Comprendere un dominio

Chi scrive non ha mai avuto grande passione per quei domini che si manifestano tramite la tripletta di una squadra, come successo ieri alla Parigi-Nizza: 1° Laporte, 2° Roglič, 3° van Aert, in un mini campionato monomarca griffato Jumbo-Visma, robe da Pro Cycling Manager (per i non appassionati: videogioco del genere manageriale sul ciclismo), oltretutto la seconda in pochi giorni - al Laigueglia fu il turno dell'UAE Team Emirates - e che sottolinea con i risultati le differenze tra alcuni squadroni - nel budget e nella costruzione delle rose - e altri.
Ma chi scrive trova semplici spiegazioni all'arrivo di ieri verso Mantes-la-Ville. Intanto doverosa premessa: l'arrivo in parata può piacere o non piacere, come abbiamo detto, si toccano le corde del puro gusto personale e delle emozioni che trasmettono, ma sono azioni che non dovrebbero sfociare nel campo del dubbio, altrimenti significherebbe prendere con le pinze qualsiasi risultato, di qualsiasi corridore, e non ci pare questo lo scopo della nostra narrazione, che fai dei gesti, della leggerezza nel raccontare storie e spunti, i nodi principali nei quali stringere il romanzo ciclistico.

Chi scrive prova a comprendere tecnicamente: l'attacco mirato degli olandesi - in verità in formato franco-belga-sloveno, ha avuto il primo affondo decisivo con una volata vera e propria di Nathan Van Hooydonck che fa esplodere il branco sull'ultima salitella di giornata, costringendo tutti gli avversari a mollare creando buchi e gruppetti lungo la Côte de Breuil-Bois-Robert risultando decisivo per dare l'abbrivio ai tre compagni di squadra e mandandoli verso il traguardo. Non c'è nulla di disturbante o fuori luogo in quello che si è visto, da un punto di vista tecnico, semmai può essere terrificante per gli avversari sul campo.

È una prova di forza schiacciante, ma di semplice lettura. Dopo la tirata di Van Hooydonck restano in tre a certificare lo stato di strapotere: due dei tre corridori attualmente più forti al mondo - manca il terzo che vinceva qualche ora prima, o meglio, dominava qualche ora prima sulle strade bianche della toscana senese- , e con loro Laporte, corridore che non è atterrato ieri su questo pianeta.

Solido, finora poco vincente, ma molto appariscente, corridore che su su una salitella non impossibile di poco più di un chilometro e mezzo come quella di ieri, terreno da classiche, va a nozze; nel 2021, sulle strade della Parigi-Nizza, ha conquistato due secondi posti di tappa, uno alle spalle di Roglič su uno strappetto, l'altro l'ultimo giorno dietro a Cort Nielsen, al termine di una tappa nervosa, fatta a tutta e con arrivo che sgranò il gruppo e mise in croce diversi uomini di classifica. Senza elencare altri buoni risultati ottenuti in un 2021 che ne affermarono il salto di qualità.

Anno dopo anno è cresciuto al punto di diventare uno degli elementi più interessanti fra quelli che hanno cambiato squadra durante l'inverno. In altre sedi lo hanno definito un van Aert in miniatura, per motore e risultati, le caratteristiche sono pressoché quelle, in tono minore.
Quella di ieri non deve far storcere il naso lasciando il campo a chissà quali dietrologie e anzi ci preme sottolineare ancora di più il bel gesto di van Aert e Roglič, capitani e fuoriclasse, che lasciano la vittoria a Laporte coscienti che quando il bottino si farà più succulento sarà il francese ex Cofidis a ricambiare quel segno di gratitudine fatto dai due capitani designati, mettendosi a lavoro per loro, o fungendo come pedina fondamentale quasi su ogni percorso. In vista di Sanremo e classiche del Nord il resto della compagnia è avvisato, la Jumbo-Visma fa ancora più sul serio di quello che avremmo immaginato.


Van der Poel al Giro? E all'Amstel chi ci pensa?

Si parla, in queste ore, della possibile presenza di Mathieu van der Poel al Giro, che dire: sarebbe una notizia incredibile per noi giromani; Mathieu van der Poel come catalizzatore, come trascinatore; sarebbe senza ombra di dubbio elemento polarizzante: non ce ne vogliano gli altri corridori, ma quando si muove van der Poel, è come se ci fosse, in quell'ammasso di bici su strada, qualcosa in più.
Sarà per il suo modo di correre, sarà perché spesso e volentieri preferisce l'azzardo alla sicurezza, il rischio, calcolato fino a un certo punto: si va all'attacco per entrare nella testa di chi segue il ciclismo e per vincere in maniera mai banale; per diversi motivi immaginarci van der Poel sulle strade della Corsa Rosa ci rende euforici, lo chiamano hype. Già, soltanto dire van-der-Poel-al-Giro è un bel motivo per aumentare la voglia proprio di Giro che a un certo punto dell'anno (di solito in concomitanza con la fine delle classiche) ti prende e diventa irrefrenabile.
Van der Poel nei giorni scorsi ha ricominciato ad allenarsi: ha posticipato la sua attività a causa di noti problemi fisici; lo abbiamo visto in Spagna in un momento di tregua dopo un allenamento, con Campenaerts davanti a una frittella; non ha ancora sciolto le riserve sul suo rientro in gara, e quindi siamo ben consapevoli che in realtà non si sa se verrà al Giro. Teniamo lì in un cassetto questa bella suggestione pronta da tirare fuori più avanti in caso di conferma.

Il fatto certo è che le sue corse stanno per iniziare questo week end in Belgio e lui non ci sarà. Dopo il primo assaggio fiammingo il fine settimana successivo ci saranno la Strade Bianche e poi la Tirreno-Adriatico dove lo scorso anno van der Poel ha piazzato un paio di quei suoi timbri tutt'altro che banali, difficili da dimenticare. Ha mangiato lo strappo di Santa Caterina verso Piazza del Campo, una sgasata di cui si è parlato molto per numeri fatti segnare, per le sensazioni lasciate. Poi alla Tirreno è stata la volta de “l'azione di van der Poel a Castelfidardo" che è già diventato totem per gli appassionati, archetipo sul modo di correre senza calcoli, un po' meno per chi analizza con più freddezza le corse, perché da lì poi si dice "un'azione che lo ha sfiancato e che forse gli ha precluso brillantezza per la Sanremo". Verrebbe da dire: e chi se ne frega, van der Poel è questo e ci piace per questo. Poi quando (e se) sarà il tempo di raccontare le occasioni mancate ne parleremo.

Ci sarà un momento in cui la primavera (ciclistica) sarà quasi verso il giro di boa, ci sarà una corsa che lui ha vinto, ormai sono passati quasi 3 anni, e per certi versi è stata la prima vittoria davvero importante nella sua carriera su strada. Fu una corsa pazza, tirata, entusiasmante – qui ci vuole – davvero fino all'ultimo metro; una corsa ricca di significato per gli olandesi, che la crearono perché negli anni '60 si ritrovarono senza una grande classica da contrapporre al calendario belga, italiano e francese, loro che della bicicletta ne fanno una ragione di vita.
E se qualcuno si fosse dimenticato di quell'Amstel Gold Race vinta da van der Poel, noi vi riproponiamo il finale a questo link www.youtube.com/watch?v=Yi4opDanurU.
Volume al massimo nelle casse o se siete in ufficio nelle cuffiette per rivedere la scena sul rettilineo d'arrivo, sperando di poter assistere ad altre imprese di questo genere targate MvdP, magari perché no, pure al Giro d'Italia. Sarebbe un lusso che ci concederemmo volentieri.


Una nazionale e un’idea di ciclismo: intervista a Paolo Sangalli

Paolo Sangalli ha le idee chiare al termine del suo primo ritiro da Commissario Tecnico con la Nazionale Italiana Femminile: «Quando siamo arrivati in Spagna eravamo un gruppo volenteroso di crescere. Ora che ripartiamo siamo una squadra: è diverso». Capiamo subito che alla base del suo lavoro ci saranno alcune idee portanti a permeare il tutto: ad esempio quella di squadra. Sangalli racconta che un momento, in particolare, sarà delicato in questo percorso, quello delle convocazioni per gli appuntamenti importanti. Se riuscirà a far passare l’idea di team, quel momento sarà più semplice. «Se le ragazze escluse si sentiranno comunque parte di una squadra, lo accetteranno meglio. Il loro senso di appartenenza resterà tale e non sarà ridimensionato da una scelta. Ma, perché questo accada, devo essere bravo a farle sentire squadra, non gruppo. Questo non vuol dire che non debbano restarci male: chi ci resta male, ci tiene. E noi abbiamo bisogno di queste persone».

Il ritiro ha volutamente riunito un gruppo eterogeneo, dalle atlete più esperte alle più giovani, dalla pista alla strada. Qualcuna, Vittoria Guazzini, al rientro da un infortunio. Così deve essere per Sangalli. «C’è un valore particolare nello stare insieme: lo scambio. Penso alle giovani generazioni e alla facilità con cui sono abituate ad ottenere le cose. Qualcosa che viene dalla società, anche dalla tecnologia, dove un click apre un mondo. Vedere la difficoltà con cui Elena Cecchini o Marta Bastianelli sono arrivate dove sono arrivate e vedere lo spirito che continuano a metterci credo sia importante». Il rischio, continua il C.T., è che ci si abitui alla maglia azzurra quasi fosse un’abitudine. Sangalli è perentorio: non può succedere.

Anche per questo, nel 2022 sarà presente alla maggior parte delle gare internazionali di ciclismo. Un messaggio per le sue atlete e anche per le altre nazionali. «Sarà un ribadire che sotto la maglia della squadra di appartenenza, quella della nazionale deve restare sempre. Che non ci si può mai scordare di essere parte dell’Italia. Un messaggio per noi e per le altre nazionali. L’Italia è “la squadra”». Sangalli pensa a Olanda, Germania, Francia e Polonia, le nazionali che teme di più guardando al nuovo anno.

Una presenza che Sangalli ha iniziato a far percepire scegliendo di recarsi in prima persona nei luoghi in cui già erano presenti i ritiri delle squadre, quel “vado io da loro” che disegna i contorni della disponibilità di cui si torna a parlare più volte nella chiacchierata. Una presenza che, però, nulla deve togliere all’indipendenza.

Paolo Sangalli vuole crescere atlete indipendenti, che da sole siano in grado di seguire un programma di allenamento e, soprattutto, di capire se e quando è il caso di fermarsi. «Non si devono seguire a tutti i costi le indicazioni di un preparatore se non ci si sente bene. Basta fare una telefonata, mandare una mail, e il preparatore sarà il primo a dirti di aspettare a fare quel tipo di lavoro nel giorno in cui starai bene. Saltare un giorno di allenamento, alleggerire un carico, non è grave. È grave non essere capaci di farlo, è grave quel senso di colpa che si instilla quando non lo si fa, perché non ti rende indipendente, perché non ti fa conoscere te stessa». Anche perché, a livello percentuale, i giorni in cui gli allenamenti non vanno come devono andare sono molti di più di quelli in cui è tutto perfetto.

“Sai cosa accade? Ci si inizia a dare colpe e a dirsi che non si va, che non va bene. Invece no. Voglio che le mie atlete imparino che l’importante è fare il massimo che quel giorno ti consente. Poco o tanto che sia. Se, poi, in gara trovi una fuoriclasse non è colpa tua. Se hai fatto il massimo, puoi solo levarti il cappello. Van Vleuten si allena con gli uomini? Non tutte possono farlo e non deve nemmeno interessarci. Per Elisa Longo Borghini, ad esempio, è uno stimolo: “Quando la vedo, la stacco”. Lavoriamo su questo». In questo senso, la direzione Sangalli avrà due parole chiare: equilibrio e conoscenza. In tutti i campi.

A breve, Sangalli organizzerà anche una riunione con le atlete più giovani in cui, con l’aiuto di nutrizionisti, esporrà alcuni principi chiave in tema. «Se a gennaio si hanno due chili in più non è così grave. Come se si ha un chilo in più all’inizio di una corsa a tappe: c’è tempo per smaltirlo. Iniziamo a ridimensionare l’equazione magrezza eccessiva uguale a velocità. Non è sempre così. Con i chili si perdono anche watt e muscoli. Bisogna fare una valutazione singola e bandire certe idee prive di senso».

Il tutto sempre nell’ottica dello stare insieme e del parlare. Così la presenza in ritiro di Marco Villa e Marco Velo, che si occupano di pista e cronometro nel nuovo organico federale, è un altro tassello fondamentale. «Velo è tornato a ribadire la necessità di usare spesso la bici da cronometro, almeno settimanalmente. La competenza di Villa ci aiuterà moltissimo anche per la strada: un dietro motore su pista migliora la gamba molto di più di un dietro motore su strada». Attenzione particolare sarà riservata anche alla comunicazione: occorrerà essere diretti e giusti per riuscire a essere ascoltati. Con la consapevolezza che con ogni ragazza bisognerà adottare un metodo di comunicazione diverso, riconoscendone carattere e sensibilità. Elisabetta Borgia, psicologa clinica e dello sport, lo affiancherà dandogli indicazioni in tema per capire come cambiare approccio dove le cose non funzionassero. «Rendere tutti sereni è semplice, basta dire: “fate ciò che volete”. Questo, invece, sarà un ambiente sereno proprio grazie alle regole, ai ruoli e al loro rispetto».

Un esempio è significativo: «Qualche giorno fa, una ragazza ha preso una salita con troppa calma, così mi sono avvicinato. “Immagina di essere ad una classica importante: dopo questa salita ci sarà una discesa e poi uno sprint. Se non avessi la forza per lanciare la volata?”. In poco tempo si è riportata sulle compagne e in discesa era addirittura davanti alle altre. Il mio dovere è toccare le giuste corde».

A giugno si conosceranno i percorsi degli Europei, per quelli dei Mondiali, invece, qualcosa si può già prevedere: i primi trenta chilometri saranno in leggera discesa, poi una salita di sei chilometri con una pendenza non proibitiva se non nei primi due, ma «tutto dipenderà dalle volte in cui verrà ripetuta». Per questo ogni valutazione si sposta in avanti, con un punto fermo: siamo la nazionale che veste la maglia iridata. «A febbraio, con le più giovani ci sarà anche Elisa Balsamo. Mi immagino cosa possa significare per una ragazza di vent’anni allenarsi con la Campionessa del Mondo. Credo che quella vittoria abbia dato qualcosa in più a ogni ragazza che in ogni categoria riceva una convocazione».

Paolo Sangalli non si ferma qui, dagli anni in ammiraglia vorrebbe qualcosa in più. «Vorrei che nel ciclismo tornasse a esserci quella componente di poesia che abbiamo avuto per tanti anni e che ultimamente si è persa dietro ai dati. Alle nostre atlete e a chi ci segue vorrei portare anche questa consapevolezza, di tutto ciò che c’è dietro la fatica».

Foto: Bettini


Se un campione sale in ammiraglia...

Erano le strade del Giro dell’Austria di diversi anni fa. Paolo Savoldelli, quel giorno, non riusciva proprio ad andare avanti sulle pendici del Großglockner. Ad un certo punto, Giovanni Fidanza, suo direttore sportivo, lo fece scendere di bici e salire in auto. Savoldelli si ritira, guarda avanti, alla stagione. Mentre è in auto con Fidanza, l’ammiraglia offre assistenza agli ultimi del gruppo, alla rete, ai velocisti che quel giorno pagheranno dazio. Ad un certo punto, vedendo la fatica degli ultimi ad arrivare in cima, Savoldelli si volta verso Fidanza: «Ma questi fanno sempre questa fatica? No, se avessi dovuto fare così tanta fatica io non avrei fatto il ciclista».

L’esempio è calzante e Fidanza, ora direttore sportivo di Isolmant Premac, ce lo racconta per spiegare come la concezione dei grandi campioni sia qualcosa di particolare, perché, spesso, i grandi campioni ragionano con le proprie gambe e possono arrivare a dare per scontato che tutti abbiano quelle stesse gambe, quella stessa forza. Tutto parte dal ritiro di Anna van der Breggen che il prossimo anno salirà in ammiraglia della SD Worx. Quanto è difficile per un campione passare dall’altra parte, dismettere la propria vita da atleta e ripartire da zero? Quali saranno i punti focali che l’olandese dovrà avere presente? Sì, perché i campioni sono coloro a cui, almeno nell’immaginario collettivo, viene tutto facile e quando ti viene tutto facile è particolarmente complesso immedesimarsi nella fatica altrui, nelle cadute e in ciò che è difficile, se non impossibile.

Foto: Ilario Biondi/BettiniPhoto©2014

Giovanni Ellena, direttore sportivo di Drone Hopper - Androni giocattoli, premette che non c’è una regola, una legge, ma qualche considerazione si può fare. Qualcosa che vada oltre Anna van der Breggen, e provi a costruire un discorso generale. Ci dice che a suo avviso per essere un buon direttore sportivo devi avere provato, nella vita, non per forza in sella, a non essere capace di fare qualcosa, devi avere sentito di essere “fra gli ultimi” in qualcosa. «La regola è la fatica, da lì viene l’umiltà. I ciclisti sono umili perché prendono spesso sberle, se fai il ciclista diventi per forza umile perché la vita ti distrugge qualunque presunzione di superiorità. Mi viene da pensare che quando vinci sempre, quando vinci spesso, hai meno difese contro la frustrazione perché ci sei meno abituato. Un grande campione che sale in ammiraglia deve cercare di ricordare quella volta in cui ha fallito e si è sentito un nulla prima di parlare alla squadra».

Il punto non è che i grandi non sperimentino la fatica, anzi. Il punto è che per doti, talento, riescano ad andare facilmente oltre quella fatica. In un ruolo da direttore sportivo, colui che segna una strada, una via, è fondamentale cancellare ciò che c’è stato prima e ripartire da capo. Franco Pellizotti, Bahrein Merida, osserva: «Quando ero corridore tutti pensavano a me, avevo tutte le cure possibili. Da direttore devi offrire quelle cure ad altri. Passi da essere il primo a essere l’ultimo. Da corridore alimenti il tuo ego con le vittorie e i titoli sui giornali, la gente che ti cerca. Se un corridore della mia squadra vince una gara, in pochi verranno a fare i complimenti a me. La mia soddisfazione è nell’essere ascoltato, nella fiducia. Devi gratificarti in questo modo». Già, ma come tornano a osservare Ellena e Fidanza è un passo complesso, anche solo da accettare perché «passi da essere il primo a essere uno dei tanti. E, se non cambi testa, finisci per chiedere ai tuoi corridori ciò che avresti fatto tu, magari per dire “se lo facevo io, facevo prima. È un errore mostruoso. Se smetti, smetti. Non sei più un corridore, ma dirigi, guidi gli altri e, per farlo, ti servono caratteristiche diverse».

Le statistiche che tutti nominano parlano chiaro: sono pochi i grandi campioni che sono poi saliti in ammiraglia. Stefano Zanatta, Eolo Kometa, introduce un altro punto, provando a vedere la cosa con gli occhi dei corridori. «Forse è anche più facile accettare la fatica dell’essere ultimi o di staccarsi in salita quando sai che chi ti chiede di farla l’ha provata». Ellena continua: «Certe volte, quando non sai più come incitare, lo chiedi “per favore”. “Per favore tieni duro, arriva in cima. So cosa provi. Mi ricorderò di questa cosa. Te ne sarò grato”».

Foto: Roberto Bettini/BettiniPhoto©2018

Zanatta pensa a Ivan Basso e Alberto Contador con cui collabora, seppur in altri ruoli, in Eolo Kometa. «Quando siamo in fuga, Alberto spesso dice: “Cosa ci vuole? Ora ha questi watt, come la salita cresce di pendenza, aumenta i watt e stacca tutti”. Certo, con le sue gambe. Ma quanti sono i corridori con le sue gambe? È difficile spiegarglielo perché lui ricorda le proprie sensazioni, è inevitabile». Prosegue Zanatta: «Al Giro di quest’anno siamo quasi sempre stati in fuga, il giorno in cui non c’eravamo, Basso mi ha subito detto: “Ma come? Non siamo davanti?”. Gli ho detto di stare tranquillo e di avere pazienza, gli ho detto che sempre davanti non si può essere. Ivan e Alberto stanno facendo questo percorso ed è un percorso che tutti i grandi campioni che assumono altri ruoli devono fare. Che sia in ammiraglia o altrove. Perché lì essere stati campioni non conta più». Anche perché, e qui Ellena è molto chiaro, qualunque corridore ha l’istinto a indicargli cosa fare, se non lo fa è perché non riesce, per questo non serve a nulla urlare nella radiolina.

La questione è questa: accettare di tornare a zero ed essere disponibili a imparare e quindi a sbagliare. «Un direttore sportivo ha studiato, non guida solo l’auto, conosce i regolamenti nel dettaglio e li rispetta. Conosce le regole non scritte e le rispetta. Puoi aver vinto di tutto, devi riprendere i libri e dirti che non ne sai nulla. Partire dalla prima pagina, non dai titoli. Questo è il consiglio».

Poi c’è quello su cui i campioni non hanno bisogno di consigli. Così chi ha vinto tante gare ha ben presente i punti in cui si può fare la differenza, la pressione che si dura a essere i favoriti, la responsabilità di dover vincere ed è fondamentale. «Alle Classiche del Nord- racconta Pellizotti- mandiamo direttori sportivi che le conoscano bene. Io non sarei in grado di dare buoni consigli, per il semplice fatto che molte cose non le saprei». Sicuramente, in queste scelte, aiuta il fatto di partire dalla squadra in cui hai corso, perché conosci l’ambiente e, da compagno di squadra, hai presente i punti di forza e di debolezza dei tuoi corridori. Pellizotti avverte: «È importante, ma nei primi tempi è difficile perché devi far capire che sei il direttore e non più il loro compagno». Fidanza prosegue: «L’autorevolezza non viene da ciò che hai vinto. Viene dal fatto che sai esattamente cosa dire, non consigli generali, ma dettagli. Che sai quando è il momento di parlare e soprattutto sai che non bisogna sempre parlare di gare, che gli atleti non vanno stressati altrimenti non rendono più».

In fondo, è questione di immedesimazione, anche di empatia. È questione di ricordare ciò che si è provato quando le cose andavano male, perché quando vanno bene non c’è nemmeno bisogno di parlare. Anche i campioni conoscono queste sfaccettature, sono quelle di quando non arrivi staccato di mezz’ora ma di venti secondi e perdi il traguardo che avevi inseguito. Quelle dei tuoi gregari che, staccati, sono arrivati mentre tu stavi tornando in albergo. Non è questione di ciò che si può fare o di ciò che è facile in assoluto, è questione di ciò che per il singolo è più o meno difficile. La prima cosa da ricordare per un campione che salga in ammiraglia è proprio che dirigere vuol dire aiutare gli ultimi, perché i primi la strada la trovano da soli. Per aiutare gli ultimi bisogna ricercare l’umiltà che ti fa essere ultimo anche se, nella tua carriera, sei sempre stato primo. È forse una delle cose più difficili, in assoluto, vivere delle sensazioni degli altri. Ma è inevitabile. Per capire e guidare.


Cosa Chiedere ancora a Tadej Pogačar

- Ha il miglior motore del circondario;

- Ha 23 anni e ha già vinto non quanto, ancora, ma come alcuni dei più grandi di questo sport, sì;

- 2 Tour de France in maniera completamente differente. Il primo con una cronometro che è già storia (esse minuscola, mi raccomando) facendo venire il mal di testa e i complessi a Roglič, spazzato via tenendo in salita un passo impossibile per chiunque nel ciclismo contemporaneo. Lasciando van Aert e Dumoulin interdetti a guardare il maxi schermo. Il secondo Tour lo ha vinto demolendo la concorrenza in una tappa di montagna, e poi amministrando (e vincendone almeno un altro paio di frazioni con meno margine, ma da padrone);

- È il numero uno del ranking UCI (per quello che può valere) e si è portato a casa anche il Vélo d'Or;

- Ha vinto Liegi-Tour-Lombardia nello stesso anno come solo Eddy Merckx (che ha fatto quel filotto due volte, e in un ciclismo completamente differente);

- Ha deciso, in una giornata di fine dicembre, di partecipare a una gara di ciclocross (lui che campione nazionale di ciclocross lo è già stato) in Slovenia e ha vinto pure lì, cadendo e rimontando, a dimostrazione che, quando uno è baciato dal talento, può tutto;

- E a proposito: quanto bello sarebbe vederlo gareggiare nel fango, qualche volta, contro la banda, ormai allargata, fiammingo-britannica?

- Ha disputato 3 grandi giri: due li ha vinti, il terzo è un podio alla Vuelta ottenuta al suo esordio in una grande corsa a tappe, vincendo tre frazioni. Avrebbe compiuto 21 anni solo qualche giorno dopo la fine di quella corsa;

- Si parla spesso di lui perché un ciuffo biondo gli esce dal casco;

- Si parla spesso di lui perché guida benissimo la bici, va forte su ogni terreno in tutti i sensi, chissà se a fine carriera non possa essere corridore capace di vincere tutte (proprio tutte) le classiche più importanti compresi mondiali, Giochi e tutti e tre i Grandi Giri?

- Si parla spesso di lui perché contrappone, all'eccessiva magrezza di diversi corridori che hanno vinto le corse a tappe più importanti negli anni precedenti, un bel fisico muscoloso tutt'altro che emaciato;

- Nel 2021 si è ritirato al Gp Plouay (dopo aver attaccato da lontano con Alaphilippe e Cosnefroy) e non gli accadeva dal 2019 (San Sebastian). Per trovare un altro ritiro precedente bisogna scendere al 2017 quando era al primo anno tra gli Under 23;

- Nel 2021 ha conquistato il bronzo nella prova in linea dei Giochi Olimpici e non pareva nemmeno nella sua giornata migliore;

- Quest'anno fra le tante cose proverà la doppietta Fiandre-Tour riuscita nella storia solo a Bobet e, tanto per cambiare, a Merckx;

- In futuro potrebbe provare a vincere Giro e Tour nello stesso anno e l'impressione che, a stretto giro di posta, se non lui, chi?

Foto: ASO/Alex Broadway


Un'idea di giovani: intervista a Roberto Reverberi

«Continuiamo semplicemente a fare ciò che abbiamo sempre fatto, solo anticipando i tempi» esordisce così Roberto Reverberi, direttore sportivo della Bardiani CSF-Faizanè quando gli chiediamo degli otto ragazzi, tra cui due juniores, che la squadra ha aggiunto all’organico nell’ambito del progetto giovani. «Parliamo di atleti da proiettare tra i professionisti passo dopo passo. Anche sulla spinta dei procuratori, se non si agisce prima, questi ragazzi giungono subito in squadre World Tour o in Continental satellite. Da lì, il rischio temo sia quello di bruciarli».
In quarant’anni di questo lavoro, Reverberi ha visto le cose cambiare: «Una volta, passavano in pochi, probabilmente con un talento più pronunciato sin dall’inizio. Oggi il professionismo ha alzato di molto l’asticella. Questi otto ragazzi non devono dimostrare nulla, non chiediamo vittorie o risultati. Li sgraviamo da ogni pressione. Vogliamo solo professionalità massima, soprattutto per loro. Perchè questi treni passano una volta sola e non si possono lasciare scappare. È importante che lo capiscano».

Per i grandi risultati, invece, bisogna attendere e l’attesa, per Reverberi, è opportunità e consapevolezza. «Sanno che hanno la squadra a loro disposizione in ogni momento, se dimostrano di stare bene. Sanno anche che alla loro età il risultato principale è la continuità, non il picco. Purtroppo questo è un momento difficile. Senza gare fuori dall’Europa, a causa della pandemia, non c’è quasi più la possibilità di confrontarsi con un livello più tranquillo, ma ci si va subito a scontrare con squadroni e performance di altissimo livello. È necessario affrontare quelli più bravi, perchè quella è la realtà del ciclismo, ma servono anche le gare in Cina o in Malaysia perché ti danno morale. Ti consentono di continuare a lavorare mentre aspetti di essere all’altezza».
Nella scelta dei ragazzi, Reverberi ha osservato coloro che se la cavavano da soli e che erano sempre fra i primi pur, magari, non essendo in squadre molto blasonate. «Nelle squadre molto forti, vincono anche atleti che magari non vincerebbero in team minori. Li aiuta la tattica, li aiuta il controllo della gara. Se un ragazzo, da solo o quasi, riesce a farsi valere merita questa possibilità. Sono minimo tre anni di contratto, per provarci. Potremmo fare anche meno, perché per vedere il talento puro bastano tre mesi. Noi aspettiamo, non abbiamo fretta. Non serve diventare campioni o fare cose straordinarie. Per qualcuno ci vuole più tempo e glielo diamo».

La considerazione si sposta sui ragazzi più giovani, gli juniores, che hanno ancora un percorso scolastico in essere. «Faranno una quarantina di gare, non di più. La priorità è lo studio. Tutelarli significa anche questo». Qui si apre una parentesi importante e Reverberi vuole fare chiarezza, soprattutto in merito alla discussione sull’opportunità del passaggio nel professionismo di ragazzi così giovani: «C’è un buco normativo, solo in Italia tra l’altro. Il regolamento in essere risale a quando le squadre si dividevano tra dilettantistiche e professionistiche, per questo non prende in considerazione le Continental. Questi ragazzi, correndo con le Continental, potrebbero tranquillamente correre con i professionisti senza problemi. Si ritiene, invece, che non possano passare professionisti in quanto, in Italia sono richiesti due anni da Under23 per il passaggio. Non dico sia sbagliato, dico che le norme dovrebbero essere uniformi». Non finisce qui, perché l’accento Roberto Reverberi lo sposta proprio sulla tutela dei giovani: «Offriamo un salario minimo dei team Professional che altrimenti non avrebbero. Cerchiamo di preservarli. Credo sia necessario un adeguamento della norma. Le cose cambiano e le norme devono riconoscerlo».

Di consigli se ne potrebbero dare tanti. L’ambiente aiuterà perché, oltre ai direttori sportivi, in squadra ci saranno uomini di esperienza a supporto. Reverberi non fa nomi. Dice che non ha senso, soprattutto per non creare quelle pressioni di cui tanto si parla. «Tranquillità e lavoro sodo devono andare di pari passo. Voglio che questi ragazzi imparino a considerare ogni gara a cui parteciperanno come quella giusta da vincere. Spesso guardano troppo in là, selezionano i traguardi. Non si fa. A questa età ogni volta in cui sei in corsa devi provare a vincere. È un punto di partenza, si lascia da parte ciò che si è già fatto nelle categorie minori e si riparte. Nella vita bisogna saperlo fare. Impararlo a vent’anni è importante».


La nutrizione di un ciclista: intervista a Erica Lombardi

Erica Lombardi, dietista dell'Astana Premier-Tech parte dal ruolo dell’educazione alimentare per parlare di ciclismo. «Le informazioni non mancano, ma molte, troppe direi, non sono scientifiche. Così i ragazzi e le ragazze si fanno proprie convinzioni, errate, difficili da sradicare. Fare educazione alimentare vuol dire parlare della potenzialità di una corretta nutrizione per ottenere prestazioni importanti, soprattutto vuol dire allontanarli da qualunque pratica illecita». Servirebbe l’introduzione della materia nelle scuole perché, anche al di fuori del ciclismo, investire nell’educazione alimentare significa crescere persone sane e risparmiare sulla spesa sanitaria.

Abbiamo parlato con Erica Lombardi di alimentazione nel ciclismo e di come le tematiche alimentari vengano gestite all’interno delle squadre professionistiche.

Nel ciclismo le cose sono cambiate nel tempo e, oggi, parlare di alimentazione è come parlare di allenamento: qualcosa di quasi scontato. «Ciò non significa che non ci siano più disturbi alimentari legati alla pratica sportiva. Sarebbe scorretta un’affermazione del genere, ma significa che si è presa coscienza del problema e che si sta agendo: le squadre cercano sempre più la consulenza di medici, dietisti e nutrizionisti». Il discorso di Lombardi è chiaro: è cambiato l’approccio. Si è iniziato a considerare il peso in rapporto alla potenza. Nel ciclismo femminile è evidente: «Credo che una volta la spinta alla magrezza venisse da persone non qualificate e non titolate alla gestione della nutrizione, proprio perché queste figure professionali non erano ancora presenti nel team. L'attenzione al peso c'è sempre, soprattutto per scalatori e scalatrici, ma sicuramente c'è anche una maggiore consapevolezza della gestione del peso tra i componenti dello staff e l'atleta stesso. Il confronto “sulla magrezza” tra atleti c'è sempre, ma ci sono figure professionali che riescono a rendere maggiormente consapevole l'atleta del proprio percorso individuale nutrizionale e a non farsi influenzare nel raggiungere pesi non funzionali alla salute e alla performance».

L’approccio, continua Lombardi, è personale, dal camice al pedale perché gli atleti hanno una particolare routine di vita che non consente un controllo sul lungo tempo. «È importante la quotidianità, l’imprinting. Un mese senza confronti, controlli e verifiche è impensabile». Per questo lei stessa si occupa di verificare il fabbisogno di ogni atleta e di guidarlo nelle scelte. «C’è la cosiddetta dieta a watt, ovvero in base ai watt che il ciclista dovrà sviluppare in una determinata tappa. Il ciclismo è uno sport situazionale. I nostri grafici tengono conto della tappa, dell’altimetria, del meteo e persino del ruolo del corridore. In una corsa a tappe gli atleti vivono una situazione di deficit costante e il dopo tappa è essenziale per permettere il recupero. Collaboriamo anche noi alla preparazione della musette degli atleti e siamo in grado di stabilire quanti gel dovrebbe assumere un atleta su quella determinata salita, almeno in linea teorica».

Il problema, spesso, è lo stress legato a questa tematica che porta l’atleta a rincorrere qualunque novità, per risolvere un proprio problema. «Le diete nuove rischiano di essere un problema in quanto ogni dieta deve essere verificata sulla singola persona. Non c’è alcun ingrediente magico, serve tempo e consapevolezza. Accade invece che ci si perda in questa rincorsa alla novità, talvolta dannosa». Tutto perché tenere sotto controllo il peso è difficile: «È una sorta di pendolo di Schopenhauer: la forma è difficile da raggiungere e anche più difficile da mantenere. Le situazioni stressogene, nel giusto limite, favoriscono il controllo dell’alimentazione. Se esagerate, portano al training eccessivo. Serve equilibrio». Per esempio quando si parla di nutrizione e di gusto: «Tendenzialmente ciò che è buono e gustoso non nutre, ma i ciclisti sono uomini. Bisogna abbinare il nutrimento a qualcosa che sia piacevole da assaporare».

Erica Lombardi torna così a parlare di ciclismo femminile. «Quando si verificano situazioni problematiche, bisogna parlare alle ragazze e chiarire l’importanza di una corretta alimentazione che non significa ingrassare. Sono cose diverse». Il punto è che, anche con un’alimentazione corretta, a causa dell’allenamento intenso, a volte, si verificano situazioni di amenorrea in quanto, comunque, il corpo di una donna, predisposto ad accogliere il feto, avrebbe bisogno di più grassi di quelli che ha il fisico di una ciclista. «Sono abbastanza frequenti questi casi e a lungo andare sono causa di problemi ossei. Anche qui la presenza di un apparato medico è essenziale».

Perché, se è vero che la pratica sportiva è certamente salutare, la pratica sportiva ad alti livelli può essere usurante e, in questo senso, è dovere di ogni professionista fare attenzione alla prevenzione.


Il coming out nel mondo dello sport: ne abbiamo parlato con Elisabetta Borgia

Le dichiarazioni di Irma Testa, pugile ventitreenne, medaglia di bronzo a Tokyo, in seguito al coming out di qualche settimana fa, hanno fatto molto parlare nel mondo dello sport.

Noi abbiamo voluto parlarne con Elisabetta Borgia, psicologa clinica e dello sport a stretto contatto con il mondo del ciclismo, per avere un suo punto di vista sulle difficoltà che, purtroppo ancora oggi, permangono nel parlare apertamente del proprio orientamento sessuale, in particolare in ambito sportivo.

«L’omosessualità - esordisce la Dott.ssa Borgia - c’è sempre stata e sempre ci sarà, non è un fatto nuovo. Ciò che è cambiato nel tempo è il modo di percepirla da parte della società. Già solo il fatto che queste dichiarazioni facciano parlare rende evidente come, ancora oggi, permanga un canone che la società considera comune e di cui l’omosessualità non fa parte. Altrimenti non ci sarebbe bisogno di parlarne».

Oggi l’omosessualità è considerata uno stato esistenziale come molti altri e il gesto di uno sportivo importante che la dichiara apre alla possibilità. «È un bene che sportivi di rilievo facciano questo gesto perché si tratta di un messaggio lanciato alle persone più giovani, a chi si sente più debole e non ha il coraggio di vivere allo scoperto la propria sessualità. Un gesto di ispirazione. È come dire: “Si può dirlo, si può ammetterlo”. Questo, però, apre la via a tutta un’altra serie di considerazioni». Le considerazioni di cui parla Elisabetta Borgia sono quelle relative, in primis, all’accettazione personale di questo stato esistenziale.

«Se non si accetta personalmente, si è maggiormente esposti alle ferite che possono venire dal mondo esterno. Sempre e soprattutto in alcuni mondi, per esempio il ciclismo che è un piccolo universo, fortemente predisposto alla condivisione, alla comunione di spazi e tempi. Fare coming out senza una completa accettazione di se stessi può essere pericoloso, in quanto poi si rischia di non essere in grado di reggere ciò che accade perché, purtroppo, per sbagliato che sia, non si può sapere come le persone reagiscono, cosa dicono. Accettarsi vuol dire mettersi, almeno parzialmente, al riparo da quelle ferite».

Il focus della dottoressa Borgia va proprio sul ciclismo e sulle modalità con cui si vive. «Un gregario che lavora per il proprio capitano ha, e aggiungerei deve avere, una confidenza e un feeling maggiore rispetto a quello che esiste fra colleghi in qualunque altro lavoro. Questo, da un lato, dovrebbe portare a una maggiore facilità nella comprensione di ciò che vive l’altra persona, dall’altro, però, espone a problematiche importanti in quanto tutti abbiamo timore del giudizio, in particolare da parte delle persone con cui abbiamo più rapporti. Nel ciclismo è molto difficile separare la sfera personale da quella lavorativa».

Nel ciclismo questo fatto è inevitabile e si estende a più fattispecie: partendo dal rapporto privilegiato fra compagni e arrivando alla condivisione di circa duecento giorni in giro per il mondo, delle camere di albergo. «Capite benissimo che il rischio di esporsi a battute e giudizi, per come va la società di oggi, c’è e ha un peso rilevante. Scegliere di esporsi vuol dire assumersene le conseguenze e fare i conti con ciò che la tua realtà lavorativa, e non, ti porta. Non è un caso che Irma Testa abbia deciso di parlarne solo dopo la medaglia olimpica, come a ricercare una sicurezza prima, una forza che le consentisse di essere veramente libera».

Borgia considera questa dichiarazione come la fase finale di un’elaborazione di un conflitto interno, un processo di accettazione intimo e consapevole. «Sai perché certe cose ci fanno star male più di altre? Certe affermazioni di persone ci feriscono in maniera particolare? Perché alcune “fanno risuonare” certe parti intime, alcuni “nervi scoperti” in tutti i campi della nostra vita. Ad esempio, capita che qualche atleta rimanga molto male per un commento di un tifoso particolarmente offensivo, ad esempio “sei un corridore finito”: ecco, questa affermazione avrà spazio nel corridore se, forse, intimamente ogni tanto questo pensiero o questo interrogativo gli è balenato nei momenti di difficoltà, se invece è un atleta sicuro di se stesso non subirà un condizionamento così forte. Questo avviene anche per quanto riguarda l’orientamento sessuale: se si è sicuri e tranquilli rispetto a questa sfera, se si è consapevoli di non essere sbagliati, ogni affermazione offensiva e discriminatoria, che chiaramente va perseguita, non avrà un potere deflagrante così forte».

Maggiori difficoltà sussistono nel ciclismo maschile rispetto a quello femminile in cui questa realtà è, invece, più accettata. «Dipende dalla caratterizzazione che la società offre di un determinato ruolo. Nell’arte, nello spettacolo, in alcuni casi è più semplice vivere la propria omosessualità in quanto non c’è quel machismo che nello sport abbiamo. Il ciclista deve essere perfetto, forte, senza macchia e senza paura e l’omosessualità, nello stereotipo della società, non si abbina a questo. Quando qualcuno dice: “È uno sport da uomini” inconsciamente fa riferimento a questa caratterizzazione. E pensare che, a livello di personalità, è la donna a essere maggiormente predisposta al sacrificio e alla fatica».

È il peso degli stereotipi e dei pregiudizi che la società si porta dietro da sempre. «Forse i nostri figli si troveranno a vivere una realtà differente e saranno in grado di sconfiggerli. Io sono positiva rispetto a questa cosa, il processo è iniziato ed inizia a farsi strada la predisposizione ad una visione diversa. Questi bambini cresceranno in un mondo dove inizia a entrare nell’immaginario collettivo la possibilità che la famiglia possa essere felice anche se con due uomini o due donne e dove anche i giocattoli, le fiabe e le pubblicità televisive prendono in considerazione la vera forma del mondo».

Foto: ASO / Alex BROADWAY


Pidcock al Giro?

Forse. Almeno questo è il suo desiderio. Certo sarà un lungo periodo caotico e dovrà ricordarsi di cambiare bici - a meno che non si metta in testa di correre il Giro con una mountain bike o di provare a vincere l'Amstel con la bici da ciclocross, ma non divaghiamo.
Questo fine settimana lo vedremo all'esordio stagionale nel fango e poi in primavera a lottare con i soliti noti nelle classiche, e lui potrà puntarle tutte: da quelle italiane a quelle fiamminghe, pietre o colline poco cambia quando si va forte.
E poi vorrà correre in Italia e c'è quel desiderio espresso di fare il Giro: saranno squadra e forma ad avere l'ultima parola. Noi ci sfreghiamo le mani all'idea di Pidcock dalle "nostre parti", se fosse necessario potremmo pure raccogliere delle firme: "Pidcock al Giro". Tuttavia terreno per dare spettacolo ne avrà a patto di non arrivarci troppo stanco dopo l'intensa attività cross-classiche.
Oltretutto potrebbe essere anche un esempio da dare a quelli che, tanti, puntano sulle gare di un giorno in primavera e poi ricaricano le energie nel periodo che casualmente prende quelle tre settimane di maggio.
Ogni tanto un po' di partigianeria non guasta soprattutto se si parla di Corsa Rosa e di corridori che possono dare un valore aggiunto. E allora forza Tom, ti aspettiamo.


L'empatia di un direttore sportivo: intervista a Enrico Gasparotto

«Come atleti si è abituati a considerare la propria prova ed il proprio interesse, un direttore sportivo ha un quadro più ampio da considerare. Essere bilanciati è fondamentale; la prima prova per me sarà proprio l’acquisizione di questa capacità». Non è passato molto tempo dal suo annuncio fra i direttori sportivi della Bora-Hansgrohe per la prossima stagione ed Enrico Gasparotto riflette ogni giorno su quello che sarà il suo compito. L’esperienza fra le squadre Continental è importante ma nel World Tour cambia quasi tutto. «Se dovessi riuscire a instaurare il clima di armonia a cui punto fra tutto lo staff, i corridori e me stesso, umanamente sarei già contento. Quando ti ritrovi a prendere decisioni, ad essere l’unico responsabile di venti persone durante le trasferte, non puoi fare tutti felici ma questo è il prezzo del decidere. Devi, però, fare in modo che ciò non influisca sull’armonia e la serenità del gruppo». In quest’ottica il ragionamento va a toccare un meccanismo che in realtà riguarda anche la vita di tutti i giorni.

«Tutti vogliamo vincere, essere i migliori e ottenere risultati, il punto è che siamo inseriti in un’organizzazione e ciò comporta anche delle rinunce personali a favore del gruppo. Il cammino di un ragazzo, giovane e meno giovane, verso il successo deve passare da qui. Bisogna sapere che la rinuncia personale a favore del gruppo è fondamentale talvolta. L’egoismo non fa bene». Gasparotto sorride e ripensa al corridore che è stato, alle scelte che ha fatto e alla sua indole. «Io questi errori li ho fatti. Ero un testardo, spesso concentrato sui miei risultati e basta. Ho sbagliato diverse volte e, forse, anche per questo sono la persona giusta per parlare di questo ai ragazzi. Con alcuni mi scontrerò di sicuro perché capire queste cose, da giovani, in un ambiente di alto livello e dalle forti ambizioni personali è difficile».

Enrico Gasparotto è consapevole dei propri errori ma è altrettanto consapevole che ha avuto la fortuna e il tempo per comprenderli e magari porvi rimedio. «Col ciclismo di oggi quel tempo non c’è più, vorrei lo capissero questo i ragazzi. La velocità del mondo di oggi è tale per cui è sempre più difficile porre rimedio agli errori. Certe cose vanno capite subito, altrimenti è tardi». Se ha accettato l’incarico in Bora è stato anche perché si è parlato del tempo: «Sono sempre meno gli ambienti in cui si comprende che dopo i cambiamenti serve tempo per fare in modo che tutto funzioni. Bisogna lavorare sodo, ma anche concedersi il tempo che serve».

Giro d'Italia 2019 - 102nd Edition - 14th stage Saint Vincent - Courmayeur 131 km - 25/05/2019 - Marco Marcato (ITA - UAE - Team Emirates) - photo Luca Bettini/BettiniPhoto©2019

La parola chiave è fiducia, qualcosa per cui si lavora già da adesso. Gasparotto sta andando a casa dei vari ragazzi che non conosce o che conosce poco, per parlare e, soprattutto, per ascoltare. «Credo che nella vita riesca bene chi ha la capacità di ascoltare tutti. È difficile perché basta poco, una giornata storta, per dimenticarsi di ascoltare gli altri. Se non ascolti, non conosci e se non conosci non puoi capire». Già perché a casa dei ragazzi non si parla solo di ciclismo: qualunque esperienza personale, qualunque problema degli anni trascorsi può influire su ciò che sarà e Gasparotto ha necessità di capire tutto questo.

«Si tende a ridurre tutto a numeri e i numeri sono importanti, però un direttore sportivo ha necessità di conoscere gli uomini che ha di fronte. Di essere loro amico, nel rispetto dei ruoli. In questo senso basta guardare Davide Bramati: i successi che ottiene sono spesso frutto dell’empatia che instaura. Abbiamo suddiviso la squadra in vari gruppi con cui ciascun direttore sportivo lavorerà, in modo da intensificare questa conoscenza, questo rapporto». Lo stress e la tensione saranno l’altra chiave di volta, saperli affrontare la possibile soluzione del problema. «Essere un corridore che ha smesso da poco può essere un vantaggio o uno svantaggio. Anche qui dovrò essere bravo a pesare le cose: se non riuscirò a togliermi la veste da corridore per indossare quella da direttore sportivo, sarà un problema. Se la veste da direttore sportivo mi farà scordare ciò che si prova da corridori sarà un problema altrettanto grosso».

Appena ha saputo del proprio incarico ha parlato con Bramati e con Franco Cattai, colui che l’ha messo in bici e che in dialetto veneto gli ha insegnato ciò che oggi sa. In Bora sarà a stretto contatto con Rolf Aldag, professionista che stima e con cui si confronta abitualmente, però il fatto di trovarsi in un ambiente nuovo, in cui molti non lo conoscono è uno stimolo in più: «Dove nessuno ti conosce, sai che sarai valutato per ciò che farai e non per ciò che hai fatto. È difficile perché riparti da capo e hai tutto da dimostrare. Da atleta ho cambiato molte squadre e mi è successo spesso. La crescita passa da lì, non puoi migliorare se non sei disposto a lasciare da parte un poco di tranquillità e di comfort».