, linee in free ride, alla ricerca costante dell'adrenalina, di qualcosa di estremo che gli resti addosso. Nel frattempo passano gli anni, la vita cambia, gli incontri si succedono: è il portellone aperto di un furgone a fargli scoprire più da vicino la bicicletta. In quel furgone ce ne sono diverse e un dipendente gliene parla, proposta e prova, come succede con le scoperte. Giù dalla montagna in bicicletta: dapprima il cross country, successivamente una bicicletta che si rompe, proprio in discesa, è il pretesto per sperimentare il downhill, fino al 2014, all'interesse per la mountain bike e per i viaggi, poi, per il gravel. «Ho compreso ben presto che la bicicletta rappresentava un insieme di cose che già facevano parte della mia quotidianità, era solo il momento di cambiargli forma, modo di manifestarsi, ma di fatto non cambiava molto, non si perdeva nulla, semmai, anzi si aggiungeva qualcosa. Una bicicletta è la fatica della salita, dello spostamento, solo con le proprie energie, è l'adrenalina della discesa, ma anche la scoperta continua del viaggio, di pochi metri, come di centinaia di chilometri». Paolo Gialdini lascia la montagna, anzi, lascia un certo modo di viverla e continua a esplorarla attraverso la bicicletta, con cui ricerca sentieri nuovi e nuove sensazioni. Il legame padre-figlio, in questa storia come in molte altre, si manifesta in vari fatti, per esempio nella stessa modalità di rielaborare ciò che capita e di raccontarlo, di metterlo a disposizione. Si arriva così ad un nuovo sipario in negozio, uno spazio che già esisteva, ma che si amplia, quello legato al mondo bici, al mondo viaggi e avventure pedalate, al vento in faccia e all'acido lattico nelle gambe. «Ho portato la bicicletta nel mio lavoro o, forse, lei stessa si è intrufolata in quel che facevo. Ne sono grato perché non capita a tutti di poter lavorare attraverso una passione, un divertimento. Fosse una persona la ringrazierei, con una bicicletta è più complesso e il modo per dire grazie è farne parte della quotidianità, viverla il più possibile. Non a caso sono particolarmente fiero della polvere, del fango e dei graffi, dei segni, sulla mia gravel. Ne sono orgoglioso perché significa che abbiamo fatto tante cose assieme, che ho passato tempo, ore, in bici. Così li guardo e mi sento fiero».

Quell'angolo del negozio, che Paolo cura personalmente, racconta anche un'altra sfaccettatura delle giornate di Gialdini e di chiunque: «Si parla spesso di libertà, parlando di biciclette e di ciclismo, quell'angolo è il mio angolo di libertà. Durante le nostre giornate, siamo spesso costretti a fare ciò che ci viene richiesto, dalle esigenze o dalle volontà di altri: lì decido io, scelgo, invento, provo, riprovo». Dicevamo che la bicicletta era già tema del negozio e qui torna il signor Gialdini, il padre di Paolo, «quel veggente», come lo descrive il figlio, che già vent'anni fa, in un viaggio in Europa, in Germania, vide le prime borse da bikepacking e pensò di portarle in negozio, perché le persone cercavano quelle borse, le volevano, ne avevano bisogno. Una veduta ampia, come quella che si gode appena si entra da Gialdini: una metratura decisamente importante e l'occhio si perde tra tutto quello che è esposto, che si può cercare, tra tutto quello che «possiamo dare». La citazione è sempre di Paolo: quel poter dare rende bene l'idea dell'interpretazione di un mestiere. Come quando, pochi minuti dopo, aggiunge, con entusiasmo genuino: «Tempo fa, sono passato da Scavezzon, a Mirano. Stavamo parlando d'altro, quando mi ha detto: "Ah sì, conosco Gialdini". Parlava di mio padre. Mi sono sentito grato e mi sono tornate in mente molte cose».

Si riferisce ai viaggi di papà, in cui, ogni volta, cercava qualcosa di nuovo, qualcosa che potesse migliorare ciò che già c'era. Ripensa alla curiosità con cui il signor Gialdini si guardava e si guarda attorno, provando a cogliere i dettagli delle cose, anche ora che, con internet, è molto più difficile innovare, ma non importa, suo padre continua a farlo ed a Paolo ed al fratello ha insegnato a orientarsi così tra le cose con cui hanno a che fare, che è poi, aggiunge Paolo, l'unico modo in cui è possibile svolgere questo tipo lavoro, provando a dar corpo ad una visione.
L'altra caratteristica fondamentale è l'ospitalità: «Si declina nel tentativo di far sentire a casa, in un luogo sicuro, protetto, chi viene a trovarti, per lasciare un buon ricordo, perché è solo così che si sceglie di far ritorno. Non solo: per il rispetto che si deve a chi decide di fidarsi. Chi acquista deve poter chiedere informazioni, tutte quelle che vuole e deve trovare qualcuno preparato, che risponda in maniera minuziosa, mettendo sul tavolo non solo la propria competenza ma anche la propria esperienza personale, cosa che spesso la grande distribuzione, quella legata ad internet, non può fare. Noi crediamo nel presentarci con nome e cognome, nel bere un caffè assieme, nel creare un rapporto basato su comprensione delle esigenze ed empatia. La curiosità, di cui parlava mio padre, non è fondamentale solo per le biciclette, anche per le persone. Devi avere voglia di conoscerle, di capirle». Tutt'attorno, alle biciclette ed alle parole, le immagini del viaggio di Ettore Campana, Scalo Sogni, quello di Willy Mulonia, che proprio qui si è rifornito per il suo viaggio in Patagonia, in Alaska, ed è diventato un amico, le foto delle montagne bresciane e quelle di un cliente che è andato in Nepal, per aiutare i bambini. A tratti una sorta di museo, immerso in aria di montagna.

Chi lavora qui conosce perfettamente i sentieri della zona, è in grado di segnalare ogni minimo cambiamento, ogni rischio, ma anche ogni vista mozzafiato ed ogni posto in cui riposarsi, asciugarsi il sudore o bere un sorso di acqua fresca: una goduria, in certe circostanze. L'attenzione, la cura, non termina nel momento della vendita, prosegue, in un filo temporale senza soluzione di continuità, in cui la dedizione è la parola chiave: «Non sto esagerando, l'idea è quella di immedesimarsi nel cliente. Scegliamo quel che è giusto fare, oppure che è meglio fare, come se la bicicletta fosse la nostra, come l'avventura fosse la nostra. Lo avvertiamo come un dovere. Ovviamente si può scegliere diversamente, anche il contrario di quel che indichiamo, però è giusto agire così, un fatto di coscienza».

I ciclisti che arrivano da Gialdini sono i più disparati, caratteristiche, biciclette e modi di viverle completamente diversi. Brescia, il posto felice di Paolo, la città in cui giravano le prime bici gravel, riesce a unirli tutti, sarà per la varietà del territorio, che spazia dal centro, al lago, alla base delle montagne, alle salite, sempre differenti, quelle che permettono di fare 1500 metri di dislivello in pausa pranzo e tornare al lavoro rinfrancati, un giorno con la bici da strada, con la gravel, anche con la mountain bike, divertendosi. Magari passando da Gialdini, per due chiacchiere o per chiedere qualcosa e progettare una nuova gita.

Foto: Paolo Penni Martelli


Voglio essere il migliore

Lo sguardo è come un marchio di fabbrica che ci identifica, caratterizza, lo portiamo avanti sin dal primo sviluppo. Se vediamo una foto che ci ritrae, magari di quando eravamo bambini, faremmo fatica a riconoscerci, se non per lo sguardo. Il suo sguardo resta sempre quello: ti scruta come se la tua anima fosse una porta accessibile a tutti e lui cercasse di entrarci educatamente, bussando e chiedendo permesso. Occhi grandi, la voce bassa, ma chiara. Tono deciso. I risultati, contassero qualcosa in questa vicenda, non sono più gli stessi. Il tempo è passato e non ha cancellato niente, semmai ha amplificato. Potrebbe essere una questione di numeri, date e dati: sono passati oltre seicento giorni da quell’incidente, qualcosa che chiunque fatica a cancellare dalla propria mente, tifosi, semplici osservatori, qualcosa che a Eganito ha scosso l’anima, rischiato di menomare il fisico, gli ha lasciato cicatrici indelebili, ha diviso la sua carriera in due - per il momento, diviso, capiremo se è stata definitivamente spezzata quel giorno lì, quando Bernal è finito contro un pullman mentre si allenava e ha rischiato di morire. Ne sono passati quasi un migliaio da quel 30 maggio 2021, quando salì in maglia rosa sul podio finale a Milano.

Giro d'Italia 2021 - Egan Bernal (COL - Ineos Grenadiers) - Foto Dario Belingheri/BettiniPhoto©2021

Prese il simbolo del primato a Campo Felice, con un’accelerazione nel finale che sarebbe potuta essere un’arma da mostrare in quelle sfide che ci siamo immaginati chiudendo gli occhi, contro Roglič o Pogačar, o gente di quel livello. Prese la maglia Rosa e la portò fino all’ultimo giorno. Rischiò, ma si salvò, Martinez fu il suo compagno più fedele, Caruso e Simon Yates i nemici più temibili. Due stagioni prima vinse il Tour de France e ci si chiedeva quella volta se la sua sarebbe stata la prima di una lunga serie di vittorie in terra di Francia. Conoscevamo già le qualità dei suoi avversari e già si pregustava una serie di sfide che avrebbero visto coinvolto anche lo scalatore colombiano.

La sua storia è nota ed è così classica, intrisa di quel realismo magico che solo la Colombia può e affascina senza diventare (troppo) retorico, è una storia di famiglia umile, anzi povera, di una nascita turbolenta, di un’adolescenza passata a lavorare, di un talento in bicicletta che gli permette il salto in Europa. Di un talento in bicicletta che gli permette di passare in poco tempo in una delle squadre più forti al mondo. Di un talento in bicicletta che gli permette di vincere il Tour e il Giro in un paio di anni. Poi quel maledetto gennaio 2022 che un anno dopo diventa una ricorrenza: «Ho ricevuto gli auguri come fosse stato il mio secondo compleanno», raccontava a Tuttobici tempo fa, «ma d’altra parte è una data importante per me: sarei potuto morire oppure restare per sempre su una sedia a rotelle». E quindi non ci stupiamo se quel corridore che in salita andava così forte abbia iniziato a far fatica a tenere le ruote dei migliori in un ciclismo che corre alla velocità della luce; in un ciclismo che è saltato su un piano temporale differente come fosse sceneggiato da Nolan, ma trasmesso sullo schermo senza quell’audio fastidioso tipico dei suoi film: c’è la vita di Bernal in bicicletta che ha iniziato a scorrere lenta, c’è quella del professionismo che viaggia a una velocità interstellare. «Dal 2005 a oggi», racconta per esempio Pozzovivo, «sembrano passati 40 anni».

Bernal è riuscito a risalire in sella in una situazione in cui «i medici mi dicevano che difficilmente avrei potuto di nuovo riprendere in mano la mia vita da corridore». Ha corso un Tour e una Vuelta nelle retrovie, salvandosi, cercando di incrementare un tanto alla volta, giorno per giorno, le sue prestazioni. L’idea, però, su cui si basa la sua storia, è che il peggio sia alle spalle, non solo quello fisico, ma quello emotivo. Un’idea maturata pensando agli insegnamenti dei giorni della convalescenza: «Potrà sembrare strano, ma il 2022 è forse stato uno dei migliori anni della mia vita».

Tour de France Saitama Criterium 2023 Fan Event - Egan Bernal (COL - INEOS Grenadiers) - Foto Kei Tsuji/SprintCyclingAgency©2023

Non importa se il sogno di una tripla corona: («Dopo il Tour e il Giro vorrei vincere la Vuelta») si sia infranto, e chi scrive pensa che mai più potrà realizzarsi. «Penso che vincere una tripla corona sia più importante che vincere di nuovo il Tour» - diceva poco dopo la vittoria al Giro. E oggi, dopo aver provato sulla sua pelle, nel vero senso della parola, un momento di crisi quasi definitiva, senza margini, Egan Bernal la pensa diversamente. L’incidente ha messo in prospettiva le cose: «Ha annullato tut­to, mi ha costretto ad aver pazienza, mi ha insegnato che la famiglia è ciò che conta di più in assoluto. Siamo tutti umani, ci può succedere qualunque co­sa», raccontava, sempre in esclusiva a Tuttobici. «Ormai non mi chiederò più se riuscirò a vincere ancora un altro Tour de France» la chiave di tutto, ma, come vedremo in seguito, con un asterisco.

Poche settimane fa, Bernal ha partecipato a un criterium in Giappone, ha raccontato di quanto fosse stanco dalla stagione, ha ricordato i giorni dell’incidente, spiegando di sentirsi un miracolato: «Sono felice di essere vivo: il modo in cui sono sopravvissuto non è normale. Nel ciclismo pensiamo sempre a essere i numeri uno e a vincere il Tour de France, ma è chiacchiericcio. Quando ti rendi conto che sei, come dire, una persona normale e puoi morire, e ti trovi a letto incapace di muoverti, e tutte queste cose... beh, sì, sono stato fortunato». Ha ricordato quei brutti momenti, come riportato da Sophie Smith su Cyclignews. Il risveglio: «Non pensavo più a essere un ciclista, ma a muovermi, a essere una persona normale», ribaltando il punto di vista: «Credo sia uno dei motivi per cui dopo quell’incidente non ho mai avuto brutti momenti: so quanto sono stato fortunato a sopravvivere».

Dopo 47 giorni da quel grave incidente, Egan ha ripreso - lentamente - ad andare in bici, ha bruciato le tappe schierandosi al via tra agosto e settembre del 2022. Poi la stagione 2023 non è ripresa su passi decisi, bloccato da piccoli malanni fisici, un ginocchio che lo tormenta, i problemi alla schiena che ne hanno sempre limitato le prestazioni. Corre il Tour - dove si vede poco e nulla, perché «andavano tutti a tutta dal primo giorno, me compreso, e dopo una settimana non avevo più un briciolo di energia. Non me la sono goduta». Aggiungendo come non sia certo la miglior gara dove andare a soffrire per ottenere qualcosa. Chiude 36° senza farsi vedere praticamente mai, mentre alla vuelta, schierato qualche settimana dopo, fa 55° ma le cose vanno diversamente: «Ho anche attaccato, non mi sentivo così lontano dai primi».

Col microfono in mano davanti alla platea, Egan Bernal, scruta e ritroviamo il suo sguardo che lo caratterizza, gentile, ma fermo. Non si ferma a dare un'occhiata, ma ci sono anche le parole: dice che fino a quando il suo pensiero sarà quello di sentirsi pronto a tornare al suo livello, continuerà a correre, altrimenti penserà al ritiro. Sono pensieri fatti con la leggerezza che ne contraddistingue(va) la pedalata in salita. Quel pensiero resta, ma non è così fondamentale: vincere la Vuelta e chiudere il cerchio. Perché, nonostante tutto, nonostante abbia smesso di chiedersi se mai vincerà un Tour, «prima voglio dimostrare di poter tornare a essere uno dei migliori al mondo». Altrimenti non importa, lo pensa, lo fa capire con uno sguardo, lo dice: conta esserci ancora dopo quello che è successo.

Foto in evidenza: ASO/Pauline Ballet


Il questionario cicloproustiano di Giovanni Bortoluzzi

Il tratto principale del tuo carattere?
Tranquillo.

Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
Sincerità.

Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
Fedeltà.

Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
La comprensione che hanno del mio mondo/lavoro.

Il tuo peggior difetto?
Se mi impunto su di una cosa, trascuro le altre.

Il tuo hobby o passatempo preferito?
In questo momento credo i film.

Cosa sogni per la tua felicità?
Una famiglia e una casa mia (dopo un bel po' di vittorie però).

Cosa vorresti essere?
Saetta McQueen.

In che paese/nazione vorresti vivere?
America.

Il tuo colore preferito?
Azzurro.

Il tuo animale preferito?
Non so se è il mio animale preferito in assoluto ma l’aquila mi da quel senso di libertà da quando sono piccolo.

Il tuo scrittore preferito?
Non leggo abbastanza per dirlo.

Il tuo film preferito?
Genio ribelle.

Il tuo musicista o gruppo preferito?
Attualmente Naska.

Il tuo corridore preferito?
Mathieu van der Poel.

Un eroe nella tua vita reale?
L’inventore della Nutella.

Una tua eroina nella vita reale?
Ho sempre stimato la Regina Elisabetta.

Il tuo nome preferito?
Ovviamente il mio.

Cosa detesti?
Salire in macchina d’inverno, ché fa freddissimo.

L’impresa storica che ammiri di più?
Il cavallo di Troia.

L’impresa ciclistica che ricordi di più?
Froome al Giro 2018… Anche se l’Amstel di Mathieu nel 2019 è stata qualcosa di assurdo.

Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
Coppa Città di San Daniele.

Un dono che vorresti avere?
Fermezza.

Come ti senti attualmente?
Pronto per andare in vacanza.

Lascia scritto il tuo motto della vita.
“Bruciare le navi” loc. v. precludersi ogni possibilità di ripensamento rispetto a una decisione presa. Credo che per il significato che ha e per la storia che c’è dietro, sia un bel motto da tenere a mente.