In bicicletta in Irlanda: l'avventura di Pietro Franzese
Il Royal Canal era sempre stato lì, a Dublino, sfiorato dai raggi del sole. E chissà da quanti giorni, sulla superficie delle sue acque, affiorava quel telaio di una vecchia bicicletta. Chissà quante persone, passando di lì, saranno rimaste colpite da quell'oggetto che brillava alla luce del sole, chissà quante saranno state tentate di capire cosa fosse, di prenderlo, di portarlo a riva. Pietro Franzese viveva proprio a Dublino in quei giorni, ma, nella sua camera, al seminterrato, la luce quasi non arrivava e il Royal Canal era poco più di un'idea. Eppure, quasi per un gioco del futuro, a trovare quel telaio, a portarlo a riva e a prendersene cura, ad assemblarlo, fu proprio lui. Poi, si sa, le coincidenze sono una cosa seria, così Franzese ha iniziato a viaggiare in bicicletta: è arrivato a Capo Nord in scatto fisso, ha attraversato gli Stati Uniti durante la USA Coast to Coast, ma in Irlanda, in sella, non è mai tornato, almeno fino allo scorso mese di settembre.
Sì, tornato, perché Pietro soprattutto voleva tornare. «Al termine delle scuole superiori ero partito per l'Irlanda per continuare a studiare ed imparare l'inglese. Ero da solo, pagavo l'affitto e lavoravo in un "food bank", un banco alimentare. Essendo un'esperienza di volontariato vivevo realtà difficili, spesso di sofferenza, ma non ho mai visto una persona triste, arrabbiata con la vita, con gli altri. Mi sono interrogato spesso su questo fatto». Ora capiamo meglio quell'espressione che Pietro ripete spesso durante l'intervista: «Sono un popolo eccezionale». Ora capiamo meglio il suo tono, quando parla dei luoghi e delle persone: «Si tratta di una terra che ha vissuto la povertà per anni e lo ha fatto con una dignità enorme. Sarà per questo che, in quelle strade, non ci si sente mai soli, pur essendolo. Hanno un forte senso della compagnia, dell'accoglienza». Infatti, anche mentre si è seduti al tavolo di un pub, dei signori si avvicinano, offrono una o due birre, un bicchiere di whisky, quattro chiacchiere, magari una partita a biliardo o una cantata al karaoke: «Il prezzo della Guinness è fisso a 4,80 euro. Era così nel 2014, è così oggi. L'Irlanda non è cambiata, è come me la ricordavo. C'è meno verde, forse, almeno a Dublino, ci sono più palazzi, più case, ma l'atmosfera è la stessa. Mi hanno addirittura accompagnato a vedere una partita di calcio gaelico e si notava che erano felici che fossi con loro».
Franzese voleva tornare ed è tornato, in bicicletta: dal 31 agosto al 28 settembre, percorrendo 2300 chilometri, lungo la Wild Atlantic Way e la Causeway Coastal Route. L'occasione è stata legata al decimo anniversario della Wild Atlantic Way che Pietro Franzese ha voluto raccontare attraverso foto e video per l'ente del turismo locale: «La via è sempre esistita. Selvaggia, certamente, ma popolata. Lontana, ma nemmeno troppo e, soprattutto, facile da percorrere, ben segnalata, con cartelli che indicano la direzione, su asfalto. Mi piace immaginarlo come primo viaggio di un ragazzo o di una ragazza che stanno scoprendo il piacere di pedalare». L'equilibrio di una bicicletta, in Irlanda, è un equilibrio nel verde: dal verde scuro, denso, a quello così chiaro da ricordare l'acqua dei Caraibi. La sabbia è bianca, l'acqua turchese, il rumore dell'acqua che si infrange sulle scogliere è tanto bello quanto ipnotico: quella spuma bianca, guardando giù, è davvero ipnotica, lascia un senso di vertigine, di paura, quasi.
«Nelle notti in tenda si sentiva l'umidità proveniente dall'oceano. I primi dieci giorni mi hanno meravigliato con un meteo incredibile: non una goccia d'acqua, un cielo azzurro intenso, incontro a cui correvo veloce, cercando di non perdermi nulla. L'applicazione del cellulare con il meteo sempre sotto controllo, perché le piogge di settembre sono arrivate». Gli occhi di Pietro Franzese vedono il tipico paesaggio irlandese: muretti a secco, campi, verde, pecore ovunque, oceano a lato, una striscia di asfalto, un'erba tenera nel mezzo, una collinetta verso l'orizzonte e le case di un bianco acceso.
«Tutti si fermano a salutare, anche dalle auto, dai trattori. Ci si sente sicuri in sella, non si ha timore. Un giorno, una macchina mi è passata accanto, in quell'istante, un sassolino ha colpito la carrozzeria dell'auto. L'autista si è subito fermato: ha verificato cosa fosse accaduto, si è preoccupato per me, temeva di avermi, in qualche modo, danneggiato. Una forma di attenzione, di cura, che fa bene». Nelle soste ad una qualunque gas station, chi incontra un ciclista chiede dove stia andando, cosa voglia vedere, magari lascia qualche consiglio. La routine di Pietro Franzese prevede un risveglio lento, prendendosi tutto il tempo che serve prima di partire. Anche in città non si avverte il consueto senso di fretta che si vive, solitamente, nei centri abitati.
La mattina ha il sapore tipico della Full Irish Breakfast: uova, salsiccia, pomodori, funghi. In quel piatto, magari gustato in spiaggia, c'è tutta l'energia della giornata. Il brown bread è il pane più consumato, mentre il pane bianco è più difficile da trovare. Della birra si "mangia" quasi la schiuma, il salmone ha un colore intenso, un sapore mai provato prima: «Ho scoperto viaggiando che, in quelle terre, il salmone, fino a non molti anni fa, era considerato un cibo per poveri, al contrario della tradizione che lo associa alle classi più benestanti».
Si può pedalare lentamente, gustandosi l'attimo, entrare in un pub e chiedere la zuppa del giorno, "soup of the day", che cambia per l’appunto ogni giorno, che ha ingredienti diversi, ma è un omaggio all'ospitalità, all'accoglienza. Una zuppa calda, da gustare da mezzogiorno a mezzanotte, dopo aver preso il vento in faccia e respirato a pieni polmoni, nella verde Irlanda, in cui ci si sente benvenuti. Quando si arriva o quando si torna, come ha fatto Pietro Franzese.
Il questionario cicloproustiano di Sofia Bertizzolo
Il tratto principale del tuo carattere?
Decisione
Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
Intraprendenza
Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
Praticità
Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
Sincerità
Il tuo peggior difetto?
Schiettezza
Il tuo hobby o passatempo preferito?
Curare il verde
Cosa sogni per la tua felicità?
La salute fisica e mentale delle persone a cui voglio bene
Quale sarebbe, per te, la più grande disgrazia?
La morte
Cosa vorresti essere?
Un gabbiano per volare sul mare
In che paese/nazione vorresti vivere?
Italia
Il tuo colore preferito?
Rosso
Il tuo animale preferito?
Leone
Il tuo scrittore preferito?
Non ne ho uno in particolare
Il tuo film preferito?
Il ciclone
Il tuo musicista o gruppo preferito?
Maneskin
Il tuo corridore preferito?
Non ne ho uno
Un eroe nella tua vita reale?
Nonno Vittorio
Una tua eroina nella vita reale?
La mia prima allenatrice donna, Fabiana
Il tuo nome preferito?
Eros
Cosa detesti?
Le persone indecise e il sushi
L’impresa storica che ammiri di più?
La Resistenza partigiana della Seconda Guerra Mondiale
L’impresa ciclistica che ricordi di più?
Annemiek Van Vleuten che vince la "Course" con una rimonta incredibile su Van der Breggen. Mi sembra che fosse il 2018
Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
Tutte le corse in cui vesto la maglia azzurra
Un dono che vorresti avere?
Essere sorda a comando per non sentire certi commenti infelici sulle donne
Come ti senti attualmente?
Libera e leggera
Lascia scritto il tuo motto della vita
L'esperienza conta più della grammatica
Piccolo tramonto interiore
"...Da godersi in riva al lago con il calare del sole", cantavano, anzi, cantano ancora i Vintage Violence. Passato, imperfetto, oppure così presente e vivido il ricordo di una stagione appena terminata. Così in fretta, troppo in fretta. E non facciamo nemmeno in tempo a raccogliere i cocci, che un’altra sta per partire.
Ci rimane nel cuore uno strappo, è un magone. Una ferita che mai si potrà rimarginare. Negli occhi le lacrime, un nodo in gola che non va giù a pensare a quel giugno del 2023 e a Gino Mäder. Ogni volta che parliamo di ciclismo pensiamo a lui, inutile nasconderlo, ma mi fermo qui perché è difficile scriverne.
Ci rimangono negli occhi le grandi classiche e i grandi nomi. Persino le tante storture e ci scuserete se dimenticheremo qualcuno o qualcosa. Ci rimangono negli occhi anche quelle piccole cose. Intanto ci sono quelle piccole corse che si fregiano del nome “Classic” e sono alla loro prima edizione, qualcosa di buffo quando pensiamo alla Muscat Classic - Oman. Prima edizione della corsa, ma che è servita a capire chi è Franceso Busatto, 4° in volata alla sua prima con i professionisti, e che avrebbe poi sfornato una stagione eccellente. Su di lui tenderemo a riporre diverse speranze in un futuro che dal 2024 sarà già a tinte World Tour: non è un caso se è il primo corridore italiano che nominiamo qui, ora. Esplosivo, potente, resistente, ricorda per certi versi il Grillo Bettini e in tempi di magra ci faremmo andare bene anche solo un terzo di quello che fece il corridore toscano.
Ma parlavamo di grandi classiche: presa una per una una stagione dove vincono solo i grandi nomi è qualcosa che di rado accade e allora archiviamo il 2023 così: Strade Bianche (Pidcock), Milano Sanremo (van der Poel), Omloop Het Niewsblaad (van Baarle), Kuurne Bruxelles Kuurne (Benoot), E3 Harelbeke (van Aert), Gent-Wevelgem (Laporte), Giro delle Fiandre (Pogačar), Amstel (Pogačar), Freccia Vallone (Pogačar), Liegi (Pog… ah no, Evenepoel, una caduta a inizio gara ci toglie la possibilità di uno scontro frontale tra i due); e poi ancora, nella seconda metà di stagione: San Sebastian (Evenepoel), Mondiale (van der Poel), Plouay (Madouas), Quebec (De Lie), Montreal (A.Yates), Giro dell’Emilia (Roglič), Lombardia (Pogačar) e l’eccezione che ha chiuso la stagione: Riley Sheehan che l’otto ottobre conquista la Paris Tours correndo da stagista, da (quasi) perfetto sconosciuto ed è vero che ne abbiamo già parlato, ma è qualcosa da ripetere fino a memorizzare.
Da raccontare - lo abbiamo fatto, ma la citiamo - anche l’ultima tappa del Giro, la crono del Lussari, in contrapposizione a un Giro piuttosto bruttino e caratterizzato dal vento contro alle intenzioni di rendere la corsa più interessante e briosa rispetto a quel poco che si è visto, ma per fortuna di quel Giro restano anche i fuggitivi, le fughe e le loro vittorie conquistate o le imprese sfiorate: le storie di Healy e Gee, di Frigo e Pinot, i successi di Dainese, Zana e Milan che, in una stagione così così per il ciclismo italiano, restano fra i ricordi migliori della stagione.
Poi c'è Ganna, il miglior Ganna di sempre che fa brillare diverse cose appena le sfiora solo con lo spostamento dell'aria: podio alla Sanremo, top ten ad Harelbeke e alla Roubaix (sesto nella regina delle classiche), tappa alla Vuelta e alla Tirreno, campione italiano a cronometro, argento mondiale a cronometro, e due ori e un argento in pista tra mondiale ed europeo. 6 vittorie in stagione, miglior italiano nel ranking mondiale: annata da 10 (per la lode attendiamo ancora un po') o, come si direbbe, da incorniciare. A 27 anni è un punto di partenza per quello che potrà essere in un 2024 cruciale: classiche, Giro (parrebbe) e poi dritti verso Parigi a provare a riscrivere qualcosa di importante sul parquet di Saint Quentin en Yvelines, ma lo diciamo subito: non sarà facile. Danesi, inglesi, eccetera, spingono forte.
Osservando l’orizzonte e il sole del 2023 che cala e si tuffa direttamente nel lago vengono in mente la crisi di Tadej Pogačar a Courchevel, il suo team radio, “I’m gone, I’m dead”, l’azione di Mathieu van der Poel a Glasgow, la stagione di Mads Pedersen, tutta, l’inizio 2023 e poi la fine di quella di De Lie, due momenti caldi da cui ripartire per poi pensare nel 2024 di limare dove possibile e pensare a sfidare i più grandi nelle grandi corse. Confermarsi è la parte più difficile, si afferma, ma intanto: il Toro sono due anni che va forte e migliora e se c'è uno che sembra abbia tutto per consolidarsi e proprio lui.
Quello spicchio, ormai, di stella che brucia mentre colora di rosso l’orizzonte ci fa pensare alla Jumbo Visma che a tratti ha imbarazzato nel suo dominio - come non dimenticare quello che abbiamo visto alla Vuelta? I risultati di van Aert, un corridore che non ci saremmo mai aspettati di commentare come un eterno piazzato: alla Roubaix poteva cambiare la sua stagione, mentre alla Gent-Welegem si è tirato addosso karma negativo. L’attesa in Belgio intorno a tutto quello che può fare Remco Evenepoel, le vittoria di Bilbao e Mohorič, piene di tante cose, le volate (im)perfette di Philipsen, le vicende di Miguel Angel Lopez, le cadute, le ferite. E altro che dimentichiamo, di cui abbiamo parlato e di cui ancora parleremo.
Il sole è scomparso, ora, mentre stiamo scrivendo. La stagione è finita. Il sole, nemmeno messa giù l’ultima parola, è già pronto ad alzarsi fra pochi mesi. Dall'altra parte del mondo, Australia per ricominciare.
Foto: Sprint Cycling Agency
Si sta come d'autunno sui tornanti
Contributo di Michele Merelli
Per la mia famiglia, bici è sinonimo di vacanza. E’ occasione di ritrovarsi. Sì, perché, lavorando in pizzeria, Ferragosto, Natale e Pasqua non possono essere giorni di ferie. Così, da più di 10 anni, che io fossi in Olanda per studio o che mio fratello fosse impegnato in qualche gara ciclistica in giro per l'Italia, la bici con le sue ruote tornavano periodicamente a riunirci.
Spesso la tappa della nostra riunione era il Nord. Le classiche di primavera: “La Liegi” e “Il Fiandre”. Vacanze piene di difficoltà altimetriche, di muri in sanpietrini, alleggeriti da birre d’abazia e stroopwaffle. Alleggeriti dal pubblico che, 24 ore prima del passaggio “dei pro”, saluta da fuori casa gli amatori, supportandoli e, se fa freddo, magari offrendo caffè caldo. La loro passione, segnalata dalle bandiere col leone belga delle Fiandre, è indescrivibile. Così come è indescrivibile la macchina di turismo e di bellezza che nasce intorno a giornate come il giro delle Fiandre. L’ultima volta che ci siamo stati, mio fratello scherzava: “Sarebbe bello avere quella casa lì, con la terrazza sul Koppenberg”.
La nostra terrazza a Orezzo dà su Passo Ganda. Da qualche anno, la salita è stata introdotta come tassello fondamentale del Lombardia. La quinta, autunnale, non a caso spesso un po’ dimenticata Classica Monumento. Sancisce la fine della stagione ciclista. Quest’anno, sancisce la fine della carriera di un grande ciclista, Thibaut Pinot. Il terrazzo di Ganda è dove il collettivo artistico belga PNCHR ha deciso di rendere omaggio all’atleta, dipingendo per terra quello che ho subito associato ad un “piccolo Bansky per la Valseriana”.
Ma spesso in Italia i sogni durano meno di 24 ore. Non aspettano “i pro”. Con il tramonto del giorno, la dimostrazione di quanto non sappiamo valorizzare la nostra bellezza (e quella che dall’estero vengono a promuovere): la faccia di Pinot vandalizzata insieme ad altre scritte che aspettavano il Lombardia.
La meraviglia dell’essere al centro del mondo ciclistico è stata così sostituita da amarezza e delusione. “La street art è anche questo”, mi han risposto i ragazzi del collettivo su Instagram. Sì, è anche questo, ma non deve per forza essere questo.
Tanti i temi che si potrebbero aprire dopo quanto è successo: sulla cultura dell’andare in bici e del farlo in modo sicuro, sul valore ecologico, sociale e di salute che questo sport può dare. Tanti gli insegnamenti che può darci il Belgio, a riguardo.
Ma è la stessa bicicletta ad insegnare a pedalare e “fare sito”, spezzando parole e pensieri (e un po’ di rabbia) a colpi di costanti pedalate. Domani – in via del tutto eccezionale – anche a forza di sospiri d’attesa, di urla di supporto e di pa’ e strinù.
Il questionario cicloproustiano di Claudia Cretti
Il tratto principale del tuo carattere?
Sono una ragazza simpatica, sempre pronta ad una battuta e socievole
Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
Degli uomini non considero molto la bellezza ma la capacità di ragionare e nel modo in cui usa la testa
Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
Delle donne noto subito se c'è una forte intesa
Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
La qualità migliore dei miei amici è quella di essermi stati vicino nei momenti più bui della mia vita e anche quelli di gioia e soddisfazione
Il tuo peggior difetto?
Si nota sia dal volto che da come parlo quando mi arrabbio
Il tuo hobby o passatempo preferito?
Amo leggere e ascoltare la musica, quando ho l'occasione mi piace andare nei musei e a volte ad un concerto
Cosa sogni per la tua felicità?
Dimostrare il mio valore e la mia forza nelle gare più importanti all'estero e viaggiare per conoscere la storia e la cultura delle persone fuori dall'Italia
Quale sarebbe per te la più grande disgrazia?
La scomparsa di una tra le persone a cui tengo molto
Cosa vorresti essere?
La sportiva più conosciuta in Italia
In che paese/nazione vorresti vivere?
Vorrei abitare o in Belgio o in Olanda: due paesi in cui rispettano ogni ciclista, pensano che il ciclismo sia lo sport migliore al mondo e utilizzano la bici sia per andare al lavoro, che per la spesa o per portare i nipoti /figli a scuola
Il tuo colore preferito?
Blu/fucsia
Il tuo animale preferito?
Cane, ti accompagna sempre
Il tuo scrittore preferito?
Ken Follet
Il tuo film preferito?
Ne ho visti molti, uno più bello dell'altro; forse uno tra i migliori è "La casa degli spiriti"
Il tuo musicista o gruppo preferito?
Vasco Rossi è il mio preferito, ma ascolto anche diversi generi: AC/DC, Beatles, Billie Eilish, Meduza
Il tuo corridore preferito?
Marco Pantani, ho iniziato ad andare in bici vedendolo alzare le braccia dopo gli arrivi con salite dure
Un eroe nella tua vita reale?
Giuseppe un poliziotto che ha contribuito a salvarmi la vita, rischiando la sua
Il tuo nome preferito?
Celeste
Cosa detesti?
Chi insulta e alcuni tipi di cibo
Un personaggio della storia che odi più di tutti?
Hitler
L'impresa storica che ammiri di più?
Nascita dei libri stampati: Gutenberg
L'impresa ciclistica che ricordi di più?
La mia vittoria agli Europei in pista a soltanto 17 anni
Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
Dai mondiali. Si finiscono sia nel bene che nel male
Un dono che vorresti avere?
Capire bene le persone con cui parlo e che frequento
Come ti senti attualmente?
Felice dei miei risultati, ma pronta ad alzare l'asticella per puntare più in alto l'anno prossimo
Lascia scritto il motto della tua vita?
Ad maiora
Il Lombardia: colori e bolle di sapone
Dipende da che parti guardi.
Il Lombardia, intendo.
Vado a spiegare.
Dall’alto, a volo di drone, vedi tutto più ampio, ma appiattito.
Partenza da quel ramo sul lago di Como. Arrivo a Bergamo, vicino le Mure veneziane e non bergamasche perché - se ve lo state chiedendo - nel ‘500 la città apparteneva a quella Repubblica.
È la Classica Monumento con più dislivello. Un su e giù di 4.400 metri spalmati in oltre 200 km e
6 ore di fatica. Roba per tipi tosti, roba da Pro, insomma.
Dall’alto, dicevamo, tutta la fatica si azzera, ma ti perdi i dettagli.
Dei colori rinunci alle sfumature.
Se sei più vicino, fra il pubblico nell’ultima grande salita - il Passo di Ganda - noti un sacco di cose. Sfiori un sacco di storie.
Voglio dire: uno spettacolo nello spettacolo.
Pubblico da Sanremo - non quello del festival - certo di assistere a un grande show, perché prima di vederle, certe gare, le senti.
Come la carrellata di un film vedi una famiglia tedesca in camper - con bassotto al seguito - e bambino nel passeggino che dorme nonostante il frastuono.
Poco importa se erano lì per caso, i tedeschi, perché sprizzeranno entusiasmo come tutti gli altri al passaggio dei corridori.
Poi noti un anziano, bastone e cappellino, che con la testa vorrebbe rivedere Coppi - che il Lombardia lo vinse 5 volte - e con il resto del corpo corrergli dietro.
Lui che appartiene a quel tempo in cui le corse partivano piano e il mondo era più lento.
C’è anche un ragazzino dietro una montatura spessa, occhi da Bamby e sorriso da Alladin, ma con l’apparecchio. Cartello in mano con richiesta di borraccia, cimelio impossibile da ricevere in quel tratto di strada. Sull’asfalto Merçi Pinot.
Accanto a lui un tipo smilzo, sguardo rapace, tale Edoardo detto Edooo.
Mangia unghie e pane e qualcosa.
Fà il mulettista, scopro. Di fianco la piacente fidanzata bionda innaturale, unghia fluo.
Complici, compartecipi.
E infine, quando meno te l’aspetti, ecco il miracolo.
Ester, di sette anni, quasi otto.
Dapprima tutta salti e piroette, poi ferma, immobile.
Apre un tubetto di plastica, soffia lentamente e crea bolle di sapone. Proprio lì, in quel posto!
Ti sembra di ascoltare l’eco del Big Bang, il sussurro dell’anima.
La nascita dello Stupore.
In breve, è stata una di quelle giornate che se ti chiedono a bruciapelo com’è andata dici una figata, anche se ci sono gare più importanti per cui esaltarsi.
La cronaca la conosciamo: macht con tre papabili e tu che non sai da che parte stare.
O fingi di non saperlo.
Il Messi della situazione è un certo Tadej Pogacar, dorsale numero 1. Il pifferaio magico sloveno che ipnotizza e tu lì a chiederti come fa’.
Sta di fatto che lui regala la confortante sensazione di vedere all’opera un virtuoso della bicicletta. Un giovane Mozart che fa gli sberleffi al mondo del ciclismo moderno con più leggerezza del compositore.
Parte in discesa dopo il Ganda e conquista la vittoria numero 17 in stagione, nonostante i crampi.
Il Jumbo Jet Roglic non vola come al Giro e arriva terzo a 52” dal vincitore.
Infine il terzo favorito Evenepoel che vola a terra a inizio gara e finisce nono.
Secondo arrivato? Andrea Bagioli, colpo di reni e un italiano fra i grandi!
Comunque, sarà per via di quel nome, la classica delle foglie morte, ma al termine della gara, è rimasto un non-so-cosa dentro. Una specie di malinconia da fine calendario World Tour.
Il giorno successivo in scena gli amatori nel loro completino ultimo grido e pancetta ultimo chilo.
Appena 109 km di imitazione e prima salita dopo soli 22, il Muro di Sormano.
Una mulattiera, un’enorme V al contrario, che ti arriva addosso. Un muro, appunto.
Sogneranno di pedalare fra due ali di folla per volare via dalla routine.
Sogneranno di volare via.
Come bolle di sapone.
Come quelle di Ester.
Impronte che svaniscono nel cielo.
Foto: Sprint Cycling Agency
Biciclette Rossignoli, Milano
21 Settembre 2023Newsletteralvento points
Ai tempi di Sergio Rossignoli, Milano era completamente diversa. I negozi, allora situati nel centro-sud della città, vennero distrutti dalle bombe della guerra mondiale, ma anche Corso Garibaldi, dove trovò casa "Biciclette Rossignoli", non aveva nulla a che fare con quel che si vede oggi, mentre ci si accosta alla vetrina. «Non c'era tutto questo sbrilluccicare. Ai nostri giorni, Corso Garibaldi è un'isola felice, di una felicità anche finta, se vogliamo, è una via di miliardari, di privilegiati. Quando ero piccolo io e vivevo qui, era quasi una strada della rive gauche di Milano. Si vedevano prostitute ed alcolizzati. Si sapeva che da queste parti c'era il covo degli anarchici e la casa di Pietro Valpreda. Certo, questa è la nostra strada, quella da cui proveniamo e non lo scordiamo nemmeno per un secondo, tenendo sempre presente che è una strada di fatica, sacrifici, grosse difficoltà, non un eterno presente del privilegio»: a parlare è Matia Bonato, nipote di Sergio Rossignoli, eppure, pur non avendolo conosciuto, siamo subito convinti che parole simili avrebbe potuto pronunciarle anche Sergio.
Lui che capiva a vista d'occhio se un telaio fosse dritto o storto. Quel vecchio telaista che, tanti anni fa, scaricò una cinquantina di telai nel cortile di Rossignoli potrebbe ben raccontarlo. Sì, perché Sergio, prendendone uno in mano, lo ammonì con uno sguardo: «Quei telai sono tutti storti». Il telaista contestò, ma il signor Rossignoli, con la dima, confermò quell'impressione «e lo cacciò "a pedate", facendogli portare via pure tutti i telai». Lui che considerava i meccanici parte della famiglia e a molti comprò casa. Lui che, forse, non aveva la classica dolcezza dei nonni, ma a Matia ha insegnato le cose più importanti: «Poteva esserci un copertone da mettere o due viti da sistemare nel divano della casa in montagna e lo sentivi che mi chiamava: "Ue' nani, sù, vegn qui a darmi una mano!". Era andato a lavorare giovanissimo: dormiva spesso in officina, perché c'era tanto lavoro da fare e poco tempo per farlo. Un uomo molto affezionato alla sua creatura, sempre presente nel momento del bisogno della famiglia. Autorevole, autoritario. Tutti gli davano del lei per il rispetto che suscitava».
Sergio Rossignoli è stato a capo di Rossignoli fino agli anni ottanta: andava spesso in bicicletta, anche in città, e delle biciclette si prendeva cura come fanno i meccanici perché era un meccanico. Matia Bonato ha ancora oggi presente la bellissima Rossignoli, con telaio Alan, su cui pedalava: la puliva attentamente, registrava il cambio e prima di uscire si vestiva da ciclista. «Portava la camera d'aria, ma non la borraccia. Diceva che bere, in bicicletta, fa male. Per i suoi ottant'anni, i miei diciotto, facemmo un giro assieme. Negli ultimi tempi, portò quella bicicletta, quasi a custodirla, nella sua casa in collina, in Val d'Intelvi. Mi è rimasta la cura nel parlare di bici e nell'aver a che fare con le bici che aveva lui». La storia racconta che Matia arriva in Rossignoli circa dodici anni fa, nel 2011, proprio quando manca il nonno ed il negozio attraversa un periodo difficile. Lascia il suo precedente lavoro e sceglie di proseguire la via tracciata dal nonno, non senza timori, non senza preoccupazioni: «Il primo concetto con cui mi sono trovato a fare i conti è quello di responsabilità, o meglio, di una responsabilità diversa da quella che si sperimenta da dipendente. In un'attività di questo tipo, ci sono persone che arrivano alle sette del mattino in officina, a lavorare, che magari hanno un mutuo, dei bambini piccoli e tu devi pensare a loro, è un dovere morale. Ho vissuto almeno un paio di momenti davvero complessi qui ed il nostro stipendio era l'ultimo ad essere pagato. Non è facile». Eppure Matia, insieme a Giovanna, Renato e Giorgio, della vecchia generazione, e a Matteo, suo cugino, continua a lavorare in negozio: è orgoglioso di essere l'unico Bonato insieme a tanti Rossignoli e ci scherza sopra. Quando gli chiediamo come si gestiscano le altre difficoltà del suo lavoro, la risposta, già dal tono, ridimensiona tutto: «Credo sia evidente ai più che cosa facciamo. Non operiamo a cuore aperto, non curiamo bambini gravemente malati: sì, è un lavoro ed in tutti i lavori ci sono cose difficili, ma una volta che si ha chiaro questo, si capisce che, bene o male, è tutto alla nostra portata».
Quando si entra da Rossignoli e si sente l'odore di gomma, di muri leggermente scrostati, è impossibile non pensare alla storicità, non artefatta, del luogo e a tutta la strada fatta. Si avverte subito la bicicletta vissuta come mezzo: per andare al lavoro ed anche per “sbarcare il lunario”, il che apre tutto un discorso sulla professionalità e sulla cultura che, ci spiega Bonato, sono sempre più necessarie nel mondo del ciclismo: «Rossignoli è anche storia, ma non solo storia. La storia va di pari passo con la modernità: ogni giorno arrivano da noi biciclette di altissimo livello e voglio che i nostri meccanici sappiano trattarle. Siamo anche il negozio del freno a mazzetta e dell'anziana sciura milanese, però non solo. I miei figli sono nati al Buzzi e quando mi è stato chiesto se fossi tranquillo, ho risposto: "Sì, perché lì fanno nascere bambini come da noi si cambiano le camere d'aria". Parlavo di casistica e competenza. Mi piace pensare che chi viene da noi abbia lo stesso pensiero, la stessa fiducia». Già, i meccanici ed il loro "posto sincero": «Sì, perché come tutti i meccanici sono scontrosi, poco amici dei santi, litigano tra loro, usano le mani per lavorare, si tagliano, si fanno male, conoscono la teoria e l'empirismo che la manualità porta». Quel male alle mani, per giorni e giorni, Matia Bonato lo conosce bene: l'ha provato a marzo, quando ha scelto di montare lui copertoni e camera d'aria sulla sua bicicletta e, dopo quaranta minuti, ne è uscito con le mani distrutte. Quel giorno, ha ripensato a una massima del dialetto milanese, in cui si riconosce: "Ofelè fa el to mesté!". Ovvero alla necessità che ognuno faccia il proprio, in ogni campo.
È la realtà di ogni negozio, di ogni luogo in cui le persone si alzano all'alba per iniziare a lavorare, in cui qualcuno porta dentro e fuori quaranta, cinquanta biciclette al giorno, si confronta, parla, ascolta, cerca di capire. E questa consapevolezza, aggiunge Bonato, è il motore per decidere di fare rete, di fare squadra: mentre l'e-commerce che è sempre più importante, un fenomeno con cui non si può competere, può spazzarti via. Mentre la specializzazione, l'iperspecializzazione, ti lascia indietro se non studi, se non ti aggiorni e la bicicletta è cambiata tantissimo, da quella prima gravel, «che sembrava una bici da corsa, ma col passaggio più ampio e le gomme tassellate», che Matia vide e di cui mandò la foto ai suoi collaboratori, meravigliato, affascinato. C'è tutto questo e poi c'è la sensazione che si prova mettendo in bicicletta qualcuno e quella non cambierà mai: «A cascata, in quel momento, succede una quantità di cose e si trasmette una quantità di valori incredibili, la libertà, lo stare insieme, la sostenibilità, l'efficienza. Se si tratta di una bici da città, intuisci il modo in cui cambierà la città, la modificherà con il suo scorrere, se è una bicicletta da corsa pensi allo sport, al benessere, alla scoperta del territorio, se, invece, metti in sella un bambino sei certo del fatto che quel giorno la sua vita cambierà, perché la prima bicicletta la ricordiamo tutti. In generale, quando metti qualcuno in sella inneschi un cambiamento fortissimo ed inesorabile».
Matia Bonato si ferma, un attimo di silenzio, e riflette su quel permanere di questo sentimento. Poi, a voce più bassa, riprende a parlare: «Rossignoli è da sempre legato alla città, a Milano: una città in cui ci riconosciamo, ma, allo stesso tempo, una città profondamente imperfetta, che deve cambiare. Provare ad innescare il cambiamento e, poi, leggere di incidenti mortali in bicicletta è scoraggiante. Porta a riflettere sulle conseguenze di ciò che facciamo: spesso meravigliose, talvolta drammatiche. Io ho due figli e guardo la città con i loro occhi: quel che va bene per i miei figli va bene anche per me. Serve una città a misura di persone, le biciclette vengono di conseguenza. Se continuiamo a fare quel che facciamo è perché crediamo nel fatto che una città a misura di persone sia meglio, per tutti. Per questo noi incontriamo chi ha una responsabilità politica e chiediamo cosa intenda fare per questa situazione. Da un campo non si possono pretendere solo i frutti: bisogna lavorare, bisogna zappare. La città è il nostro campo».
Da molti anni, in Rossignoli si è presa la decisione di restare aperti anche al mese di agosto: si parla di presidio della città, di punto fermo in cui si sa che, anche nel caldo soffocante, ci si può rifugiare e sentirsi a casa: in un luogo non anonimo, che, in qualche modo, permette di riconoscersi e, quindi, di tornare. Il tutto perché l'essere umano, come diceva Aristotele e come ricorda Matia Bonato, è un animale sociale, con tutto il bello ed il brutto che ne consegue: «Non siamo ipocriti: c'è anche tanta maleducazione, bisogna dirlo. Anzi, a dire il vero, c'è di tutto, perché così sono le persone. Milano è anche la città dei "fighetti", dei giovani che si comportano da "fighetti", ma noi ci siamo da prima e sappiamo che anche questa è una maschera, che, grattando grattando, l'essere umano è sempre lo stesso. Spesso pieno di solitudine, di dolore, di voglia di sfogarsi, di raccontare tutto, anche se non ci si conosce. Basta una birra, una coca cola, per liberarsi. Può essere pesante, talvolta lo è. Può essere gratificante, perché per noi la bicicletta è un mezzo per parlare alle persone, per fare cultura, attraverso un libro o un incontro. Alla fine, non può bastare vendere una bicicletta. No, non può proprio bastare».
Così passare da Rossignoli - che nel 2021 ha ottenuto l'Ambrogino - vuol dire vedere il compressore fuori dal negozio, utilizzarlo, magari dire un "grazie", scoprire un servizio che un negozio offre alle persone, alla città. La nuova sfida riguarda la biomeccanica e il Rossignoli Bike Lab, appena aperto, rivolto sia agli amatori di lungo corso, a chi controlla i millimetri della sella ed i watt, ma anche a chi la bici l'ha scoperta più di recente ed ha male alle spalle, al ginocchio, al sedere, formicolio alle mani: «Al suo interno, un professionista, preparatore atletico, si preoccupa di metterti in sella e un software di Retool verifica ogni parametro. Si tratta di qualcosa di simile alle astronavi: si pedala con tutti dei bollini addosso e ci si vede pedalare sullo schermo. Ad essere sincero, questa cosa mi ha messo un poco i brividi, pensando a nonno che chiudeva un occhio per mettere a fuoco. Chissà cosa avrebbe detto, me lo sto immaginando». Si sorride qualche istante, poi, chiediamo cosa avrebbe effettivamente detto il nonno. «Fammi vedere come si fa»: avrebbe detto così, Matia ne è certo: sarebbe stato entusiasta come era entusiasta del primo cambio Campagnolo, quando uscì.
Parlando di una bicicletta: «quella che ha traghettato il nostro paese dalle macerie della guerra al boom economico che, purtroppo, poi, l'ha cancellata, quella di Coppi e Bartali, dell'epica e della tragedia di Pantani, quella che racconta moltissimo sia a livello sportivo che a livello spiccio». Quella di "Biciclette Rossignoli", in Corso Garibaldi 71, a Milano.
Il questionario cicloproustiano di Elisa Longo Borghini
Il tratto principale del tuo carattere?
Determinazione.
Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
Onestà.
Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
Onestà.
Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
La loro capacità di farmi sorridere e di farmi stare bene.
Il tuo peggior difetto?
Ho la memoria troppo lunga.
Il tuo hobby o passatempo preferito?
Leggere. Ma anche "fare niente", perché adesso a tutti piace dire che hanno mille hobby. A me piace anche riposare.
Cosa sogni per la tua felicità?
Avere l'orto.
Quale sarebbe, per te, la più grande disgrazia?
Perdere la memoria.
Cosa vorresti essere?
Il vento.
In che paese/nazione vorresti vivere?
Norvegia
Il tuo colore preferito?
Blu elettrico.
Il tuo animale preferito?
Il cane e l'asino.
Il tuo scrittore preferito?
Carlos Ruiz Zafón
Il tuo film preferito?
City of angels
Il tuo musicista o gruppo preferito?
Imagine Dragons / The Coldplay
Il tuo corridore preferito?
Mr G! Thomas!
Un eroe nella tua vita reale?
Mio papà.
Una tua eroina nella vita reale?
Rita Levi- Montalcini
Il tuo nome preferito?
Alessandro
Cosa detesti?
L'ananas sulla pizza
Un personaggio della storia che odi più di tutti?
Gavrilo Princip, anche se la Prima Guerra Mondiale sarebbe iniziata lo stesso.
L’impresa storica che ammiri di più?
La Resistenza.
L’impresa ciclistica che ricordi di più?
Chris Froome sul Colle delle finestre, Giro 2018
Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
Tour de France
Un dono che vorresti avere?
Un figlio, in futuro.
Come ti senti attualmente?
Assonnata.
Lascia scritto il tuo motto della vita
"Non maledire il buio, accendi una candela!"
Dugnad, renne, corridori e sorrisi: la magia di un viaggio in Norvegia
Racconto e foto di Federico Guido
18 agosto 2017. Dopo aver trascorso le ultime ore più per aria, tra decolli e atterraggi, che coi piedi sulla terraferma, col terzo volo di giornata atterriamo delicatamente sulla pista dell’aeroporto di Tromsø, località dalla quale, stando al programma dell’agenzia di viaggio, inizieranno i nostri nove giorni alla scoperta delle Isole Lofoten e del Finnmark. Nell’attesa di espletare le solite pratiche burocratiche per il ritiro delle auto a noleggio, decido di fare due passi fuori dall’aeroporto dove, subito dopo il contorno definito dei monti e l’azzurro acceso del cielo, il mio sguardo viene attirato da un cartello giallo con una grossa freccia nera al centro appeso a un palo a qualche decina di metri da me. Un presentimento mi dice di averne già visti di simili da qualche parte e, avvicinandomi di qualche passo, i miei sospetti vengono confermati: è uno dei classici cartelli direzionali che gli organizzatori delle corse di ciclismo dispongono lungo il tragitto per indicare la via a corridori e mezzi al seguito. Incuriosito, decido di coprire la distanza che mi separa dal parallelepipedo di cartone e poco dopo, mettendo a fuoco l’inequivocabile dicitura riportatavi, diventa chiaro per quale manifestazione fosse stato sistemato lì quel cartello: Arctic Race of Norway. Senza che lo abbia chiesto, la mia memoria si affretta a riaprire un paio di files e, in men che non si dica, mi proietta davanti agli occhi le immagini dell’azione vincente di Gianni Moscon dell’anno prima e quelle, molto più fresche, del transito del gruppo vicino ad un aeroporto che, alzando nuovamente gli occhi e sommando gli addendi, realizzo essere quello che mi ha permesso poco fa di sbarcare a 69° 40’ di latitudine Nord. “Che peccato”, penso tra me, “sarebbe stato entusiasmante capitare quassù con la corsa ancora nei paraggi: chissà che spettacolo dev’essere seguire per più giorni un evento simile in un contesto ambientale del genere, così esigente e affascinante...”.
17 agosto 2023. Sto atterrando ad Alta e, mentre vengo rapito dalle chiazze cristalline dell’acqua nel fiordo sottostante, quell’episodio riaffiora nella mia testa. Sei anni dopo, l’interrogativo che mi ero posto fuori dall’aeroporto di Tromsø sta per trovare risposta. Alta, infatti, è sede del traguardo della prima tappa della decima, storica edizione dell’Arctic Race of Norway e da qui, per i prossimi tre giorni, partirò per toccare con mano l’atmosfera dell’evento, capire dal vivo dove risieda il suo fascino e, più in generale, assorbire appieno tutto ciò che questo potrà regalarmi.
22 agosto 2023. Quella del plateau di Sennalandet, passaggio obbligato per raggiungere via terra le isole di Kvaløya e Magerøya e, volendo, spingersi anche più in là verso Vadsø, Vardø e Kirkenes ai confini nord-occidentali della Norvegia, è una vastità che incanta, aspra, immobile, silenziosa, una vastità che lascia senza parole e che viene naturale, quando si transita da queste parti, riempire in qualche modo. Se gli occhi, da par loro, possono trovare occupazione contemplando gli spazi vuoti e cercando, ora a sinistra ora a destra, nuovi punti su cui fissarsi, la mente è inevitabile che prenda un’altra strada e inizi a vagare libera perdendosi tra riflessioni, istantanee e constatazioni di vario tipo. Le mie, tornando verso Alta, hanno tutte come oggetto quello che ho vissuto nelle giornate spese nella scia dell’Arctic Race of Norway, una manifestazione e un’esperienza che, per tutta la bellezza che mi è stata riversata negli occhi e nel cuore in 96 ore, non posso che definire che con un solo (ma abbastanza esemplificativo) termine: meravigliose. Meravigliosa è innanzitutto la cornice ambientale che, è proprio il caso di dirlo, ospita la corsa e non il contrario. Un esempio? Le numerose volte in cui ci siamo trovati a fermare l’auto di fronte al transito, isolato o in gruppo, sulla sede stradale dei tanti esemplari di renna che popolano questo angolo di Norvegia: sono loro qui, con il loro ritmo e le loro imprevedibili marce alla ricerca del miglior angolo in cui brucare, a dettar legge e a obbligare autisti e ciclisti ad adeguarsi prestando, sul mare, sulle montagne e a volte anche nei centri urbani, le attenzioni del caso.
Anche per questi incontri ravvicinati dell’animale tipo, si è portati a muoversi con rispetto e una leggera forma di timore all’interno di questo scenario che ti incanta, ti rapisce e ti stravolge a tal punto da farti dimenticare facilmente il motivo della tua presenza qui, ovvero una corsa di ciclismo. Percorrendo in lungo e in largo le strade del Finnmark nei giorni di gara, abbiamo visto giornalisti, soigneur, tifosi e persone dell’organizzazione non restare indifferenti di fronte agli spettacoli paesaggistici di quest’angolo di Norvegia e fermarsi per imprimere, nelle loro retine o nelle fotocamere dei loro cellulari, la bellezza di ciò che gli si parava davanti. Che si trattasse della sinuosità e dell’alternanza di spiagge sabbiose e ripide salite della Route 889, di altopiani brulli con le sembianze di passi alpini, del suggestivo avvicinamento a Nordkapp e dal susseguirsi di insenature e penisole attorno a esso, di un arcobaleno spuntato all’improvviso, di scogliere smussate dall’implacabile vento artico, di graziose e variopinte casette in legno dislocate nei punti più inospitali della costa, dell’odore di conifere miscelato all’aria salina del mare o semplicemente di quella natura rude e dai tratti quasi primordiali che non può non smuovere qualcosa dentro, in tanti tra corridori, addetti ai lavori e appassionati non hanno saputo resistere e sono rimasti stregati dal contesto scenografico in cui si è svolta l’ARN 2023 apprezzando oltremodo la scelta degli organizzatori di riportare la corsa in queste zone cinque anni dopo l’ultima volta.
Da Alta a Capo Nord, passando per Kvalsund e Hammerfest, ad impressionare positivamente tuttavia non sono stati solamente i panorami e le perle naturalistiche disseminate lungo il percorso di gara ma anche, se non soprattutto, il calore e la vicinanza espressi dalla gente del posto. Per quattro giorni, lungo le strade e i paesi interessati dal passaggio della corsa, abbiamo visto anziani, giovani, donne e intere famiglie mobilitarsi e spendersi nei modi più disparati per accogliere al meglio l’evento: c’era chi adornava con una sequela di bandierine il recinto di casa, chi dipingeva le proprie biciclette per poi disporle a bordo strada, chi costruiva simpatici fantocci, chi addobbava pali della luce e trattori con ruote e bici di seconda mano, chi offriva un (apprezzatissimo) bicchiere di caffe, chi organizzava balli, chi sorvegliava e incoraggiava i bambini nei piccoli circuiti cittadini allestiti appositamente per loro. Tale moltitudine di gesti e iniziative, sintomo di grande attaccamento all’evento, non poteva passare sottotraccia e, venendo dall’esterno, ci ha stupito a tal punto da chiedere in giro spiegazioni a riguardo. “È lo spirito del dugnad”, ci ha detto decisa una delle ragazze dello shop ufficiale della corsa ad Alta in attesa della conclusione della prima tappa. “Non è semplice da spiegare, è qualcosa di tipicamente norvegese: in pratica le persone si impegnano, su base volontaria, a fare qualcosa per il bene della comunità, in questo caso rendere una manifestazione sportiva ancora più grande di quello che è”. Da queste parole capisco, e capirò ancora di più una volta terminata la manifestazione, che l’Arctic Race rappresenta per le persone del posto “molto più che una semplice gara di ciclismo” (non a caso, uno degli slogan della corsa): sebbene a tutti gli effetti si tratti di un evento passeggero, anche se solo per qualche ora l’ARN è come se diventasse un gioiello di loro proprietà da lucidare, esibire e mettere in bella mostra, un diamante caduto sulla strada in grado di riflettere la bellezza del loro territorio, un prezioso da custodire con fierezza e contagioso entusiasmo. Un’autorevole conferma in questo senso ci è stata data, scendendo dalla ventosa collina di Havøysund (teatro della vittoria di Stephen Williams grazie alla quale il britannico della Israel-Premier Tech è andato poi a ipotecare il successo finale per 1” su Christian Scaroni), da Thor Hushovd, uno che, prima di diventarne ambassador, all’Arctic Race of Norway ha scritto pagine importanti. “Siamo in un posto in Europa e nel mondo dove non ci sono molti eventi sportivi” afferma il campione del mondo di Melbourne 2010. “Per questo, quando ne capita uno da queste parti, la gente se ne appropria e ne va molto orgogliosa. Il ragionamento che fanno è “Non possiamo dare per scontata la presenza di questo evento, dobbiamo dimostrare che la gara merita di venire da noi e quindi ce ne prenderemo cura”. Ecco perché si vedono le persone fare così tante cose”. Ed ecco perché chiunque, dai corridori ai ragazzi della carovana pubblicitaria fino a noi giornalisti, abbia incrociato anche fugacemente lo sguardo delle persone a bordo strada ha ricevuto sempre in cambio festosi saluti e, soprattutto, meravigliosi sorrisi, di quelli che ti rimangono dentro, che ti scaldano l’anima e che ti abbracciano, sorrisi che ti fanno venir voglia di contraccambiare con altrettanto calore e che portano a chiederti “Perché? Cosa ho fatto per meritarmi tutto questo affetto?”.
A questa domanda purtroppo, come sempre accade quando ci si interroga sulla natura di gesti spontanei e genuini prodotti da quella sfuggente forza che è la sensibilità umana, non ho trovato risposta. A quella invece che mi ero fatto quel pomeriggio di sei anni fa fuori dall’aeroporto di Tromsø su come dovesse essere vivere en plein air e non davanti a uno schermo una corsa come l’ARN, ora posso rispondere usando sinteticamente un solo aggettivo. Sì, l’avrete capito, è proprio quello, lo stesso che può descrivere come sia stato vedere un’aquila di mare librarsi in cielo a pochi metri di distanza, sentire il ritmico tambureggiare dei tifosi sui cartelloni pubblicitari ad ogni arrivo di tappa, trovare conforto in un kanelbulle e un the caldo dopo esser stati presi letteralmente a schiaffi da raffiche taglienti, contemplare i giochi di luce al tramonto sugli irregolari profili delle isole di Måsøya e Hjelmsøya, osservare i corridori giungere e poi essere premiati a pochi metri dall’iconico Globo di Capo Nord con alle spalle nulla se non chilometri di grigio mare: semplicemente meraviglioso.
Un'altra settimana di ciclismo: 5 cose viste, 5 cose da dire
14 Settembre 2023Approfondimenti
La Vuelta e il suo disegno: ce ne vuole, ma lo sapevamo già. Il fatto è che poi quando ci sbatti il muso il mattino della tappa, ti rendi conto di quanto le cose non funzionino per il verso giusto, ovvero il ciclismo di ASO che incontra quello della Vuelta e partorisce tappe di montagna troppo brevi o le solite “unipuerto” come le definiscono da quelle parti, roba da far strabuzzare gli occhi, da farti perdere la fede, da farti venire voglia di prendere la bici e, invece di organizzare un giro lungo, di fare 10 km e tornare a casa tanto la proporzione è quella. L’emblema è la frazione di martedì 12 settembre, che segue il giorno di riposo: 120 km con una salitella nel finale un po’ rampa di garage, un po’ strappetto, che fa tanto Vuelta, un disegno che pare non abbia nemmeno richiesto troppo impegno. A parte gli scenari interessanti, ma quelli per fortuna li trovi un po’ ovunque.
Parliamo di disegni: ecco a voi signore e signori il Tour of Britain: 8 tappe, 6 volate. Eppure da quelle parti ci si poteva sbizzarrire con percorsi collinari, persino con il pavé. Le volate però, sono state tutto sommato un discreto vedere. Il pericolo è sempre dietro l’angolo quando si parla di ciclismo, figuriamoci a quelle velocità, in quei finali, su quelle bici, con certa gente che non ha coscienza (gli invasati delle volate), però si sono fatte guardare. Olav Kooij, classe 2001, ne vince quattro di fila, il quinto giorno Jumbo Visma si inventa il numero con van Aert, pesce pilota nelle frazioni precedenti, che approfitta di un buco fatto da un compagno - e studiato, parole proprio di van Aert, a tavolino la sera prima - per involarsi verso il successo che diventerà poi fondamentale per vincere la classifica generale della breve corsa a tappe. Dove, a proposito di volate e pesci pilota, brilla ancora una volta la stella di Danny van Poppel, corridore di cui si parla sempre troppo poco a nostro avviso. Corridore solido che quando ha il suo spazio sa essere (molto) vincente e non solo prezioso ultimo uomo del treno BORA.
Remco Evenepoel scottato come Tadej Pogačar qualche mese prima. Logorato da una Jumbo che mette in campo una superiorità a tratti imbarazzante. Salta per aria, non letteralmente, ma si fa per dire, nella tappa del Tourmalet, ma il giorno dopo va in fuga e vince. L’abbraccio con Bardet, secondo di tappa e a lungo suo compagno di fuga, vale tutto. Così come le parole sempre di Bardet a fine gara: “«Il ciclismo come piace a me. Grazie per il passaggio Remco: ci sono corridori che vogliono vincere, altri che vogliono lasciare il segno». Peccato solo vedere un corridore incredibilmente forte come Evenepoel lottare "soltanto" per i successi di tappa e per i punti della classifica dei GPM, ma si passa anche da questo.
A proposito di lasciare il segno: Filippo Ganna. Unico fuoriclasse del nostro ciclismo. Vince la crono contro Evenepoel, si prende la rivincita sul Mondiale. Poi va in fuga nel giorno in cui il segno lo lascia, ancora una volta, Jesus Herrada - terza vittoria di tappa alla Vuelta in carriera. Quel giorno Ganna ci costringe a qualcosa che non avremmo mai pensato di fare: ci fa iscrivere al partito del “GANNA POTEVI VINCERE!” perché non sarebbe potuta andare altrimenti - come invece andrà - con quella gamba che portava a spasso il gruppetto dei fuggitivi lungo Laguna Negra. Ma Ganna è così: c’è Thomas in fuga e la squadra quel giorno è tutta per il galllese e Ganna ci si butta a capofitto per i compagni di squadra. Peccato, ma è un bel vedere. Altri Ganna cercasi in Italia, non certo soltanto per caratteristiche, ma per piglio e capacità di costruirsi un palmarès.
Le corse in Canada che bellezza - oddio, il Gp di Quebec molto meno rispetto al Gp Montreal ma tant’è. Intanto l’orario per “noi europei” che regala il ciclismo in prima serata. E poi quel circuito cittadino che quest’anno è stato reso ancora più complicato dalla pioggia. Un vecchio canovaccio: in mancanza di quei matti che fanno esplodere le corse lontano dal traguardo con una serie di accelerate in prima persona - Pogačar, Pedersen, van der Poel, van Aert, Evenepoel, tanto per fare dei nomi a caso - le squadre che si mettono a testa bassa a fare l’andatura e giro dopo giro scremano il gruppo. A Quebec City, corsa tutto sommato noiosetta fino all’arrivo, vince De Lie, e che soffrendo va persino all’attacco a Montreal due giorni dopo, andando in contro alla sorte segnata, ma che razza di corridore che è il Toro. Montreal 2023, tuttavia, con i suoi quasi cinquemila metri di dislivello premia un altro profilo di corridori. E infatti vediamo una corsa selettiva, da dietro, da davanti, a ogni curva e strappo che è un rilancio. Corridori che stringono il manubrio con i denti per stare attaccati al gruppo (Alaphilippe, Matthews), altri che zampettano verso la vittoria (Adam Yates), e pure qualche segnale italico: Velasco, pound for pound il migliore italiano in stagione nelle corse di un giorno con un certo dislivello, ma c’è piaciuto molto pure Garofoli, talento che tutti aspettiamo. In fuga a Quebec City, tiene finché può con i migliori a Montreal. Chiude 43°. Al momento ci accontentiamo di questo, poi vedremo.
Foto in evidenza: UNIPUBLIC / SPRINT CYCLING AGENCY