Torino-Adelaide: il viaggio di Andrea e Giacomo
«La realtà è che il momento giusto per partire, se si ponderano tutte le possibilità, non esiste. L'unica via, se davvero si vuole quella partenza, è creare quell'istante e andare, anche se, attorno a noi, non c'è nulla di perfetto». Parole di Andrea Incarbone, ventidue anni, che, domenica 21 aprile, è montato in sella alla sua bicicletta, uscendo dal garage della sua casa di Torino ed è partito, direzione Adelaide, direzione Australia. Sì, dall'altra parte del mondo e ci arriverà esattamente come ha messo piede fuori da casa, in bicicletta. Saranno circa 22000 chilometri, saranno circa undici mesi di viaggio, attraversando il pianeta. Due ombre: la sua e quella di Giacomo Perone, amico fin dai tempi degli Scout e di quel giro in bicicletta, diciotto giorni, fino a Palermo, dopo la fine della scuola, in estate. Andrea e Giacomo, entrambi facenti parte dell'associazione "Centoventuno". Da qualche parte, nelle loro menti giovani, c'era già l'idea di un altro viaggio, ben più lungo, non di giorni, ma di mesi, forse anni, attraverso i continenti. Ma il mondo è enorme e le situazioni che lo pervadono non sono governabili da due ragazzi: così, sì, sono arrivati a Capo Nord, dopo un mese e mezzo di pedalate, nel gelo, nel freddo, ma quel sogno originario non l'hanno mai iniziato per davvero. Almeno fino al 21 aprile, nonostante ancora oggi le cose non siano facili, o, forse, siano più difficili di sempre. Per lunghi giorni, l'entusiasmo è stato spento da ciò che è accaduto ultimamente in Iran: bisognava tracciare nuovamente una parte del percorso, passando dalla Turchia, dall'India, poi volando verso la Cambogia, il Vietnam e recuperando in quelle terre circa seimila chilometri, quasi cancellati dalla storia piombata su di loro. Non era questo ciò che avrebbero voluto. Poi, d'improvviso, qualcosa è tornato ad accendersi, una nuova soluzione: l'Himalaya, la Turchia, la Georgia, il Kazakistan, Nuova Delhi, l'India e via su quel tragitto.
Torino-Adelaide, in poche parole. Solo due a dire il vero. Torino perché è la città di casa, Adelaide perché è il punto più distante raggiungibile, togliendo la Nuova Zelanda, passando da Darwin e dal deserto australiano. Inoltre anche Adelaide ha qualcosa di familiare, perché proprio lì abitano dei parenti di Giacomo e arrivare, fermare le ruote ed i pedali della bicicletta, sarà, in un certo senso, tornare a casa prima di tornarci davvero. Si parte in primavera, l'unico modo per evitare la stagione delle piogge, si parte con il necessario, ben consapevoli che percorrere più di ventimila chilometri significa cambiare set-up della bicicletta più volte: «Immaginiamo tre macro aree: le attrezzature invernali le avremo con noi per la parte più fredda d'Europa, per i deserti freddi e per l'Himalaya. La prima cesura sarà Nuova Delhi, quando spediremo a casa tutto il materiale invernale, sarà un passo fondamentale in vista del deserto australiano dove avere le borse vuote sarà fondamentale per caricare più provviste possibili. Per il resto, fornellini, vestiario, attrezzi per aggiustare la bicicletta, tende, powerbank, attrezzature per riprendere, videocamere. Sarà abbastanza». La voglia di arrivare all'Himalaya è tanta, e preme, brucia, come il desiderio di vedere con i propri occhi l'India, un paese che spesso ci si immagina, da lontano, oppure la curiosità per il deserto australiano, eppure Andrea, ormai, sa qualcosa in più dell'essenza reale del verbo viaggiare per fermarsi alla scelta di un luogo, quando gli si chiede quale sia il punto del percorso cui maggiormente anela il suo animo: «Quando hai davanti mille chilometri, diecimila, ventimila, c'è sempre la tentazione di dire: "Quando arriverò lì, sarò felice". Come se quella fosse, per noi, la fine del mondo, il desiderio più bello da realizzare. Si potrebbe fare un elenco di luoghi che vogliamo raggiungere, ma non saranno mai quelli a fare davvero la differenza nel nostro viaggio. Mi spiego meglio: il senso del viaggio lo si incontra, per caso, in un qualunque posto, spesso in uno di quelli che nemmeno avevamo considerato, totalmente diversi ed inaspettati».
Questa visione è, senza dubbio, influenzata dall'aver conosciuto la bicicletta e dall'aver imparato, piano piano, tanti suoi segreti, a partire da quelli meccanici, soprattutto quanto spostarsi in bici possa cambiare la visione del mondo circostante: «Credo sia il mezzo che più si addice al viaggio degli esseri umani, uno strumento perfetto, sotto tutti gli aspetti. Ogni metro è una conquista perché si fa affidamento solo sulla propria persona, ci si suda, letteralmente, ogni traguardo. In più, si è messi a diretto contatto con l'esterno, con l'ambiente, non rinchiusi in un abitacolo, non protetti in una bolla di comodità. L'essere esposti alla scomodità è un pungolo che permette di imparare, di essere reattivi agli stimoli». Cosa sia esattamente viaggiare in bicicletta è difficile da dire, anche per Andrea, ma un qualcosa, proprio nei ricordi del viaggio in Sicilia, ci va vicino. Giacomo era già tornato a casa, Andrea era rimasto sull'isola un'altra settimana, a pedalare in solitaria e, in queste pedalate, aveva incontrato un ragazzo con cui si era fermato a chiacchierare per diverso tempo, condividendo riflessioni. Era stato lui a dirgli: «Andare in bicicletta è come pregare». «Di biciclette un poco me ne intendo, non posso dire lo stesso della fede, ma il ritmo che la bici imprime alle mie giornate, la sua ritualità, la capacità di ricollegarmi con me stesso, di farmi concentrare, mi fa pensare che quel ragazzo avesse ragione».
Viaggiare in compagnia è difficile, Andrea lo ammette ben presto: questione di abitudini da rendere omogenee, di attimi di stanchezza ed energia da "mettere d'accordo", di condivisione totale di ogni momento. Da soli, si conoscono più persone, si è più aperti al circostante, agli incontri, ma, allo stesso tempo, ci si priva di una grande opportunità: «La felicità va condivisa, va diffusa, anche quella per gli attimi minuscoli che, talvolta, riempiono le nostre giornate. Anche quando siamo arrivati a Capo Nord: avrei voluto telefonare a casa, alla mia famiglia, ai miei amici, per descrivere quel che vivevo e vedevo. Giacomo era con me, non dovevo spiegare nulla, provavamo assieme le stesse cose, bastava questo per ripagare la fatica».
Allora il 21 aprile, la partenza è stata un modo per chiudere dei cerchi, come sarà tutto questo viaggio: l'idea di Andrea e Giacomo è di trovare un'associazione per la ricerca contro il tumore al seno, lo stesso che, purtroppo, ha portato via la madre di Incarbone in pochi mesi. Sarà questa la spinta per proseguire la pedalata anche nei momenti più difficili: un progetto più grande di loro, che li terrà assieme per undici mesi o forse di più. Da Torino ad Adelaide. Ma questo l'abbiamo già detto.
Breve guida su come seguire il Giro
Andare sul percorso del Giro d’Italia è un’esperienza unica. Si entra davvero in contatto coi corridori, ti passano lì a un metro. Si vive la corsa in modo diverso, ci si sente parte di un sistema più grande, si trascorre una giornata stupita e sognante. Tutto vero. Ma seguire il Giro è anche un grattacapo logistico non da poco: dove appostarsi? Quando partire? E le strade quando vengono chiuse? Si potrà comunque salire in bici?
Ci si organizza, quindi, in più persone. Si fanno macchinate, si caricano nel baule casse di birra, si parte. Non ho dovuto preoccuparmi di come raggiungere Prati di Tivo perché purtroppo al Giro ci lavoro e mi ha dato indicazioni un collega-passeggero; ma ecco, la tappa di ieri, se fossi stato un “tifoso semplice”, l’avrei vista come segue. È un piano forse pazzo e sconsiderato, simile al modo in cui Romain Bardet ha affrontato i primi chilometri della tappa di ieri, ma ci avrei perlomeno provato, a costo di dormire in un sacco a pelo alla fermata dell’autobus di Pietracamela. Ecco il piano, e se qualcuno per caso l'ha realmente messo in atto, per favore mi scriva, scriva ad alvento: vorrei abbracciarlo.
Raggiunto in qualche modo Campo Imperatore (chiusa la funivia di Fonte Cerreto, si potrebbe pensare di arrivare lassù in bici), una decina di chilometri separano l’arrivo della settima tappa del Giro 2024 a Prati di Tivo. La questione, evidentemente, è cosa si trova in questi dieci chilometri. Per chi ama la montagna, più o meno il paradiso. Le foto di questi luoghi d’estate – i rifugi Duca degli Abruzzi e Garibaldi, Picco Confalonieri, il profilo dei monti Aquila e Portella – sono incredibili per quanto brulle, remote e inaccessibili risultino le valli, solcate solo da un sottilissimo sentiero battuto a malapena. Certo, non si tratta dei dieci chilometri più agevoli e lineari del mondo. Perché dunque avventurarsi fin qua per una tappa del Giro d’Italia? Perché non sfruttare le comode navette messe a disposizione dall’organizzazione?
Tutte domande valide, obiezioni ce ne sarebbero mille. Ecco, avessi avuto la certezza di una traversata in totale sicurezza, sarei andato in questo modo al Giro perché è l’inutile sofferenza che avvicina ancora di più alla corsa. È fare dieci chilometri a piedi tra le sassaie abruzzesi che accomuna la nostra piccolezza alle fatiche dei corridori professionisti che, poche ore dopo, andremo ad incitare. Se avete mai seguito una corsa da una di quelle orrende aree hospitality, sapete di cosa sto parlando: che noia dev’essere guardare ciclisti fare sforzi sovrumani mentre si sorseggia un bicchiere di vino. Per carità, è una comodità che attira, forse irrinunciabile, ma seguire il Giro dal vivo non è quella roba lì.
E poi certo, si può anche guardarlo dalla tv. Il ciclismo visto dal divano è fantastico, il miglior ciclismo forse. Spesso però sentiamo il richiamo della strada, quella voglia un po’ masochista di gridare in faccia alle montagne il nostro amore per le biciclette che vi si arrampicano. Così, camminando per chissà quale sentiero sulle montagne abruzzesi, ci sentiremmo anche noi un po’ meno soli.
In ogni modo
11 Maggio 2024Corse,Giro d'Italia
Maglietta lievemente slacciata all'altezza del petto, segno di un caldo che inizia a stringere, di una sofferenza lieve, sapore della pedalata, una danza sui pedali che rimanda alla montagna perché sono i suoi uomini ad arrampicarsi in questo modo, a prendere queste movenze, la bicicletta, dall'alto, ondeggia, alleggerita del peso dello scalatore che si libra nell'aria: è l'immagine di Romain Bardet che si infila in una fuga che non è solo una fuga, è la ricerca del tempo perduto, un viaggio che è un sentimento e non soltanto un fatto, ci avrebbe suggerito Mario Soldati. Nairo Quintana e Julian Alaphilippe a scalpitare insieme al francese e ad altri undici uomini, dopo che il filo dei fuggitivi si è spezzato e ricongiunto più volte. Potrebbe essere solo un'illusione, con il senno di poi lo sarà, ma Romain Bardet, per quel che trasmette nel suo viaggio, inteso come parabola, in sella, merita che si guardi in quell'illusione come in un caleidoscopio e che ci si creda. È l'intensità la chiave per interpretare l'atleta di Brioude: lui che scrive e parla di tracce da lasciare in quel che si fa, prima delle vittorie o dell'esaltazione del campione e per confortare, dopo un dispiacere, crede nei pensieri sinceri, limpidi.
Si dispiace per il ritiro di Thibaut Pinot, per il suo ciclismo. Pensa e legge molto, Bardet, poi scrive come chi ha lasciato maturare quei pensieri: non serve un pezzo, non un racconto, ovunque restino le parole. Guarda lassù, dove c'è la vetta, perché c'è il traguardo e perché «è sempre bello», vuole rompere confini, allargare le possibilità, contemplare, scappare: una sorta di dichiarazione d'intenti. Non gli è servito per vincere quell'atto di solitudine, ma gli è servito ed è servito a noi, mentre il plotone si addentrava nel verde di alberi «simili a cani che ringhiano al cielo» e tutti aspettavano un solo uomo: Tadej Pogačar, maglia rosa, come i pantaloncini, i guanti, il casco, persino la scritta sulla bicicletta.
Il Corno Grande del Gran Sasso in alto, in fondo. Tadej Pogačar a ruota della sua squadra, gli altri a ruota di Tadej Pogačar, in attesa della mossa del fenomeno. Non è facile aspettare e non è facile nemmeno scattare, scappare, perché "quello lì" è in grado di prendere la ruota e partire in contropiede, lasciando sul posto chiunque, ribaltando la situazione e per un ciclista è una delle cose peggiori essere staccati mentre si sta attaccando, la frustrazione quando, all'improvviso, la bicicletta dell'attaccato va troppo più veloce, le sue gambe sono troppo più agili, la frequenza di pedalata superiore per riuscire a mettersi in scia. Valentin Paret-Peintre è l'unico fuggitivo rimasto in testa, mentre questi pensieri si addensano nelle menti, mentre Aurelien, suo fratello, perde contatto con il gruppo: cognome evocativo il loro, a sensazione ricorda una parete dipinta, una parete e un pittore, qui le pietre ci sono, i costoni di roccia ci sono, a Pietracamela, si notano ancora le pitture rupestri del maestro Guido Montauti. Non c'è posto migliore per tentare la sorte per uno con un cognome simile.
L'andatura dell'UAE sbarra la strada ad altre acrobazie fra le lettere, la strada sale, gli occhi cercano lo sloveno. A rompere lo stallo, è Antonio Tiberi, per ben due volte; non va lontano e non potrebbe andarci, ma in tre settimane di gara contano i segnali e questi sono bei segnali, per gli altri, certo, ma anche per la propria convinzione. Contano i segnali come conta la memoria, quella dei muscoli e degli sforzi compiuti: ieri una buona cronometro, oggi lì con i migliori, non un brutto modo per andare verso Napoli e, poi, verso il giorno di riposo di lunedì. Non è certamente una salita impossibile, ma faticano tutti, mentre la maglia rosa pare «con la pipa in bocca», come si dice in questi casi, a ruota di Rafal Majka. Si sposta giusto quando partono gli scatti, Majka, ma resta nei dintorni, fra gli altri. Rimonta il gruppetto stringendo i denti, con il suo solito ghigno sulle pendenze, regala gli ultimi metri di servizio, di fedeltà, di gregariato.
Nessuno poteva fare niente prima, nessuno può fare niente quando Pogačar lancia la sua "volata", ustionante, bruciante, tanto da dargli il tempo per voltarsi ed esultare con sollievo mentre la linea bianca non è ancora arrivata. Un altro modo di vincere, un altro modo per vincere. Un enigma complicato per i suoi avversari, come affrontare la polivalenza, quel che è multiforme, che gioca con la fatica. Il ciuffo dal casco non è più solo uno, da tempo ormai, «la Majella ed il Gran Sasso continuano il loro dialogo» quassù a Prati di Tivo, la carovana, intanto, si dirige verso sud.
Foto: SprintCyclingAgency
La medicina più sicura
Un uomo evidentemente più saggio di me, Vasco Pratolini, nel 1955 decise di tornare al Giro d’Italia dopo diversi anni per prendersi una «vacanza di girino». Era inviato per un paio di giornali dell’epoca, scriveva gran bei pezzi di colore, niente più. Un lavoro da sogno, potremmo pensare oggi. Pratolini vedeva la sua partecipazione al Giro come una sorta di liberazione: «Da sei mesi, fino all’altro ieri, sono stato in cura. Avevo dei disturbi, leggeri ma noiosi, soprattutto perché non si capiva di che si trattava. [...] La diagnosi è balzata davanti agli occhi con l'evidenza delle cose di natura. Ero ammalato di sedia e di scrittoio. Andar dietro al Giro è la medicina più sicura. Già al solo pensiero, mi è passato come d’incanto il mal di capo. Non sono un veterano del Giro, ma nemmeno una recluta, mi considero diciamo un richiamato».
Ma il Pratolini del ’55 non è più l’ingenuo osservatore di otto anni prima, quando partecipò al suo primo Giro. «Ero io ragazzo quando mi presentai alla punzonatura» scriveva all’epoca, ma uno scrittore ultra-quarantenne che ricorda come sia coetaneo di certi vecchi campioni e vuole rivivere «la baldanza di quando eravamo ragazzi». Dopo tanti anni e/o tanti Giri d’Italia, insomma, ci si fa l’abitudine.
Ecco, similmente a Pratolini la mia medicina si trova durante il Giro d’Italia, ma non è il Giro d’Italia: si tratta dello scoprire posti, zone, salite e discese, piccoli pezzi di mondo insomma, in sella alla bici mia. Al mattino presto, alle volte prestissimo, quando i corridori ancora si stanno svegliando e pochissimi degli addetti ai lavori hanno la mia stessa patologia (tra questi lo scrittore e podcaster Daniel Friebe, correndo, e un meccanico della DSM), inforco la bici e vado in giro. Spesso a caso, ieri no. Ieri ho voluto percorrere prima dei corridori il finale della crono, da Ponte San Giovanni al centro di Perugia, per capire in anticipo e meglio cosa avrebbe atteso i corridori.
Se ne vedono molte, di cose, passando sul percorso di gara prima dei corridori. Già appostata a bordo strada c’è la fotografa Simona, c’è qualcuno che scrive il nome dei corridori sull’asfalto, ci sono coppie di tifosi che a malapena sanno cos’è il ciclismo. Di sicuro non lo sa un anziano che, appena entrato a Perugia città, mi chiede se sono un corridore del Giro. Però ecco, questa è la mia medicina: vedere una città rosa per ore, attesa trepidante per il passaggio dei corridori, rispondere al saluto di pazzi furiosi che incoraggiano un amatore qualsiasi come se fosse Van der Poel, farsi passare un bicchiere di vino sul tratto più duro di salita.
E poi tornare in fretta a fare la doccia, recuperare le cose, andare verso la sala stampa. Nel mentre, qualcuno ti ferma chiedendo: «Scusi, lei sa quand’è che passa il Giro?». È la risposta a questa domanda, «a breve», la mia medicina più sicura.
Supernova
10 Maggio 2024Corse,Giro d'Italia
Simile a una supernova è deflagrata la potenza in sella di Tadej Pogačar, nei 40 chilometri che uniscono Foligno a Perugia. Un'esplosione derivata dal contatto di forza, di aerodinamicità, di leggi della fisica, di delicati equilibri e polmoni forti così. Una miccia, una reazione, accesa dal desiderio, racchiuso nel grido dopo il traguardo: volontà che brucia, rinunce che accendono e scompigliano. Si dice che una supernova che esplode possa liberare, per brevi periodi, “l'energia” superiore a quella di una galassia, ma noi torniamo all'asfalto, alle nostre strade e alle nostre città, perché in quello scenario un ciclista sviluppa i propri muscoli, collauda una posizione all'apparenza impossibile da tenere per qualche chilometro, figuriamoci per quaranta, figuriamoci per 51 minuti e 44 secondi di sforzo, quello è il suo tempo. Sarebbe facile parlare di spazio, perché le biciclette assomigliano sempre più ad astronavi, per perfezione e studio, a qualcosa che sfidi lo spazio interstellare, come il tessuto che si portano addosso, una seconda pelle a cui sono state applicate matematica e fisica, calcoli e geometrie, per accrescere la velocità, per ridurre l'attrito con l'aria. Verrebbe facile, invece, restiamo agli uomini, alla macchina umana che fa cose bellissime, a quelle visiere in cui il mondo corre come un'impressione. Vince Pogačar e pone distacchi importanti sui suoi più diretti rivali per la classifica generale che, un poco, hanno la tentazione di guardarlo come un extraterrestre. Siamo convinti che in quelle gambe ci siano stati anche tutti gli scatti che, forse, aveva in mente, ma ha risparmiato, ha trattenuto. Ora li ha addosso Geraint Thomas che ha pagato due minuti.
E simile a una supernova è esplosa la bellezza di Filippo Ganna in sella. Qualcosa che ha a che vedere con l'architettura, che disegna lo spazio in cui scorre. Viene da pensare che Filippo Ganna e la bicicletta siano un corpo unico durante lo sforzo, perché traspare una facilità, una genuinità nello sforzo che è apparenza. Chiedete a Ganna la fatica che si fa, oppure limitatevi ad osservarlo al traguardo, svuotato, stanco. Il talento esce così: consuma chi lo mette in pista, mentre chi guarda ha la sensazione di essere trasportato altrove, in un futuro da fantascienza in cui tutte le logiche siano sovvertite e un uomo possa fare l'impossibile. No, c'è il vento, l'acido lattico, le giornate no, la paura, l'insoddisfazione, il tempo e lo spazio che divorano, mentre un ciclista, da solo, nei propri pensieri, divora l'asfalto, ci prova almeno. Per questo suscita meraviglia quel che è avvenuto, quel che avviene. Per questo Lorenzo Milesi, autore di un'ottima prova, tra l'altro, mentre osserva lo schermo in cui è replicata la prova in sella di Ganna, durante la salita, quando riprende e supera con apparente facilità avversari scattati prima di lui dalla pedana, sorride come si sorride quando ci si stupisce, quando si manifesta un fatto che, come esseri umani, fatichiamo a capire, ma ci piace. Anche se sappiamo che lo pagheremo, forse lo pagheremo anche caro: chi va più veloce, passa una posizione avanti, scarica secondi, forse minuti, sugli altri. Tuttavia di fronte a certe velocità, a certe perfezioni, non si riesce a non dire nulla, a non fare nulla. Vogliamo esserne partecipi, in un modo o nell'altro e ci sembra uno spreco poter guardare, solo guardare.
Guardare il padellone di Ganna, il modo in cui fa la barba alle curve. Guardare gli ultimi chilometri in salita di Tadej Pogačar, la sincronia perfetta tra il terreno su cui pedala ed il suo fisico, aumentando, controllando, la gestione dello sforzo, la mente sempre un pezzetto più avanti. Il suo predicato verbale è "migliorare". Dice che è sempre possibile migliorare e che la sua ricerca è per una comodità sempre maggiore in sella, durante lo sforzo, che pare un assurdo, ma assurdo non è. Come stranisce tutti l'insoddisfazione di Filippo Ganna dopo una prova che ha lasciato zitti, in silenzio, a chiedersi dove sarebbe arrivato nel suo giorno migliore. È un ciclista e un ciclista non conosce le stelle o la volta del cielo, conosce ogni sensazione del proprio corpo, conosce il proprio potenziale e vuole sentire di averlo raggiunto, pure se perde. Quella è la sua ricerca, l'unica possibile sopra il destriero che ha nome bicicletta. I calcoli per dare uno spazio al dominio di Pogačar continuano, è giusto così, qui ogni giorno si sa qualcosa di nuovo ed è un piacere questa curiosità. Come quando provavamo a fissare il sole, chissà perché, pur sapendo che era impossibile: «Fu solo accecato dalla luce, libero come un diavolo, un altro corridore nella notte, accecato dalla luce. Mamma mi diceva sempre di non guardare verso la luce del sole, ma mamma, è lì che c'è divertimento». Sì, Bruce Springsteen.
Foto: SprintCyclingAgency
Beh, nessuna domanda?
Ieri sono successe diverse cose più o meno divertenti a Tadej Pogačar. Prima della tappa ha vestito pantaloncini rosa, per il secondo giorno consecutivo: per quanto sia di una futilità estrema, è una notizia. Durante la tappa è andato, come tutti i colleghi, a oltre 50 chilometri all’ora nella prima ora e mezza, ha affrontato le montagne russe successive a Volterra in uno scenario incredibile, surfato sui settori di sterrato, flirtato col pensiero di perdere la maglia rosa. E invece gli è rimasta addosso, non per meriti suoi.
Dopo la tappa è salito sul palco delle premiazioni e, nel lanciarli al pubblico, ha colpito il tetto. I fiori si sono schiantati come una tortora contro il vetro, ricadendo tristemente al suolo. Anziché ridere della scena – un’occasione piuttosto facile per farsi una risata auto-ironica – Pogačar ha fatto il gesto di mandare a quel paese i fiori e tutto quanto, e poi se n’è andato scocciato.
Tutto un po’ strano, vero?
È successo, nelle fasi più concitate di corsa, che la Ineos Grenadiers di Geraint Thomas, il rivale più accreditato a rubarne lo scettro, si è messa a tirare. Per la vittoria di tappa di Jhonatan Narvaez, dicono loro, ma ci dobbiamo credere? L’impero del male, la più perfida squadra degli ultimi quindici anni nello sfruttare le debolezze altrui, ha colpito ancora: la maglia a Pogačar hanno voluto lasciargliela addosso. Così è dovuto tornare sul palco, ha dovuto firmare nuovamente una caterva di autografi e rispondere alle domande dei giornalisti. Poi è anche entrato nell’autotreno in cui si tiene la conferenza stampa aperta a tutta la stampa e lì, di nuovo, lo abbiamo incontrato.
«Stiamo perdendo il controllo» la frase d’esordio, con la quale entra nel van. La seconda cosa che dice è una piccola gag che aveva già fatto: si siede, aspetta pochissimi secondi, e dice una variazione di «beh nessuna domanda? Ok, ciao!» e finge di andarsene. Seguono risate nervose, sue e della stampa. Ovviamente le domande sono poi arrivate, lui ha risposto alle volte dettagliando alle volte scazzato, mai torrenziale nel flusso dei pensieri. Da una parte sembra consapevole di essere il più forte, e questo lo fa sentire bene perché senza la vittoria non sa stare; dall’altra non sembra divertirsi granché: che sia – ed è incredibile per uno che ha dimostrato il suo dominio – preoccupato?
È illeggibile, imperscrutabile, pur essendo un campione amatissimo e buonissimo di cui si conosce ormai ogni cosa. Provando a fargli domande, si prova un senso d’imbarazzata ed esitante timidezza: si teme che possa non rispondere, che possa blastarti, che usi solo un monosillabo. E probabilmente va benissimo così, non ci deve nulla, e anche trovare una domanda al giorno è un’impresa. Forse però la soluzione degli enigmi – sulla vera natura di Pogačar e sul vincitore del Giro – è più lontana del previsto.
La cronometro di oggi ci dirà molto di più. Non vediamo l’ora: se sei qui per scherzare con gli avversari, Tadej, oggi è la tua prima vera occasione.
Foto: Sprint Cycling Agency
«Vai e torna vincitore»
9 Maggio 2024Corse,Giro d'Italia
Stavamo solo cercando di tratteggiare una luce su una collina toscana, nei dintorni di Siena. Prendiamo in prestito le parole di Edward Hopper, nel suo caso parlò di una luce sul muro di una casa, noi abbiamo in mente il sole sulle "verdi terre" e un velo d'ombra, quello di una nuvola passeggera, poco più di un cirro, che disegna un contorno: simile agli alberi, con la luce che ne allunga le sagome, penetrando tra le fronde. Già, ma gli alberi hanno le loro radici profonde, corteccia e rami, una nuvola è il nulla, è vapore acqueo, disperso nel cielo, eppure quell'ombra resta sulla collina. In gruppo, invece, non c'è quiete, verso la salita di Volterra, perché la fuga non trova il suo spazio, la sua dimensione: è un'anima tormentata, senza pace, quella di chiunque voglia scappare dal gruppo, capace di farsi male, pur di riuscirci. Ci è tornata in mente una canzone di Gian Pieretti, sigla del Giro d'Italia sul finire degli anni novanta: «perché la tua presenza, malgrado passi il Giro, devo dire che mi manchi da morire» e qualche nota più in là «però, sinceramente, non me ne frega niente, fra poco passa il Giro e in casa solo io non ci resterò». È anche una scusa per gli amori perduti, il Giro. Sono necessari chilometri e chilometri, prima che in sette prendano qualche secondo, tra loro Julian Alaphilippe e Luke Plapp. Nel giorno degli sterrati: Giancarlo Brocci era un arbitro di calcio quando li scoprì, tra piloni, stradine, strettoie, un arbitro che non si lasciava sfuggire il minimo fallo ed il suo giudizio era insindacabile. Eppure pensava agli sterri, alla polvere. Da queste parti, a Siena, c'è il Palio ed al Palio, quando si benedicono i cavalli, si dice: «Vai e torna vincitore». Quasi una missione che mette i brividi a chi pronuncia quelle parole, a chi affida quel proposito. La visione e la missione di Plapp e Alaphilippe è simile.
Si alza una polvere bianca che pervade ogni cosa, quando le ruote smuovono la terra, a Vidritta. Non c'è nulla: polvere e campi, polvere e foglie, polvere e ciclisti. Ma c'è tutto, perché serve solo questo. In toscano, "fare il cencio" significa svenire, ma quel biancore che si solleva imbianca davvero tutto, compresa la pelle, il contorno degli occhi, i ciuffi di capelli fuori dal casco, le narici. Non è facile pedalare sugli sterrati, proprio perché non c'è nulla, non c'è l'asfalto: si soffre con quel poco che si ha. Plapp, a gennaio, dall'altra parte del mondo, in Australia, ha letteralmente "perso parte della sua pelle" in una caduta ed è andato all'arrivo, terminando ciò che aveva iniziato, la tappa, il proprio dovere. L'abbiamo osservato mentre faceva di tutto per andarsene, mentre allungava, aumentava il ritmo della pedalata, per poter vincere la tappa, prima ancora, perché i secondi non mentono, perché c'era la possibilità di prendere la maglia rosa. Dove c'erano le ferite, resta qualche cicatrice e lui corre ancora. Il primo dolore per Alaphilippe è forse nelle parole di quel professore che disse a suo padre: «Suo figlio non ha le capacità per frequentare un liceo e non ha nemmeno il fisico per una scuola di ciclismo. Iniziasse a lavorare invece di perdere tempo con gli amici». Un'etichetta, di quelle che si appiccicano alle scatole e agli scatoloni nei traslochi. Alaphilippe ne ha sentite tante di parole, ne ha sentiti tanti di giudizi, in particolare come le cose hanno iniziato a non andare più nel verso giusto ed il verso giusto per un campione è la vittoria. Attacca con rabbia, attacca con gusto, alla ricerca di una parte dispersa di cui ha bisogno. E corre ancora.
Con loro c'è Pelayo Sanchez, ventiquattro anni, di Tellego, in Spagna: Alaphilippe è il suo campione, si ispira a lui. Ad Asciano, in una curva, dopo un errore, Plapp si avvantaggia, Alaphilippe prova a rincorrerlo, da solo non ci riesce, scuote la testa, si mette alla ruota di Sanchez, rientrano così. Potrà raccontare di aver riportato Alaphilippe sul fuggitivo, potrà dirlo perché è vero. Non solo. Potrà raccontare anche che, a Rapolano Terme, in una volata a tre, l'ha fatto passare in seconda posizione, si è messo in terza, la migliore per lanciare una volata e, quando il francese è partito, gli ha prima preso la ruota, poi l'ha affiancato e superato, in vista del traguardo, pur se, nei pronostici, il più veloce era proprio Alaphilippe, il suo campione. Ha un volto giovane, Pelayo Sanchez. Giovani sono anche le sue parole, giovane è la sua felicità, che crescerà e cambierà con lui, ma questo giorno non se lo dimenticherà. Nemmeno Alaphilippe dimenticherà questo giovedì di maggio, Julian che ha anni ed esperienza in più di Sanchez, che ha già vinto tanto e che da tanto non vince, che poco fa ha perso una tappa che voleva, che ha bisogno di sentirsi di nuovo Alaphilippe, quello che la gente vede e sente ancora, ma che lui sta cercando. Tra Torre del Lago e Rapolano Terme, ha rimesso assieme qualche pezzo. Resta ancora un'ombra, ma stasera è più simile a una nuvola. Leggera.
Foto: Sprint Cycling Agency
La fuga arriva
8 Maggio 2024Corse,Giro d'Italia
Il primo gesto della mattina, accanto alla ciclabile di Genova, dove qualche pedalatore può, per frazioni di secondo, tenersi al fianco del gruppo, nel tratto di trasferimento, e voltarsi incredulo, è uno di quei gesti che, al Giro d'Italia, si fanno spesso: cercare un numero, un dorsale, dall'alto, sulla schiena dei corridori e trovare il rispettivo nome. Si fa così in caso di cadute, si fa così quando qualcuno si allontana dal gruppo, in testa, in fuga, oppure in coda, stanco, affaticato. Sono ancora i primi giorni e la stanchezza non è nemmeno troppa, Fernando Gaviria dice che "non si è ancora così stanchi da non riuscire più ad avere la forza per ridere", che rende l'idea di quello che sono certi giorni lontani da casa, su quella bicicletta. Sono ancora le prime tappe, eppure Fabio Jakobsen sono già due giorni che, sulle rampe iniziali e dolci di una salita, cede, barcolla, si stacca, muove le spalle, deve inseguire, con qualche compagno di squadra lì davanti, ad aspettarlo: 144, il suo numero. È fra i primi a lasciare le ruote del gruppo e chissà cosa scatta nella mente di chi, proprio nelle giornate in cui è atteso, quelle dei velocisti, diviene il primo "pezzo" mancante del plotone. Se quell'idea arriva alla mente, le gambe si bloccano, diventano di ghiaccio, un pugno nello stomaco: il corpo, da macchina perfetta, diviene caos, nulla più combacia. Si cercano i numeri e, verso il Passo del Bracco, sarà perché le zone sono queste, sarà per l'assonanza con il Passo del Bocco, il fatto che il 108 non ci sia pesa di più. Eppure lo sapevamo, ma i ricordi seguono strade proprie. Ora Genova pare davvero avere la faccia di tutti i poveri diavoli conosciuti da Fabrizio de Andrè, nei suoi carruggi, degli esclusi, dei fiori che sbocciano dal letame, dei "senzadio". Ma si va avanti, via dalle prigioni, di Marco Polo e della malinconia, dell'assenza.
Si cercano ancora numeri: quando va in avanscoperta la prima fuga, quattro uomini, e ad ogni caduta. Non serve il dorsale per riconoscere Christophe Laporte, mentre frana a terra, è la maglia a svelarne l'identità. Un tombino, forse. Il momento più difficile non è quando si cade, in fondo, sono pochi secondi, nemmeno il tempo di capire. Il brutto è quando bisogna tornare in piedi e fare i conti con l'impatto. La forza di ridere può toglierla un corpo ammaccato, sfregato sull'asfalto: Laporte esplora le gambe, le spalle, tocca la schiena. All'inizio è solo paura, dolore improvviso, i punti in cui la pelle è andata via si scoprono piano, piano, dopo, al primo movimento. Diceva Fausto Coppi che il momento più esaltante per un ciclista non è nemmeno la vittoria, è la decisione. Sì, l'adrenalina della scelta: di scattare, anche solo di continuare pure se il traguardo è lontano. Hanno deciso Benjamin Thomas, Enzo Paleni, Michael Valgren e Andrea Pietrobon. Hanno deciso e sono partiti, quando la prima fuga era già stata riassorbita, annullata, da un'andatura forsennata della squadra di Kaden Groves, la Alpecin-Deceuninck, altra decisione che poteva essere sollievo, sarà rimorso, in ogni caso rinuncia a qualcosa.
Del resto, decidere vuol dire escludere almeno una possibilità, non vale solo per un ciclista. In fuga, in caccia: una di quelle scelte apparentemente assurde, quasi sempre, che, però, ci si ostina a compiere, contro la logica. In fondo raccontare della bicicletta è anche raccontare di tutto ciò che c'è di irrazionale nel suo equilibrio, nel suo piacere, nella sua fatica che fa la tana nei muscoli; perché? Perché sono gli esseri umani a scegliere e gli esseri umani sono fatti di tutto questo. Giacomo Puccini era di Lucca, la città d'arrivo, lui che prima «un poco traballando e molto serpeggiando procedeva autonomo» sul "bicicletto", dopo «riduceva i suoi compagni di viaggio come tanti peperoni, con rispetto parlando». Può essere che la musica e la bicicletta abbiano qualcosa in comune? Che la composizione di un'opera e una volata, una fuga, si somiglino? A noi vengono in mente le mani dei pianisti, mentre provano e riprovano, forse una parte di risposta è qui.
L'altra è in Andrea Pietrobon. Non solo o non tanto perché anche lui suona il pianoforte, soprattutto per quello che fa e per come lo spiega. Racconterà di essere letteralmente sfinito, senza forze nei chilometri finali, a ruota di quelli che, in gergo ciclistico, si definirebbero cagnacci. Assurdo non avere più le forze nell'attimo in cui puoi provare a vincere una tappa al Giro d'Italia, assurdo essere svuotati quando la fuga arriva e tu sei nella fuga. Assurdo, ma succede. Proprio perché non ha più nulla, Pietrobon parte, allunga, uno scatto, un lampo, all'interno dell'ultimo chilometro. Si crea spazio. Confesserà di aver pensato per qualche frazione di secondo che stava per vincere una tappa al Giro d'Italia. Dirà «è stato bello». Anche solo pensarci, avete capito bene. In caccia, lì dietro, c'è Benjamin Thomas, esperto di pista, di velodromi, fenomeno in quella ellissi dove non si può sbagliare il momento. Non lo sbaglia nemmeno su un rettilineo a cielo aperto, brucia Pietrobon e supera Valgren. Succede quando si sa che scegliere è più importante di farcela. Sognava questo momento, non lo immaginava. Ora che è successo, deve solo imparare a crederci.
Foto: SprintCyclingAgency
La corsa di casa per un francese: intervista a Ben Thomas
Pochi giorni fa abbiamo intervistato, alla partenza della prima tappa del Giro d'Italia, Benjamin Thomas, il vincitore della tappa di ieri. Questo è quello che ci ha raccontato.
Il Giro è la tua corsa di casa, possiamo dirlo.
Sì, però stranamente è solo il secondo per me. E a dire il vero non ho un bel ricordo del primo, nel 2020, quando mi sono dovuto ritirare alla quinta tappa perché ero ammalato. Però mi piace sempre correre in Italia, spero che questo Giro vada meglio. Ho fatto tante volte la Tirreno e la Sanremo, mi piace.
Qual è la cosa più bella dell’Italia, di cui non puoi più fare a meno.
Il cibo, ovviamente. Quella è una cosa che mi piace. È difficile a volte arrivare a fine gara, in certi alberghi, e trovare la pasta stracotta o cose simili. Sto diventando un po’ difficile sul cibo, ma quando torno a casa è qualcosa che apprezzo davvero. E poi il ritmo di vita. E il clima: sul Lago di Garda, dove vivo, anche in inverno raramente mi prendo pioggia o freddo. Sono cose che a un corridore fanno piacere.
Ma cucini anche tu? Qual è il tuo piatto forte?
Non ho un piatto speciale, ma faccio la pasta, i risotti, mi piace anche cucinare la carne. Mi piace tutto! Anche i dolci…
E Martina Alzini, la tua collega e compagna, quali tuoi piatti apprezza?
Mah, ti direi il risotto… ma da quando Martina ha preso il Bimby in realtà non cuciniamo più, fa tutto il robottino! So che è diverso dal risotto di un cuoco ma va così, anche perché il tempo è sempre poco.
C’è qualcosa che devi ancora capire dell’Italia? In cosa non sei italiano?
Lasciami pensare… magari il caffè. Pensa che quando sono arrivato qua non avevo mai bevuto un caffè in vita mia. Adesso sì, inizio a berlo, ma senza zucchero proprio faccio fatica, non riesco. Per il resto mi sono davvero abituato all’Italia.
Tu in bicicletta fai tante cose diverse: pista, crono, sei forte in discesa, lanci le volate. Qual è la cosa che ti piace di più?
Le fughe. Mi piace andare in fuga. Giocare con il gruppo. Provare a battere le squadre dei velocisti. Non mi è capitato tante volte, ci ho provato anche al Tour de France o in altre grandi gare. Però è una cosa che mi piace. Anche aiutare i compagni mi piace, ma giocarmela in fuga è la mia cosa preferita del ciclismo su strada.
Come si fa ad andare in discesa come vai tu?
Mah, bisogna non pensare troppo ai rischi. Comunque oggi in gruppo vanno forte tutti. Bisogna essere consapevoli, prendere un po’ di anticipo sulle curve più pericolose perché se sbagli una curva puoi perdere anche 20-30 posizioni e per rimontare poi devi aspettare un momento tranquillo.
Una caratteristica dei ciclisti francesi è l’essere intellettuali: scrivono, leggono, dicono cose un po’ filosofiche. Anche tu hai questa tendenza o il tuo essere ormai italiano ti rende diverso?
Non sono tanto così. Prendo il mio compagno Guillaume Martin, che pure è appassionato di filosofia… A me piacciono queste cose, ma non è la mia passione. Leggo poco, ma penso che sia un modo di staccare la testa dal ciclismo e avere una visione diversa del nostro sport. Lo apprezzo, ma devo dire che non è il mio modo di fare. A me piace di più ascoltare la musica, anche italiana. Ascolto di tutto, dai Måneskin fino al rap. Le cose più classiche, come Vasco Rossi o Toto Cutugno, non le ascolto tanto.
Facci qualche nome.
Gué Pequeno, Club Dogo. Martina è un’appassionata e io ascolto con lei, siamo anche andati ai concerti di Marracash, di Gué. Mi piacciono. Ma poi io amo anche i Måneskin, mi piace la loro musica (l’esultanza a Lucca è stata un tributo a “Zitti e Buoni”, ndr), anche se al loro concerto non sono mai stato. Anche perché sia io che loro viaggiamo in tutto il mondo, è difficile coincidere, e non puoi andare a un concerto il giorno prima di una gara!
L’intervista integrale a Benjamin Thomas è andata in onda nella puntata di GIRONIMO del 4 maggio. Il nostro podcast sul Giro d’Italia, realizzato in collaborazione con Shimano, va in onda ogni sera su Spreaker, Google podcasts, Deezer, Spotify e Apple podcasts.
Foto: Sprint Cycling Agency
Milan e "la mar"
Eravamo in apnea, abbiamo respirato forte, profondamente, siamo tornati in apnea e quel respiro, catturato e fatto proprio, nascosto nel torace, ci è bastato per vedere come andava a finire. Sono trascorsi quattro chilometri, tre uomini, fra i tanti, Filippo Ganna, Simone Consonni e Jonathan Milan: il resto è storia. La strada è vicina al mare e, solo qualche istante fa, tra le gallerie, le rocce, il blu e la vegetazione, la mente era tornata a Sanremo, alla Milano-Sanremo, regno di tutto ciò che ha a che vedere con la velocità e pure con la fantasia. Avremmo potuto essere ancora al primo giorno di primavera, il ciclismo è una macchina del tempo.
A Cosseria, in provincia di Savona, sul percorso, al Museo delle Biciclette, c'è l'eco di quella frase che un signore di nome Luciano Berruti diceva spesso, mentre sistemava la sua bicicletta, antica, rovinata, per cui aveva un'attenzione particolare ed il fatto che fosse "vecchia", del 1907 per la precisione, di più di cent'anni, accresceva solo la cura necessaria per starle vicino: «Non so, forse avrei dovuto nascere in un'altra epoca, in un altro tempo, invece sono nato in questo mondo e qui ho fatto le mie cose». Era un ragazzo vispo "il Berruti", raccontano che, ogni tanto, andava a scuola nascondendo una biscia in tasca oppure sotto il banco, catturata nella natura: i compagni lo vedevano, gridavano e la maestra lo rimproverava, magari lo spediva a casa, mentre sua madre non sapeva più cosa fare. Era, poi, un anziano signore con lunghi baffi, a fare da cornice ad una bocca che scandiva lentamente racconti che ti saresti fermato ad ascoltare solo per sapere come andava a finire. Perché il finale vogliamo saperlo.
Eravamo in attesa, a quattromila metri dall'arrivo, quando Filippo Ganna ha squarciato un cielo già pieno di domande e di fremiti, quelli che precedono il caos di qualunque volata: se ne è andato, in un'armonia perfetta con quello che aveva attorno. Perché Filippo Ganna in bicicletta sta bene, da qualunque prospettiva lo si guardi, dall'alto di un elicottero delle riprese, da una telecamera fissa, in un'inquadratura rubata, al volo, dietro una colonna di una galleria. Il Capo Mele è stata l'occasione per uno sforzo assoluto: altri hanno provato a seguirlo, qualche metro e sono "rimbalzati", accolti dalla stessa pancia del gruppo da cui cercavano di fuggire. Per dire di cosa sia un'azione del genere, per dire di quel che serve a stare da soli, al vento, pancia a terra, mentre dietro è tutto un rumore, una rincorsa senza tregua. Berruti si innamorò così delle biciclette; sentendo il loro suono, persino lo stridere dei freni, l'odore di bruciato che rilasciavano, su quelle vecchie bici: avrebbe capito. Sì, ma quando il gruppo insegue è tutta un'altra storia. Circa 3500 metri così. Poi la fine, a circa 500 metri dal traguardo. Non è strano il suo sguardo amaro, non è strano quel continuo guardarsi attorno, mentre parla: la delusione si manda via anche così dagli occhi, quasi potesse tornare indietro e scendere da qualche parte, in gola, nello stomaco e poi via. Invece no, deglutire non vale contro il rammarico. Respiro profondo, boccata d'ossigeno e ancora apnea.
I baffi sono quelli di Simone Consonni. Scherzerà: «Ad un certo punto, non sapevo più se tirare per Milan, oppure non tirare per Ganna. Mi hanno messo in mezzo». Si dice "lanciare la volata" e non sappiamo chi sia stato il primo a coniare questo termine, ma pare perfetto: quasi fosse un lancio nello spazio, in un'altra dimensione, su una navicella con cui bisogna avere una conoscenza totale. Jonathan Milan è l'astronauta, in questo caso. Lui che "maltratta" la bicicletta tanto la porta al limite massimo: dall'alto pare una danza nervosa, in cui tutto trema, a ritmo variabile, ma in un crescendo incessante. Fino all'arrivo, ai pugni che si stringono, ai muscoli che si gonfiano nel gesto della felicità, alla voce che si libera ed al petto che si espande. Dopo il secondo posto di ieri, la vittoria era accanto al mare di Andora. Ganna, Milan e Consonni: Tokyo, un velodromo, una pista, i Giochi Olimpici, l'estate che ballava nei campi e la gioia. La macchina del tempo è già tornata indietro, come ogni giorno, ad ogni Giro d'Italia.
Pare che, in spagnolo, il mare diventi "la mar", quando lo si ama, gli si vuole bene, si ricordano i favori che ha fatto e gli si perdona tutto il resto, i torti e qualche cattiveria, magari nascondendoli dietro una scusa: le bizze della luna che farebbe girare la testa a chiunque. Il vecchio de "Il vecchio e il mare" di Ernest Hemingway aveva questa teoria e stasera noi ci sentiamo d'accordo con lui. Per qualcuno sarà "la mar", per altri solo il mare, un rivale, un nemico. Qualcuno canterà una canzone, anche Luciano Berruti lo faceva, "ma dove vai, bellezza in bicicletta", così più o meno, altri tireranno le tende di una camera d'albergo, come le coperte su di un letto, tanto fuori resta solo la notte e domani è un altro giorno.
Foto: SprintCyclingAgency