La carne di Yoann Offredo

Il nero inghiotte. Un male oscuro. L'impossibilità di fare quel mestiere che ti è sempre riuscito così bene. La fatica a rialzarsi, il non riuscire a dormire la notte perché ancora pieno di energia. «Facevo circa trenta ore a settimana in bici e ora non sono più nemmeno abbastanza stanco per dormire la notte. Alle tre del mattino sono ancora sveglio e mi pongo delle domande. A volte mi sveglio pure in lacrime», racconta Yoan Offredo all'Equipe, annunciando il suo ritiro pochi giorni fa.

Bello, biondo, con quegli zigomi alti e lo sguardo intenso; a volte persino bellissimo in bicicletta, nato su due ruote come una creatura fatta di carne, leve, motrici, grasso e catene. Una speranza del ciclismo: quante aspettative che si riversano sulla schiena dei corridori? Una maledizione a volte soprattutto quando le avversità ti travolgono, meglio l'anonimato, a volte, anche se hai passato la tua carriera all'attacco. L'ingiustizia di dover cambiare mestiere a trentatré anni quando si vorrebbe ancora fare qualcosa, perché non si può accettare di dire basta, perché hai una caviglia a pezzi nonostante gli interventi chirurgici e il trapianto del tendine, e in bici non riesci a starci più. «Smetto di correre, volevo scrivere un post ma non sono in grado di farlo. Sono ancora nella fase della negazione. Ho sentito parlare di "piccola morte" quando un corridore si ritira: per me è sempre stato un concetto astratto. Quando corriamo abbiamo la testa sul manubrio e i paraocchi. Vorrei parlare con qualcuno ma dentro questo mondo non ho molti amici. Sono in una fase un po' di depressione. L'anno scorso Kennaugh e Kittel si sono ritirati a causa di questo male, ma è una parola ancora tabù in gruppo. La maggior parte dei corridori non si esprime e si nasconde dietro le apparenze: "ce l'ho fatta! Ho una bella macchina!". Io quando mi alzo al mattino sono triste nel non riuscire a trovare emozioni. Ho bisogno di un obiettivo da dare alla mia vita». Una macchina che ti travolge, ti mangia, ti sputa; un sistema che è un tritacarne con chi si mette a nudo e mostra la propria sensibilità.

A marzo del 2019 un episodio chiave che ferisce la sua anima e ne dilania il corpo. Il giorno preciso interessa il giusto, la gara era il GP Denain: una caduta terribile, una capriola volante nemmeno sull'asfalto ma sugli spigoli di una strada tempestata di ciottoli aguzzi. Riversato a terra mentre il tepore di un sole primaverile scaldava la pelle. Il trasporto in ospedale, la diagnosi iniziale che parlava di tetraplegia totale a causa di uno shock al midollo spinale. Il recupero lampo: trentasette giorni dopo è di nuovo in bicicletta. Il Tour del 2019, gli attacchi a vanvera, infiniti, a ripetizione, i minuti di vantaggio, in coppia fissa con l'amico Rossetto. Più di un amico, padrino di una delle figlie. Poi l'oblio e di nuovo quel dolore alla caviglia. Non riuscire a sentire il potere dell'adrenalina che diventa come una droga. La dipendenza dalle corse, dall'emozione, poi tutto scompare.

Fermato anni fa per un controverso caso di controlli saltati, «Vennero a casa mia mentre ero in corsa: come si può tenere conto di un caso del genere?», persino massacrato di botte durante un allenamento. Un'auto lo sfiorò, Offredo reagì, la donna alla guida scese con un coltello e l'uomo seduto dall'altra parte lo aggredì con una mazza da baseball. «Non sono arrabbiato, sono solo deluso dalla pericolosità di questo sport» disse quel giorno «non voglio che i miei figli un giorno lo pratichino», lui che divenne ciclista sulle orme del padre.

L'ultima corsa: l'Het Nieuwsblaad 2020, il 29 febbraio. Al nord come a lui piaceva, due volte nei quindici tra Roubaix e Fiandre e adatto alle corse di un giorno, settimo alla Sanremo del 2011 quando era ancora giovane e illuso che il ciclismo gli avrebbe dato tanto quanto lui aveva sacrificato per piacergli.
Prima di lasciare il ciclismo pedalato Offredo ha commentato il Tour de France 2020 per France Televisions mostrando quell'arguzia che gli tornerà utile nel riprendere gli studi. «Il prossimo anno mi iscriverò a un master di scienze politiche, specializzazione giornalismo». Per Yoann Offredo inizia una nuova fuga: qualcosa di buono il ciclismo glielo ha lasciato.

Foto: ARN/Pauline Ballet


Cento sfumature di solitudine

C'era un ragazzino, a Parigi, il 20 settembre. C'era anche l'ultima tappa del Tour de France, a Parigi, il 20 settembre. Quel ragazzino era accanto a delle transenne, più alte di lui, poste a protezione della bolla del gruppo, alla partenza. Quel ragazzino era lì per vedere. Per questo avvicinava gli occhi- chissà di che colore li aveva gli occhi- ad ogni fessura della transenna e provava a vedere oltre. Non crediamo abbia visto molto ma siamo certi che qualunque cosa vedesse gli bastasse, per restare lì tutto quel tempo. C'era silenzio, a Parigi, il 20 settembre e si sentiva tutto.

C'era Tao Gheoghegan Hart, a Milano, il 25 ottobre. C'era anche l'ultima tappa del Giro d'Italia, a Milano, il 25 ottobre. Tao Gheoghegan Hart aveva appena vinto il Giro d'Italia, dopo una cronometro corsa sul filo dei secondi. C'era una ragazza, Hannah Barnes, che gli correva incontro in una piazza Duomo deserta, avvolta nella nebbia. Anche Hannah è una ciclista. C'era Tao che le scostava la mascherina dal viso con una delicatezza indescrivibile, quasi a dire: «Fammi vedere ancora una volta quanto sei bella..». Poi c'era Tao Gheoghegan Hart che baciava Hannah Barnes. C'era silenzio a Milano, il 25 ottobre e si sentiva tutto.
C'erano Chris Froome e Rui Oliveira, a Madrid, l'8 novembre. C'era anche l'ultima tappa della Vuelta, a Madrid, l'8 novembre. Froome e Oliveira che si incontrano da qualche parte dopo l'arrivo, ancora in sella alle loro biciclette. Chris Froome che ha già vinto tutto ciò che si poteva vincere, Rui Oliveira che è al primo anno tra i professionisti. I due si erano fatti una promessa, chissà dove, chissà quando. Il loro è un appuntamento, in realtà, Froome toglie dalla tasca il suo numero e lo dona a Oliveira. Oliveira ringrazia, con un candore raro. C'era silenzio, a Madrid, l'8 novembre e si sentiva tutto.

Quel silenzio non lo avrebbe voluto nessuno. Quel silenzio non lo vorrebbe più nessuno. Perché è un silenzio surreale, perché è un silenzio che vorremmo fosse altrove. Ma quel silenzio c'è e, temiamo, ci sarà ancora per diverso tempo. Noi di quel silenzio vi abbiamo raccontato tre storie per raccontarvi una scelta. Si può vivere il silenzio come vuoto asfissiante e angosciante, come privazione immanente, oppure si può dargli la possibilità di essere altro. Di essere, per esempio, la capacità di cogliere ciò che nel rumore, nel caos, ci sfugge. Perché ritorneremo ad essere come eravamo un tempo. Prima o poi accadrà. E quando accadrà, forse, sapremo non farci travolgere dalla confusione e dalla folla, come viandanti distratti. Sapremo ascoltare ogni minima particella di caos e riconoscerne il valore. Sapremo vedere e raccontare più storie perché saremo meno distratti. Più felici, certo, ma soprattutto più attenti. E questo è ancora più importante.

Foto: Alessandro Trovati/Pentaphoto


Thomas Voeckler, lupo di mare

Thomas Voeckler ha l'animo da lupo di mare. Qualcosa che viene dall'infanzia: i genitori di Voeckler, appassionati di navigazione, gli hanno fatto solcare le acque sin da ragazzo. Un ragazzo nato in Alsazia, a Schiltigheim, e cresciuto in Martinica, terra di cui porta il vessillo in quel soprannome, T-Blanc, che dai bordi di una nave ha esplorato l'Atlantico e sperimentato uno dei più grandi dolori della vita: la perdita del padre, risucchiato dalle acque. La vocazione è spesso il riflesso di esperienze vissute e forse per questo la vocazione di Thomas Voeckler non poteva che essere la ventura. Che è avventura e disavventura ma resta movimento costante tra gli estremi. Cambia il mezzo, la bicicletta, ma non lo spirito. Lo chiamano "baroudeur": vocabolo che riassume il suo modo di correre, il piglio sfrontato, combattente anche contro ogni logica, e che, per significati letterali, lo ravvicina al campo militare perché "baroudeur" è anche il soldato di ventura. Termine che riporta alla fiducia e ad un altro francese d'antan, Jean René Bernaudeau. È lui a chiedergli di aspettare, ai tempi della crisi de "La Boulangère", di avere pazienza che ci saranno altri sponsor, di non firmare altri contratti. Così sarà: la nuova casacca di T-Blanc sarà quella di Direct Énergie e poco importa se il contratto di Cofidis sarebbe stato economicamente più vantaggioso. La fiducia è una cosa troppo seria.

Thomas Voeckler è un istrione, un attore dai mille volti, il francese perfetto. A tratti collerico, irascibile, non certo l'atleta più stimato in gruppo o più amato dal pubblico europeo. Di certo il più amato dai suoi connazionali che in lui vedono il sunto dell'essenza d'oltralpe. Anche nelle mille smorfie, nella polemica cercata, esagerata, a volte, permetteteci di dirlo, inutile. Soprattutto, però, nell'animo con cui fronteggia le corse e "la corsa" per eccellenza, il Tour de France. Se il Tour, come scriveva Gianni Mura, è una "chanson de geste", Voeckler ne è il volto caratterizzante. Sin da quel 17 luglio del 2004 a Plateau de Beille, quando un ragazzo di venticinque tagliò il traguardo con la maglia gialla aperta sul petto, un sorriso da guancia a guancia e un pugno levato in aria. Quel giorno Voeckler perse oltre cinque minuti da Lance Armstrong, arrivò stremato ma custodì la maglia gialla per una manciata di secondi. I francesi provano una particolare simpatia per i volti più umani. Simpatia che è accostamento, compassione nel senso etimologico del termine, che è "patire assieme". I volti umani sono quelli che conoscono la sconfitta, il dolore e anche la beffa. Somigliano più a quel ragazzo che non "all'americano". Umano può essere chi perde, se la sconfitta matura in una certa maniera. C'è un manierismo del perdere. Voeckler è particolarmente umano, e per questo amato, perché corre allo spasimo, non c'é ragione, c'è istinto puro, volontà di manifestarsi al centro della scena, e qui torna l'attore, e di suscitare qualcosa in chi assiste. E lì non puoi mentire, perché il pubblico capisce.

Quando torna in maglia gialla nel 2011, Voeckler non è più un ragazzo e la strada che ha fatto lo ha temprato e gli ha insegnato ma l’indole è radicata. A tre giorni da Parigi, in Francia si scomodano ciclisti d’altri tempi e si crede davvero che T-Blanc sia l’uomo giusto per riportare la Grand Boucle in patria. Del resto se uomo giusto c’è, Voeckler ne è il ritratto perfetto, un’apoteosi di orgoglio, grinta e vanità. Ma la strada vive d’altro e quel giorno Thomas Voeckler è uno sconfitto, un perdente. Un perdente irrazionale su una salita contro cui non può far nulla se non digrignare i denti, mandare a quel paese qualche moto di ripresa e prendersela anche con qualche tifoso. Irrazionale e spietato. Questa irrazionalità di Thomas Voeckler è il suo bene e la sua condanna per tutti gli anni che da lì lo separeranno dal suo ritiro, avvenuto nel 2017. È l’amara constatazione che non sempre dare molto ti consente di ottenere molto. Che certe volte la logica imporrebbe anche qualche calcolo e risparmiarsi tornerebbe utile per il risultato. Non solo. Risparmiarsi tornerebbe utile anche a te, in termini di tranquillità e di benessere. Basterebbe farsi ragionieri della vita e minimizzare i rischi, massimizzando i risultati. Basterebbe esserne capaci. Basterebbe evitare di dare anche quello che non si ha, per senso del dovere o della coscienza. Basterebbe. Ma sarebbe davvero vivere? Voeckler dice di no e noi non ce la sentiamo di contraddirlo perché forse questa volta ha proprio ragione.

Foto: Bettini


La Vuelta di Roglič è un pugno agli incubi

L'aria di novembre, ai quasi 2000 metri dell'Alto de la Covatilla, sagoma ogni volto mettendone in evidenza tagli spigolosi. Gli zigomi sono lunghi coltelli a fendere il freddo come schizzati da righe e squadre in un progetto geometrico appena abbozzato. Gli angoli dell'umanità sono acuti, aspri, rigidi come la natura delle montagne quando l'autunno dirada verso l'inverno. C'è questa realtà acuminata sullo sfondo e la dolorosa nenia delle ascese- Puerto del Portillo de las Batuecas-Alto de San Miguel de Valero-Alto de Cristòbal-Alto de Penacaballera-Alto de la Garganta- come aghi nelle gambe, quando Richard Carapaz scatta ai tre chilometri e mezzo dal traguardo e la corsa sembra precipitare in un vuoto temporale che isola, attrae e respinge. Il dolore in queste circostanze assume i contorni di una pietà trasfigurata. Il dolore trasfigura e viene trasfigurato quasi sfregiato, confondendo sensi e sensazioni in un turbine che toglie il fiato passando dalla vista o dalle gambe. Che annebbia la vista col bruciore di un sudore freddo che dopo pochi metri tramuta in brividi e si asciuga in salviette appese al collo come rimasugli di battaglie dimenticate. Che taglia in pezzi grossolani le gambe, stese su pedali che non scorrono più disobbedendo alla fisica, quasi con la forza dei conati di nausea che sente risalire nelle interiora chi non deve affrontare solo l'acredine della terra ma anche il risucchio dei fantasmi che si nutrono ingordi dell'odore d'autunno e pullulano fra le foglie cadute e i tronchi ricoperti dal muschio.

I fantasmi che Carapaz getta alle spalle e trapassa come loro stessi trapassano i muri, con la scia d'aria mossa dal suo alzarsi sui pedali, a puntare con occhi iniettati di volontà sanguinea il prossimo metro di strada. Primož Roglič, in quell'istante, sa di incubi di notti scure e di albe attese rivolgendo auspici verso quella falce di luna lontana che tanto profuma di Spagna e di tutta l'intensità della nazione iberica. Trasfigurare significa cambiare forma e stato, significa segnare e farsi segnare. La trasfigurazione in questo momento è simile all'attrito del tempo e dello spazio che corrodono tutto quello che mostra loro il sembiante, scagliando in chissà quale viscera volontà e desideri. Qui non bastano più. Qui è la paura a prenderti a morsi perché non c'è più un domani imminente, perché il futuro è lattescenza confusa. Carapaz e Roglič sono sul filo di questo scorrere di realtà e ci restano per pochi minuti ma sembra l'eternità.
I denti dell'illusione sembrano conficcarsi nella pelle di Roglič e invece lasciano una vecchia cicatrice ma feriscono Carapaz che ha solo addolcito qualche chilometro danzando su muscoli vivi e sperando Madrid. Gli incubi di quella luna bugiarda che Roglič aveva visto da Parigi sono gli spettri che per qualche notte Carapaz vedrà in ogni angolo del sonno. Roglic ha sentito ancora male, come se gli avessero disinfettato una ferita con alcool puro e senza sedazione, ha teso ogni centimetro di muscolo e per qualche istante ha come avuto la sensazione che quel vuoto fantasmagorico lo stesse invadendo, che quel muro di fantasmi lo avesse imprigionato ancora a pochi sospiri dal traguardo. Come la ricerca negli incubi, con la stessa frustrazione di quella delusione, di quella mancanza. Non questa volta, Roglič. Non questa volta in cui l'andatura è quel ramo sul filo di un burrone o la rete aperta sotto. Questa volta il tutto è qualcosa che lenisce e carezza. Questa volta il tutto è un respiro appoggiato sul diaframma e uno sguardo che vola alto. Questo tutto assomiglia a Madrid che domani sarà decadenza dimenticata e bellezza in divenire.

Foto: Bettini


Ciao Athina, sono Tao. Ti racconto una storia

Chissà cosa avrà detto Eddy Merckx alla piccola Athina quando, l'inverno scorso, ha saputo che quel tumore al ginocchio, a cui era stata operata solo qualche tempo prima, si era ripresentato. Forse, da buon nonno, l'avrà abbracciata e poi si sarà seduto accanto a lei raccontandole una di quelle favole in cui anche i draghi più cattivi vengono sconfitti da qualche eroe. Forse sarà stata la piccola Athina, la figlia di Axel Merckx, a cercare nonno, avendolo sempre sentito chiamare "Cannibale". Avrà pensato: «Lo dico al nonno e poi vediamo». Forse si sarà fatta fare il numero di telefono da mamma e papà e avrà iniziato la telefonata come tutte le telefonate ai nonni: «Ciao nonno. Lo sai che ti voglio bene? Devo dirti una cosa». Forse nonno Eddy le avrà spiegato che anche per i nonni più forti è difficile. Forse le avrà detto che lei, così piccola, ora dovrà essere ancora più forte di nonno quando correva e, se lo sarà, non dovrà avere paura.

A dire il vero Athina è già una ragazza forte e forse è così forte anche perché lo ha promesso a nonno, perché gli ha detto che lei non mollerà. E guarda caso, solo qualche secondo dopo, quel nonno ha sorriso. Noi crediamo sia successo così, non ne abbiamo la certezza ma fa lo stesso. Pensate che pochi giorni dopo, in ospedale, Athina ha detto alla mamma di non volere regali per Natale: «Sai quel progetto di cui mi hai parlato, mamma? Perché non donate i soldi dei miei regali a quel progetto? Penso che a Natale sarò più felice sapendo che quei bambini, i bambini guatemaltechi, possano andare a scuola in autobus il prossimo anno. Me lo prometti? Facciamo così?». E mamma probabilmente avrà voltato lo sguardo da un'altra parte, solo per non far vedere che stava piangendo. Poi le avrà risposto con un bacio sulla fronte e l'unica cosa che sa dire un genitore in queste occasioni: «Certo, amore». Poi avrà cercato lo sguardo di Axel, da qualche parte nella stanza, come solo i genitori sanno fare quando si sentono fieri dei loro figli.

Athina ha già affrontato un anno di chemioterapia e accanto a lei, ogni giorno, c'è anche qualcun altro. Lo ha raccontato qualche giorno fa Axel Merckx. Parliamo di Tao Geoghegan Hart, il recente vincitore del Giro d'Italia: «Tao è veramente un ragazzo speciale. Ha preso a cuore la battaglia della mia Athina e quasi ogni giorno registra dei video molto belli e glieli invia per sostenerla, per aiutarla a farsi coraggio. Gesti del genere non sono mai scontati, ancora meno per un ragazzo come Tao che ha tantissimi impegni. Il tempo per Athina lo trova sempre, le vuole davvero bene e io non ho parole per ringraziarlo». Anche di questi video non sappiamo nulla, come di tutti i messaggi e le telefonate fra Tao e Athina e anche di questo non ci interessa. L'importante è che ci siano, l'importante è che si possa pensare che da qualche parte accadano cose di questo tipo. Che un ragazzo di poco più di venticinque anni, vincitore del Giro d'Italia, ogni giorno pensi almeno per un attimo a una ragazzina di quindici anni che un Giro d'Italia non può nemmeno andare a vederlo e lo desidererebbe tanto. Come desidererebbe tante altre cose che oggi non può fare. E che poi questo ragazzo prenda il telefono e le scriva o le registri un video, solo per farla sorridere. O magari la chiami: «Ciao Athina. Sono Tao, lo sai che ti voglio bene, vero? Devo raccontarti una storia...».


Di Eva Lechner e della libertà

Ci piace ricordare chi notava una profonda similitudine tra uomini e cavalli: «Il cavallo avrebbe una tale forza che, se non intendesse sottomettersi, nessuno riuscirebbe a domarlo. Ad un certo punto però si arrende e accetta questa sorte. Noi siamo così: l'uomo, per natura, è indomito ma deve vivere e vivere con gli altri e per questo cede. Noi crediamo a tante cose di cui in realtà non sappiamo il vero significato, ci crediamo perché ci sono indispensabili per continuare ad esistere in questa società». Ci piace ricordarlo perché parlare di Eva Lechner, in fondo, significa parlare di questo: «La mia è una continua ricerca di libertà. I cavalli rappresentano perfettamente questa libertà di cui mi nutro come pane. Già da ragazza li amavo e ne avrei voluto uno ma i cavalli costavano troppo e in famiglia non potevamo permetterceli; avevamo un pony. Il giorno in cui lo abbiamo venduto è stato il giorno della mia promessa a me stessa: "Quando sarò grande, mi comprerò un cavallo!" Quel giorno é arrivato nel 2009 quando ho comprato il primo cavallo: oggi ne ho cinque». E non è il solito discorso, tanto vero quanto inflazionato, legato alla bicicletta che fa sentire liberi. Non vi stiamo raccontando solo di questo. La libertà nella storia di Eva Lechner ha qualcosa in più. Perché Eva Lechner della libertà ha capito qualcosa in più.

La libertà di Lechner è una libertà densa. Colma di tutto ciò che le appartiene ed anche di ciò che, apparentemente, ne è l'opposto. Di rinunce, ad esempio, che non sono quasi mai l'opposto della libertà, anche se all'inizio possono sembrarlo. Sono il suo prezzo, semmai, ma questo è il senso della conquista: «La mia famiglia non aveva molte possibilità economiche e all'inizio usavo la bicicletta di mia sorella. Per avere una bicicletta tutta mia, una mountain-bike, quell'estate andai a lavorare. Era una Giant argento con la marca scritta in blu. Avevo sedici anni». Perché la libertà, in fondo, a parte la bellezza, l'importanza, non ha molto di diverso da tutte le altre cose che possiamo desiderare nella nostra vita. Vive di un delicato gioco di equilibri come ogni fatto, qui. Forse sembra differente perché scorre in ogni dove, la si può cercare ovunque, la si può inventare o "costruire" ovunque, e gli uomini, nella loro tracotanza, la bramano ansiosamente e la vorrebbero tutta, ma proprio tutta, senza nulla in cambio. Eva Lechner potrebbe raccontare di tutto questo ed in un certo senso lo fa.

«La mia quotidianità è anche una quotidianità di rinunce. Vado poche volte al cinema e vedo poco i miei amici. Mi dispiace? Certo che mi dispiace. Dico di più: certe volte mi sveglio al mattino e avrei voglia di fare tutto tranne che di uscire in bicicletta. In inverno fa freddo, spesso piove, magari non stai bene o hai preoccupazioni che ti tolgono energie. Lì devi lottare con te stesso. Devi dirti che questa è stata una tua scelta, che oggi è il tuo lavoro e hai il dovere di continuare a farlo al meglio senza lasciarti influenzare da tutto quello che ti frulla in testa. Questo dovere, per te, è ancor più forte perché questo lavoro lo hai scelto, cercato, voluto. Perché, alla fine, sai che quando riesci a varcare la soglia di casa e inizi a pedalare ti torna in mente il motivo per cui lo fai. Torni a sentirti bene, meglio di prima, e sei sicura che scelta migliore non avresti mai potuto fare». Una libertà totale sarà difficilmente possibile e forse gli uomini, indomiti per natura, continueranno a soffrirne e a dibattersi come cavalli con le redini al collo e l'anima altrove, in qualche prateria ai confini dell'azzurro. Per l'uomo sarà però sempre possibile la libertà di scegliere ciò che vuole diventare, consapevole di tutto ciò che questa scelta gli toglierà ma fiero di quello che questa stessa scelta gli porterà. Perderà qualcosa ma avrà qualcos’altro. Del resto non esiste prateria che non si disperda nell'orizzonte.

Foto: Bettini


Con Rohan Dennis non ci si annoia mai

Rohan Dennis è un cavallo pazzo. Rifiuta l'oblio anche mentre dorme. Ce lo immaginiamo girarsi e rigirarsi nel letto per paura che le ore di sonno possano togliere forza al suo estro. Nasce nuotatore, ispirandosi all'istinto killer di Kieran Perkins, aspira alla trasformazione vincendo su pista e poi mutando forma abilmente, cronoman prima e persino scalatore. Già, scalatore... perché come chiamereste voi uno che spiana in quella maniera Stelvio e Sestriere? Alla sua ruota Geoghegan Hart ha costruito il successo al Giro d'Italia, inutile girarci intorno, ma non c'è molto da stupirsi, ai cavalli pazzi vanno sempre attribuite imprese leggendarie.

E lui voleva entrare nella leggenda, proprio come il capo tribù indiano. Nel 2016 afferma: «Se uno come Wiggins è riuscito a vincere un Tour de France, allora ci posso riuscire anche io». Ognuno conosce i propri limiti e di lui si sa che, nonostante sia un corridore eccentrico e a volte permaloso, in bicicletta ha sempre dimostrato di essere professionale, maniaco dei dettagli e capace di allenarsi ai limiti del fachirismo.
Spesso cerca situazioni complicate come girasse con un lanternino in mano e un grosso cartello scritto sulla testa: “Eccomi situazioni complicate!”, ma è solo il lato umano e perciò debole del suo carattere.

La sua carriera è una di quelle che andrebbe analizzata con dovizia, la sue uscite, la sua mentalità, le sue scelte lo fanno sembrare un po' matto, benevolmente assurdo. Soffre di una sindrome particolare, l'essere bizzarro come tutti gli australiani (ancora ne dobbiamo scoprire uno “normale”), ma con lui si tocca l'estremo. Rifiuta il conformismo? O è solo la sua realtà vista da fuori che appare a tratti indecifrabile?

Episodi? Ci vorrebbe un'infinita sequenza di byte per esprimerli tutti. Sportivamente parlando si manifesta come un'eccellenza anche se i suoi colpi di testa a volte hanno fatto dimenticare ciò che di buono ha costruito nell'arco della sua carriera. Titoli mondiali a squadre ai tempi della BMC, un Record dell'Ora firmato nel 2015 fermando la distanza a 52,491 km. «Stanco ma distrutto», disse quel giorno, quasi come se non avesse avuto nemmeno tempo di goderselo.
È uno di quelli capaci di vincere tappe in tutti e tre i Grandi Giri (un club allargato, è vero, ma pur sempre qualcosa da ricordare nel tempo) più svariate altre corse di grande livello, titoli su pista e su strada. Nel 2015, al Tour, conquista la maglia gialla dopo aver vinto la crono alla media record (e tutt'ora imbattuta) di 55.446 km/h su un percorso ricco di curve e insidie. È stato quinto ai Giochi di Rio nella cronometro per soli otto secondi dopo aver perso tempo decisivo a causa di una foratura. Non fosse esistito il 2020 come lo conosciamo, il podio a Tokyo non glielo avrebbe tolto nessuno - Dennis stesso permettendo.
Curve e insidie: Dennis è anche quello della fuga misteriosa dal Tour nel 2019. Alla vigilia della cronometro di Pau abbandona la corsa. Sparisce. Si dilegua in ammiraglia a un centinaio di chilometri dal traguardo di Bagnères de Bigorre. L'addetto stampa della sua squadra, la Bahrain, raccontava tempo fa in un'intervista di come sia stato quello l'episodio più difficile della sua (lunga) carriera. «In un primo momento eravamo sconcertati: il ragazzo era muto, non parlava, ma arrabbiarsi non serviva a niente; tuttavia, noi non sapevamo nulla, non capivamo come mai si fosse ritirato all’improvviso. Una volta salito sul bus, era inconsolabile: era confuso e deluso, piangeva ma non apriva bocca». Solo poco tempo prima al Giro di Svizzera teneva testa a Bernal, che avrebbe vinto il Tour, in salita.

Passate alcune settimane da quell'episodio in Francia, Dennis vince l'oro mondiale nella cronometro e facendo parlare di sé non tanto per la prestazione (o meglio, non solo, un podio che ha visto Dennis davanti a Evenepoel e Ganna, trovate di meglio?), quanto per l'aver corso su una bici con adesivi neri a coprirne il nome del costruttore. «È bello vincere, ma quando avrò 65 anni non sarà tra le prime 10 cose migliori che sono successe nella mia vita» dirà a fine corsa in una conferenza stampa tenuta dentro una chiesa adibita a incontro tra media e corridori. Dennis spiegherà la situazione vissuta in quei mesi indicando la sua testa con un dito e raccontando di quanto quel periodo fosse stato difficile non solo per lui, ma soprattutto per quelli che gli stavano attorno.
Tempo dopo, infatti, Dennis entrerà nei particolari parlando a una televisione australiana: raccontò di aver avuto una crisi di nervi durante quel Tour a causa dell'ambiente in cui correva e che per colpa di quei momenti stava per divorziare da sua moglie. «Non volevo diventare l'ennesimo dato statistico di uno sportivo divorziato».

A inizio 2020, prima di spianare lo Stelvio come un gatto delle nevi, scappa dal lockdown e lo fa in “grande stile”, à la Dennis, con tanto di post sui social che recitava più o meno: “Giorno 34, mi sono stufato e sono uscito di casa. Covid-19 puoi baciarmi il sedere”. Tempo prima Dennis si era affidato a uno psicologo dello sport, David Spindler, che come prima cosa gli fece chiudere tutti i suoi profili social. «Aveva bisogno di azzerare lo stress e divertirsi: gli ho detto di cancellare i suoi profili sui social network, intanto. Leggeva tutto quello che si diceva di lui, offese e cattiverie incluse. Gli ho fatto capire che i social network non importano poi molto e che il divertimento, di cui aveva assolutamente bisogno, lo avrebbe trovato altrove». Quell'altrove che in questo fine 2020 è sembrato trovarlo al Giro, ma mai dare nulla per certo, lo abbiamo detto, con Rohan Dennis non ci si annoia mai.

Foto: Alessandro Trovati/Pentaphoto


Rosso Roglič

Nel ciclismo c'è una locuzione, di poche parole, che racchiude molti significati. Si dice "andare del proprio passo", che poi non è un passo ma una pedalata, che, alla fine, sembra un respiro, come ha scritto Marco Pastonesi. "Andare del proprio passo" significa seguire il proprio ritmo, assecondare la propria possibilità di quel momento, in un certo qual modo significa non aver paura di ciò che si è in quel preciso istante. Già, perché "andare del proprio passo" può voler dire "perdere del tempo", può aver voler dire "arrivare fuori tempo massimo" che significa fermarsi o meglio essere fermati perché non c'è più tempo. Si può andare del proprio passo in testa o in coda al gruppo, si va del proprio passo per la gloria o più spesso per la speranza. Per arrivare primi, per arrivare prima o semplicemente per arrivare. "Andare del proprio passo" può voler dire arrivare in ritardo, può voler dire perdere, può anche voler dire arrendersi se quel passo finisce, ma non vuol dire andare piano. Magari vuol dire andare più piano di qualcun altro, solo quello. Chi va del proprio passo non sta risparmiando nulla, sta dando tutto. Tutto quello che ha. Sta inseguendo o sta scappando da qualcuno, nel ciclismo è sempre così, fidandosi del proprio modo di seguire o scappare. Il tuo "modo" non sarà sempre il migliore in termine assoluti ma resterà comunque il tuo e non seguirlo, non fidarsi di lui, significherà sfinirsi lottando contro il vento e poi cedere. Tu puoi fare ciò che ti è possibile e nulla cambierà questa realtà.

Ma riconoscere questa realtà non significa fare del "fatalismo" o del "vittimismo". No, è l'esatto contrario. Riconoscere questa realtà significa vivere più forte e esprimere al massimo ogni potenzialità perché andare del proprio passo vuol dire lavorare sulla propria persona, bandendo inutili lamentele, colpe e invidie. Vuol dire, per esempio, avere uno sguardo simile a quello di Primož Roglič, oggi durante la cronometro della Vuelta, da Muros a Mirador de Ézaro di 33,7 chilometri, ma forse ancor di più domenica all'Alto De Angliru o sabato, all'Alto de la Farrapona/Lagos de Somiedo. Perché? Perché oggi per Roglič era anche facile andare del proprio passo, contro il tempo è nettamente migliore dei suoi avversari. Il difficile era nei giorni scorsi, quando la strada era tutta all'insù e a dettare legge erano altri. Lì andare del proprio passo significava staccarsi e pagare dazio, significava contare i secondi o i minuti di distacco. Serviva coraggio, di più serviva pazienza. La forza che serve per tenere a freno quell'istinto di fare qualcosa che non puoi fare, solo per dimostrare, per non passare staccato, per lasciare nulla agli avversari. Diremmo che serviva consapevolezza. E Roglič è stato consapevole.

Consapevole del fatto che è possibile non essere i migliori in ogni tappa, che è possibile staccarsi e anche cedere il simbolo del primato. Ci si può dare questo permesso e farlo con consapevolezza e serenità significa essere già pronti a rimettere la propria ruota davanti a quella degli altri. La costruzione di ogni vittoria, in fondo, parte sempre dal primo momento dopo la sconfitta. Da come reagisci, da come accetti il rifiuto e da come sei disposto a ripartire. Senza rinunciare al proprio traguardo ma dandosi il proprio tempo per raggiungerlo. Roglič questo tempo lo ha scandito al ritmo del cronometro e adesso il suo passo è il passo giusto. Non sappiamo se lo resterà, non sappiamo se le salite imporranno un altro passo e un altro battito. Sappiamo però quello che questo martedì di inizio novembre in Spagna ha voluto rimarcare. Abbiamo tutti il diritto di inseguire un qualcosa a cui sentiamo di appartenere. Un diritto che somiglia a un dovere. Un diritto che è consapevolezza del fatto che "col nostro passo" possiamo arrivarci. Un passo che sarà adatto per certi giorni, veloce per altri, troppo lento in alcune circostanze. Ma un passo da accettare, un passo di cui essere comunque orgogliosi, perché è la nostra unica possibilità di progressione.

Foto: Bettini


Paolo Mei, la voce del Giro

Ogni volta che Paolo Mei prepara la valigia e parte per raccontare una nuova corsa, si ricorda delle parole del suo collega Stefano Bertolotti: «Stefano mi ha sempre detto che, in fondo, la nostra è una piccola missione. Per vedere gli eventi che presentiamo le persone magari prendono un permesso dal lavoro o spostano i loro impegni. Qualcuno viene a vederci per evadere da un momento difficile o per staccare la spina dalle difficoltà. Abbiamo il dovere di restituire serenità, leggerezza, di farli divertire. Volendo potrei essere talmente tecnico da stufare tutti. Non avrebbe alcun senso. Noi siamo lì per loro. Lo speaker non deve mai porsi al centro, al centro c'è la storia che racconti, ci sono le persone che ti ascoltano. Tu sei un tramite. Se vuoi essere al centro dell'attenzione forse hai sbagliato qualcosa». Come in ogni missione conta tutto, anche il più piccolo gesto. Se hai la consapevolezza di essere lì, sul palco, per gli altri, sai che ogni attenzione é importante: «In questo Giro d'Italia, una sera mi ha scritto Filippo Ganna. Era la sera prima di una cronometro. Mi ha chiesto se fosse possibile far trasmettere due canzoni prima della sua partenza: parliamo di Engeltje e Kind Van De Duivel di Jebroer. Un gesto davvero piccolo ma importante. Che ne sappiamo? Magari un pezzetto di quella vittoria viene anche da quella musica, ci pensi? Magari una sensazione positiva viene da quelle note. Sono stato felice». E mentre parla degli atleti, Paolo Mei restituisce tutto il senso di gratitudine per un lavoro che è, in realtà, una passione.

«Sono un uomo fortunato, sono un appassionato di ciclismo che vive della sua passione. Certo c'è la tenacia, c'è la determinazione e la professionalità ma c'è anche tanta fortuna. Fare ciò che ti piace è una delle più grandi fortune che possano capitarti. Sono arrivato per caso a questo lavoro, un incidente nel 2002 ha bloccato la mia carriera da atleta. Amo alla follia andare in bicicletta. Sono appena tornato da un giro di sei ore in montagna, in gravel. C'è un raro benessere in bicicletta. All'inizio parlare con un microfono in mano era poco più di un gioco, come cantare, poi le circostanze della vita mi hanno portato qui. Il mio passato da atleta mi consente di vivere gli atleti stessi con una intensità particolare, li capisco, li capisco molto bene. Con alcuni ho un rapporto da amico, con altri da fratello, per alcuni sono il fratello maggiore che consiglia, altri con i loro piccoli gesti mi hanno reso un uomo felice». Il pensiero va al Giro d'Italia del 2011 e a Michele Scarponi: «All'ultima tappa, gli sono andato vicino e gli ho detto scherzando: "Bravo eh. Neanche un cappellino mi regali, grazie". Io stavo scherzando, lui si tolse la maglietta e me la regalò. Andò in conferenza stampa in canottiera. Capisci cosa significhi questo a livello umano? Parliamo della costruzione di un rapporto umano che passa attraverso tante delicatezze. Per esempio io chiedo sempre ai ragazzi se se la sentono di rispondere alle mie domande sul palco. Mi sembra giusto, mi sembra un gesto di rispetto verso di loro».

Il lavoro di Paolo Mei è basato sul contatto umano, il pubblico è il suo universo: «Di base sono un intrattenitore più che un giornalista. A me interessa prendere il pubblico per mano, tenerlo quasi in ostaggio, catturarlo e accompagnarlo per tutta la durata della presentazione. Per fare questo mi sono inventato un modo tutto mio di svolgere la professione. Non ho modelli, non li ho mai avuti. Non avrei mai pensato di fare questo lavoro e, come ho iniziato a farlo, ho provato a colorarlo di una personale interpretazione. All'inizio presento sempre l'evento in maniera allegra. La musica giusta aiuta tantissimo, è un vestito cucito addosso all'evento. Poi cerco di interagire con gli spettatori, cerco di capire cosa desiderano vedere. Cerco di portarli con me». Per fare questo c'è un ingrediente essenziale: «Il pubblico, per seguirti, deve fidarsi di te e per fidarsi di te deve capire che sei competente, che conosci quello che stai raccontando. Se si fida poi ti segue. Se si fida puoi prenderlo per mano». Quella particolare intesa resta addosso a chi racconta, sotto forma di sensazione e talvolta commozione: «Ogni lavoro impone un bilancio. Io lo faccio in ogni momento della giornata, mi interrogo e mi chiedo se e dove sbaglio. Certe volte come sali sul palco ti accorgi che il pubblico non interagisce. Il pubblico ha un carattere esattamente come le persone. Certe volte il pubblico è timido, certe volte estroverso. Forse questo è anche il bello ma tu comunque ci pensi, provi e riprovi. Ci sono istanti bellissimi che non ti scordi più, quando il pubblico diventa parte di te, quando il pubblico si sente forte. Se ripenso alla tappa Cosenza-Matera del 2011 o alla tappa di Feltre dello scorso anno ho ancora i brividi. Quell'entusiasmo ti resta appiccicato addosso. Quell'entusiasmo fa parte di te».


Claudia Cretti: «Ho imparato a sognare»

Claudia Cretti ricorda bene il pomeriggio in cui i suoi genitori le posero una domanda: «Claudia sei sicura di voler tornare a correre in bicicletta? Perché non fai qualcos'altro? Possiamo cercare assieme un lavoro. Ci pensi?». Era già passato diverso tempo da quel 6 luglio 2017 quando Claudia cadde rovinosamente durante la settima tappa del Giro d’Italia femminile. Il gruppo era in provincia di Benevento, in discesa, e la velocità era folle: 90 km/ora. Da lì la corsa in ospedale, tre settimane di coma e due operazioni alla testa: «Qualche giorno prima telefonai a mamma, le dissi: ''Mi sento bene, le sensazioni sono davvero buone. Perché non vieni a vedermi a Napoli? Quella tappa te la vinco”. Sappiamo come siano andate le cose». Claudia oggi è felice e racconta quei momenti con una serenità che può sorprendere l'interlocutore: «Sono sincera, a me spiace molto di più per i miei familiari che, a livello psicologico, hanno sofferto molto più di me. Non si può neanche immaginare cosa voglia dire per un genitore arrivare di corsa in ospedale e temere che un medico esca da una stanza dicendo che la figlia non c'è più. I miei genitori hanno avuto questa paura, la stessa dei miei fratelli e delle persone che mi vogliono bene. Ho i brividi solo a pensarci».
Lei, da quando è tornata ad essere cosciente, ha avuto subito quell'idea: «La bicicletta è sempre stata il mio tutto, la mia vita. Senza bicicletta mi sarei sentita persa, non potevo rinunciarci. Per ora non posso correre tra le professioniste e ho intrapreso questa strada nel paraciclismo. Sai che è la mia spinta vitale? Mi sono posta dei traguardi e provo a raggiungerli. Spesso non si pensa a quanto questo possa fare la differenza». La differenza, a dire la verità, la bicicletta nella vita di Claudia l'ha fatta sin da piccola: «Tutto è iniziato quando sono andata con i miei genitori a vedere una gara di mio cugino. Mentre tornavo a casa continuavo a ripetere a mio papà che volevo diventare una ciclista. Lui non era molto convinto ma io so essere testarda. Al pomeriggio vedevo il Giro d'Italia e rimanevo incantata dalle imprese di Marco Pantani; l'apice fu la sua vittoria a Montecampione, non lontano da casa mia. Insistetti talmente tanto che, la notte di Natale, papà mi regalò un paio di scarpette da ciclista fucsia, il mio colore preferito. Avevo nove anni». La voce si rompe quando, parlando dei suoi idoli di infanzia, Claudia Cretti ricorda Alex Zanardi: «Alex è unico. Lo ho conosciuto ed è un vulcano di vita. Ride e scherza sempre. Sarà difficile uscire da questa situazione, per lui è la seconda volta, ma io sono sicura che ce la farà, deve farcela. Non può mollare, ce lo ha insegnato lui, no?». Ma cosa significa non mollare? «Vuol dire che quando le gambe ti fanno male, quando tutto ti fa male devi trovare il coraggio di continuare ad insistere ancora. E non sai quante volte succede nella vita di tutti i giorni».
Sono tante le persone che le sono state accanto, Claudia vuole citarne due in particolare, Ana Covrig e Francesca Porcellato: «Quando mi hanno trasferita nel secondo ospedale, Ana veniva quasi tutti i giorni a trovarmi. Quanto tempo abbiamo passato assieme, quante cose ci siamo dette. Francesca è speciale. Mi ha insegnato tantissimo, mi ha raccontato di lei e mi ha dato tanta forza». Ci sono tutte le cose che sono cambiate e che Claudia sta affrontando, fuori e dentro il ciclismo, e quelle emozioni che, dopo l’incidente, hanno iniziato ad uscire e a lasciarsi scorrere. Si è iscritta a un corso di inglese per tornare a parlarlo come una volta ed è sicura che, un domani, dopo la carriera ciclistica finirà l'università. Qualche mese fa, al Giro delle Marche, a Recanati, è tornata in sella fra le professioniste: «Certe emozioni non puoi neanche raccontarle, sono troppo belle. Magari non succederà, magari non potrò più correre con loro ma io voglio credere che un giorno questo sarà possibile. Io ci credo». Per il domani invece c'è un sogno immenso ma è bello così, altrimenti che senso avrebbe? «Voglio arrivare alle Olimpiadi, voglio arrivarci meritandomi quel posto con i risultati nel paraciclismo. Per me è tutto più difficile perché non sono abituata a questo modo di correre. In volata io era protetta dalla squadra, ora devo spingere sui pedali dal primo all'ultimo istante. Ma ci sono diversi segnali che mi danno la voglia di sognare. Per esempio quando incontro i bambini e mi guardano come solo loro sanno fare, mi fanno domande e poi scoppiano in quell'applauso. Ecco, io lì mi vedo nel futuro. Mi immagino alle Olimpiadi durante l'inno o durante la sfilata. E mi commuovo».