Una ciclista versatile e combattiva: intervista a Kasia Niewiadoma
A detta di Wikipedia, Ochotnica Górna è un villaggio situato a sud della Polonia che non conta più di 2.100 abitanti ed è particolarmente frequentato da chi ama le attività outdoor, meglio ancora se invernali, vista la vicinanza con i monti Gorce. Le immagini sul sito istituzionale confermano che si tratti proprio di un piccolo paradiso naturale su Terra con una grande storia di resistenza durante la seconda guerra mondiale. Già da queste poche informazioni non dovrebbe sorprendere che sia nata proprio qui, il 29 settembre 1994, una delle migliori scalatrici del ciclismo femminile contemporaneo, Katarzyna “Kasia” Niewiadoma.
Cresciuta nel club WLKS Krakus BBC Czaja e allenata da Zbigniew Klek, che precedentemente aveva scoperto e allenato anche Rafał Majka, nel 2013 il mondo ciclistico comincia ad incuriosirsi a questa ragazza di 18 anni dal sorriso gentile che se la cava piuttosto bene nelle fila della TKK Pacific Torun. Supportata anche da Paulina Brzezna-Bentkowska e dal marito Pawel, Kasia arriva quinta ai Campionati Europei under 23 di quell’anno, piazza che le vale una proposta dell’allora Rabo-Liv di unirsi a loro come stagista per il resto della stagione e che sarà solo l’antipasto dei titoli ottenuti a Tartu nel 2015 e a Plumelec nel 2016. Durante l’Holland Ladies Tour vince la classifica delle giovani e ottiene ufficialmente il suo posto in squadra. Nel 2014 arrivano la sua prima vittoria UCI, al Frauen Grand Prix Gippingen in Svizzera, il terzo posto a cronometro ai campionati nazionali polacchi e il suo primo Giro d’Italia, concluso all’undicesimo posto dopo aver aiutato a portare sul podio tre compagne di squadra, tra cui una certa Marianne Vos proprio sul gradino più alto. Chissà se è stato, invece, nel 2015 che è cominciato a nascere l’amore tra Kasia e le classiche primaverili: quell’anno si piazza sesta alle Strade Bianche e quinta alla Freccia Vallone; quello successivo si migliora, arrivando seconda dietro alla campionessa del mondo Elizabeth Armistead alla classica toscana e quarta a quella belga; mentre nel 2017 è ancora seconda alle spalle, questa volta, di Elisa Longo Borghini a Siena e terza in tutte e tre le classiche delle Ardenne. Di sicuro continua il feeling nato con il Giro d’Italia dove vince la maglia bianca di miglior giovane, ripetendosi anche nel 2016, l’anno delle sue prime Olimpiadi a Rio de Janeiro (sesta nella prova in linea) e del suo primo podio ai Campionati Europei tra le grandi (terza nella prova in linea). All’OVO Energy Women’s Tour del 2017 arriva finalmente il gradino più alto del podio nel World Tour, non solo conquistando la prima tappa, ma anche la classifica generale. L’anno seguente comincia la stagione indossando una nuova maglia, quella della Canyon-SRAM, la stessa che ha addosso ancora oggi: dopo un altro secondo posto alle Strade Bianche, si prende in solitaria la 43esima edizione del Trofeo Alfredo Binda a Cittiglio, attaccando sul suo terreno preferito, la salita.
Nel 2019 il gradino più alto del podio arriva nella quarta tappa dell’OVO Energy Women’s Tour di quell’anno: è un giovedì pomeriggio a Burston Dassett, il 13 giugno per la precisione, e in volata supera Liane Lippert e Lizzie Deignan, sotto un cielo umido e grigio. Quel giorno Kasia è il sole che manca alla giornata, ma non sa che ci vorranno cinque anni prima di ritrovare la vittoria in una gara World Tour. Si instaura un pattern di secondi, terzi o quarti posti che si ripete negli anni come un disco rotto. C’è chi analizza il suo modo di correre, crede che la motivazione delle vittorie sfiorate sia tutta nell’eccessiva aggressività con cui si approccia alla gara. Ma forse il problema è pensare che nello sport conti solo la vittoria: Kasia infatti nel 2020 conquista un bronzo nella prova in linea dei Campionati Europei a Plouay e il secondo posto in classifica generale al Giro d’Italia, mentre nel 2021 è la volta di un altro bronzo, questa volta mondiale, nelle Fiandre. Continua a correre come la ciclista versatile che è sempre stata, perfettamente a suo agio e tra le favorite sia nelle gare di un giorno, che nei Grandi Giri. È difficile non credere che si tratti solo di una ragazza in sella ad una bicicletta che prova ad inseguire un sogno, un gradino del podio più alto di quello precedente. Per sé stessa, non per noi.
Questo, ovviamente, non la rende immune dalla frustrazione dello sfiorare spesso il raggiungimento dei propri obiettivi: tagliato il traguardo, sfinita, spesso si appoggia al manubrio con il viso contratto, rigato dalle lacrime. Torna a casa a Girona, cercando spesso conforto nei consigli del marito, Taylor Phinney, ex ciclista professionista prima per la BMC Racing Team, poi per l’EF Education First, che non ha smesso nemmeno per un secondo di essere il suo primo fan. Si sono conosciuti durante i Campionati Mondali in Qatar nel 2016 ad un buffet di colazione: Kasia sostiene che sia stato tutto merito delle sneakers che aveva ai piedi e che hanno attirato l’attenzione di lui.
Ma a furia di andare a tentoni nel buio si trova sempre uno spiraglio di luce: nella scorsa edizione del Tour de France femminile non vince nessuna tappa, ma alla fine è lei la regina della montagna e la maglia a pois si intona benissimo con il sorriso che sfoggia a Pau. Qualche mese dopo, alla seconda edizione dei Campionati Mondiali Gravel in Veneto, squarcia definitivamente quel buio, battendo Silvia Persico e Demi Vollering. Un’altra maglia, questa volta iridata, che Kasia dice vada indossata esclusivamente con pantaloncini neri. Non è la sua specialità, lei appartiene alla strada, ma è un’iniezione di fiducia per la stagione di quest’anno. Quando arriva quarta alle Strade Bianche e seconda al Giro delle Fiandre, in tanti temono che non ci sia fine al lunghissimo tunnel in cui l’hanno vista entrare un giorno del 2019 e da cui è uscita solo per brevi intermezzi. Ma al 31esimo tentativo, la Freccia Vallone, ancora una volta in una giornata piovosa, lancia la sua zampata, staccando sul Mur de Huy le favorite della giornata, Elisa Longo Borghini e Demi Vollering. Tagliato il traguardo, Kasia piange di nuovo, questa volta però di gioia. Perché qualsiasi cosa fosse quel limbo, è finalmente finito. Ai microfoni, dopo la gara, dice che spera di aver ispirato chi sta inseguendo i propri sogni da molto tempo a non mollare, che lei ne sa qualcosa di fallimenti ma non ha mai smesso di credere che il suo team fosse in grado di vincere una gara e la ricompensa è bellissima.
Mi sono commossa anche io quel 17 aprile. Senza rendermene conto ero finita piuttosto vicina allo schermo del televisore quando lei, Longo Borghini e Vollering sono arrivate all’attacco del Mur de Huy. Quando l’ho vista staccarle, ho capito perché questo sport riesce a insegnarti moltissimo anche solo guardandolo. Stavo assistendo ad una masterclass di tenacia ed ero lì che prendevo appunti. Li ho presi anche qualche pomeriggio fa, mentre tenevo il telefono in mano e dall’altra parte della cornetta c’era lei, da qualche parte sull’Alpe d’Huez in ricognizione per il prossimo Tour de France.
Comincio facendoti una domanda sulla tua terra, la Polonia. Una volta hai descritto le persone che vengono dalla tua regione come emotive, ma allo stesso tempo piuttosto combattive. Quanto ti influenza come ciclista questa tua origine?
Credo che abbia una grandissima influenza su di me, perché ho vissuto per quasi 20 anni in quei luoghi. Ovviamente da bambina le persone che mi circondavano hanno contribuito alla mia crescita, anche come ciclista: erano tutti molto grintosi, competitivi e hanno sempre lottato per quello che volevano ottenere.
Ti ricordi la prima volta che sei salita in sella ad una bicicletta?
Ricordo bene le prime esperienze in bicicletta, anche se inizialmente non avevo una bici da strada. Sono cresciuta circondata da molti bambini, soprattutto cugini, e passavamo parecchio tempo a pedalare. La prima che abbia mai avuto era una vecchia bicicletta di mio fratello. C’era libertà, ma anche competizione: ci divertivamo a sfidarci sulle salite per vedere chi sarebbe stato più veloce ad arrivare in cima, mentre in discesa cercavamo di usare i freni il meno possibile. Ogni volta ci inventavamo un gioco diverso, che richiedeva sempre di essere in sella ad una bici.
Una persona una volta mi ha detto che il ciclismo è uno sport creativo, sei d’accordo?
Assolutamente sì, ma il ciclismo e l’andare in bicicletta sono due cose differenti. Solitamente quando parliamo di “ciclismo” la prima cosa a cui pensiamo è il mondo competitivo delle gare. Mentre andare in bicicletta significa andare nei luoghi, passare del tempo con i tuoi amici, esplorare nuove strade e non avere paura di fermarti più volte per guardarti intorno. Il ciclismo è molto più definito dagli allenamenti, avere dei programmi da seguire, attenersi a dei numeri. Cerco di combinare entrambi i mondi nella mia vita: ci sono volte in cui sono molto più concentrata sulla mia tabella di marcia, altre in cui mi piace andare a fare un giro in bicicletta con mio marito e i miei amici, senza pensare a quanto veloce o forte sto andando, ma solo a quanto libera mi sento in quel momento, a tornare in qualche modo a come mi sentivo quando ero bambina.
Sei sempre stata molto aperta riguardo ciò che provi. Che rapporto hai oggi con le tue emozioni e quanto è importante per te avere nella tua vita qualcuno come Taylor che non è più parte del mondo World Tour?
È sicuramente di grande supporto, perché lui è stato nei miei panni, ha sperimentato quello che sto sperimentando, ma allo stesso tempo ora lo sperimenta da un punto di vista diverso. Delle volte sono tornata a casa da una gara portando con me moltissime emozioni, dalla delusione alla felicità, dalla rabbia al sollievo, ed è difficile riuscire a metabolizzare tutto questo da sola. Ma quando hai una persona con cui puoi parlare apertamente e condividere con lui o lei qualsiasi cosa tu stia provando, o che ti fa le domande giuste, è molto più facile andare oltre e imparare qualcosa dall’esperienza che hai appena vissuto. Sono molto fortunata ad avere Taylor nella mia vita, perché lui è piuttosto aperto riguardo le sue sensazioni ed emozioni e non ha paura di ammettere che non è sempre tutto bellissimo in sella alla bici, ma ci sono altre sfumature di cui spesso non si parla.
Anche tu non hai mai nascosto le difficoltà di questi anni in cui la vittoria, che sembra essere l’unica cosa che conta per il mondo sportivo, non arrivava. Come sei riuscita a non trasformarla in un’ossessione?
Ad essere sincera, anche se non ho vinto per molto tempo, ogni anno c’era sempre qualcosa di nuovo che accadeva: una medaglia ai Mondiali per la prima volta o la maglia a pois al Tour de France. Ci sono state molte prime volte che mi hanno motivato a non mollare, a continuare ad avere fede e ad essere paziente. Una delle cose più importanti che Taylor mi ha insegnato è proprio questa, a fidarmi dei tempi, a non affrettare le cose. Siamo due persone diverse: io sono più una testa calda, lui è più spensierato. Delle volte dimentico che le cose hanno bisogno di tempo ed è lui a ricordarmelo.
Comunque le vittorie sono arrivate: prima ai Campionati Mondiali Gravel e poi la Freccia Vallone. Quale delle due è stata più importante per te?
Sono due vittorie entrambe speciali a modo loro. Sicuramente indossare la maglia iridata, anche se non nella mia disciplina principale, mi ha dato molta motivazione e fiducia nel fatto che non era finita, che un giorno avrei potuto indossare la stessa maglia anche su strada. Quando non vinci per tanti anni, cominci a dubitare di te stessa un pochino, perciò quella vittoria è stata qualcosa di cui avevo decisamente bisogno per iniziare questa stagione con una mentalità diversa. Mi ha sicuramente aiutata nel vincere la Freccia Vallone: durante quei Mondiali ho battuto Demi Vollering e perciò ho potuto realizzare che non sarei stata per forza sempre dietro di lei.
Sei ad altissimi livelli da molto tempo, come fai a mantenere la motivazione e la passione per questo sport?
Una cosa che ho scoperto negli ultimi anni è che non posso essere concentrata solo sui risultati, ho bisogno di prendermi del tempo per me, per le persone che amo. Quando parlo di “tempo per me stessa”, non parlo di tempo senza fare nulla o che non riguardi la bici, anzi. Semplicemente pedalo a velocità e su bici diverse. Ci sono stati anni in cui sono stata tutto il tempo in sella ad una bici da strada e ad un certo punto finivo per sentirmi mentalmente stanca nel tentare di rincorrere sempre gli stessi obiettivi. Ora, invece, dopo una gara mi piace prendermi due o tre giorni per divertirmi in bici, con Taylor e con i nostri amici. Usciamo di casa la mattina e torniamo spesso che è quasi sera. Quei giorni mi permettono di mantenere la passione per il ciclismo, è grazie a quei giorni che posso tornare a concentrarmi durante gli allenamenti, perché in quel modo la bicicletta continua ad essere qualcosa che mi dà grande gioia.
Il ciclismo femminile sembra un mondo ancora tutto da esplorare, basti pensare che quest’anno il Tour de France compie solo il suo terzo anno. Pensi che ci siano luoghi di questo mondo che abbiano bisogno di più luce?
È interessante quello che è successo con il Tour de France, perché si tratta di un gara iconica e già dalla prima edizione è diventata una cosa importante, che ha permesso al ciclismo femminile di crescere. Ogni anno si notano grandi differenze nel nostro mondo, che si tratti di nuove gare da correre o di giovani cicliste che spuntano o diventano più forti. Abbiamo un calendario piuttosto pieno e forse delle volte il tempismo non è dei migliori per dare visibilità a tutte le gare: se per esempio la Vuelta femminile fosse più vicina a quella maschile, magari potrebbe attirare più attenzione e visibilità, anche perchè dopo le classiche siamo tutti alla ricerca di una pausa dal ciclismo.
A proposito di gare che, invece, non sono nel vostro calendario, ti piacerebbe un giorno prendere parte alla Milano-Sanremo?
Assolutamente sì! Quando viene rilasciato il calendario della nuova stagione, ogni anno spero sempre che compaia anche nel nostro. Mi piacerebbe che ci fosse anche il Giro di Lombardia.
C’è qualcosa che ti piacerebbe lasciare dietro di te nel ciclismo femminile?
Mi piacerebbe un giorno lasciare questo mondo sapendo che ho aiutato giovani cicliste a trovare la loro strada. Credo che cicliste come Elisa Longo Borghini o Demi Vollering siano un ottimo esempio di come si possa essere atlete fortissime, vincere gare ciclistiche, allenarsi nel modo giusto ma allo stesso tempo farlo senza ossessionarsi o cadere negli estremi. Spero che per alcune giovani cicliste io possa essere un esempio come loro*. Alla fine dei conti, la cosa più importante è cercare di rendere questo sport un posto migliore senza fare cose folli o poco sane.
*Mentre scrivevo quest’intervista, c’è stata la terza tappa del Tour de Suisse femminile, quella che andava da Vevey a Champagne: Kasia e la giovane compagna di squadra Neve Bradbury sono state in fuga per 91 chilometri, hanno pedalato l’una accanto all’altra quando il traguardo era oramai vicino. A pochi metri dalla linea bianca sull’asfalto, Kasia le ha messo una mano sulla schiena, ha rallentato quanto bastava perché Neve potesse essere la prima a superare quella linea e godersi la sua prima vittoria da professionista. Un passo dietro di lei, ma con le braccia alzate nella stessa posizione e la stessa gioia sul viso, che si è poi trasformata in abbracci e infiniti baci. Sono certa che Neve, dopo quella tappa, non avrà dubbi, come noi, sul fatto che Kasia sia uno dei migliori esempi in circolazione nel ciclismo femminile.
Appunti sul Giro Next Gen 2024
Sull’onda di quei corridori un po’ cheerleader, vedi Pogačar o Pidcock, Jarno Widar dà spettacolo sulle strade del Giro Next Gen 2024. Vince due tappe e la maglia rosa finale e, come avrete letto in ogni dove, è il più giovane nella storia della corsa a conquistare la classifica generale: compirà 19 anni soltanto a novembre. Stravince e forse questa è la vera notizia: il suo comando non è mai stato in discussione. Gli organizzatori pensano a un percorso meno selettivo che possa restare aperto persino fino all’ultima tappa, ma il piccolo belga, di cui ancora non si comprendono bene limiti e caratteristiche definitive, va forte fin dal primo giorno quando si piazza nono nella cronometro di apertura.
Widar, classe 2005 e quindi al 1° anno da Under 23, così piccolo fisicamente da ricordare proprio Pidcock, da junior andava forte un po’ ovunque, salite e salitelle, sprint ristretti e arrivi per puncheur, pietre, colline, di tutto, si prendeva il lusso di vincere per distacco, attaccando in qualsiasi momento della corsa, forte ovunque, a parte le volate che non ama, per usare un eufemismo. Carattere forte, vincente, chiedere a chi gli è stato vicino in due cocenti - per lui - sconfitte, come quelle del Lunigiana e del mondiale lo scorso anno. Ha stravinto, lo merita, e dice che l’anno prossimo tornerà per vincere di nuovo - mai accaduto un bis nella storia di questa corsa. Ci credo poco, ma chissà: in un ciclismo così folle mi aspetterei di vederlo a pieno titolo tra i professionisti - campo che ha già calcato in stagione - già dal 2025. Piedi per terra, però, come detto è un corridore giovanissimo, che ha già grandi numeri, ma è ancora acerbo.
Sul podio salgono due spagnoli, due vere sorprese. Sì, perché Albert Torres (altro 2005, UAE Gen Z) e Pau Martí (2004, Israel PT Academy) non erano assolutamente accreditati della possibilità di chiudere così in alto, soprattutto il corridore della Israel. Parole dello stesso Pau Martí, che dopo essere arrivato con i migliori a Pian della Mussa, si era detto stupito di aver trovato un certo livello in salita. Torres beneficia di un’attività svolta in stagione tra i professionisti (ben quattro corse a tappe disputate tra “i grandi”) che gli permette di avere un motore già ben rodato per figurare con i migliori in salita. Pau Martí fa valere anche il suo spunto veloce andando a conquistare grazie ai piazzamenti all’arrivo il terzo posto davanti a Rondel - ci torno a breve.
Restando alle sorprese in classifica, cito anche l’australiano Tuckwell decimo nella generale dopo aver corso bene in stagione anche alla Ronde de l’Isard: da definire limiti e caratteristiche. È un classe 2004 che ha fatto l’esordio in Europa solo due anni fa con la maglia del Team Bike Terenzi, squadra con la quale conquistò, proprio nel 2022, la sua prima vittoria nella sua prima corsa in assoluto al di fuori dell’Oceania.
In mezzo: 4° Rondel, per molti, compreso il sottoscritto, il favorito del Giro. Rondel ha difettato in maniera palese di acume tattico. Nella tappa di Fosse ha tirato per quasi tutta la salita senza chiedere cambi, aprendo il gas quando all’arrivo mancavano ancora diversi chilometri, tratto più duro compreso, e quando Widar, perfettamente a suo agio a ruota per diversi chilometri, è partito nel finale, non solo Rondel ha perso la ruota del corridore belga, ma anche dei due spagnoli poi finiti davanti a lui sul podio. Secondi che si riveleranno preziosi. L’altro pasticcio di Rondel è datato 16 giugno, l'ultimo giorno, arrivo di Forlimpopoli. Gli sarebbe bastato arrivare in volata davanti a Pau Martí o tutt’al più dietro di una sola posizione per conservare il terzo posto sul podio. Nello sprint di gruppo il corridore della Israel ha chiuso 20°, il francese della Tudor , pur dotato di esplosività e buon spunto veloce, 25°, piazzamento che lo faceva scivolare dal 3° al 4° posto. Qui, però, da definire dove finisce il capolavoro di Martí e inizia quel pasticciaccio brutto de Rondel. Corridore il quale, però, potrà prendersi la sua rivincita al prossimo Tour de l’Avenir. Qualora lo avesse in programma diventerebbe in automatico uno dei favoriti alla maglia gialla finale.
Al 5° posto chiude Pavel Novak, primo corridore di una squadra non Development, il Team MBH Bank Colpack Ballan, tra i migliori in salita come il regolare Kajamini, 7° e migliore degli italiani, questo passa il ciclismo di casa nostra al momento. Ottimo, in generale, il Giro della squadra italo ungherese che dall’anno prossimo dovrebbe - ma non ci sono ancora conferme definitive - diventare Professional: oltre ad essere stata l’unica capace di mettere due uomini tra i primi 10 in classifica, risultato non da poco vista la presenza di quasi tutti i top team della categoria, ha messo in luce Christian Bagatin e Lorenzo Nespoli. Il primo, partito forte, 10° nella crono d’apertura e poi in fuga con i big il giorno dopo, il secondo capace di conquistare la maglia dei gran premi della montagna, fra le poche soddisfazioni del ciclismo italiano in questa corsa. Nei 10 troviamo Leo Bisiaux, sesto posto finale per uno dei miei corridori preferiti di quella che è un’incredibile annata, la 2005. Bisiaux sta correndo poco e prima o poi arriverà: se non dovesse esagerare saltando subito tra i professionisti, nel 2025 potrebbe essere uno dei corridori da battere nelle corse a tappe e anche in quella di un giorno più impegnative. Intanto la Francia tra lui, Rondel e Rolland (assente come tutta la Groupama, ingiustamente esclusa per favorire la presenza di squadra italiane fantasma, sarebbe stato forse il favorito assoluto), si gode un possibile terzetto di fuoco per l’Avenir. La Decathlon ci ha provato, anche con Kevin Verschuren, 11° in classifica, ma raccogliendo alla fine un po’ poco. 8° in classifica è Mats Wenzel, Lidl-Trek Future Racing, il lussemburghese, da quando ha iniziato a farsi vedere in campo internazionale, sin dagli juniores, ha spiccato per regolarità. 9°, invece, Alessandro Pinarello, VF Bardiani Group CSF Faizanè, in un Giro per lui e la sua squadra senza infamia e senza lode, con qualche acuto come piazzamenti di tappa di Lorenzo Conforti, classico profilo all’italiana di corridore veloce e resistente, peccato per lui essersi dovuto scontrare negli sprint con un corridore che quest’anno ha battuto alcuni tra i migliori velocisti del World Tour e dintorni.
Fuori dai dieci, invece, i corridori della Visma Lease a Bike, che perde subito Nordhagen (uno dei tre favoriti della vigilia) e Huising per un malanno, che vede Graat sottotono e 12°, con van Bekkum 16° e che viene salvata da Brennan - altro 2005 già in evidenza in mezzo ai professionisti - nell’ultima tappa, vittoria a Forlimpopoli e da un Mattio extra lusso - ci torno a breve anche qui.
In generale è stato un Giro Next Gen che ha espresso quello che è a oggi la categoria: a livello internazionale c'è poco spazio per le squadre che non sono quelle di sviluppo del World Tour e quindi come nel 2023, anche nel 2024 raccogliere risultati se non appartenenti a una certa area sportiva, diventa sempre più difficile - lo scorso anno Trinity, Colpack e Biesse portarono comunque a casa quattro tappe. Quest’anno le vittorie sono state suddivise tra cinque squadre, praticamente le top della categoria presenti e tutti vivai, se così possiamo definirli, di formazioni World Tour. Un edizione spartiacque, per me, di quello che è il futuro o meglio il presente della categoria. Su otto tappe, quattro sono andate ai 2005, due ai (anzi a un) 2004, una a un 2003 e a un 2002. A parte Teutenberg, sempre piazzato nelle tre volate, hanno praticamente vinto quei corridori che ci si aspettava vincessero.
Due tappe sono andate alla Soudal Quick Step, entrambe con Magnier che apre il dibattito su quello che andrebbe fatto a livello regolamentare: è possibile che un corridore del World Tour, capace di vincere volate davanti a fior di professionisti, scenda per dominare questo tipo di corse? Forse andrebbe cambiato qualcosa, magari mettendo un limite su quei corridori che ottengono un totale di punti tra i professionisti, ponendo un divieto di scendere nella categoria - valido sia per Giro, che per Avenir e poi per Mondiale ed Europeo. Ma la presenza di corridori del livello di Magnier è solo una parte del problema, se vi interessa approfondire potete ascoltare il mio intervento fatto sul podcast di 53x11.
La Lotto Dstny, da anni una se non la miglior squadra Development del mondo, vince tre tappe con corridori al primo anno: due con Widar e una con De Schuyteener in volata. Ha il piglio della dominatrice come non si era mai visto al Giro, andandosi a prendere una bella rivincita con la corsa: la sconfitta patita da Van Eetvelt nel 2022, contro un corridore che non si è mai più ripetuto nemmeno a livelli base, bruciava ancora. Donie è stato preziosissimo in salita e Giddings in pianura dove De Schuyteneer oltre al successo ha saputo dare una mano importante. Conquistano poi una tappa a testa la Lidl Trek Future Racing, con Soderqvist (2003), la Wanty ReUz technord con Artz (2002) e la Visma | Lease a Bike Development con Brennan (2005). Lo svedese della Lidl è il favoritissimo della crono d’apertura e non sbaglia, in generale la sua squadra è sempre presente, in classifica - con Wenzel - nelle fughe, nelle volate - con Teutenberg - e l’ultimo giorno sfiora il colpaccio con Behrens, secondo di un soffio dietro Brennan. La Wanty cerca il podio in classifica con Toussaint ma i suoi sogni di gloria terminano a causa di una caduta, quando era perfettamente in linea, e in forma, per giocarsela, ma riescono però il penultimo giorno, a conquistare la tappa con uno dei corridori più attesi: l’olandese Huub Artz, già forte di un contratto tra i professionisti dall’anno prossimo. Infine, nonostante la chiamata arrivata all’ultimo per sostituire Belletta, Matthew Brennan, altro talento del 2005 di cui non conosciamo bene i margini, e con caratteristiche da cacciatore di classiche moderno, veloce anche negli sprint di gruppo e molto resistente, conquista l’ultima tappa del Giro, salvando la corsa dei calabroni.
Per gli altri è stata dura.
Sempre più difficile riuscire a fare risultati, riuscire anche soltanto a mettersi in evidenza con una fuga o un piazzamento, risultati che sono solo una parte del tutto. Che futuro potranno avere alcuni team italiani, in questo caso, per provare a confrontarsi con certe realtà più ricche e di conseguenza più forti? Come talento, preparazione, avvicinamento, mezzi, soldi, tutto. Come biasimare squadre che a fine stagione decideranno che non avrà più alcun senso continuare? E sia chiaro, questo non dipende solo dai risultati ottenuti a questo Giro, o dalle scelte, sacrosante dal loro punto di vista, di RCS di invitare via via le squadre più forti - a sensazione immagino che il prossimo anno almeno due, se non tre squadre italiane viste nel 2024 non verranno confermate a discapito di team stranieri esclusi quest'anno decisamente più competitivi. La categoria Under 23 sta mutando completamente, non serve più a formare il ragazzo o il corridore, a fargli prendere poco a poco confidenza con uno sport che poi diventerà un mestiere vero e proprio, ma ormai è un momento di transizione per chi ha già quasi certamente in mano un contratto per il World Tour. Si è creato un divario enorme, tra chi fa parte dell'élite - i team devo - e tutti gli altri. Mettersi in evidenza, lasciare una breccia, sorprendere è sempre più complicato.
come se da una parte - perdonatemi il paragone azzardato - ci fossero i piloti delle driver academy o della formula due, che studiano per un posto nella massima categoria e tutti gli altri, alla guida di un'utilitaria in giro la domenica per qualche strada secondaria in collina.
Infine gli italiani.
Chi si salva? Oltre ai già citati tre del Team MBH Bank Colpack Ballan, Kajamini, Nespoli e Bagatin, nella lista entrano Luca Paletti, chiude il Giro in crescendo, 13° in classifica finale, è un 2004 su cui dover puntare in futuro, il suo compagno di squadra Lorenzo Conforti, che con un 2°, un 3° e 6° posto di tappa è certamente il migliore dopo Magnier e Teutenberg negli arrivi a ranghi compatti dove invece manca del tutto l’atteso Daniel Skerl - in generale, a parte Borgo, CTF Victorious in difficoltà, anche per alcuni malanni che hanno colpito la squadra alla vigilia. Aggiungerei anche un altro dei ragazzi di Reverberi, Alessandro Pinarello, che chiude nei 10 un Giro che per disegno forse ne favorisce le caratteristiche - ma alla fine cosa sarebbe cambiato da un 9° a un 5°/6° posto, forse massima ambizione per qualità e peculiarità? Bravo anche Samuele Privitera, come Borgo un 2005 (e come Luca Giaimi, praticamente mai visto se non nel dare una mano ai suoi compagni dell’UAE), ha corso malaticcio ma non appena è stato bene si è lanciato in fuga nella tappa con arrivo a Zocca chiudendo al 3° posto. Iniezione di fiducia per il ligure della Hagens Berman Jayco squadra vincitrice del Giro due anni fa e praticamente mai vista a eccezione per l’appunto di Privitera. Da evidenziare anche i piazzamenti nelle volate di Andrea D'Amato (2002, Biesse-Carrera), 3° e 4° di tappa a Borgomanero e Cremona e di Lorenzo Peschi (2002, General Store), 4° a Borgomanero, 6° a Zocca (era in fuga) e 10° a Cremona.
Spiccano, poi, Raccagni Noviero e Mattio. Il primo, dopo il secondo posto nella crono di apertura, è una risorsa fondamentale per le vittorie di Magnier e si prende pure il lusso di andare in fuga in una tappa con salite, non di certo il suo pane, il secondo, invece, è fondamentale per Brennan a Forlimpopoli. Qui una breve, ultima, riflessione: negli ultimi anni abbiamo avuto buoni, ottimi corridori che tra gli Under 23 emergevano riuscendo a fare i capitani, trasformandosi poi tra i professionisti in gregari, spesso e volentieri di grande qualità. Oggi, all’interno delle squadre di sviluppo straniere, i ragazzi iniziano a essere fior di uomini-squadra sin dall’ultima categoria prima di passare professionisti. Questo è. Se Mattio dopo il Giro ha firmato, come Belletta, qui assente a causa di un infortunio, per un altro anno con la squadra Development della Visma, questo Raccagni Noviero merita un posto nella Soudal dei grandi. Ha caratteristiche da uomo del nord, da uomo squadra - lo accosterei ad Asgreen - e in questo momento storico la squadra di Lefevere non si può certo permettere grossi investimenti oppure di fare la schizzinosa su un certo tipo di corridore. Oltretutto, avendo indebolito il blocco per le corse del Nord, quello del corridore friulano è un nome da cui potrebbero ripartire. Detto del CTF e del buon Giro di Alessandro Borgo - altro 2005, ribadisco, annata d’oro per il ciclismo, selezionato all’ultimo momento per sostituire Stockwell, nonostante gli esami di maturità imminenti - un peccato non aver potuto vedere al loro massimo Matteo Scalco, VF Group Bardiani CSF Faizané, ritirato per un malanno, avrebbe potuto cogliere una top ten o qualcosa di meglio, Ludovico Crescioli, anche lui condizionato da un malanno dal primo giorno, ed Edoardo Zamperini condizionato da una frattura della clavicola a poche settimane dal Giro. Chissà se uno di questi ultimi tre, insieme ai sopracitati Raccagni Noviero, Mattio e Belletta, al già confermato Kajamini, e al quasi certo Pinarello, non possano essere i 6 uomini convocati da Marino Amadori al Tour de l’Avenir. Prima, però, per il ciclismo italiano ci sarà un Val d’Aosta dove provare a ottenere qualche risultato migliore.
Foto: Lapresse
Ritorno alla bicicletta: intervista a Monica Trinca Colonel
«L'adolescenza è un periodo complesso per tutti, io non sono stata un'eccezione. In quegli anni avevo altre cose per la testa e la bicicletta non riusciva più ad entrarci: l'avevo mollata in un angolo, da lì, la presi e la appesi direttamente al muro. Avevo quattordici anni o poco più: sì, i nonni non erano stati bene in quei momenti, è vero, ma la responsabilità della decisione è stata solo mia. I miei genitori non volevano smettessi, a me essere una ciclista non interessava più, ero abbastanza "debole" a livello caratteriale, mi sono rafforzata solo più tardi, anche grazie all'altro lavoro, quello che non aveva nulla a che fare con una passione, ma solo con la necessità di mantenersi, nel campo dell'ottica, degli occhiali da vista. La bicicletta era appesa e per molto tempo non l'ho più nemmeno sfiorata». Se è vero che la storia di Monica Trinca Colonel, in sella ad una bicicletta, è una storia in due tempi, è certamente vero che l'intermezzo ha a che vedere con queste parole: qui ci sono le cause, da qui prendono il via le conseguenze. Ma di queste parleremo più avanti.
Classe 1999, venticinque anni compiuti il 21 maggio, di Grosotto, Trinca Colonel ha preso in mano la prima bicicletta da giovanissima: era sotto un albero di Natale, uno dei tanti che da bambini hanno sorprese vicino alle radici. Il fratello desiderava una bicicletta ancor prima di poter pedalare, quando riuscì a "cavalcarla", iniziò a gareggiare, e ad accompagnarlo c'era proprio Monica, sua sorella. Nessuno, in famiglia, faceva parte di quel mondo: suo padre seguiva altre due ruote, quelle delle moto. Cominciò così, guardandolo e avendo voglia di provare e, da quel momento, quella ragazzina non mancò nemmeno un allenamento: «Non riesco a iniziare a fare qualcosa tanto per farlo, per occupare il tempo. Non volevo perdere, mi arrabbiavo se succedeva. Era un gioco, ma ho imparato presto il valore di giocare seriamente». Il ciclismo, dapprima mountain bike, successivamente su strada, le è servito per accantonare parte della timidezza che affligge molti da ragazzi, per acquisire sicurezza, per uscire dalla riservatezza e mettersi a confronto con gli altri: è un valore che Trinca Colonel riconosce a tutto lo sport, non solo al ciclismo, poi l'adolescenza, anni difficili, e la decisione di smettere. Eppure, in lei, la bicicletta, pur abbandonata su un muro, aveva lasciato un segno. Sì, perché dopo i primi tempi in cui l'allontanamento era un modo come un altro per cercare una nuova strada, crescendo, è tornata a pensarci: «Mi capitava di vedere le gare di altre ragazze, cresciute con me, in televisione e di chiedermi io dove avrei potuto essere in quel plotone. Di più: mi chiedevo proprio quante possibilità avrei avuto di arrivarci, se avessi continuato». Invece, ora, usava la bicicletta solo per brevi spostamenti, magari in pausa pranzo, all'uscita da quel negozio di Livigno dove lavorava. Su e giù, appena qualche chilometro.
La casa è il luogo dove maturano i pensieri, spesso nei momenti di solitudine, magari in un pomeriggio in cui si è particolarmente insoddisfatti e quel pensiero pesa di più. Allora si aspetta che qualcuno torni in casa e, dopo tante volte in cui si è pazientato, si è rimandato, questa volta si libera la mente e, attraverso le parole, si dona fiato a quell'idea. La persona che rientra, quel giorno, è il suo compagno, le parole sono poche e semplici: "Voglio riprovarci". «Non era facile: si trattava comunque di lasciare un lavoro sicuro per il nulla, in sostanza, perché sappiamo tutti le difficoltà che ci sono nel ciclismo femminile. Le cose sono migliorate, è vero, ma le problematiche restano e affrontarle da capo a venticinque anni, cambiando tutto nella tua vita, è spiazzante, per te e per chi ti sta intorno. Inoltre, un conto è dire di voler tornare, altro conto è essere in grado di farlo. Da ragazzina ero in gamba, ma adesso?. Tuttavia, qualunque lavoro potrò riprenderlo anche successivamente, anche a cinquant'anni, basterà la voglia: il ciclismo no, il tempo che passa può bloccarmi per sempre quella possibilità, così ho scelto e, devo dire la verità, la mia famiglia ha capito bene questa scelta. Non succede sempre, a me è successo ed è stato importante perché da soli è anche difficile decidere».
Proprio il suo compagno, le consiglierà di fare un test per verificare le effettive possibilità ed i reali valori per un suo ritorno in gara, meglio ancora, per proporsi a qualche squadra. Sarà quel test a rivelare valori decisamente positivi: «Mi hanno detto che avrebbero sottoposto il test a diverse squadre. Sono tornata a casa, ho continuato a lavorare, ero in attesa. Quante volte mi sono detta che non ce l'avrei mai fatta? Più o meno quante volte ho pensato l'esatto contrario. Aspettavo una telefonata». A chiamarla sarà Walter Zini, la squadra con cui potrà ricominciare sarà la Bepink-Bongioanni: «Di fatto, non ci si crede fino a che non si arriva alla partenza della prima gara. L'unica cosa che potevo fare era aumentare le ore sui rulli, post-lavoro, per essere preparata fisicamente. Fino al giorno in cui ho lasciato definitivamente il negozio a Livigno». In quel momento, il filo spezzato quando aveva poco più di quattordici anni è stato ricucito: Monica Trinca Colonel è di nuovo una ciclista.
«I movimenti che impari in bici non li scordi mai. C'è un qualcosa di inspiegabile che fa sì che il nostro corpo se ne appropri e non li lasci più. Temevo di faticare a riacquisire l'automatismo, invece mi sentivo a mio agio: certo, stare davanti è stato difficile, nella nuova prima volta, non ci sono sempre riuscita e, probabilmente serviranno altri allenamenti e altre gare per aggiustare quel che manca, ma sono stata soddisfatta sin da subito». Il ciclismo è squadra, anche o forse soprattutto: all'inizio Trinca Colonel è concentrata soprattutto sulle proprie sensazioni, sul non sbagliare, sulla tensione di una situazione a cui non è più abituata. L'importanza della squadra sarà nella disponibilità delle sue compagne, negli incoraggiamenti o nei complimenti, nella consapevolezza che ci sarà tempo e modo di perfezionare ciò che ancora non funziona e saranno loro a guidarla, accanto a Walter Zini. «Zini è diretto: dice tutto quel che deve dire e lo dice esattamente come lo pensa. All'inizio è possibile restarci male, lo capisco, ma nel lungo la sincerità è sempre la cosa migliore. A me, poi, quella schiettezza piace: il mio allenatore di quando ero bambina era proprio così. Inoltre la sua visione di gara è eccezionale: dall'ammiraglia è in grado di consigliare quasi fosse al tuo fianco in gruppo».
Tutti hanno in mente quel che Trinca Colonel ha messo su strada alla Vuelta: ventiseiesimo posto finale in classifica generale, dodicesima nell'ultima frazione, la tappa regina, in montagna, quattordicesima e diciottesima in altre due tappe complesse, sempre non lontano dalle migliori, qualche difficoltà solamente nel vento e nei ventagli, ma l'aveva messo in conto. Il traguardo che si era prefissata era riuscire ad essere fra le prime trenta e ci è riuscita: «Voglio sia chiaro che questo è un punto di partenza, non credo di aver dimostrato ancora nulla, lo farò, di certo ho più convinzione, la sicurezza e la forza che servono per farcela, per provarci almeno». Le montagne le piacciono, ma non si definisce una scalatrice pura, bensì una passista scalatrice, con il traguardo prefissato di migliorare in pianura. Un'atleta legata all'istinto in sella, con la voglia di buttarsi anche in situazioni che lo sconsiglierebbero, che, però, sta imparando ad ascoltare i consigli dalla radiolina, a non prendere rischi inutili, a preservarsi per altri appuntamenti. Si è emozionata ad essere in gruppo con Marianne Vos, la stessa che seguiva in televisione da bambina, e con Demi Vollering, «ciclista perfetta da vedere in sella», ammira Tadej Pogačar, perché vince, per il talento, ma soprattutto «per l'umiltà e la capacità di restare umile nonostante i successi».
La sua storia in bicicletta è giunta al secondo tempo ed è una storia diversa da tante altre, di cui lei va fiera, nonostante le difficoltà: «Non mi sono mai vergognata, mai sentita fuori luogo. In fondo, il gruppo colorato e multiforme è un insieme di donne con storie diverse. Ciascuna è importante. Io provo a portare la mia, chissà fino a dove arriverò».
Alé La Merckx: appuntamento a fine giugno
Dopo le incredibili emozioni del Giro d’Italia, la cui tappa regina ha illuminato il cielo di Livigno, le due ruote tornano nel Piccolo Tibet, in occasione dell’Alé la Merckx, storica granfondo molto apprezzata dagli appassionati della disciplina. Disponibile in due versioni, lungo e breve, il percorso attraversa chilometri di natura incontaminata, mettendo gli atleti di fronte a grandi passi alpini, tornanti mozzafiato e ad importantissimi dislivelli: 2050 metri per il circuito più corto, addirittura 4100 per quello più impegnativo. Due gare distinte, da 96 e 173 chilometri rispettivamente, che partiranno entrambe dall’Aquagranda, il Centro di Preparazione Olimpica della località, luogo di allenamento di tantissimi campioni del ciclismo e non solo, visto che da decenni Livigno è tra le mete preferite di tutti i campioni del pedale, nel percorso di avvicinamento ai grandi impegni internazionali. Particolarmente scenografico sarà anche l’arrivo della gara, posto sul traguardo del Mottolino, a 2400 metri d’altitudine, lo stesso identico finale protagonista della tappa numero 15 del centosettesimo Giro d’Italia, chiuso domenica scorsa dal trionfo dello sloveno Tadej Pogacar.
Un’occasione unica e irripetibile per tutti gli atleti presenti al via, che potranno così cimentarsi su uno degli strappi più duri e iconici della grande corsa rosa: un instant classic che ha fatto brillare gli occhi a tutti gli appassionati del Mondo. E anche la perfetta ciliegina sulla torta di un tracciato che comprende alcuni dei passi più difficili e importanti del panorama ciclistico italiano, come l’Umbrail, il Foscagno e la Forcola. Veri e propri monumenti delle due ruote. Aperte fino al 24 giugno le iscrizioni online per garantirsi un pettorale, senza la necessità di specificare quale dei due tracciati, se il breve o il lungo, si desidera affrontare: la scelta, infatti, può essere presa in via definitiva direttamente sabato 29 giugno, data dell’Alé la Merckx. Per i ritardatari e gli indecisi, sarà comunque possibile completare l’iscrizione fino al giorno 28 giugno, alla vigilia della gara, di persona, direttamente a Livigno. Per tutti i partecipanti, è previsto un pacchetto completo di pettorale personalizzato, gadget, maglia da ciclismo Alé, rifornimento, assistenza, Food Quality Party e molto altro ancora.
Particolarmente allettante anche l’esclusiva promo Race-Relax, che combina l’iscrizione alla gran fondo e l’ingresso al centro benessere dell’Aquagranda ad un prezzo speciale di 80€. Per usufruirne, basterà inserire il codice RACE-RELAX durante la registrazione alla gara.
La promozione è valida fino al 20 giugno. Per ulteriori informazioni e iscrizioni, visita il sito: https://www.endu.net/it/events/granfondo-livigno/
La galassia di Buonconvento e Nova Eroica
Tutto attorno a Buonconvento, un giallo intenso divampa sulle colline: sono le spighe di grano, ormai mature, mentre il mese di giugno si appresta a lasciare il passo alla calura di luglio. Sono un dipinto in costante lavorazione quelle colline, puntinate di un verde acceso in primavera, brulle durante la stagione della raccolta, a ottobre, e gialle come se il riflesso del sole le colorasse nei primi giorni d'estate. Nei giorni di primavera, da queste parti, verso l'agriturismo in località Pieve Sprenna, quel giallo è quello dei primi fiori, qualche mese più tardi assumerà le sfumature dorate delle balle di fieno.
L'immaginario pittore che le ha disegnate continua a dosare con attenzione la tempera e a scegliere i toni più adatti al cambio del cielo, così l'armonia è costante. Essere in sella a una bicicletta, da queste parti, soprattutto sugli sterrati, è, alla fine, una ricerca di altri tempi, «di un'italianità di anni passati a cui siamo tutti legati, anche chi non era ancora nato, perché, a ben guardare, il nostro bel paese lo abbiamo scolpito così nella nostra mente e vorremmo restasse sempre nel modo di quel tempo speciale»: sono parole di Alessandro Davolio, Marketing Manager e Art Director, di Nova Eroica Buonconvento e questi paesaggi, se ci pensiamo, sono più che mai affini all'essere "eroici" nel senso ciclistico del termine. Sì, perché vi sono le strade bianche e polverose della Toscana, anche loro antiche, "quelle che, negli anni novanta, rischiavano di essere sottoposte all'imponente processo di cementificazione in atto e che Eroica ha sempre cercato di proteggere e tutelare, salvaguardando una zona dal fascino unico, nonostante gli sterrati si trovino in ogni parte del mondo" e perché pedalare nella polvere costa fatica, come sempre quando l'essere umano si fa motore della propria persona, forse ancor di più.
«Permettetemi una divagazione: ricordate i vecchi negozi di dischi e vinili, quelli in cui ci si addentrava alla ricerca di una nuova canzone da ascoltare? Oggi è sufficiente l'algoritmo di spotify per ottenere lo stesso risultato, almeno apparentemente. Ma il risultato è veramente il medesimo? Io credo di no. La strada più veloce, più facile, non è sempre la più bella, spesso, anzi, vale la pena addentrarsi in situazioni più complesse, fare più fatica, uscire dalla strada maestra che tutti percorrono perché la bellezza si annida altrove, pur se costa più sforzi. Le strade di cui parlo sono quelle che si percorrono in bicicletta, ma anche quelle metaforiche della vita di tutti i giorni, delle situazioni che accadono a tutti noi. La mentalità eroica apprezza la fatica, la ritiene bella, la eleva. Deve essere, però, una fatica sana, buona, per essere vissuta positivamente dalle persone». Il nostro problema, osserva Davolio, è che spesso la frenesia della società attuale, pur migliorando la produttività, annulla completamente ogni spazio libero, ogni possibilità di apprezzare qualcosa guardandosi attorno e, così facendo, moltiplica la stanchezza. Le donne e gli uomini che vivono l'esperienza di Nova Eroica, in questo senso, si proiettano in una galassia differente.
Una fotografia mai scattata, ma ben chiara nella mente di Alessandro Davolio: Vincenzo Nibali che, ad un ristoro, durante Eroica, alle nove del mattino, si gusta un uovo sodo con del sugo ed un bicchiere di buon vino. Non sono solo i giorni di Eroica a correre ad un tempo diverso, sono anche i luoghi: Gaiole in Chianti con le persone che giocano a bocce, al biliardino o a carte, ma anche Milano o Padova tutte le volte in cui una madre, ad esempio, decide di scegliere la bicicletta, con un seggiolino, per portare il proprio figlio a scuola. Si tratta di atti, in senso lato, "eroici" che permettono di avere un'altra visuale del circostante. «Posso dire, in prima persona, che la bicicletta mi ha cambiato la vita. Vi sono arrivato dopo un incidente in moto in cui ho rischiato la paralisi. Sono originario di Brescello, il paese di Don Camillo e Peppone, ad Eroica sono arrivato due anni dopo, grazie ad un amico. Da quel momento, ho scoperto tanto della bicicletta: la sua velocità, quella ideale per vedere il mondo, per apprezzarlo, la possibilità di introspezione che apre, mentre, in salita, i pedali scandiscono i pensieri. Nel frattempo si "sente" il proprio corpo, percependo ogni suo piccolo dettaglio».
La bicicletta, per Alessandro Davolio, ha confini ancora più vasti: pensiamo, ad esempio, al suo viaggio a Montpellier con quel vicino di casa che, sino a quel momento, non aveva mai davvero conosciuto: un viaggio che, ancora oggi, Davolio non esita a definire «il più bello di sempre». La fatica, nel percorso di conoscenza della bicicletta arriva prima: durante le pedalate iniziali quando tutto è più difficile che mai, persino la pianura, persino quello che, dopo qualche tempo, sembrerà ovvio, naturale. Il rapporto con la bicicletta si affina a forza di incertezze e dolore alle gambe ed il bello è che non si completa mai del tutto. Nel caso di Alessandro, un'altra tappa importante di questo percorso è stata la partecipazione a Nova Eroica essendo parte dello staff organizzativo, vivendo dall'interno l'eccitazione del momento, l'interazione fra gli iscritti, la voglia di mettersi alla prova e di superarsi, ma anche solo di provare: «Il nostro percorso Epic Route è finalizzato a questo: permettere a chiunque di vedere fino a che punto ci si può spingere sulla propria bici in una giornata. L'inclusività deve essere sempre maggiore per permettere a tutti di vivere la gioia, la festa, senza troppe aspettative. E la festa di Eroica è una festa senza soluzione di continuità, si rintraccia ad ogni ristoro, ad ogni piatto di ribollita o di pane con la finocchiona, in ogni attimo della giornata, a patto di volerlo».
La festa è una sorta di momento sacro, come il cibo, anche a Buonconvento. Un paese lungo la via Francigena, una tratta di pellegrinaggio, in cui tutte le persone sono sempre a contatto con la strada, con i viaggiatori, con il viaggio e con il suo senso più profondo: «Pare quasi Buonconvento sia distaccato dalla normale concezione spazio temporale e sia connesso profondamente alla realtà, in maniera lenta e umana. Saranno le sue mura medievali, quei mattoni che pare abbraccino. Come quella strada tra due colonne di cipressi, bianca e pianeggiante, che porta alla fattoria in località La Piana: una sorta di set cinematografico, abbandonato dagli attori, immerso nella pace e nella tranquillità. Buonconvento sono le persone che vi abitano, è Riccardo dell'Hotel Ghibellino e del ristorante Roma, una tappa quasi obbligata, per il piacere di incontrarsi, di salutarsi, anche se poi non ci si ferma a cena. Buonconvento è un insieme di tante cose che, forse, bisogna vivere per capire davvero». Allora, cosa si fa in questi casi? Ci si segna un appuntamento, quello del 22 giugno a Nova Eroica, a Buonconvento. Per strada, oppure sotto un tendone, a bere una birra e a parlare di biciclette. Un buon auspicio per l'inizio di questa nuova estate.
Qui il codice che gli abbonati di Alvento possono usare su MyEroica.cc :
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Foto: Paolo Penni Martelli
Il questionario cicloproustiano di Matteo Fiorin
Il tratto principale del tuo carattere?
Determinato.
Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
Serietà in ciò che fa.
Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
Voglia di fare.
Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
Simpatia.
Il tuo peggior difetto?
Sono permaloso.
Il tuo hobby o passatempo preferito?
Videogiochi.
Cosa sogni per la tua felicità?
Vincere.
Quale sarebbe, per te, la più grande disgrazia?
Perdere una persona importante per me.
Cosa vorresti essere?
Ciclista professionista.
In che paese/nazione vorresti vivere?
Principato di Monaco.
Il tuo colore preferito?
Arancione.
Il tuo animale preferito?
Leone.
Il tuo scrittore preferito?
Non ne preferisco uno in particolare
Il tuo film preferito?
Escape plan.
Il tuo musicista o gruppo preferito?
Ascolto musica molto varia.
Il tuo corridore preferito?
Van Aert.
Un eroe nella tua vita reale?
Mio papà.
Una tua eroina nella vita reale?
Mia mamma.
Il tuo nome preferito?
Non ne ho uno.
Cosa detesti?
Lo yogurt.
Un personaggio della storia che odi più di tutti?
Non ce n'è uno in particolare.
L’impresa storica che ammiri di più?
Non saprei.
L’impresa ciclistica che ricordi di più?
Froome sul colle delle finestre al Giro d'Italia.
Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
Giro d'Italia.
Un dono che vorresti avere?
Leggere nella mente.
Come ti senti attualmente?
Abbastanza bene.
Lascia scritto il tuo motto della vita
"Il giorno più facile era ieri".
Il mestiere dei corrieri in bici
Il tempo di Emma Missale si è sempre disposto attorno ad una bicicletta, quasi fosse il perno di un orologio su cui sono innestate le lancette che, nel loro ruotare, indicano le ore ed i minuti. Senza perno, non ci sono lancette: il tempo, invece, c'è lo stesso, ma anche il tempo ha bisogno di orientarsi, di essere orientato. Emma Missale, venticinque anni, nata a Sondrio, cresciuta fra le vie di Milano, laureata in Urbanistica, ha sempre tratto da una bicicletta i punti cardinali delle proprie giornate, dai primi giri in un cortile, da bambina, ai parchi in periferia, alle strade che corrono accanto ai campi, fino alla caoticità del centro che attrae e respinge, affascina e spaventa. E, ancora, scavando a fondo, approfondendo, conoscendo la meccanica della bicicletta, gli ingranaggi e la catena, i materiali, i raggi e le ruote, i freni ed il vento in faccia della velocità e anche della felicità, ma questo è un altro discorso. Si diventa indipendenti così, salvando nella memoria e provando a replicare sensazioni primigenie che si sono vissute in una pedalata: il tragitto casa-scuola, ad esempio, qualunque spostamento in città, fino al lavoro, all'essere corriere in bici, avventura che Missale ha intrapreso già mentre studiava, all'Università. Bicicletta e città si incontrano quindi attraverso una ragazza, un poco timida e così abituata a parlare l'inglese, perché ha fatto casa a Copenaghen, da chiedere scusa ogni volta in cui la ricerca della parola corretta in italiano porta via qualche secondo al dialogo, al racconto. Bicicletta e città si incontrano, mentre Emma continua a pedalare e a studiare.
«A Milano, ad un certo punto, era diventato stressante stare in sella. Non tanto per la fatica fisica che, comunque, è parte del mio lavoro, ma per la parte mentale di costante attenzione a tutto e tutti. I rischi sembrano arrivare da ogni angolo, il timore è in sottofondo e anche un'attività piacevole, liberatoria, come il pedalare diventa pesante, stressante. Non riesci mai ad essere leggera in bici e, a lungo andare, pensi di mollare. Copenaghen è da sempre una città bike friendly, sarà per questo che, quando ho ricevuto la proposta da By-Expressen, un collettivo di corrieri, non ci ho pensato molto prima di dire di sì. Anche ai mercatini si trovano facilmente pezzi di bicicletta dei tipi più svariati, anche ricambi. Mentre le Cargo Bike interessano sempre più persone». Sì, corriere in bicicletta, ovvero una bici, del materiale da consegnare, un tempo e una via in cui andare a recapitarlo, ingegnandosi sul come trasportarlo, prendendo le misure, perché non è come viaggiare da soli, imparando a gestire gli spazi della strada e quelli che occupa ciò che devi trasportare. Emma Missale se ne intende, non solo per l'esperienza acquisita in questi anni, anche perché è stata medaglia d'oro ai mondiali dei bike messenger nel 2019, nel 2022 e anche quest'anno, nel 2023, a Yokohama, in Giappone. La storia di quest'ultimo viaggio merita un capitolo a parte.
Da mesi le ronzava in testa l'idea di un viaggio in bicicletta da sola, alla fine è partita per il Giappone, più di 3000 chilometri percorsi, circa 3500 metri di dislivello e una delle più belle esperienze della sua vita. Racconta di faticare a trovare un attimo in cui non fosse felice, per lei la fatica è felicità, la solitudine può essere felicità, soprattutto pensando all'ultracyclism, disciplina di cui legge, da cui è affascinata e che vorrebbe sperimentare, un domani: «Credo sia necessario restare da soli per capire realmente fino a dove è possibile arrivare, visualizzare il limite, sfiorarlo, toccarlo. Faccio un esempio: quando si pedala in compagnia, magari ci si ferma ogni cinquanta chilometri, da sola, verso Tokyo, ho girato ininterrottamente per centoventi chilometri. Un'energia speciale. Certo per diventare una ultracyclist dovrò fare allenamenti specifici e sarà tutto diverso, ma ho capito di poterci provare. Se puoi, lo capisci quando sei solo e non c'è nessuno ad aiutarti, ad ascoltarti, a guardarti: vale per ogni ambito della quotidianità». Oggi, attraverso i telefoni, si resta in contatto in ogni angolo del mondo e, se si è molto lontani, basta una voce o un messaggio per far sentire sicuri, però, in Giappone questo non è servito perché su quelle strade Missale si è sempre sentita a proprio agio, per le strade sicure ma, anche, per la gentilezza e l'attenzione costante verso la persona, in ogni sfaccettatura.
«Dopo aver vinto la gara principale dell'evento, avevo immerso per qualche minuto le gambe nell'acqua fredda di un fiume, poi, smontata ed impacchettata la tenda, mi stavo preparando a ripartire. Una signora giapponese mi si è avvicinata, porgendomi un bicchiere di thè caldo. Per loro è un'usanza, un regalo di benvenuto, quando si arriva, e uno di arrivederci, quando ci si saluta. Da noi non si usa, nemmeno a Copenaghen, mi ha sorpreso, mi ha lasciato un bel ricordo». Le gare dei corrieri in bicicletta, in realtà, simulano una normale giornata lavorativa, con dei checkpoint che verificano il regolare passaggio ed un tempo finale per stilare una classifica e premiare. Tutto attorno talk, incontri, forum, critical mass, feste e la progettazione, l'organizzazione degli eventi dei prossimi anni. Ma pedalare resta sempre la parte più bella di questo lavoro, anche se il collettivo è un'organizzazione e chi vi partecipa riflette sul suo futuro, porta idee, aiuta, si occupa anche di tutto l'aspetto di backstage, di ufficio. La base comune è il gruppo che si crea fra corrieri in bici: una comunità vera e propria che si riconosce in ogni luogo del mondo e collabora ovunque si incontri. Un'appartenenza che non viene spezzata da nulla.
Tutti quei chilometri hanno permesso ad Emma Missale di applicare i suoi studi alle città che ha visto. A Milano, ci racconta, sono tante le cose da cambiare nelle strade: il conflitto fra ciclisti e automobilisti è sia spaziale che sociale, a ciò si aggiunge una città completamente autocentrica, con poche ciclabili, talvolta con cordoli, più attente all'estetica che alla funzionalità, che, in realtà, non creano sicurezza, servirebbe una policy in tema. Copenaghen, invece, è esattamente come potremmo immaginarla: assoluta priorità alla ciclabilità ed alla mobilità sostenibile, ciclabili che portano in ogni angolo della città, interventi pubblici che vengono eseguiti prima sulle ciclabili rispetto alle normali strade, un codice per i ciclisti conosciuto da tutti, automobilisti che rallentano sempre quando vedono un gruppo di ciclisti, condivisione della strada, massimo rispetto delle regole, agevolazioni per chi pedala molto. Ci sono gli spazi adeguati e la bicicletta è vissuta in serenità. Del Giappone, di Tokyo, in particolare, resta il rispetto e quegli specchi bombati per le strade che allargano la visuale della carreggiata, forse non molto tecnologici, ma sicuramente con l'intento di aumentare la sensazione di sicurezza.
Allora quella ragazza in bicicletta, quella donna corriere in bicicletta, ed anche l'essere donna è importante qui, visto il numero minore di donne in questa professione, almeno in Italia, riparte per le sue otto ore di lavoro: con una medaglia d'oro in più al collo, genuina come la prima volta, sapendone qualcosa in più. Come noi, dopo averla ascoltata.
Fulcrum Sharq
Progettata per elevare l’esperienza di guida su qualunque tipo di percorso, dall’asfalto alle strade bianche, SHARQ è il risultato di un attentissimo lavoro dove ricerca, ingegneria avanzata, progettazione e test, si fondono per garantire la miglior performance possibile. Il tutto con una filiera dove ogni componente viene realizzato in Europa e assemblato in stabilimenti di proprietà.
Una ruota nuova, moderna, intelligente. Adatta davvero a tutto, dall’endurance all’allroad.
Con canale interno da 25 mm, perfetto sia per ruote da strada da minimo 30 mm sia per pneumatici più larghi e tassellati, e compatibile con sistemi tubeless e a camera d’aria, il cerchio è munito di mini-hook, che assicura la massima sicurezza. Come ogni ruota Fulcrum, il ponte non è forato e, quindi, tubeless nativo, senza necessità di ulteriore nastro.
WAVE RIM: UNA COMBINAZIONE TRA ONDE
Il nuovo design del cerchio – patent pending – nasce da un processo sperimentale, in cui siamo andati ad analizzare le reazioni di diverse soluzioni a condizioni di vento frontale e laterale che influenzano maneggevolezza e aerodinamica.
Il risultato di studi sperimentali, dove sono state analizzate le reazioni a condizioni di ogni tipo di vento, prende il nome di 2-Wave Rim ed è uno degli elementi distintivi di SHARQ, ovvero la loro forma ad onda. L’altezza del profilo varia da 42 a 47 mm, rispettivamente nella parte più alta e in quella più bassa dell’onda, per un totale di soli 1.440g.
In termini di resistenza al vento laterale, si registra un miglioramento del 21% in condizioni di vento tra 0° e 10° e fino al 30% tra 10° e 20°, rispetto a un profilo tradizionale di pari altezza.
IL NUOVO RAGGIO A3RO
Si chiama A3RO: un nuovo raggio piatto in acciaio, con una larghezza di 3 mm e uno spessore di 0,8 mm, che offre notevoli vantaggi a livello aerodinamico. Inoltre è stata rivista l’interfaccia mozzo-raggio: il foro prevede due fessure ulteriori accoppiate a una specifica schiacciatura alla base del raggio, che consente a questo di restare allineato e non ruotare, garantendo un supporto aerodinamico costante.
I raggi non si toccano mai tra loro così da mantenere la tensione nel tempo e, quindi, assicurare lo stesso livello di performance nell’intero ciclo di vita del prodotto, senza necessità di interventi meccanici per ovviare a eventuali cali di tensione.
Insomma, un modo nuovo di concepire una ruota, che noi apprezziamo davvero molto.
FULCRUM SHARQ 2.460 €
fulcrumwheels.com
Luoghi comuni (e meno comuni) sulla Valtellina
GRAVELLINA
Il 21 e 22 settembre 2024 ci sarà la prima edizione di Gravellina, un evento che nasce dall’amore per questa valle e le sue bellezze, paesaggistiche, storiche e culinarie. Un evento gravel senza classifica, dove il territorio sarà in primo piano non solo grazie al paesaggio, ma anche con la sua cultura e la sua accoglienza. Pedalare in Valtellina, tra le vigne, a settembre, significa annusare il paesaggio, ascoltare il rumore dell’inizio della vendemmia, prendersi il tempo per chiacchierare con i contadini e bere dalle fontane. L’evento proporrà un percorso lungo, due medi – uno sabato e uno domenica – e un giro facile la domenica mattina: il tutto accompagnato da soste culinarie, musica e, come ci piace, tempo perso, quello necessario per accorgersi di quello che c’è attorno a noi, in sella e non solo.
Il programma, le iscrizioni e tutte le informazioni sono qui: www.gravellina.com
Verbi solitamente applicati alla Valtellina, in senso lato: attraversare la Valtellina, percorrere in auto la Valtellina, mangiare i pizzoccheri in Valtellina, bere il vino o comprare le mele della Valtellina, pensare di dimagrire mangiando la bresaola della Valtellina. Più raramente si dice pedalare in Valtellina, lunga vallata che spesso si percorre verso un altrove ciclistico più famoso: lo Stelvio, il Gavia, Livigno, il Bernina per citarne alcuni. Non avendo la forza, nella vita, di sanare grandi ingiustizie, credo di poter invece coraggiosamente contribuire almeno a contraddire la convinzione errata che la Valtellina non sia, invece, il classico posto della Madonna in cui pedalare e anche godersi delle soste culinarie degne della nostra fame. La Valtellina è una valle che collega la Lombardia alla Svizzera e che, come tutte le valli lungo le quali nei secoli passati si potevano agilmente passare le Alpi, è stata altrettanto agilmente percorsa da eserciti, principi, re, cardinali, rivoluzionari e controrivoluzionari, cattolici e protestanti (che qui se le sono date alla grande), Franchi, Spagnoli, Etruschi, Longobardi e persino Liguri. Già, i Liguri. Sapere che i Liguri hanno avuto un ruolo non marginale nella storia della Valtellina mi ha colpito molto, non tanto perché non sia convinto della grandezza del popolo ligure, non fosse altro per la focaccia, De André e i carruggi, ma perché in effetti le Cinque Terre e la Valtellina hanno una cosa importante in comune, ossia i terrazzamenti, i vitigni e soprattutto una gran voglia di coltivarli molto faticosamente. E infatti pare siano stati proprio i Liguri, anticamente, a portare in Valtellina la vite e a segnare in maniera decisa il destino degli assolati e impervi versanti della valle, da cui arrivano oggi vini, soprattutto rossi, dotati di un carattere senza compromessi. È con questa idea, con atteggiamento da esploratore e giustiziere, che son partito dalla piazza di Sondrio, che di mattina potrebbe essere quella di altre mille città italiane: le persone che passeggiano, i monumenti, la luce, le montagne tutto attorno e il classico aplomb della ricca provincia italiana.
Il percorso che mi ha proposto Camillo, organizzatore di eventi come Valtellina Ebike Festival o Gravellina – di cui parleremo poi – è fatto di 70 chilometri di ininterrotta bellezza, e non è retorica.
Nella prima parte ci siamo scaldati le gambe lungo il famoso Sentiero Valtellina, dove si inizia presto a farsi un’idea di tutto quello che, passando in auto, ci era sfuggito, mannaggia a noi: vigneti, boschi, chiese, castelli, montagne e borgate di pietra. Iniziando a salire, sbuffando, perché le salite della Valtellina non sono quasi mai di quelle da fare fischiettando, il panorama si apre e la luce, essendo una valle soleggiata e aperta come poche, inizia a disegnare il paesaggio.
Da subito si intuisce che ogni metro di questa valle è frutto di secoli di lavoro e fatica: è una terra che è stata tanto attraversata da mercanti e contesa da eserciti, quanto da sempre coltivata, essendo molto più fertile delle vallate più a nord, come quelle degli invidiosi Grigioni; proprio per questo è diventata un territorio ricco, che ha fatto della sua posizione, della terra fertile, dell’abbondanza d’acqua e della tenacia dei suoi abitanti gli ingredienti per essere quello che è oggi.
Attraversandola in bici, salendo sul versante esposto a sud e guardandola dall'alto, la Valtellina dà il meglio di sé, mettendo nello stesso sguardo le vette innevate del Bernina e delle Orobie e la fascinosa durezza dei borghi di sasso e del fondo valle.
Si pedala lungo incredibili terrazzamenti verticali che ospitano vitigni antichi come le montagne, attraverso villaggi di pietra in cui persino i volti degli anziani sembrano scolpiti, di fronte a cattedrali la cui sproporzionata dimensione racconta di epoche in cui avere una chiesa grande era motivo di orgoglio, come negli anni '80 il figlio laureato. Mi segno posti e nomi come la Fracia, il Vecchio Torchio lungo la Via dei Terrazzamenti, il centro storico medievale di Ponte in Valtellina, i meleti di Chiuro, i mulini e i palazzi di Teglio; e poi ancora il Castel Grumello, che domina la valle e il monumentale santuario della Santa Casa a Tresivio; ma anche la passerella sulla gola delle Cassandre e il quartiere storico di Scarpatetti a Sondrio. A Teglio, paese a 900 metri di quota che dà il nome alla Valle, ha sede l’Accademia del Pizzocchero, a conferma del fatto che da questi parti con cibo e vino non si scherza e la preparazione del celebre piatto è una liturgia che non accetta ironia o variazioni, non sia mai che si voglia discutere della quantità di burro o della provenienza della farina di grano saraceno.
Riempito lo stomaco di quanto basta, in termini di calorie, per rientrare a Padova pedalando a 40 km/h, con la mia guida locale continuiamo a pedalare, ora col sorriso sereno di chi ha assaggiato lo Sfursat, il rosso di queste terre, come raccomandano tutti i nutrizionisti più in voga. Boschi di faggi, pini, abeti, torrenti, sentieri di colpo tecnici, tutti da guidare, e infine mulini, nascosti tra le rocce, completano l’esperienza e non c'è un metro in cui non venga la voglia di fermarsi per fare una foto perfetta per Tinder, Strava o la lapide. Il foliage e le geometrie precise dei terrazzamenti sembrano un quadro e la bellezza è senza compromessi: natura e paesaggio, uomo e storia.
A chiudere il giro, prima di rientrare a Sondrio, Castel Grumello, restaurato dal FAI, da cui si vedono montagne a non finire, si intuisce la dimensione di questa valle, che va dal Lago di Como a Bormio, e si immagina il tempo in cui qui, da queste torri, cavalieri e soldati guardavano lontano. Rientriamo a Sondrio dopo aver superato il vertiginoso ponte sulle Cassandre, 100 metri sopra il torrente Mallero, godendoci poi la divertente discesa che ci porta nella parte vecchia della città,
guidando veloci tra single track e ciottoli consumati dai secoli. Abbiamo percorso solo una parte della Valtellina, lungo il versante Nord della valle, attorno a Sondrio, non avvicinandoci a Tirano o al Lago di Como e abbiamo snobbato, per ora, le vallate laterali come la Val Masino, la Valmalenco, la Val Gerola e tante altre. Ce ne sarebbe da pedalare per una settimana, ma per questa volta preferisco preservare il matrimonio e tornare a casa.
Tornerò per la Gravellina.
Testo – Andrea Benesso
Foto – Ulysse Daessle
Mark Cavendish Cycling Masterclass
Ecco una gustosa novità in arrivo dal web, di cui sicuramente non avrete ancora sentito parlare. State a sentire.
Sport.xyz è la nuova piattaforma che offre masterclass online dei migliori campioni dello sport. È tutto molto semplice: andando sul sito ed acquistando la masterclass si ha diritto a vedere sessioni video esclusive di allenamento e interviste per imparare nuove skills tecniche e mentali da utilizzare nei propri allenamenti e in gara.
Quella con Cavendish tratta un'enorme varietà di argomenti: si parla di tecnica, performance e anche psicologia. Un Mark inedito, a fare da guida e pronto a condividere suggerimenti, indicazioni, conoscenze accumulate in una delle carriere più vincenti della storia di questo sport.
La masterclass si divide in tre sezioni.
INDOOR. Qua sono presenti tre differenti workout replicabili in modalità one to one - ognuno da circa 40 minuti - all'interno dei quali si alternano diverse tipologie di esercizi, come il lavoro in soglia aerobica, l'interval training, il lavoro in Z2 e un HIIT workout. All'interno delle tre sedute, oltre alla parte tecnica, ci sono anche numerosi dettagli e suggerimenti legati a tutte le tipologie di allenamento indoor usate da Mark. Volete un consiglio? Mettetevi sui rulli, premete il tasto play e allenatevi direttamente con lui - attenzione ai massacranti intervalli full gas!
INTERVISTA ESCLUSIVA. C’è poi la parte più discorsiva dove, in un’ampia collezione di capitoli narrativi, Mark condivide la parte più personale della sua esperienza, raccontando con dovizia di particolari aspetti della preparazione da ciclista professionista, della scoperta del talento, della vita di squadra e delle dinamiche di corsa nel gruppo. Riflessioni importanti anche in tema di mental health, partendo dai suoi pensieri rispetto al rapporto tra vita personale e lavoro, fino alla relazione con vittoria e sconfitta.
OUTDOOR. Infine ecco la sezione della Masterclass sul lavoro outdoor: un long take di mezz’ora di un suo esclusivo allenamento su strada, in Grecia. A bordo dell'auto del suo allenatore si può seguire una seduta di allenamento commentata direttamente da Mark.
Insomma, sono tre ore e mezza di informazioni davvero interessanti che cambiano la visione del ciclismo.
Decisamente alvento approved.