Top&Flop - alvento weekly #6
TOP
DEGENKOLB
Anni tribolati alle spalle, si spera. Da qualche settimana la sua sagoma è sempre davanti nelle corse del Nord. Alla Roubaix sta benissimo, sogna il podio che può arrivare vista la condizione espressa, ma poi un incidente (di corsa!) lo taglia fuori dalle primissime posizioni. Chiuderà comunque 7°.
TARLING E MIKHELS
Due dei tre più giovani al via. Il britannico della Ineos ha tirato, è caduto, è rientrato, ha chiuso la Roubaix fuori tempo massimo: la corsa l’ha voluta portare a termine ugualmente. L'estone della IWG, invece, anticipa, e si ritrova dentro Arenberg con i migliori, fino a quando un guaio meccanico lo costringe a fermarsi. Lui la corsa la chiude abbondantemente dentro quel tempo massimo a una ventina di minuti da van der Poel. Classe 2004 e 2003 rispettivamente: torneranno da quelle parti per essere protagonisti assoluti.
VAN AERT
Si è dovuto inchinare alla maledetta legge del destino. La foratura uscendo dal Carrefour de l’Arbre ci toglie quella che sarebbe stata la ciliegina sulla torta di questa indimenticabile primavera: il testa a testa con van der Poel dentro il velodromo.
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FLOP
POLITT
Attesissimo perché è da inizio stagione che va forte e invece resta sempre dietro a inseguire tra cadute (perlopiù degli altri) e problemi meccanici e non entra mai nel vivo della corsa. E un'altra primavera è passata da quel podio alla Roubaix...
MOHORIČ
Quando resta imbottigliato ad Arenberg ormai i migliori sono scappati via. Non dà mai l’impressione di essere sul pezzo, ma tornerà la prossima stagione per essere nuovamente tra i protagonisti.
STUYVEN
Un discorso simile riguarda Stuyven: percorre Arenberg con una foratura, ma probabilmente era troppo tardi per agganciare i migliori, anche se non avremo mai la controprova. Una serie di sfortunatissimi eventi rende amara la campagna del Nord per il forte belga che rivedremo tra qualche settimana protagonista al Giro.
Diavolo di un Mathieu
Nella vita, o meglio nel lavoro, sosteneva un personaggio importante della cultura popolare italiana, tale “Profeta di Fusignano”, servono tre fondamentali parametri che non solo aiutano ad andare avanti, ma permettono di avere successo o comunque realizzarsi in quelli che sono i propri obiettivi: “Pazienza, colpo d’occhio e… fortuna”. Edulcoriamo l’ultimo termine così, perché ci va, ma in realtà per capire di cosa stiamo parlando e per scoprire a quale organo appartenente al corpo umano si riferisse Arrigo Sacchi all’epoca, non serve nemmeno scomodare una veloce ricerca su Google.
Mathieu van der Poel la pazienza la mette da parte scavalcandola a suon di watt espressi in bicicletta; il colpo d'occhio è un arma che ha affinato nel ciclocross, insieme a quella sua abilità innata e poi allenata, pedalando con una tecnica unica, utile a dare potenza sul dritto o percorrere con leggerezza le curve; la fortuna, infine si sa, aiuta sempre gli audaci e il corridore olandese è sempre stato amante del rischio per natura.
Ora non vogliamo di certo semplificare, o non rendere onore al merito, a tal punto da intendere che la sua vittoria alla Roubaix sia arrivata grazie al (una buona dose di) culo (ecco la parola, ci è sfuggita, la lasciamo), per carità, ma quel diavolo di un Mathieu, nel pomeriggio del 9 aprile 2023, ne ha avuta e come sempre succede in questi casi, se l’è pure meritata.
La fortuna (o il suo contrario) e i pensieri intorno al suo condizionamento nella vita di tutti i giorni da sempre attrae i pensieri degli uomini. Si cercano significati nascosti e motivazioni: “per quale motivo uno è più fortunato di un altro?”. Può esprimere concetti riguardanti la superstizione e condizionare in maniera irrazionale (a chi non è mai capitato guardando una partita di pallone, magari dei calci di rigore, di non cambiare mai la propria posizione sul divano?), ma può essere anche semplicemente un momento racchiuso in qualcosa che potremmo definire stato di grazia, come quello che, dalla Milano-Sanremo, pare vivere Mathieu van der Poel.
Dicevamo: perché qualcuno è più fortunato di un altro? Chi lo sa, ma viene da chiedersi: perché in quel momento preciso in cui van der Poel si tocca con Degenkolb e il tedesco va a terra, van der Poel, omone, “califfo delle pietre” come lo ha definito il giornalista svizzero Stefano Ferrando, resta in piedi, e quando attacca van Aert subito dopo, lui lo segue, lo raggiunge e poche centinaia di metri dopo è proprio van Aert a forare e a dover abbandonare ogni idea di giocarsi la vittoria dentro al velodromo? (che finale sarebbe stato?). Forse la capacità di stare in piedi in quel frangente (lo scontro con Degenkolb) è figlia delle sue abilità, ma quella di vedere forare il suo avversario numero uno...
Abbiamo chiesto a Dainese un’impressione sulla sua Roubaix e nella nostra chiacchierata un punto è tornato fuori sovente «Ci vuole fortuna, ma quella fortuna bisogna andare a cercarsela, bisogna stare sempre davanti e già essere in decima posizione dentro Arenberg com’è successo a me, può non bastare».
Assurdo pensare a quali forze agiscano in quei frangenti. Alla rabbia che si prova per quello che è appena successo al belga, all’esaltazione nel vedere come l’olandese invece superi indenne ogni tipo di difficoltà. Quel diavolo di un Mathieu pochi minuti dopo azzarda una manovra che potremmo definire solo e soltanto vanderpoeliana: in una curva, su un più semplice settore di pavé, già testata in ricognizione (ma probabilmente senza lo spartitraffico di plastica in mezzo) arriva a tutta velocità e senza frenare dribbla un blocco giallo che sembra un enorme lego, lo dribbla come fosse un Roby Baggio degli anni ‘90. D'altra parte numero dieci chiama numero 10.
Un sospiro di sollievo per noi, naturalezza per lui: sappiamo che Mathieu, cascasse il mondo, quelle curve le affronta senza frenare - importante sarebbe una dichiarazione di non responsabilità in sovraimpressione: non provateci quando siete in bicicletta, nessuno di voi è bravo e fortunato come Mathieu in quel frangente.
A fine corsa gli hanno chiesto se nel finale avesse preso qualche rischio di troppo, ma lui, laconico: «Di nessun genere, ho sempre avuto il controllo della gara. Quando il destino è nelle mie mani non sono mai nervoso, non ho mai paura. Quando sono da solo posso permettermi di fare le cose che mi riescono meglio».
Diavolo di un Mathieu, al 9 aprile 2023 il tuo palmarès recita: 2 Fiandre, 1 Sanremo, 1 Roubaix, 1 Strade Bianche, 1 Amstel, 1 Brabante, 2 Dwars, tappe al Giro e al Tour per un totale di 42 successi su strada da professionista e non vogliamo scomodare l’extra.
Insomma, dai, fortuna e bravura, ti stai realizzando e, cosa che non guasta, ci stai facendo divertire parecchio.
Foto in copertina: ASO/Pauline Ballet
Alison Jackson: mai due volte la stessa strada
Quest'inverno, mentre la EF Education-TIBCO-SVB era in ritiro in Spagna per preparare la stagione, c'era un rituale che si ripeteva ogni giorno, prima degli allenamenti. Alison Jackson, la vincitrice della Paris-Roubaix Femmes, lo scorso 8 aprile, utilizzando un'applicazione, disegnava i percorsi da fare e, ogni giorno, il tragitto era diverso, con pari difficoltà altimetriche, ma diverso. All'inizio, nessuno ci faceva molto caso, se non fosse che, dopo molti giorni, con un sacco di strade già attraversate, una mattina, la traccia evidenziata da Jackson porta tutta la squadra in una strada sterrata, lontana dalla città, abbastanza dispersa, insomma, in una di quelle strade in cui si può finire per sbaglio, magari dopo essersi persi. Difficilmente, però, ci si va apposta, per allenarsi.
«Alison ma che ci facciamo qui? Torniamo sul percorso di ieri, era bello, non credi?» chiedono tutte.
«Sì, ma non si fa mai due volte la stessa strada, soprattutto in allenamento, dove si può cambiare. La mia applicazione serve a questo».
Non riusciamo a descrivervi a parole il volto sorpreso delle sue compagne, possiamo, tuttavia, riportarvi il primo pensiero che quel giorno ha fatto Letizia Borghesi, è lei stessa a dircelo: «E tu, per non rifare due volte la stessa strada, vai in questi tratti sterrati e malmessi? Sei tutta folle, ragazza mia». Il tutto seguito da una risata fragorosa che condividiamo con Letizia.
Sì, un tipo decisamente particolare Alison Jackson, ma di questo dovreste già esservi resi conto seguendo la Parigi-Roubaix: un attacco da lontano, di quelli che sembrano destinati al nulla, sempre davanti a tirare, a rischio di sfinirsi e poi perdere, la volata vincente nel velodromo e anche un balletto. Così, tanto per gradire. Quei balli, quelli che posta sui social, li impara dal web: quando l'allenamento finisce, distesa sul letto, in camera, vede moltissimi video di danza e prova a capire i passi, poi li imita. Ballare da sola, però, non la soddisfa molto, allora si è fatta una promessa: «Insegno a tutte le mie compagne a ballare, le filmo e, alla fine dell'anno, vediamo i progressi. Impareranno tutte». Ed anche qui, Borghesi se la ride: «Considerando il mio punto di partenza, un miglioramento lo vedrà di sicuro, ma non credo basti a soddisfarla».
Alison Jackson è nata a Vermilion, in Canada, il 14 dicembre del 1988. È cresciuta in maniera semplice, con le cose genuine che si vivono nelle zone rurali: andava nei campi, raccoglieva i sassi e li trasportava fino ad un camion che li avrebbe portati via. Ha confidenza con i minerali, con rocce e pietre, per questo, tempo fa, in una sgambata, ha detto a Borghesi: «Ma, sai, l'unica pietra che davvero vorrei avere a casa mia non è in Canada. È una di quelle pietre della Parigi-Roubaix». Ci è riuscita e ci è riuscita a modo suo.
Sì, perché alla riunione del mattino, non era minimamente programmato il suo attacco. Anzi, lei, Zoe Backstedt e Letizia Borghesi avrebbero dovuto stare tranquille e aspettare le fasi finali di gara, ad attaccare avrebbero pensato altre. Tranquille? Come no. Alison Jackson è subito andata in fuga. «È esuberante, istintuale. Avevamo capito tutte- continua Borghesi -che ci teneva particolarmente, non immaginavamo questa azione. Ha sentito che era giusto farlo e lo ha fatto. Cosa vuoi dirle?». Chissà che, prima di scattare, non abbia guardato il manubrio, dove, su pezzetti di nastro adesivo azzurro, aveva scritto a pennarello: "Don't think, just do". Per ricordarsi di non pensare, di agire solamente. Tra l'altro, ci hanno detto che è la prima volta che le hanno visto queste scritte sul manubrio. La conclusione potrebbe anche essere abbastanza facile: Alison Jackson sapeva che, pensandoci anche solo un attimo, una giornata così non l'avrebbe vissuta, perché pensandoci non avrebbe fatto quasi nulla di ciò che ha fatto. Così l'ha scritto, a promemoria, nel caso le venisse qualche dubbio.
A Letizia Borghesi si rompe la radiolina e, ad un certo punto, perde il contatto con la gara. Giusto poco dopo aver detto alle sue compagne che, con il vantaggio che il gruppo aveva lasciato, forse c'erano buone possibilità di far bene. Sì, appunto: "far bene". Vincere è un'altra cosa. Che Jackson ha vinto, lo viene a sapere dalla sua massaggiatrice, all'entrata nel velodromo, anche abbastanza delusa perché un problema tecnico negli ultimi chilometri, le ha impedito di giocarsi il finale con il gruppo. Il pensiero è lo stesso di quel giorno in Spagna, su una strada sterrata chissà dove: «Ma tu sei folle, ragazza mia».
Alison Jackson ha passato tante squadre, anche un anno in Italia, nel 2017, con la Bepink Cogeas, l'anno in cui ha scoperto che l'Italia le piace e ha imparato diverse parole italiane, poi Sunweb, Liv Racing, fino a quest'anno in Ef Education. Nel tempo, ha elaborato una sorta di filosofia personale per certe situazioni, tanto che in squadra ce lo dicono: «Serviva coraggio per lavorare come ha lavorato, mentre le altre si risparmiavano per l'eventuale volata. Vero. Però a lei interessava portare la fuga al traguardo, una sorta di sfida con il gruppo, anche a costo di perdere. Nella sua esuberanza c'è anche questo: "Noi siamo poche e stanche, ma vi faccio vedere che arriviamo noi". Mettiamola più o meno così". Queste cose le vive e le spiega, consiglia. A Letizia Borghesi, ad esempio, ha insegnato a studiare bene i percorsi prima delle gare, nel minimo dettaglio, perché "la gara si inizia a fare da lì». Dopo la Roubaix, il suo sogno da sempre, chissà quale sarà il suo prossimo traguardo. Di certo il suo modo di correre e lo spunto veloce la aiuteranno.
Vederla abbracciata a quel sasso, dopo un inizio di stagione che non è andato proprio come aveva immaginato, riporta indietro, all'infanzia, ad immaginarcela bambina curiosa, nella natura. E, sorridendo, porta avanti, ai prossimi balli, in cui, a quanto pare, vorrà coinvolgere anche quella grossa pietra. Chissà cosa ne verrà fuori.
Foto: Sprint Cycling Agency
Giro di Sicilia: una partenza, una poesia
Articolo di Fabio Gariffo, foto di Aristide Tassone
Sono la Piazza. Quella della partenza.
Deserta o gremita, centrale o alberata, occupata o attraversata. Il più delle volte inosservata.
Oggi sono io che osservo.
E non preferisco. Stamani accolgo.
Alle prime luci dell’alba il vociare rauco, il baccano di lavori e transenne. Che limitano, regolano.
A pochi, pochissimi, chilometri stanziano i fenicotteri della riserva naturale dello Stagnone, qui a Marsala. Con le loro esili gambe in acque che sanno di sale e di fenici, ieri hanno visto passare i grandi bus dei ciclisti, abitati da direttori e capitani, sogni e speranze, strategie e rassicurazioni.
Dove vadano a dormire i fenicotteri resta un mistero, in questa terra di misteri.
Ciò che sappiamo è che da qui parte il Giro di Sicilia: altro giro, altra corsa.
Benvenuti Signore e Signori!
Ogni partenza iberna le previsioni. Sospende il frizzante gusto dell’attesa, dal fascino inimitabile. Che ci fa innamorare, fuori e dentro il ciclismo, sport di delicato equilibrio; metafora di vita.
Sono la Piazza, col suo palco di ferro e legno.
A breve spumeggierà di musica e giovani ragazze sorridenti.
Ecco, arrivano i miei invitati e i loro sguardi. Quelli dei bambini e dei loro genitori. Assai diversi per trepidazione e innocenza.
Ecco i turisti, che non sapevano, in scia della festività pasquale appena trascorsa, celebrata dai più fortunati a Roubaix. Li riconosco subito dal naso all’insù e le gambe nude in ogni stagione.
Ecco gli amatori, che amano il ciclismo. Ognuno a modo suo.
È bello vederli la domenica mattina partire da qui con i loro buoni propositi per una “sgambata” sino alla vetta del monte Erice, faro in questo mare azzurro pianeggiante e di accecante luce.
Passano di fronte casa tua? - Usciamo domani? Si interrogano con la tipica cadenza liturgica di una lingua usualmente non declinata al futuro.
I pensieri degli uomini sono privati. Le emozioni no.
Emozioni, eccole, finalmente, ravvivarsi nei volti di tutti: sono arrivate le squadre!
Mi presento loro e le avvolgo. Il monumento che custodisce il ricordo dei mille garibaldini sembra compiacersi quest’oggi di un altro tipo di sbarco.
Un altoparlante - nome azzeccatissimo - scandisce i loro nomi. Con entusiasmo professionale.
Regalo loro carezzevoli raggi di sole fra aguzzi raggi di ruote al carbonio.
Giovani, esigenti, imberbi. E magri. Troppo magri secondo le nonne siciliane il cui affetto per i nipoti si misura in pranzi e i pranzi in doppie porzioni.
Perché da queste parti le arancine di riso non sostituiscono il pranzo e vanno pronunciate rigorosamente al femminile.
I corridori, adagiano con attenzione le loro bici nuove, perfette, ammalianti.
Firmano. Sigillando così la presenza e l’appartenenza. Io c’ero. Ho provato. Ce l’ho fatta.
Molti appassionati avrebbero voluto che dal pullman bianco del team UAE fosse sceso il piccolo principe alieno di nome Pogačar, ma poco importa. Abbiamo altri eroi in queste quattro tappe perché nessuna corsa, in fondo, è minore per chi l’affronta.
Atleti umili e nobili, semplicemente umani. Visti da vicino sembrano somigliare a tutti coloro che pedalano per diletto.
Sembrano. Da fermi.
Forse anche quest’anno, qualcuno di loro troverà un momento di raccoglimento.
Lo sguardo basso, le mani giunte, un veloce segno della croce. Come fece l’anno scorso Damiano Caruso, appena in sella, ben prima del chilometro zero di quel Giro di Sicilia che vinse.
Lui, il gregario, che si sacrifica; che rende sacro cioè. Lui, progenie della Trinacria, che vorrebbe bissare il successo.
Parlano del più e del meno, i corridori. Pronti a misurarsi tra loro e a misurare i loro watt.
In tandem con l’ombra di un imprevisto o un’incertezza, perché chi va in bici sa che tutto ciò che sembra scontato, il più delle volte non lo è.
Mentre i tanti curiosi coi loro piccoli e costosi telefoni sono pronti a scattare per condividere o mostrare un momento registrato, ma non vissuto nella consapevolezza del tempo presente e dei suoi doni incancellabili.
I corridori scatteranno anche loro.
Nell’immancabile fuga di giornata, per mostrare sponsor e potenzialità. Per dovere, per esistere e resistere.
Pronti ad arare le venature asfaltate di questa terra, prostituta d’Europa, concessa ad arabi e normanni, angioini e aragonesi. Terra contraddittoria, esagerata.
Con quali occhi la guardi, Lei ti appare.
Oggi, nella bellissima ma ventosa Marsala - come scriveva Cicerone - è festa.
Una festa pagana. Inebriante come l’omonimo vino di questa terra, un vino da meditazione.
Le riprese tv inquadreranno dall’alto, per qualche istante, le palme, i mulini a vento e il blu che circonda le Egadi. Forse ometteranno nella cartolina il rosso dei tramonti e il grigio dei pregiudizi e dei cliché.
Il soffio della Valle dei Templi di Agrigento asciugherà il sudore dei più audaci dopo circa 160 km.
Tutto, domani, tornerà alla normalità in questo straordinario quotidiano.
Io sono la piazza. Di vuoto piena.
Qui non vi è l’arrivo.
Qui vincono tutti.
Palio del Recioto: grandi e forti come il vino
Sotto il nome “Palio del Recioto” sono racchiuse tantissime cose. Oltre che una sagra del vino è un’enorme degustazione all’aperto e una serie di incontri sull’archeologia in Valpolicella. È un concorso enologico, un modo di avvicinarsi al vino per migliaia di persone e addirittura un torneo di bocce: la prima edizione si è svolta presso il Bar Ferrari di San Peretto, 32 partecipanti. Una tre giorni di festa che ha la sua «tradizionale chiusura», come afferma la Pro Loco di Negrar di Valpolicella, nel – questa è la nomenclatura ufficiale – Trofeo C&F Resinatura Blocchi. È una delle più dure gare internazionali per U23: per tutti, però, è “Palio del Recioto” anche questa.
Vinto nel passato da campioni quali Fabian Cancellara e un Caleb Ewan molto diverso dallo sprinter attuale (Pogačar arrivò secondo nel 2018), il Recioto attrae ogni anno il meglio della gioventù ciclistica mondiale. Anche grazie alla concomitanza con il Giro del Belvedere (che tipicamente si corre il giorno prima, in provincia di Treviso), la corsa tra i muri della Valpolicella anche quest’anno ha tra le partenti tante squadre-sviluppo di formazioni World Tour, come la Jumbo-Visma Development, l’Astana U23, l’AG2R U23 o la Groupama-FDJ Continental. Assieme a queste, vengono da tutta Italia (da tutto il mondo, in realtà) le migliori formazioni: la Bardiani, la Hagens Berman, la Colpack, la Trinity, la Zalf, la Biesse-Carrera, il Cycling Team Friuli.
Una squadra in particolare sta andando forte quanto al piano di sopra: la Jumbo-Visma sembra produca corridori-fotocopia. Sono tutti alti circa 185 cm, pesano una settantina di chili, tanti vengono dal nord Europa e sono tendenzialmente biondi. Altri segni particolari? Vanno fortissimo. Norvegese di Lillehammer, Johannes Staune-Mittet risponde bene a questo identikit: ha appena vinto il Giro del Belvedere e oggi è qui, alla partenza del Palio del Recioto, per provare a succedere al vincitore dell’anno scorso, Romain Grégoire.
Alla partenza del Recioto Staune-Mittet è evidentemente felice. Sta benone, confessa, nonostante una «notte molto calda in albergo». Gli chiedo con una battuta se abbia festeggiato abbondantemente la vittoria del giorno prima: rivela di no, semplicemente non funzionava l’aria condizionata in camera. Ha capito che «puoi sempre denudarti e dormire sopra le coperte. Insomma, sono pronto per la gara».
Mentre finisce la frase, aumenta il trambusto in zona partenza. Un paio di corridori della Hagens Berman saltano le transenne in tutta fretta per montare sulle bici: la corsa è partita! Le ruote iniziano a girare ma Johannes non ha nessuna fretta. Ha ancora il piede a terra quando mi dice che non vede «l’ora di correre oggi, sarà divertente». Infine, anche lui, parte.
Non è l’unico corridore con cui ho parlato in partenza. Con Cesare Chesini della Zalf si scherza, urlando come Carlo Vanzini, che ci sono PROBLEMI PROBLEMI PROBLEMI sulla bici di Davide De Pretto: il disco del freno tocca e serve la mano del meccanico per aggiustarlo. Sul palco del Belvedere Staune-Mittet ha detto a De Pretto che sarà «un combattimento anche oggi», ma lo scalatore di Piovene Rocchette è prontissimo e ha un compagno di squadra di nome Guerra Andrea: in un conflitto dovrebbe essere ben coperto.
Con un amico della zona, la mattina ho provato il percorso della gara. Per un amatore normale è completamente folle: si inizia con sei giri “normali”, con le salite della Masua e Jago. Sono unite da un chilometro di discesa tecnica e velocissima, al termine della quale si svolta secco a sinistra per attaccare il primo muro verso Jago. La seconda salita è detta anche “via dei Ciliegi” sebbene ormai ne siano rimasti giusto un paio: si vedono soprattutto vigne, vitigni dappertutto, e lingue di cemento su cui arrampicarsi in sella a una bicicletta.
Finiti i sei giri, un settimo passaggio a Jago è da approcciare da un’altra strada, infida. Sale, stretta e verticale, direttamente dal centro di Negrar. Una volta in cima, falsopiano e sorpresa: il muro cementato di via Tezol, con pendenze oltre al 20%. Questo è il punto decisivo della corsa: ennesimo falsopiano dopo il muro, discesa tecnica, salita finale (circa 7,5 km al 6,5% medio) verso Fiamene. Il finale, undici chilometri tra le località Fane, Prun e Torbe, è in discesa, ma il percorso è talmente selettivo (quasi 3000 metri di dislivello positivo) che il gruppo si sgretola ben presto.
«No se pol mia ber mentra cheialtri fan fadiga» scherza un anziano signore veneto dopo avermi visto con un bicchiere di rosso in mano. Siamo – come, a quanto pare, tutto il mondo ciclistico veneto – sullo strappo di Jago, che è perfetto: in cinque minuti a piedi sei al traguardo, i corridori vanno per forza di gravità piano e la cantina Recchia ha imbandito tavoli, bottiglie e risotti da far mangiare mezza Verona. Quassù c’è l’amatore Pietro, che stamattina ha incontrato durante l’allenamento Davide Formolo, residente a Monaco ma originario di San Rocco. Quassù ci sono compagni di liceo di Davide De Cassan, interessantissimo scalatore del Cycling Team Friuli, originario di Cavaion Veronese. Quassù ci sono scritte sull’asfalto per corridori locali, c’è Riccardo Meggiorini, c’è un tendone imbastito dalla famiglia Zamperini (altro bel corridorino della Zalf) che regala a tutti panini e vino, c’è Luca Giavara del Pedale Scaligero che dopo due giri ha già abbandonato la corsa e si sta godendo la festa. Ha affidato la bici a un signore con la felpa della Bocciofila Azzago ed è parte della baraonda.
La corsa, intanto, succede. Già ridotto all’osso dal circuito della Masua e Jago, il gruppo si sgretola ulteriormente su via Tezol. Coi migliori rimangono in pochi: tre Bardiani, due Jumbo-Visma, il campione del mondo junior in carica col nome da scrittore tedesco, Emil Herzog, De Pretto e pochissimi altri. Tanti provano a partire, ma chi si avvantaggia davvero è una coppia particolare. Né Giulio Pellizzari della Bardiani, né Tijmen Graat della Jumbo erano i favoriti, perché hanno compagni di squadra più quotati, ma sono ottimi corridori. «Sulla salita [di Fiamene] ho provato ad attaccarlo» rivela Pellizzari dopo la corsa, «anche se subito avevo paura perché da quello che dicono questo plana, vola. Lo guardavo, perdeva due/tre metri e rientrava. Ma non volevo tornare a casa col dubbio di non averlo attaccato».
Graat ha provato a staccare Pellizzari in discesa, senza risultato. I due collaborano e arrivano in centro a Negrar da soli. Entrambi in conferenza stampa raccontano di essersi parlati e di essersi confessati quanto siano poco veloci allo sprint. Pellizzari parte ai -200 per lanciarsi, Graat lo supera e gli dà almeno una bici di distacco. È la seconda vittoria della Jumbo-Visma in due giorni. Graat si è detto sorpreso dei suoi stessi miglioramenti: è un corridore molto diverso rispetto a quello di un anno fa, pur rimanendo uno scalatore.
È un po’ ciò che accade, mi spiega Fausto, amico ciclo-enologo, con l’uva di queste zone: dà vita sia al Recioto, che è un passito e quindi va bene con dolci al cioccolato, crostate di frutta e simili, sia – prolungando la fermentazione – all’Amarone, che è un vino diverso, ben più strutturato, adatto a carni rosse e grigliata. Tijmen Graat, Giulio Pellizzari e gli altri stanno diventando grandi e forti come il vino.
Il questionario cicloproustiano di Kasia Niewiadoma
Il tratto principale del tuo carattere?
Testa calda
Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
Senso dell'umorismo
Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
Persistenza
Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
La loro onestà
Il tuo peggior difetto?
Ripensare alle esperienze passate
Il tuo hobby preferito?
Cucinare al forno
Cosa sogni per la tua felicità?
Essere vincente
Quale sarebbe, per te, la più grande disgrazia?
Un osso rotto
Cosa vorresti essere?
Un modello per altri coriddori
In che paese vorresti vivere?
Da qualche parte in cui ci sia il sole
Il tuo colore preferito?
Rosso barbabietola
Il tuo animale preferito?
Cane
Il tuo scrittore preferito?
In questo momento Murakami
Il tuo film preferito?
Girls Trip
Il tuo musicista o gruppo preferito?
Attualmente è Fred Again
Il tuo ciclista preferito?
Al momento Tadej Pogačar
Un eroe nella tua vita reale? Una tua eroina nella vita reale?
Tutte le mamme
Il tuo nome preferito?
Nome per un cane Coco (cocco), per una persona Basilicum, Lilianna
Cosa odi?
Non mi piace usare questa quella parola
Un personaggio della storia che odi più di tutti?
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Quale impresa storica ammiri di più?
La caduta del muro di Berlino
Quale impresa ciclistica ricordi di più?
TDFF con Zwift 2022
Da quale gara non vorresti mai ritirarti?
Strade Bianche
Un dono che vorresti avere?
Vorrei poter parlare le dieci lingue più usate
Come ti senti attualmente?
Completamente a mio agio
Scrivi il tuo motto di vita
Continua a diffondere amore e luce, sorridi e non giudicare mai
Top&Flop - alvento weekly #5
TOP
Matteo Trentin
Uno dei misteri del ciclismo di questi ultimi due lustri e l’assenza nelle top ten di Fiandre e Roubaix di uno dei migliori interpreti in assoluto di questo tipo di gare. Nel giorno di Pogačar, Trentin si fa trovare pronto, per il suo compagno di squadra, perfetti tatticamente gli UAE con il miglior finalizzatore possibile, e per se stesso: per la prima volta entra nei 10 al Fiandre e fra pochi giorni c’è da sfatare il tabù anche alla Roubaix.
Kasper Asgreen (e la QS)
Quante gliene abbiamo dette in queste settimane, parlando di loro in negativo, ma al Fiandre si sono rivisti davanti e anche con un certo numero di corridori. La Quick Step non sarà (non lo è) nella sua migliore versione possibile, ma aiutano a rendere spettacolare la corsa e ottengono un importante piazzamento con Asgreen, settimo, al termine di una gara d’attacco.
SD Worx
Corrono un Fiandre praticamente perfetto. Lotte Kopecky vince, dietro Reusser e Vollering (seconda) rompono i cambi e favoriscono la fuga. C’è di più: Strade Bianche, Gent- Wevelgem, Dwars e Giro delle Fiandre. Cos’altro?
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FLOP
Tom Pidcock
Due Fiandre su due senza essere tra i protagonisti della corsa. Inquietante soprattutto il crollo nel finale - a meno che non sia successo qualcosa. È vero, arriva da una brutta caduta alla Tirreno che lo ha costretto a fermarsi per qualche giorno, ma da uno così ci si aspetta ben altro su questi palcoscenici. Ora lo aspettiamo sulle Ardenne.
Wout van Aert
Sempre nell’occhio della critica quando non vince, figuriamoci dopo un Fiandre in cui si fa staccare dai suoi due rivali e poi alla fine perde la volata per il podio da un Pedersen all’attacco da diverse ore. Alla Roubaix - la corsa per cui è tagliato maggiormente tra le due - per prendersi una rivincita, anche nei confronti delle (nostre) critiche.
Auto e moto al seguito
Tra scie date e non date a seconda del momento a condizionare la corsa, sorpassi azzardati e quella mossa che per poco non trasformava il Fiandre in una tragedia - un'auto si ferma a pochi centimetri da van Aert finito a terra - siamo abbastanza stufi di vedere certe scene in gara.
10 nomi da seguire alla Paris-Roubaix
L'Inferno del Nord chiude la Settimana Santa del ciclismo. Quello delle pietre, dove anche se ci stai sopra a lungo non ti abitui mai e quando ne esci hai male ovunque e per diversi giorni. Al Fiandre c'è stato spettacolo in corsa grazie all'atteggiamento dei corridori, ma anche a causa di una serie incredibile di cadute che hanno falcidiato una parte del gruppo, alla Roubaix, conoscendo il percorso, potrebbe avvenire qualcosa di simile sia in un senso che nell'altro - nel senso di cadute e feriti speriamo vivamente di no.
Il titolo lo mette in palio Dylan van Baarle, splendido, per eleganza e potenza, vincitore nel 2022, che arriva da una primavera ciclistica dolce e amara: dolce come la vittoria alla Omloop het Niewusblad, amara come la serie di ritiri, problemi e cadute che hanno contraddistinto una buona parte della sua Campagna del Nord.
Il titolo va conquistato lungo i 260km che da Compiègne portano al velodromo di Roubaix, attraversando la bellezza (in tutti i sensi) di trenta settori di pavé. Quello francese, quello delle campagne nel nord-est al confine tra Belgio e Francia. Non c'è corsa più lontana dalla definizione di passeggiata di salute.
Come da tradizione vi daremo 10 nomi da seguire, come per la Milano-Sanremo e il Fiandre di quest’anno la corsa sarà valida anche per il Trofeo Monumento di Fantacycling e tra parentesi accanto al nome di ogni corridore, infatti, trovate la loro quotazione in crediti.
DIECI NOMI DA SEGUIRE ALLA PARIGI-ROUBAIX
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1. Wout van Aert (71 crediti) - Sinceramente non vorremmo passare un'altra stagione senza aver visto van Aert esultare tra Fiandre e Roubaix. Probabilmente nemmeno lui e questa classica sappiamo gli si addice di più rispetto a quella "di casa".
2. Mathieu van der Poel (54)- 1° alla Sanremo, 2° al Fiandre quest’anno. In carriera ha un 3° e un 9° posto in questa corsa su due partecipazioni. Poi è Mathieu van der Poel e quindi non aggiungiamo altro su come potrà finire.
3. Filippo Ganna (26) - Nessuno si nasconde. Né lui, né la squadra, nemmeno noi. Ganna parte tra i favoriti di questa corsa e noi sogniamo, con lui e con la sua squadra.
4. Nils Politt (11) - Ha un modo di correre perfetto per questa corsa. Sta bene e alla Roubaix è già salito sul podio. Occhio al formidabile passistone tedesco - che ha pure spunto veloce nel caso si arrivasse in volata ristretta, opzione da non scartare.
5. Jasper Stuyven (17) - Praticamente non c’è stata gara al nord quest’anno che non lo ha visto coinvolto in una caduta. Alla Roubaix, la “sua” corsa, per lasciarsi dietro le sfortune e raccogliere tutto il possibile in un colpo solo. In Trek divide la leadership come di consueto con Pedersen.
6. Oier Lazkano (5) - Scommettereste contro una sua top ten qualora entrasse in una fuga da lontano? Rispondiamo noi per voi: assolutamente no!
7. Matteo Trentin (15)- Dopo avergli visto correre quel Fiandre, sogniamo insieme a lui un piazzamento importante anche alla Roubaix. In casa UAE occhio pure a Bjerg.
8. Stefan Küng (30) - Dietro i big il corridore più continuo sulle pietre del Nord da un paio di stagioni. Magari non vincerà, ma sarà davanti, c’è da scommettere.
9. Yves Lampaert (14) - Corridore che spesso in questa gara si trasforma, ha un conto aperto dopo lo sfortunato capitombolo del 2022 che probabilmente gli ha tolto la possibilità di salire sul podio.
10- Matej Mohorič (26) - Più del Fiandre questa sembra la sua corsa e lo va ripetendo da quest’inverno: «Il mio obiettivo stagionale? Vincere la Roubaix». Ci fidiamo?
ECCO INFINE TUTTI I SETTORI IN PAVE DELLA PARIS-ROUBAIX 2023
30. Troisvilles à Inchy (160,3 km al traguardo) 2.200 m – ***
29. Viesly à Quiévy (153,8 km) 1.800 m – ***
28. Quiévy à Saint-Python (151,2 km) 3.700 m – *** *
27. Saint-Python (146,5 km) 1.500 m – **
26. Saint-Martin-sur-Écaillon à Vertain (139,4 km) 2.300 m – ***
25. Verchain-Maugré À Quérénaing (129,4 km) 1.600 m – ***
24. Quérénaing à Maing (ancora 126,7 km) 2.500 m – ***
23. Maing à Monchaux-sur-Écaillon (123,6 km) 1.600 m – ***
22. Haspres à Thiant (117 km) 1.700 m – **
21. Haveluy à Wallers (103,5 km) 2.500 m – ****
20. Trouée d'Arenberg (95,3 km) 2.300 m – *****
19. Wallers à Hélesmes (89,2 km) 1.600 m – * **
18. Hornaing à Wandignies (82,5 km) 3.700 m – ****
17. Warlaing à Brillon (75 km) 2.400 m – ***
16. Tilloy à Sars-et-Rosières (71,5 km) 2.400 m – ****
15. Beuvry à Orchies (65,2 km) 1.400 m – ***
14. Orchies (60,1 km) 1.700 m – ***
13. Auchy à Bersée (54 km) 2.700 m – * ***
12. Mons-en-Pévèle (48,6 km) 3.000 m – *****
11. Mérignies à Avelin (42,6 km) 700 m – **
10. Pont-Thibault à Ennevelin (39,2 km) 1.400 m – ***
9. Templeuve (L'Épinette) (33,8 km ) 200 m – *
8. Templeuve (Moulin-de-Vertain) (33,3 km) 500 m – **
7. Cysoing à Bourghelles (26,8 km) 1.300 m – ***
6. Bourghelles à Wannehain (24,3 km) 1.100 m – ***
5 Camphin-en-Pévèle (19,9 km) 1.800 m – ****
4. Carrefour de l'Arbre (17,1 km) 2.100 m – * ****
3. Gruson (14,8 km) 1.100 m – * *
2. Willems à Hem ( 8,2 km) 1.400 m – ***
1. Roubaix (Espace Charles Crupelandt) (1,4 km) 300 m – *
Foto: Sprint Cycling Agency
Eccola qui la tua Roubaix
Articolo e foto di Federico Guido
“Eccola qui la tua Roubaix”. Spesso, quando approccio una delle tante vie in pavé sparse per Milano, mi viene in mente questa frase che mio padre pronunciò, andando a memoria, quando avevo 13 anni. Quella volta, una soleggiata giornata di fine maggio, insieme decidemmo di prendere le bici per andare ad ammirare il colorato gruppo del Giro d’Italia che arrivava a Milano. Con la mia maglia ciclamino indosso e la mia Specialized rosso e argento percorsi al suo fianco gli ampi vialoni che da casa conducono in centro città finché non arrivammo in Corso Magenta, decumano della città noto per ospitare la sede del Cenacolo Vinciano e l’omonimo frequentatissimo bar.
Ai tempi, la via non era ancora stata oggetto dei tanti lavori di manutenzione che l’hanno portata ad avere l’aspetto attuale ma presentava un’omogenea copertura in masselli di pietra, quelli che ancora oggi a tratti si possono notare ai lati delle rotaie del tram. Nella fantasia di un tredicenne appassionato, percorrere quel duro mosaico marrone sulla propria esile bicicletta da corsa poteva davvero assumere i contorni di una volata sulla foresta di Arenberg, scenario che, puntualmente, mio padre con la sua esclamazione riuscì a farmi figurare davanti agli occhi. Le sue parole scatenarono immediatamente il mio spirito d’emulazione e, in breve, iniziai a pigiare forte sui pedali immaginando di essere il Tom Boonen o il Fabian Cancellara della situazione.
Quell’espressione ebbe fin da subito così tanta presa su di me che anche al ritorno, appena la mia ruota toccò i primi metri del Corso, cominciai a mulinare a tutta. Lì però la foga e l’inesperienza ebbero la meglio sulla lucidità e quasi all’altezza del Teatro Litta finii lungo per terra. In un istante, senza quasi il tempo di rendermene conto, persi il controllo della bici e saggiai quanto dure fossero le pietre di quella strada, ma per fortuna non mi feci granché. Più tardi, capii che anch’io, come altri prima di me, avevo avuto il battesimo del pavé milanese, forse il nemico più insidioso per i ciclisti meneghini nella triade completata da buche e rotaie.
Coi tre, negli anni, ho avuto modo di approfondire il rapporto, diventando più esperto e apprendendo le giuste nozioni per provare a neutralizzarli. Il processo, ovviamente, ha richiesto tempo e diverse centinaia di chilometri percorsi durante i quali, come sono cambiato io, è cambiata anche la città attorno a me. Anche il pavé in un certo senso, finito nelle mani di operai e a volte addirittura sostituito dall’asfalto, ha cambiato volto. La frase di mio padre invece, quella frase pronunciata in quella piacevole giornata di fine maggio, è rimasta dov’era, ancorata solidamente in un angolo della memoria e pronta a riaffiorare alla prima vibrazione prodotta dall’incedere della mia bici sulle pietre.
Ancora oggi mi capita spesso, specialmente laddove i sobbalzi in sella sono più violenti, di sentirla risuonare nei meandri della mia testa e di alzare l’andatura facendo di via Ausonio il mio Carrefour de l’Arbre, di via Mazzini il mio Mons-en-Pévèle e di Corso di Porta Romana il mio personale Camphin-en-Pévèle. Proprio come se fosse un incantesimo, al riecheggiare di quelle parole il contesto della Roubaix riesce per magia a prendere forma sotto i miei tubolari, stuzzicando la mia fantasia e facendomi immaginare come possa essere (e che tragitto possa avere) un eventuale Inferno del Nord “alla milanese”.
Anche se questo rimarrà un semplice sogno, nella realtà a ben vedere non mancano le assonanze e i punti in comune tra quello che ad aprile i corridori professionisti fronteggiano in Francia e ciò che i ciclisti milanesi, con le debite proporzioni, affrontano tutti i giorni lungo le strade della città. Senza fare uno sforzo eccessivo, si può riconoscere con facilità come entrambi abbiano a che fare con lastricati imperfetti, superfici insidiose, punti critici e, addirittura, la presenza o meno di (apprezzati) cordoli lato strada. Questi elementi contribuiscono tutti assieme, nel caso della Roubaix, a classificare i vari settori in base al loro grado di difficoltà, una pratica in cui, magari inconsciamente, anche qualcuno che ha solcato a lungo le vie in pavé di Milano si è cimentato.
Proprio con l’idea di stilare una classifica delle strade in lastricato più ostiche del capoluogo lombardo e avvicinare così la città che ha partorito il Giro d’Italia a quella sita nella regione dell’Hauts-de-France, nei mesi scorsi abbiamo provato a ripercorrere, a mo’ di ricognizione, tutti i tratti in masselli e sampietrini presenti all’interno di quello che, una volta, era il percorso delle mura spagnole di Milano.
La zona delimitata nasconde la stragrande maggioranza delle strade in pavé della città del Manzoni, un luogo dove i problemi creati dal lastricato oggi sono proporzionali tanto ai dibattiti suscitati tra i cittadini quanto al fascino conferito da esso a diversi angoli della metropoli. Il pavé, infatti, ha accompagnato l’evolversi di Milano nell’ultimo secolo diventandone sotto molti aspetti un elemento rappresentativo, un immobile serpente dalle squame di porfido che ha visto scorrere eventi e cambiamenti e che, se seguito nella sua interezza, sa ancora regalare una panoramica completa sulla varie anime di una città in costante movimento.
Al nostro passo (e con un occhio sempre rivolto alla strada), tra un’annotazione e l’altra, abbiamo provato ad apprezzarle tutte scoprendo o riscoprendo strade poco battute e, soprattutto, tratti più o meno sconnessi che, dopo aver valutato lo stato d’indolenzimento delle nostre braccia, ci hanno portato a stilare la graduatoria che potete leggere tra poco. Tale suddivisione, volendo restare assolutamente soggettiva, si presta ovviamente ad essere rigirata a piacimento e a divenire, si spera, spunto per possibili dialoghi e confronti costruttivi su un tema sempre attuale come quello delle condizioni delle strade milanesi.
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Via Torino-Carrobbio-Via Cesare Correnti (1000m): Settore tra i peggiori e più pericolosi della città. Alla difficoltà data dalla lunghezza si aggiungono quelle di un traffico piuttosto sostenuto e di un cordolo non praticabile. Obbligatorio, se si vuole stare in strada, percorrere la schiena d’asino al centro delle rotaie. Al Carrobbio, c’è la possibilità di tornare sulle corsie esterne ma per poco visto che, anche in via Correnti, si è costretti al centro dove il pavé procura qualche sobbalzo in più rispetto a quello di Via Torino.
Via Santa Margherita-Piazza Duomo-Via Mazzini-Corso Italia (1500m): Si parte con un pavé semplice e scorrevole passando da Piazza Duomo. Entrando in via Mazzini la musica cambia visto che si ripresentano due leggere schiene d’asino. Il cordolo affianco alle rotaie è per funamboli, la via più sicura è quella tra le rotaie dove ci si può risparmiare la difficoltà di dribblare spuntoni di pietre molto acuminati. Verso Piazza Missouri la strada si allarga e il pavé si ricompatta. In Corso Italia si ripresenta la situazione vista in via Mazzini ma il pavé è tenuto un filo meglio e consente (anche grazie alla leggera discesa fino a Piazza Sant’Eufemia) un’andatura spedita. Finale leggermente in salita e un pelo più scomodo quello che conduce allo “scollinamento” di via Santa Sofia. Da lì si prosegue in leggera discesa ma la sensazione di scomodità, anche a causa dei metri già percorsi, resta. Sempre nella corsia centrale, a zone irregolari, capita di fare qualche sobbalzo più importante degli altri. In corrispondenza di via Burgozzo una striscia laterale in asfalto consente di mettere fine a questo settore decisamente lungo.
Corso di Porta Romana (1400m): Tratto infinito. Dopo pochi metri da Piazza Missori, tolto l’impiccio delle rotaie, inizia un pavé che sostanzialmente è uguale per quasi l’intero settore e vede la presenza di lastre larghe, compatte ma per nulla levigate. A tutto ciò si aggiunge, nella parte iniziale, una leggera pendenza fino ad incrociare via Sforza, scollinata la quale lo spazio sulle corsie esterne consente di pedalare abbastanza tranquilli. A Crocetta si attraversano nuovamente le rotaie e da qui inizia l’ultima sezione, decisamente complicata. Finché si può stare sulle corsie esterne, la marcia, seppur con qualche sussulto, procede di buon passo. Con la comparsa dei parcheggi laterali (in corrispondenza della scuola Bertarelli-Ferraris) e il restringimento delle corsie esterne è obbligatorio passare al centro dove le cose sono terrificanti. A tratti si compiono dei veri e propri voli che ti spezzano le gambe. Negli ultimi (o nei primi, in senso inverso) 200-300 metri la carreggiata si allarga nuovamente e si può riprendere la corsia laterale.
Altri: Via Meravigli, Via San Giovanni sul Muro, Piazza Resistenza Partigiana-Corso Genova.
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Via dell’Orso-Via Monte di Pietà (600m): Settore a senso unico diviso in due dall’incrocio con via Verdi. Nel primo pezzo non c’è scampo: la vicinanza dei parcheggi obbliga a preferire la corsia centrale tra le rotaie dove il pavé è tutto sommato in discrete condizioni. Tutto cambia dopo via Verdi: la strada si allarga, le rotaie scompaiono ma il pavé diventa molto più sconnesso e i sobbalzi si susseguono con continuità. Il settore termina (per fortuna) all’incrocio con via Chiesa Rossa.
Via Manzoni-Via Santa Margherita (950m): Cardo del centro di Milano dove il pavé non lascia respiro. L’inizio è accettabile, poi verso l’Hotel Armani le condizioni peggiorano con sobbalzi continui e pietre piuttosto sconnesse. Si continua così fino a Via Romagnosi, nei pressi della Scala, dove gli evidenti lavori di manutenzione rivelano un pavé più compatto fino all’incrocio con Via San Protaso. Lungo e sfiancante. Le rotaie almeno non infastidiscono particolarmente.
Via Ausonio (350m): Settore non troppo lungo ma terribilmente sconnesso. Da leggere continuamente. Nelle prime decine di metri sei costretto a giocare con le rotaie inutilizzate: sulla destra lo spazio non manca ma la presenza dei parcheggi consiglia una via più sicura a centro strada. Qui le imbarcate non si contano e la mal disposizione delle pietre (molto evidente) ti obbliga a cambiare continuamente traiettoria per evitare il peggio. All’incrocio con via Carroccio le rotaie lasciano tregua per qualche decina di metri (tornano in fondo) ma la marcia resta complicata.
Altri: Porta Ticinese-Carrobbio, Via San Vittore, Via San Maurilio, Via Cappuccio-Via Luini, Via Broletto.
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Piazza Repubblica-Via Turati-Piazza Cavour (650m): Tratto con masselli larghi, molto compatto e ben tenuto dove i sobbalzi sono minimi e la scorrevolezza è eccellente. Tre stelle perché mediamente lungo e perché il passaggio nei pressi di Radio 105 comporta l’attraversamento delle rotaie.
Corso di Porta Vigentina (450m): Tratto a lastre larghe piuttosto irregolari, specie vicino alla circonvallazione interna. In quel pezzo si affrontano balzi piuttosto accentuati, per il resto il settore è abbastanza scorrevole e in leggera salita verso Crocetta (al contrario dal lato opposto). Per chi non vuole cimentarsi nello zig-zag tra le rotaie è preferibile imboccare e tenere in entrambi i sensi di marcia la corsia centrale.
Altri: Corso Magenta (fino ad angolo Via Carducci), Via Vico-Olivetani, Via Olivetani- Via San Vittore, Moneta-Ambrosiana-Sepolcro-Bollo, Via Santa Marta, Foro Bonaparte, Via Mercato-Via Ponte Vetero, Via Cusani, Via San Marco ang. Castelfidardo-Via Solferino, Via Battisti-Largo Augusto, Via Lamarmora, Via Armorari-Via Spadari.
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Corso Magenta (fino a via San Giovanni sul Muro), Cordusio-Via Orefici, Piazza S. Ambrogio (lato questura)-Via S. Valeria, Via Circo-Via San Sisto, Piazza San Marco-Corso Garibaldi, Via De Amicis-Corso Genova, Via Carroccio, Via Cesare da Sesto, Via Castelfidardo-Via San Marco, Via Olmetto, Via Cordusio, Via Bocchetto.
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Piazza S. Ambrogio (lato case), Via Dante, Via Sacchi, Via Brera, Via San Protaso, Via Porrone, Via San Marco-immissione angolo Via Castelfidardo, Via Chiossetto, Via Corridoni, Via della Palla, Piazza Sant’Alessandro, Via Lupetta, Via Zebedia, Via delle Asole, Via Cardinal Federico, Via Valpetrosa, Via Fosse Ardeatine, Via del Bollo e Via dell’Ambrosiana, Via della Posta, Giro Piazza della Borsa, Via Santa Maria Fulcorina.
Nella mente di Silvia Persico al Fiandre
Giusto qualche giorno fa, Davide Arzeni, detto "Capo", direttore sportivo della UAE Adq, ha detto un grazie particolare a Silvia Persico e l'ha motivato così: «Grazie perché è stato bello sognare, non mollare mai». Arzeni si riferiva a domenica pomeriggio, alla Ronde van Vlaanderen e alla prova di Persico. Probabilmente, il momento in cui è stato più bello sognare è stato proprio quando Lotte Kopecky, Marlen Reusser e Lorena Wiebes, sul Koppenberg, hanno messo in riga tutte le avversarie, andandosene via di convinzione e prepotenza. Tre atlete, tutte e tre del team SD-Worx, già, ma non sono sole. Con loro c'è una ragazza dalla maglia dai colori simili, ma diversi: è Silvia Persico. L'unica atleta a tenere il passo della corazzata.
A dire il vero, Silvia Persico ci racconta che il sabato pomeriggio non si sentiva proprio bene. Si sentiva strana, ma prima delle gare succede spesso. Nel tempo si è convinta che il suo corpo metta in atto una sorta di meccanismo di "risparmio energetico", quasi automatico, prima delle prove importanti. Per questo il giorno precedente ci si sente spenti: «Il venerdì abbiamo massaggi più intensi, se c'è la corsa. Credo che dopo quelli, i miei muscoli si mettano in una sorta di standby fino alla gara». Proprio perché conosce questo meccanismo, Persico alla partenza di domenica era tranquilla, della serie: "vediamo come va". Almeno questa è la sua prima risposta, poi, però, arriva la seconda che è, forse, la più vera.
«Sai, negli ultimi tempi, ho visto molte gare da casa, dall'altura, e non è sempre facile guardare le altre che gareggiano, anche se sai che ti stai preparando pure tu. Vedevo le gare e notavo questo dominio SD-Worx, soprattutto al Nord. Non nego che ci ho pensato: "Quando torno, voglio far vedere che ci sono anche io, che ci siamo anche noi. E, se vogliono batterci, devono sudarsela». Ecco, in quel momento, nel momento in cui Arzeni (e non solo) sogna, la promessa è mantenuta, tanto più che Reusser e Wiebes lasciano il gruppetto e davanti restano solo in due: Kopecky e Persico.
Così Silvia Persico si attacca alla radiolina: «Davide, cosa devo fare? Cosa faccio?». La risposta è chiara: collabora. «Chiedo sempre come muovermi, cosa fare, per me è importante il consiglio di chi ci segue, anche perché, in corsa, capitano momenti in cui non si è lucidi». In quel momento no, Persico sta bene, Kopecky fa un buon ritmo, ma lei lo tiene con apparente facilità. Le concede anche cambi e il loro vantaggio sul gruppetto inseguitore cresce. Si stupisce anche lei: «Non correvo sulle pietre da un anno e il giorno prima avevo provato tutti i settori in pavè a ritmo gara per ritrovare la pedalata. Devo ammettere che non ho un particolare modo di pedalare sulle pietre, mi viene naturale. Però, ecco, dopo un anno, erano sensazioni perfette».
Metro dopo metro, pietra dopo pietra, muro dopo muro e chilometro dopo chilometro, la fatica inizia a consumare e Persico se ne accorge. Non può farsi capire da Lotte Kopecky, ma il suo corpo non la inganna: le energie stanno iniziando a mancare. Non siamo ancora sul Kwaremont: «Non puoi farci molto quando succede così. Ho preso un gel, mi sono aggrappata a lui. Tavolta la lampadina si spegne in un colpo solo, un vuoto totale dal nulla, talvolta invece lancia dei segnali. Questa volta i segnali c'erano tutti». Per giunta nel momento peggiore, perché sul Kwaremont ci si aspetta l'attacco di Kopecky.
Così avviene: Lotte Kopecky forza l'andatura, aziona il turbo e Persico perde contatto. In molti hanno notato uno scivolamento della sua ruota sul bagnato, lei lo ammette, ma precisa: «Vero, c'erano tratti bagnati abbastanza infidi. La ruota è scivolata, però non mi sono staccata per quello. Mentirei se lo dicessi. Quel gel non è stato abbastanza e appena il ritmo è aumentato le mie gambe mi hanno lasciato». Spiega che non sarebbe servito molto, parla di "tre minuti di autonomia in più" sufficienti, forse, per vedere un altro finale. Proprio lì, la lucidità se ne va. Per la stanchezza, per la fatica, forse anche per la sensazione di aver buttato via una possibilità.
«Non so nemmeno esattamente cosa mi dicessero dall'ammiraglia. Ricordo che ripetevano di stare tranquilla, di provare per il podio, ma che sarebbe stata una grande giornata a prescindere, ma non ricordo molto. Ero in confusione». Persico prova ad andare del proprio passo, sperando di tornare su Kopecky, invece è il gruppetto di Reusser, Vollering, Longo Borghini, Niewiadoma e Labous, a rientrare su di lei: «Mi chiedevano cambi e io li saltavo. Non perché non volessi, ma perché non riuscivo. Avevo timore nell'affrontare i tratti in discesa, le curve. Non mi sentivo sicura. Ero svuotata».
Sebbene, per sua stessa confessione, Silvia Persico non sia solita rivedersi, non le piace nemmeno, questo Fiandre lo ha rivisto con attenzione e con l'occhio di chi sa che il passato serve al futuro. Quando lo ha rivisto, ha avuto la consapevolezza di aver impostato in maniera errata la volata che poi le ha consegnato il quarto posto, a un passo dal podio: «Curavo Reusser, poi la volata l'ha fatta Vollering e anche Longo Borghini mi ha superato. Ero di una posizione indietro, forse anche essendo più avanti di mezza bicicletta, sarebbe andata meglio». Felice sì, ma di quella felicità agrodolce, Persico aggiunge che la sua famiglia è soddisfatta ma, in fondo, sa che anche per loro un pizzico di delusione c'è, dopo una corsa così. Suo fratello le ha scritto: «Ti rendi conto che stavi correndo il Fiandre? Ti rendi conto di cosa sei riuscita a fare al Fiandre?». Anche mentre chiacchiera con noi, Silvia ci pensa, forse se ne convincerà.
La testa ora è alle Ardenne: non ha mai corso queste gare. Una volta è partita, ma, poi, si è ritirata causa infortunio ad una mano. Insomma, nel mirino Amstel, Liegi e Freccia? «Sì, più Amstel e Liegi, probabilmente. Anche se, tra le due, sono più da Amstel. Ora so cosa mi è mancato qui. All'Amstel avrò qualcosa in più, una nuova esperienza. Ci rivediamo lì». Sì, ci rivediamo proprio lì.