Per colpa di una bicicletta

Non lo faccio apposta, giuro. Vorrei davvero dormire. Lo stress di un mese di Giro d’Italia è enorme, quindi recuperare col sonno è fondamentale: semplicemente non mi sta riuscendo. Anche stamattina le tapparelle chiuse hanno funzionato all’opposto di quello per cui sarebbero preposte: sembrava che il sole sorgesse nel palazzo a fianco. Non mi resta – realizzo in cinque millesimi di secondo nonostante l’andatura cadaverica da sette del mattino – che mettermi in bici.

Non ho preparato alcun tour, perché appunto l’idea era dormire. Ricordavo però la strada percorsa il giorno prima. Per la prima volta, infatti, avrei percorso il tracciato di gara non il giorno stesso né il giorno prima, ma il giorno dopo la corsa. Meno palloncini rosa, meno entusiasmo e gente per le strade. Ci si riabitua a una vita senza Giro d’Italia: così pure a Barile e Rionero in Vulture, comuni tra i quali abbiamo fatto finta di dormire.

La strada del giorno prima, dicevo. Splendida: dai laghi di Monticchio al valico La Croce molta natura, tutto verde attorno, senza traffico. Salendo così presto al mattino, però, il freddo e la nebbia erano ben più presenti: si potevano quasi toccare. Si sono resi materia in piccole goccioline di condensa che trovavo sui freni, sul manubrio, sugli occhiali. Freddo a parte, non ci sono molte cose migliori di una salita, un bosco e la nebbia tutte assieme: sull’asfalto svariate scritte rosa “I <3 Vulture” spezzano l’armocromia di colori cupi, scuri, che il sole non ha ancora riscaldato.

Non mi aspetto di trovare nessuno, ai laghi di Monticchio, ma di nuovo le previsioni vengono disattese. Prima incontro diversi mezzi dello staff della Jumbo-Visma, che evidentemente ha passato qui la notte. È una nutrizionista della squadra olandese quella che vedo correre a bordo strada: si chiama, mi dirà poi alla partenza, Monique, e non ce la fa proprio a non tenersi in allenamento anche durante il Giro.

Poi a bordo strada trovo tante persone con casacchina catarifrangente arancione. Sono raggruppati a piccole squadre, attorno a macchine dalle quali estraggono scope e badili. Così tante mi fermo a chiedere chi fossero e cosa stessero facendo. Mi risponde una signora mentre accende sotto un fuoco da campeggio, sul quale un’altra anziana donna sta issando una moka gigante da caffè. Sono qui per pulire il bosco e la strada, in poche parole. Lo fanno ogni anno: ci tengono a tenere puliti questi luoghi che in estate si affollano di turisti. Ci mettono alcuni giorni, ma tutte (la stragrande maggioranza di chi lavora qui è donna) sembrano divertirsi e sfruttare l’occasione per passare tempo assieme.

Tra le mille cose, il Giro è anche sveglie controvoglia e incontri inaspettati. Le persone incontrate oggi sono comparse nella nebbia, quando pensavo di essere solo. E sono comparse, alla fine della fiera, grazie o per colpa di una bicicletta.


Inseguire, lasciare andare

Si era parlato così tanto di fughe, di fuga, che stamani pareva proprio che il primo scatto, quello sulla sinistra del plotone, appena sventolata la bandierina del via, per intenderci, dovesse essere quello buono, quello giusto. Invece no. Per lasciare andare la fuga, ci sono voluti quasi cento chilometri, quasi due ore di corsa, c'è voluta una discesa, mentre tutti ci provavano sugli strappi. Stasera non parlate di fuga "lasciata andare" a De Marchi, Scotson, McNulty, Cepeda, Healy, perché loro quella fuga l'hanno inseguita per minuti e minuti, in una nebbiolina di umidità insistente, ma, oggi, non era la loro giornata. Delicato equilibrio quello fra "inseguire" e "lasciare andare". Vero che il gruppo lascia andare la fuga con Andreas Leknessund, Aurélien Paret-Peintre, Toms Skujiņš , Vincenzo Albanese e Nicola Conci, fra gli altri, altrettanto vero che tutti coloro che ci avevano provato prima hanno a loro volta lasciato andare, non solo la fuga: la stessa idea di fuga, lo stesso ideale. Forse la parte più difficile. Certo anche che Leknessund e Paret-Peintre, il primo maglia rosa a Lago Laceno, il secondo vincitore di tappa, hanno inseguito la possibilità di essere lasciati andare, hanno inseguito il respiro quieto del gruppo, che mette la mantellina, torna alle ammiraglie, mangia, beve, molla la presa.

Inseguire, ovvero i battiti che aumentano, il rapporto più duro, le gambe che girano veloci e l'acido lattico che assale, oppure lasciare andare, respirare, alleggerire la pedalata e pensare a domani: equilibrio, legame stretto, talvolta imposizione con cui fare pace, altra scelta difficile, seppur senza possibilità. Prendete Bruno Armirail: quanto insegue la fuga ormai partita? Quanto ci crede, mentre è da solo e la vede avvicinarsi? Inseguire è speranza, forza, lo si intuisce. Più difficile è capire che lasciare andare non è da meno. Siamo tutti Armirail, forse, soprattutto, nel momento in cui ha detto basta, si è arreso e ha pensato che ci riproverà. Un atto di coraggio. Lasciar andare è anche questo, oltre a lasciar andare una maglia, quella rosa, come fa Evenepoel: solo che di Evenepoel dicono tutti che la ritroverà, che è ovvio, quasi certo, di Armirail non lo dice nessuno. Deve saperlo e crederci da solo: capite che è diverso, non paragonabile.

Nicola Conci insegue quello scatto, sulla salita di Colle Molella, anche se apparentemente sono gli altri a inseguirlo. Conci prima insegue lo scatto, poi lascia andare. Albanese fa il contrario: prima lascia andare, poi insegue. Warren Barguil lascia andare e basta, dopo una fuga così lunga, dopo aver inseguito quella stessa idea per tanti chilometri e probabilmente aver avuto anche buone sensazioni, altrimenti non sarebbe stato lì davanti. Il modo più difficile di lasciare andare: quello in cui credevi, quello di cui ti eri illuso o di cui il tuo corpo ti aveva illuso.

Andreas Leknessund, solo qualche tempo fa, si chiedeva: «Chissà se un giorno lotterò per la generale di un Grande Giro». Non lotterà per la generale, ma la maglia rosa l'ha addosso e non ci pensava neppure lui, forse. Il suo è un inseguimento in due tempi: dapprima nel gruppetto all'attacco, cercando anche di non dare troppo peso a quella maglia rosa virtuale, per non cadere nelle illusioni e farsi troppo male, poi attaccando e spingendo la bicicletta, persino con i denti, per evitare brutti scherzi, da quel gruppo tirato dalla Ineos. Anche Aurélien Paret-Peintre, che a Lago Laceno vince, ha lasciato andare, per qualche attimo, ha lasciato andare Leknessund e lo ha ripreso. Qualcosa vorrà pur dire, forse che, come ci sforziamo di inseguire, dovremmo imparare a lasciar andare, senza vergognarcene, perché si può vincere lo stesso. Oppure semplicemente perché nella quotidianità non è solo vincere che conta.

Andreas Leknessund, dalla Norvegia, pallido e colorato solo dallo sforzo e dalle sensazioni, ha inseguito tutto il giorno quell'idea, quella della maglia rosa di cui sistema anche il colletto. Al traguardo, ha pianto, felice. Ha lasciato andare tutto quel che c'era dentro. Anche lui.


Sfera di cristallo

C’è un motivo se tanti giornalisti, o facente funzione, si sorbiscono decine di minuti di camminata. A ogni tappa, a ogni arrivo, anche con la pioggia che inumidisce l’arrivo di Melfi. Potrebbero fare il loro lavoro dalla sala stampa (la conferenza è video-collegata anche con essa) e godersi il buffet a pochi passi.

Se tanti di noi quasi ogni giorno vanno al furgone allestito per la conferenza stampa in presenza, col vincitore di tappa e il leader della classifica generale lì a due metri, è perché lì si spera di trovare qualcosa di più interessante, occasioni in più, qualcosa che non ha nemmeno il tempo di entrare in GIRONIMO. È una speranza vana, a volte: oggi in diversi hanno preferito evitarsi il terzo giorno di domande da sfera di cristallo a Remco e l’intervista a Matthews, notoriamente non il più loquace dei grandi corridori.

Entrambi, invece, hanno detto o fatto cose inusuali. Michael Matthews si è presentato con una vaschetta di plastica contenente pasta: fusilli con pomodorini, per la precisione. In un’altra bustina di plastica ha arrotolato dentro un tovagliolo le posate e durante le domande si riempie la bocca. Non di parole, appunto, ma di cibo. «Ho preso il covid durante la Parigi-Nizza e non ho potuto fare la Sanremo e tante altre classiche. Poi una brutta caduta al Giro delle Fiandre mi ha costretto ad una stagione difficile finora» esordisce Bling, un soprannome che deriva dalla felicità con cui vive la vita. Fino a poco tempo fa, invece, stava «contemplando se continuare col ciclismo o meno» a causa di tutti i problemi avuti. Tuttavia, dopo il momento di riflessione, era così rilassato nei chilometri finali di oggi che gli è sembrato di fare «una di quelle volate ai cartelli fuori dalla città, che facciamo in allenamento»

Il circa mezzo miliardo di colleghi belgi ha permesso a Remco di arrivare in conferenza stampa solo un quarto d’ora dopo Matthews. Il belga è di nuovo nascosto dietro una mascherina rossa, ma concentratissimo: afferma di non poter certo «regalare tre secondi» a nessuno, «sarebbe stato stupido non gettarmi nella mischia» nello sprint intermedio di Rapolla. E dice una banalità, ma è bene ricordarselo per il primo arrivo in (più o meno) salita: «Chi avrà una brutta giornata, sarà nei guai».


Pensieri-rumore

Quando passa il gruppo, in un qualunque tratto di strada, tra Vasto e Melfi, si vedono e si ascoltano molte cose. Ma è quello che non si può sentire che vogliamo portarvi oggi. Sì, parliamo dei pensieri dei corridori e del loro suono. Sceglieremo alcuni rumori, per darvi l'idea di cosa sarebbe il transito del gruppo se davvero tutto si ascoltasse. Consapevoli del fatto che se ne potrebbero scegliere molti altri, ma soprattutto certi del fatto che sia un bene che non tutto si senta, perché, solo così, in ogni professionista può esserci una parte di chiunque sia mai andato in bicicletta, anche per pochi chilometri, anche per un viaggio. Le sensazioni sono le stesse, semplici, primitive, cambia il contesto, ma chi ha provato le conosce bene e così guardare la corsa è anche provare la corsa.

Veljko Stojnic e Alexander Konichev che attaccano, pronti-via, pensando che qualcuno li segua, invece restano da soli. Non si fanno riprendere, continuano. Il primo pensiero assomiglia a quello dei vetri rotti, di quando qualcosa che ci si aspetta non accade, ma bisogna lo stesso proseguire, perché è la gara. Poi subentra un pensiero simile all'acqua che lava via la polvere da una superficie da troppo impolverata: piacevole quella pioggia, un temporale estivo, l'afa che se ne va. Il pensiero si alleggerisce e si guarda a quel che c'è: tanti traguardi intermedi, per ingannare la mente, per pensare di avercela fatta prima ancora di farcela, perché si è in testa e quando si è lì bisogna dare valore al momento, perché non si sa quando ricapiterà. Non chiedersi il motivo di tanta fatica vana, ma l'opportunità.

Pensieri che sono tonfi sordi: Roglič che cerca di sorprendere Evenepoel al traguardo volante ma viene sorpreso e finisce secondo. Si volta verso il gruppo: «Pure qui sprinta adesso? Che facciamo?». Dice così, con gli occhi, con la gestualità. Quelli di Almeida, di quella bici danneggiata su cui si sforza di continuare a pedalare. Pensieri che sono aghi che trafiggono un cartone: Pedersen che, dopo aver fatto lavorare la squadra, si ritrova in coda al gruppo, di poco staccato, in vetta al Gran Premio della Montagna. Sono aghi che trafiggono perché arrivano e se ne vanno: in un momento, c'è la delusione ed il senso di colpa, nell'altro un respiro a pieni polmoni e le gocce di pioggia che, invece che dare fastidio, rinvigoriscono. Basta trovare una pedalata più rotonda delle altre, rientrare, e ci si sente di nuovo bene.

Alcuni pensieri stridono come un gesso su una lavagna: la bicicletta che, a causa dei cambi di asfalto, in discesa verso Melfi, sembra lasciarti. Resti in piedi, ma, alla curva dopo, tiri i freni, ricordi quella sensazione e ti prende il timore: «Se cado, siamo solo alla terza tappa, fra poco iniziano le salite». Una sfilza di pensieri negativi. Sono pensieri fastidiosi perché ingabbiano la libertà di improvvisare in sella e di scendere a tutta, per una volta senza fatica. Rumori che sono suoni, inizi di suono, prime note: Pinot che conquista i punti per la maglia azzurra e scatta per essere sicuro di vestirla stasera. La sua è una ripartenza, da molto tempo, e le ripartenze hanno questo di bello: non finiscono, sono un inizio continuo.

Pensieri-frastuono: quelli di Pedersen, Groves e Albanese che erano lì a giocarsela e ci hanno creduto perché la linea del traguardo continuava ad avvicinarsi senza arrivare mai. Quelli di Matthews, invece, sono pensieri-silenzio, al massimo pensieri-grido: volata lunga, vittoria, soddisfazione, la prova che va bene, che, da stasera, al Giro sembrerà tutto più facile, anche quando sarà più difficile. Almeno per qualche giorno. Basta un attimo di felicità, è semplice la regola.

Avremmo potuto sentire tutto questo, ne siamo certi. Non potendo sentirlo, abbiamo ascoltato ciò che c'era, abbiamo guardato le cose, i tetti, le strade, le maglie, le biciclette, gli scatti, le cadute. Le braccia alzate e la vittoria, la testa bassa e la sconfitta. La gara, insomma. Il Giro. Il resto, alla fine, lo sappiamo, perché quei rumori li abbiamo tutti dentro.


Ho portato una bicicletta al Giro

Non l’ho detto ieri, ma ho portato una bicicletta al Giro d’Italia. Anzi, non una: la mia bicicletta! È questo il miglioramento più significativo rispetto alla scorsa edizione della Corsa Rosa: più della presenza di Remco, più del ritorno dei buffet in sala stampa. Pedalo un po’ al mattino, prima che cominci il delirio. Dalle 9:30 circa alle 21 si lavora sostanzialmente senza sosta al Giro: riuscire a staccare la testa fa bene, ogni tanto.

Giusto una volta, per ora, sono riuscito ad alzarmi presto e inforcare la bici. Sabato, prima della cronometro, ho raggiunto Ortona da Montesilvano. Nel farlo ho percorso alcuni chilometri che i corridori hanno fatto ieri, nella Teramo-San Salvo: splendidi, soprattutto quelli vallonati verso Ortona, impreziositi dalla vista sul mare. Assetato com’ero e ignaro della dislocazione delle fontanelle sul territorio, ho trovato l’oasi nel deserto in un bar alquanto strano, in località Contrada Schiavi. L’insegna fuori, innanzitutto, non recava un nome e nemmeno sulle mappe è segnalato. C’era uno di quei cartelloni coi loghi di varie aziende telefoniche, ma scolorito e vecchio.

La prima cosa che noto, entrando, è una cesta di uova messe su uno sgabello: certo che sono in vendita, mi conferma l’anziana signora dietro al bancone. Vista la bici mia appoggiata fuori, si ferma un altro ciclista. Mentre riempio le borracce di acqua fresca (la bottiglia stava nel frigo del bar da prima del Giro di Hesjedal), l’altro avventore del bar e la signora chiacchierano in dialetto abruzzese dell’origine dei loro genitori: storia lancianesi e teatine. Poi la signora Martelli (il nome, però, non vuole dircelo) ha il fermo desiderio di portarci a vedere le galline, quelle delle uova. Sono più di 80, ma in diminuzione da quando nel vicinato sono comparsi alcuni cani di grossa taglia.

Mentre si aggira per l’orto ci racconta di un ciclista che si fermò lì, quattro anni prima. Si fermò al bar mentre la signora stava zappando l’orto, attratto - ricorda lei - dalle bellissime primule sul vialetto. Si trattava di uno psicologo di fama di Palermo, che aveva parenti in zona. Egli presto si affezionò alla signora e andava sempre a trovarla, nelle sue uscite in bici. Finché, nonostante la devozione di questo psicologo per Santa Rosalia, non ha trovato una prematura morte in circostanze sconosciute. La signora Martelli si commuove raccontando l’epilogo perché sia io che l’altro avventore del bar siamo dello stesso segno zodiacale della persona deceduta, l’ariete.

È una storia piccola, certo, del tutto laterale nell’economia del Giro. E non c’entra nulla con la tappa odierna: bravo questo Jonathan Milan, che certo non aveva bisogno di presentazioni e del quale sentiremo ancora parlare a lungo. Il bar, la storia e le uova della signora Martelli, invece, andavano scritte perché possano rimanere. Non ne ho scritto ieri perché iniziare queste cronache dal Giro con un racconto in prima persona sarebbe stato come affrontare la crono dei Trabocchi in triciclo, ma la storia della signora Martelli è più Giro d’Italia di tanti ordini d’arrivo e tante startlist. Domani torno ad inforcare la bici e magari ne verrà fuori un altro incontro come questo: o magari pedalerò e basta, e andrà benissimo comunque.


Tutto in Milan

Adesso è tutto sul volto di Jonathan Milan, sotto il sole cocente di San Salvo. Basta fermarsi a guardare e si capisce perché in molti abbiano detto e scritto di quel viso da bambino, in un corpo da gigante. Succede ai bambini, in alcuni momenti, di voler piangere ed invece di ridere, succede ai bambini di lasciarsi andare ad un pianto poco dopo una risata così forte che pare risalire da un fondo così fondo che, crescendo, non si sa più come cercare. Milan era lì, con una mano sulla bicicletta, si guardava attorno, beveva, e i muscoli facciali facevano intuire un pianto che non usciva, un riso così forte che non si sa come ridere. Tutto sul suo volto, mentre vede, non rivede, la volata, perché per lui che l'ha costruita è la prima volta, e sembra dire: "Ma sono io? Ma sono proprio io?". Nei giorni in cui ciascuno ha qualche certezza irremovibile, fa bene sapere che c'è Milan, fa bene sapere che il dubbio ci piace ancora, ci affascina, che il non riuscire a credere a ciò di cui si è stati capaci rende quel che si è fatto ancora più significativo, perché è la meraviglia a cambiare la lettura del circostante.

Poco fa, tutto era nelle gambe di Jonathan Milan, quelle che sentiva pronte, forti, energiche, potenti, eppure non si sa mai, non basta essere pronti per vincere, non basta essere preparati per farlo. Basta invece non essere pronti per perdere, non essere preparati per essere sconfitti. La legge del ciclismo, tremenda. Quelle gambe abituate al velodromo, alla pista, a sforzi enormi ed intensi, al fiato massacrato. Quelle gambe che, a febbraio, già avevano aperto un varco sul futuro. Sì, un varco, serve quello per farsi strada e andare: quello che Milan ha trovato anche oggi, mettendo nel sacco Dekker e Groves, mettendo nel sacco tutti gli altri, vincendo quasi per distacco.

La sua è l'essenza della potenza, forse, fra qualche anno, quando penseremo alla potenza potremo evocare Milan. Come si evocano le balle di fieno dorate pensando all'estate o i baci pensando agli amori. Chissà. Era nelle gambe di Milan ed è ancora lì, perché i muscoli non dimenticano, hanno una loro memoria, un loro ricordo di quello che hanno fatto, di quello che abbiamo fatto. Non solo. Tutto è stato ed è nel corpo di Jonathan Milan, in quelle spalle, in quelle mani, in quelle braccia che svuotano la felicità quel tanto che basta per farne arrivare altra, persino nei piedi che spingono sui pedali, che li schiacciano, per sviluppare velocità. Alto, forte, allo stesso tempo semplice, dalle reazioni genuine, dai pensieri genuini. Cammina continuando a sorridere, a guardarsi intorno, a cercare qualcuno o qualcosa su cui poggiare quella gioia, quasi avesse ancora bisogno di liberarla, di urlare o di correre o saltare.

Lo capiamo bene, dopo un pomeriggio in cui la noia aveva, a tratti, preso il sopravvento, con una fuga in testa ed il gruppo che ci gioca, scegliendo quando chiudere. Succede nelle tappe per ruote veloci, può succedere. Ci hanno detto che la noia non va evitata, ma vissuta, perché può essere creatività, può essere possibilità, che nella noia si scrive, si dipinge, si inventa, si gioca, si torna a giocare. Da quella noia avremmo voluto tirare fuori qualcosa di unico, usarla bene, non buttarla via, imparare a farlo. Avremmo voluto. Poi è arrivata la volata di Jonathan Milan e la realtà ha tirato fuori il meglio di tutto quel che c'è nell'immaginazione. Quanto è stata bella anche quella noia, quanto è bella ora questa felicità.


Il senso di quelli come Remco Evenepoel

Noi siamo ancora lì: alla perfezione di un uomo e una bicicletta, lungo la ciclabile della Costa dei Trabocchi, poco più in là il mare. Quasi che la velocità che batte il tempo in bicicletta fermi quello di chiunque sia al di fuori di quella galassia, tra essere umano e ingranaggi. Di quell'intesa. Altrimenti saremmo altrove, insieme ai minuti che sono passati, alle ore che passeranno, in altre faccende indaffarati, invece rivediamo Remco Evenepoel che attraversa lo spazio ed il tempo come se non ne subisse le leggi: composto, potente, a galleggiare da un'altra parte, oltre la fatica di questi diciannove chilometri, la fatica che, di solito, sconvolge e scompiglia, oggi, invece, attraversa e lascia intatto, perfetto. Ricostruisce. Cinquantotto di media, in alcuni tratti, oltre i cinquantacinque al traguardo. Di quella galassia, uomo e bicicletta, Evenepoel e bicicletta, vorremmo studiare ogni dettaglio.

Da venerdì pensavamo ai minuti dalle 16.34 alle 16.37, in fondo solo tre minuti, ed in quante occasioni si pensa per più di un giorno a soli tre minuti? Evenepoel, Roglič, Kung e Ganna: uno dopo l'altro, stregoni del tempo, ognuno con un proprio modo di batterlo e lasciarlo fermo per tutti, intenti a pensare e a riguardare, tranne che per lui. Le leve di Ganna, la potenza di Kung, la volontà di Roglič, che non basta, che paga più di quanto si pensasse, e poco fa la perfezione di Evenepoel. Il tutto, in parte, su una ciclabile, che è il luogo del linguaggio delle biciclette, ma di un linguaggio diverso, perché i professionisti pedalano sulle strade, di solito. Interessante che, in questo sabato, quell'inversione del tempo, quella velocità perfetta, abbia trovato sfogo proprio lì: un uomo che sceglie di guidare una bicicletta sceglie un'altra posizione per spostarsi, un'altra velocità, si inventa altre possibilità, cambia forma alle cose. Una ciclabile e il Giro d'Italia rappresentano questo legame.

Occhi fissi per Evenepoel, dopo il traguardo, la sua è una felicità quieta, anche in maglia rosa, vissuta e protetta da dentro, simile a quella di Jay Vine che minuti prima era il leader provvisorio della generale, e, ancora piegato sulla bicicletta, stava in silenzio, respirava solo: dietro le transenne, una ragazza lo guardava e rideva, dal profondo. Un capovolgimento, solo apparente, perché è questione di manifestazione, ma dentro c'è la stessa cosa. Lo capiremo poco dopo, dalla delusione di Vine, quando il suo tempo viene battuto. Com'è profondo quel che si prova, da queste parti si potrebbe dire com'è profondo il mare, con le sue tonalità di azzurro, blu, forse verde acqua, com'è profondo, verso il cielo e non verso la terra, persino il verde della vegetazione.

Ganna, poco dopo l'arrivo, dirà: "Io arrivavo a sessanta all'ora, lui, magari, a sessantacinque". Rende l'idea e allo stesso modo continua a bloccare il nostro tempo: "Cos'ha fatto Evenepoel?". Chiediamocelo, chiedetevelo e di risposte ce ne sono molte, tutte ad affondare in quel che esce dalla normalità, dalla quotidianità. In fondo, c'è chi ha guardato la strada in cui passavano i ciclisti dai trabocchi, da una barca, da un prato, dall'alto o dal basso: anche questo esce dalla quotidianità, perché di solito, in quei luoghi, non si va per vedere passare delle biciclette. Per vedere Evenepoel o Ganna. Ma di solito non si contano nemmeno tre minuti di una giornata qualunque e non si resta lì col pensiero per ore. Stravolgere, rendere unico anche quello che ci si può aspettare, facendolo ancora meglio: questo è il senso di Remco e di quelli come lui.


A metà tra l'impaziente e il malinconico

Chissà cos’hanno provato quei 127 corridori che, alle 02:53 del 13 maggio 1909, si trovarono alla partenza del primo Giro d’Italia. Chissà a che ora si sono svegliati, a che ora hanno realizzato che: "diamine! comincia il Giro d’Italia". Forse non ne erano nemmeno consapevoli: la Corsa Rosa non aveva ancora acquisito il fascino degli anni.

Non sembravano granché preoccupati nemmeno Alberto Dainese e Domenico Pozzovivo, della partenza del 106° Giro d’Italia. Dainese è stato avvistato ieri, nel suo albergo di Montesilvano, solo, rilassato, seduto al bar. Guardava il telefono ma la mente, con tutta probabilità, era alla prima occasione per i velocisti. Pozzovivo a poche ore dall’inizio della tappa stava ancora uscendo dal medesimo albergo, a circa tre quarti d’ora d’auto dalla costa dei Trabocchi. Stava cercando di sollevare una valigia alta quasi quanto lui.

Del tutto inconsapevole e per nulla preoccupata è la coppia di fidanzatini che si sta guardando l’arrivo della corsa sulla salita verso Ortona. Sono capitati in un tratto ottimo per vedere la corsa: i ciclisti si vedono arrivare dal tornante sottostante e rimangono visibili per una dozzina di secondi. Che non siano molto esperti lo capisco quando lui si chiede “chissà chi è questo con la bici d’oro”, quando passa Primož Roglič . Il fatto che i corridori salgano uno a uno non entusiasma lei, che più della strada guarda l’Adriatico a metà tra l’impaziente e il malinconico.

È solo la prima di ventuno tappe e sono stati percorsi venti chilometri scarsi. Eppure Remco Evenepoel, che la prima tappa l’ha sbranata, sembra aver letto il copione in anticipo: in conferenza stampa parla già della tappa in cui potrebbe decidere di perdere la maglia. Certamente consapevole, in apparenza non preoccupato.


Il Giro d'Italia è un appuntamento

Il Giro d'Italia è un appuntamento. Uno di quegli appuntamenti per cui hai scritto tante lettere, a sera, ma non ne hai mai inviata alcuna. Perché, di fatto, non sai bene dove stia di casa: è un vagabondo che, però, ha la passione del ritorno, di tanto in tanto. Quelle lettere le hai rinchiuse in un cassetto, sperando, una mattina, forse nell'aria di vetro di Montale, che è, poi, quella di maggio, di incontrarlo fra le strade, per un caso che caso non è, perché pur di incontrarlo vai lontano da casa, e ti fermi a guardare. A guardare le biciclette, ad ascoltare la musica, ad assaggiare un cibo che fanno solo in quel paese, ad annusare un profumo, anche solo ad aspettare. E, se proprio non puoi andare a cercarlo, lo guardi attraverso uno schermo che sai che, ad una certa ora, mostrerà quello che mostra da anni a questa parte. Quello che cerchi da quando l'hai incontrato o l'hai sentito per caso, in una vecchia storia che ti raccontavano da bambino.

Il Giro d'Italia è un appuntamento fisso, potrebbe essere un venerdì sera o una domenica mattina, invece è ogni giorno della settimana per tre settimane. È forse anche dubbio, perché tutto cambia e come fai a quarant'anni ad avere la stessa voglia, lo stesso sogno, di quando ne avevi quindici? Con gli appuntamenti fissi accade di chiedersi se potrà mai finire, se, un giorno, non ti farà più quell'effetto, così appena torna, quel vecchio vagabondo, sei in una strada un poco più irrequieto, a cercarlo, per avere la tua conferma, come accadrà oggi a qualcuno, lungo la Costa dei Trabocchi. Moto, macchine, la carovana, le voci da un megafono, da un microfono, la stessa scia di vento e colore, e ti rendi conto che, sì, ogni anno probabilmente, crescendo, cambiando, invecchiando, qualcosa di diverso c'è, ma fai come da ragazzino. Tifi per la fuga, cerchi la maglia rosa, gridi di resistere a chi è caduto pochi chilometri prima, attendi la macchina dell'inizio gara per fare festa e quella del fine gara per attraversare la strada e cercare un'altra via in cui aspettarlo.

Il Giro d'Italia è un appuntamento a cui ognuno si presenta come crede. C'è ancora chi sceglie il vestito più bello che ha, come faceva una volta, per andare a bordo strada, c'è la signora che ha appena finito di preparare il pranzo e si affaccia ad un balcone con ancora il grembiule sporco di farina degli gnocchi, ci sono ragazzini sudati da una partita a calcio, nel campetto del paese, vespe e scooter, biciclette da corsa simili a quelle dei professionisti e vecchie Graziella di nonno e nonna. Anche passeggini e culle. Sì, il Giro è un appuntamento e come tutti gli appuntamenti può arrivare tardi o anticipare i tempi, mentre sei impegnato a fare altro, dopo tanti anni, però, hai capito che al Giro puoi andare anche con la vecchia divisa da imbianchino, con un cappellino fatto col giornale, dopo aver tagliato l'erba del giardino di casa o lavorato nell'orto. Non conta, al Giro vanno tutti, anche coloro che non lo conoscono eppure si sentono a proprio agio, per nulla intimiditi.

Forse quelle lettere avresti potuto spedirle a chiunque, a un amico, a un'amica, e ti avrebbero risposto qualcosa che anche il Giro potrebbe dirti. Il Giro è un appuntamento per pensare o per poter non pensare, e, quando un lunedì di fine maggio, o di inizio giugno, ti svegli e ricordi che l'hai già incontrato, che è stato bello, ma ora dovrai aspettare un anno, un poco ti prende male. Però il Giro è un appuntamento e i vecchi vagabondi come lui, anche se non ricevono lettere e non possono rispondere, agli incontri si presentano sempre.


Palio del Recioto: grandi e forti come il vino

Sotto il nome “Palio del Recioto” sono racchiuse tantissime cose. Oltre che una sagra del vino è un’enorme degustazione all’aperto e una serie di incontri sull’archeologia in Valpolicella. È un concorso enologico, un modo di avvicinarsi al vino per migliaia di persone e addirittura un torneo di bocce: la prima edizione si è svolta presso il Bar Ferrari di San Peretto, 32 partecipanti. Una tre giorni di festa che ha la sua «tradizionale chiusura», come afferma la Pro Loco di Negrar di Valpolicella, nel – questa è la nomenclatura ufficiale – Trofeo C&F Resinatura Blocchi. È una delle più dure gare internazionali per U23: per tutti, però, è “Palio del Recioto” anche questa.

Vinto nel passato da campioni quali Fabian Cancellara e un Caleb Ewan molto diverso dallo sprinter attuale (Pogačar arrivò secondo nel 2018), il Recioto attrae ogni anno il meglio della gioventù ciclistica mondiale. Anche grazie alla concomitanza con il Giro del Belvedere (che tipicamente si corre il giorno prima, in provincia di Treviso), la corsa tra i muri della Valpolicella anche quest’anno ha tra le partenti tante squadre-sviluppo di formazioni World Tour, come la Jumbo-Visma Development, l’Astana U23, l’AG2R U23 o la Groupama-FDJ Continental. Assieme a queste, vengono da tutta Italia (da tutto il mondo, in realtà) le migliori formazioni: la Bardiani, la Hagens Berman, la Colpack, la Trinity, la Zalf, la Biesse-Carrera, il Cycling Team Friuli.

Una squadra in particolare sta andando forte quanto al piano di sopra: la Jumbo-Visma sembra produca corridori-fotocopia. Sono tutti alti circa 185 cm, pesano una settantina di chili, tanti vengono dal nord Europa e sono tendenzialmente biondi. Altri segni particolari? Vanno fortissimo. Norvegese di Lillehammer, Johannes Staune-Mittet risponde bene a questo identikit: ha appena vinto il Giro del Belvedere e oggi è qui, alla partenza del Palio del Recioto, per provare a succedere al vincitore dell’anno scorso, Romain Grégoire.

Alla partenza del Recioto Staune-Mittet è evidentemente felice. Sta benone, confessa, nonostante una «notte molto calda in albergo». Gli chiedo con una battuta se abbia festeggiato abbondantemente la vittoria del giorno prima: rivela di no, semplicemente non funzionava l’aria condizionata in camera. Ha capito che «puoi sempre denudarti e dormire sopra le coperte. Insomma, sono pronto per la gara».

Mentre finisce la frase, aumenta il trambusto in zona partenza. Un paio di corridori della Hagens Berman saltano le transenne in tutta fretta per montare sulle bici: la corsa è partita! Le ruote iniziano a girare ma Johannes non ha nessuna fretta. Ha ancora il piede a terra quando mi dice che non vede «l’ora di correre oggi, sarà divertente». Infine, anche lui, parte.

Non è l’unico corridore con cui ho parlato in partenza. Con Cesare Chesini della Zalf si scherza, urlando come Carlo Vanzini, che ci sono PROBLEMI PROBLEMI PROBLEMI sulla bici di Davide De Pretto: il disco del freno tocca e serve la mano del meccanico per aggiustarlo. Sul palco del Belvedere Staune-Mittet ha detto a De Pretto che sarà «un combattimento anche oggi», ma lo scalatore di Piovene Rocchette è prontissimo e ha un compagno di squadra di nome Guerra Andrea: in un conflitto dovrebbe essere ben coperto.

Con un amico della zona, la mattina ho provato il percorso della gara. Per un amatore normale è completamente folle: si inizia con sei giri “normali”, con le salite della Masua e Jago. Sono unite da un chilometro di discesa tecnica e velocissima, al termine della quale si svolta secco a sinistra per attaccare il primo muro verso Jago. La seconda salita è detta anche “via dei Ciliegi” sebbene ormai ne siano rimasti giusto un paio: si vedono soprattutto vigne, vitigni dappertutto, e lingue di cemento su cui arrampicarsi in sella a una bicicletta.

Finiti i sei giri, un settimo passaggio a Jago è da approcciare da un’altra strada, infida. Sale, stretta e verticale, direttamente dal centro di Negrar. Una volta in cima, falsopiano e sorpresa: il muro cementato di via Tezol, con pendenze oltre al 20%. Questo è il punto decisivo della corsa: ennesimo falsopiano dopo il muro, discesa tecnica, salita finale (circa 7,5 km al 6,5% medio) verso Fiamene. Il finale, undici chilometri tra le località Fane, Prun e Torbe, è in discesa, ma il percorso è talmente selettivo (quasi 3000 metri di dislivello positivo) che il gruppo si sgretola ben presto.

«No se pol mia ber mentra cheialtri fan fadiga» scherza un anziano signore veneto dopo avermi visto con un bicchiere di rosso in mano. Siamo – come, a quanto pare, tutto il mondo ciclistico veneto – sullo strappo di Jago, che è perfetto: in cinque minuti a piedi sei al traguardo, i corridori vanno per forza di gravità piano e la cantina Recchia ha imbandito tavoli, bottiglie e risotti da far mangiare mezza Verona. Quassù c’è l’amatore Pietro, che stamattina ha incontrato durante l’allenamento Davide Formolo, residente a Monaco ma originario di San Rocco. Quassù ci sono compagni di liceo di Davide De Cassan, interessantissimo scalatore del Cycling Team Friuli, originario di Cavaion Veronese. Quassù ci sono scritte sull’asfalto per corridori locali, c’è Riccardo Meggiorini, c’è un tendone imbastito dalla famiglia Zamperini (altro bel corridorino della Zalf) che regala a tutti panini e vino, c’è Luca Giavara del Pedale Scaligero che dopo due giri ha già abbandonato la corsa e si sta godendo la festa. Ha affidato la bici a un signore con la felpa della Bocciofila Azzago ed è parte della baraonda.

La corsa, intanto, succede. Già ridotto all’osso dal circuito della Masua e Jago, il gruppo si sgretola ulteriormente su via Tezol. Coi migliori rimangono in pochi: tre Bardiani, due Jumbo-Visma, il campione del mondo junior in carica col nome da scrittore tedesco, Emil Herzog, De Pretto e pochissimi altri. Tanti provano a partire, ma chi si avvantaggia davvero è una coppia particolare. Né Giulio Pellizzari della Bardiani, né Tijmen Graat della Jumbo erano i favoriti, perché hanno compagni di squadra più quotati, ma sono ottimi corridori. «Sulla salita [di Fiamene] ho provato ad attaccarlo» rivela Pellizzari dopo la corsa, «anche se subito avevo paura perché da quello che dicono questo plana, vola. Lo guardavo, perdeva due/tre metri e rientrava. Ma non volevo tornare a casa col dubbio di non averlo attaccato».

Graat ha provato a staccare Pellizzari in discesa, senza risultato. I due collaborano e arrivano in centro a Negrar da soli. Entrambi in conferenza stampa raccontano di essersi parlati e di essersi confessati quanto siano poco veloci allo sprint. Pellizzari parte ai -200 per lanciarsi, Graat lo supera e gli dà almeno una bici di distacco. È la seconda vittoria della Jumbo-Visma in due giorni. Graat si è detto sorpreso dei suoi stessi miglioramenti: è un corridore molto diverso rispetto a quello di un anno fa, pur rimanendo uno scalatore.

È un po’ ciò che accade, mi spiega Fausto, amico ciclo-enologo, con l’uva di queste zone: dà vita sia al Recioto, che è un passito e quindi va bene con dolci al cioccolato, crostate di frutta e simili, sia – prolungando la fermentazione – all’Amarone, che è un vino diverso, ben più strutturato, adatto a carni rosse e grigliata. Tijmen Graat, Giulio Pellizzari e gli altri stanno diventando grandi e forti come il vino.