Greta Marturano: scoprire il limite e oltrepassarlo
Ogni tanto, soprattutto dopo le cose belle, qualcuno, avvicinandosi a Greta Marturano, le chiede: «Ma non sei felice? Perché non gridi, non ridi a più non posso, non salti od esulti?». Lei prova a spiegare, come fa con noi, ma sa bene che non è facile capire: "Sono felice, talvolta anche molto felice, ma la mia felicità è dentro di me, la custodisco lì e ti dirò che, certe volte, mi pare persino di proteggerla, tenendola dentro. Certe sensazioni vivono solo dentro di me: è questo il punto". Viene pronunciata qui, per la prima volta, una parola che riveste grande importanza nella quotidianità di Greta Marturano: la timidezza.
Uno stato che fa parte di Marturano ragazza prima che atleta: «Sono sempre stata timida. Molto timida. Da bambina ancor di più. In ogni corsa, alla presentazione squadre, le atlete vengono chiamate per nome e cognome e alzano la mano per segnalare la loro presenza e salutare il pubblico. Io quella mano non l'ho mai alzata e, anzi, quando sento pronunciare il mio nome non vedo l'ora che si passi al nome successivo perché l'attenzione non sia focalizzata su di me. Non è facile, perché spesso la timidezza è scambiata per antipatia: non lo è. Solo che fuori dalla bicicletta trovo davvero difficile esprimermi». In sella, invece, "non si può essere timidi", è la certezza della venticinquenne di Cantù, per questo, da ciclista, Greta Marturano si sente un'altra persona e, da come ce lo dice, dal tono di voce, percepiamo che le piace.
Sua madre e suo padre correvano in bicicletta ben prima che lei nascesse: suo padre ha continuato anche dopo. Anche lei ha iniziato molto presto: a sei anni. Erano i tempi in cui correre in bicicletta significava soprattutto passare una domenica diversa dalle altre, magari andare a vedere il cugino correre o accompagnarlo alle gare. Certamente erano domeniche libere, nel senso più fisico del termine: «La libertà di una bicicletta è la libertà degli spazi aperti, senza mura e soffitti. Ci sono anche molte altre forme di libertà, quando si pedala, ma la prima è quella». Le normali domeniche finiscono, allo stesso modo quelle domeniche sono cambiate, si sono trasformate in qualcosa di diverso, pur cercando di mantenere almeno parte della spensieratezza che le contraddistingueva. In certi momenti è più semplice, in altri più complesso: «Le pressioni non vengono dall'esterno, vengono da me. Cerco di mettermene il meno possibile, ma, alla fine, mi sono convinta che, con il mio carattere, non sia facile vivere serenamente quel che accade. Così qualche pressione me la impongo sempre». Per anni, quella pressione autoimposta era la realizzazione del sogno di passare professionista, di poter fare del ciclismo un lavoro. Ora che ci è riuscita, che quel sogno si è avverato, anzi, che quel sogno l'ha avverato, Marturano vuole sapere, vuole conoscere. A costo di stare male.
«Non mi è ancora accaduto di terminare una corsa e di sdraiarmi a terra, senza alcuna energia. Di sentirmi sfinita, finita. Non mi è ancora capitato e, sebbene sia una sensazione bruttissima da provare, vorrei provarla. Devo arrivare al limite: mi ci sono avvicinata parecchie volte, ma non l'ho mai toccato. Il giorno in cui capiterà, mi sarò conosciuta fino in fondo e, da lì, potrò davvero guardare avanti e dirmi dove voglio arrivare, dove posso arrivare». Scalatrice, con un buono spunto veloce che le permette di giocarsela in volate di gruppi ristretti, è affascinata dai percorsi nervosi: quando è passata nelle élite, ha iniziato a partecipare a quelle gare che considerava "da sogno" e questo è un orgoglio, ma il pensiero della vittoria bussa spesso. E la vittoria, quando arriverà, arriverà seguendo la legge di quella frase che a Greta piace tanto: "Se arrivi al limite, superalo".
Un detto che, a dire il vero, ha già applicato. L'estate scorsa, ad esempio. Era il 28 agosto, quando è arrivata la chiamata della Fenix-Deceuninck, nei giorni immediatamente successivi alla rottura della clavicola nella gara di Vittorio Veneto, nei giorni in cui continuava a chiedere ai medici quando sarebbe potuta tornare in sella: dopo una settimana era sui rulli, poi di nuovo in bicicletta, nonostante il dolore. «Piangersi addosso, lamentarsi, non è una soluzione- racconta- tanto più che le donne e gli uomini possono reagire a quel che accade, trovare soluzioni». Sì, le soluzioni che Greta Marturano ha imparato a trovare anche di fronte alle cose belle, perché anche lì c'è una parte che spaventa e di fronte a cui è necessario mettersi d'impegno e cercare una via da percorrere.
«In quella telefonata ero contenta ed impaurita. A tratti più contenta, a tratti più impaurita. Sarebbe stata la prima volta all'estero, da sola, con tutte persone che parlavano inglese ed il mio livello di inglese, in quella circostanza, non era adatto a sostenere una conversazione quotidiana». Giorni e giorni con un insegnante, a fare esercizi di comunicazione e di ascolto e sere e sere ad ascoltare podcast in lingua originale, due mesi per la precisione, poi la richiesta al suo coach: «Per favore, con me parla in inglese, ne ho bisogno». Gli ostacoli che capitano e che si superano perché, al primo training camp, tutti erano pronti a fare i complimenti a Marturano per come riusciva ad esprimersi, stupiti da quella capacità appresa in così poco tempo. Momenti che hanno a che vedere con il concetto di limite ma anche con quello di consapevolezza, di fiducia nei propri mezzi: «Mi sembra di sentire ancora Lucio Rigato, in Fassa Bortolo, quando mi telefonava una volta a settimana, anche nei momenti in cui "non sapevo da che parte fossi girata", e mi diceva di credere in me. Me lo diceva perché era lui a crederci, molto più di me. Anche adesso, ogni tre, quattro settimane ci sentiamo e Lucio è orgoglioso, così orgoglioso, di avermi affiancata nel percorso che mi ha portato fino a qui».
Le è servito anche lo scorso mese di agosto, al Tour of Scandinavia, dove è avvenuta un'altra prima volta: una caduta, varie ammaccature, sbucciature, ferite, il ritiro, l'attesa in aeroporto e un volo da prendere da sola. Sempre in agosto, un mese per lei sfortunato, su cui, ancora dolorante, trova modo di ironizzare. Nel frattempo ripensa a quello che il Tour of Scandinavia le ha lasciato: due top ten ed un prestigioso quarto posto nella seconda tappa, dietro a Ludwig, van Vleuten e Cadzow.
«L'idea della squadra è quella di permettermi di sbagliare il più possibile. In un certo senso, vogliono che sbagli, perché il confronto dietro ogni errore mi permette di crescere. Avessi lavorato meno, durante la seconda tappa, probabilmente avrei fatto anche meglio, ma io stavo bene, non faticavo a stare con le prime. Ricordo che, ad un certo punto, dietro a van Vleuten, ho persino pensato al significato di essere alla sua ruota in una delle sue ultime gare prima del ritiro. C'è stato un momento in cui non capivo più niente e l'indicazione era di fare come mi sentivo. Credo sia stato giusto così: la prossima volta, però, saprò come gestirmi. Lo stesso vale per le volate: vero è che mi sono piazzata decima nella terza tappa, ma ho preso la volata in quarantesima posizione. Chissà, se fossi partita dalla posizione giusta, cosa avrei potuto fare». Tra le scelte della squadra, anche quella di proporre a Marturano un calendario con solo gare World Tour, perché solo gareggiando contro le più forti è possibile continuare il miglioramento. Un periodo di apparente blocco, con l'aumentare delle difficoltà, poi un ottavo posto in Sardegna, al Giro Donne e le cose che cambiano prospettiva, mentre il poter sbagliare senza alcun giudizio, rafforza il coraggio di agire.
Durante la quarta frazione del Tour of Scandinavia, una caduta. Greta Marturano porta i segni delle ferite e il male dell'impatto a terra ed è proprio questo a preoccupare lo staff della squadra che, a sera, chiede alla sua compagna di camera, Carina Schrempf, di controllare come stesse Marturano durante la nottata. Greta dorme, ma sente Schrempf che si avvicina al letto: «Ogni ora, ora e mezza, veniva a guardare se stessi meglio. Avevo il volo del ritorno alle sei del mattino. Alle tre e mezza si è svegliata con me, mi ha aiutato a portare valigie e zainetto in aeroporto, accanto all'albergo: "Non torno in camera, fino a che non passi i controlli". A causa dell'annullamento del volo, stando già male, sono andata in tilt: alle tre e mezza del mattino non potevo certo chiamare qualcuno per aiutarmi a riorganizzare il viaggio: "Tu mettiti tranquilla- mi ha detto Carina- non fare nulla. Dammi tempo, ti prenoto tutto io: vedrai che ce la facciamo". Ce l'abbiamo fatta, ho ancora dolore ovunque, l'importante è che non ci sia niente di rotto. Importante è stato ogni gesto di Carina, quella notte».
Qualche giorno dopo, Greta Marturano aveva già ripreso a pedalare: «Avrei dovuto fare un'ora, ne ho fatta una e mezza. Ne avevo bisogno, domani riposo, dopodomani ne farò due». Ha scelto di non seguire il Gp Plouay in televisione, per il dispiacere che ha provato nel non esserci, mentre al prossimo Giro di Romandia vuole continuare il percorso iniziato in Scandinavia, cercare le stesse sensazioni. Nel frattempo, sono sul tavolo idee e programmi per l'anno prossimo. Per scoprire il limite e andare oltre.
Attendere prego: sul Tourmalet ci sono loro
Diciamolo pure, la Vuelta sonnecchiava, annoiava, suscitava malumori.
Ci sono volute 13 stazioni di questa via crucis per assistere a una tappa degna di un grande Giro.
Com’è andata lo sappiamo.
Tappa breve, ma molto dura. Durissima.
In circa 135 chilometri quattromila metri di dislivello. Meno, se togliamo le discese.
Partenza in salita come antipasto e amaro Tourmalet per concludere. Si, quello.
Vetta a 2115 metri, dove la NASA nel ’63 vi installò un telescopio.
Non ha il fascino dello Stelvio né l’altitudine dell’Izoard, ma è pur sempre la montagna più pedalata, emblematica e attesa dai francesi e - quest’anno per la prima volta - dagli spagnoli.
Inconturnable, inevitabile, dicono quelli del Tour. Più numerosi e folli dei cugini iberici ai bordi dei suoi tornanti.
In principio era Remco.
Da lui si aspettava una gestione ottimale delle energie, una dimostrazione di forza congrua alla sua tracotanza giovanile. Ci si aspettava qualcosa per poter rosicchiare secondi e provare ad affondare o quanto meno ad aprire una falla, nella corazzata Jumbo.
Ci si aspettava che la mina vagante belga esplodesse.
Troppe aspettative.
All’arrivo avrà un distacco di 27 minuti pieni.
Qualcuno un giorno si renderà conto che per essere un campione servono muscoli, fiato, programmazione e testa. Queste ultime due in evidente dipendenza reciproca.
Remco Evenepoel è giovane. Per fortuna. Purtroppo.
Quindi il suo no comment ai giornalisti nel dopo gara ci sta.
Per lui si è mosso anche il capobranco e patron della squadra Patrick Lefevere per capire cosa è successo al cucciolo di lupo. Ma questa non è certo una news.
Dall’altra parte quelli in giallo. Los tre caballeros, i tre moschettieri, i tre tenori di questa tournée spagnola.
Chiamateli come vi pare, ma sicuramente i più forti. Ai limiti dell’antipatia.
Perché sebbene sembrino chirurghi senz’anima, avvoltoi di Wall Street, sono pur sempre una Squadra. E il maiuscolo è dovuto.
Vingegaard ha vinto. Con fatica certo, ma ha vinto. Il re pescatore - oggi in apnea - ha dedicato il gradino più alto del podio alla figlia che in quel giorno compiva 3 anni. Era un pò emozionato il danese. Della serie: “C’è vita su questo pianeta.”
Kuss è arrivato secondo. Sorridendo. La rivoluzione del gregariato. Come non tifare per lui?
Come non sperare che venga clonato e distribuito a ogni squadra World Tour come regalo natalizio?
O magari innestato al nostro Damiano nazionale. Caruso ovviamente, non quello dei Måneskin.
C’è da chiedersi se gli alti vertici, seduti nelle loro auto dai finestrini chiusi, permetteranno al ventottenne americano di coronare il sogno di una vita sportiva.
Già, perché sembra che in Jumbo ci voglia un lasciapassare unanime e un ok via radio per poter vincere. Sembra non basti un incredibile stato di forma e un curriculum recente di tutto rispetto.
Roglic dal canto suo fa il terzo comodo.
Brillante il suo podio, meno la sua imperturbabile espressione. Lui, il campione del nostro Giro, è fatto così: poche chiacchiere e pedalare.
Forse è per questo che si trova a proprio agio nell’alveare dei calabroni.
Gli altri, in una giornata dal caldo anomalo per la stagione, hanno fatto del loro meglio.
Come da copione. Com’era giusto che fosse.
Un giorno arriverà un italiano a farci sognare in una corsa trisettimanale. Oh sì che verrà!
Attendiamo e preghiamo.
Per adesso notti inquiete.
E stelle gialle che brillano.
Il questionario cicloproustiano di Elena Pirrone
Il tratto principale del tuo carattere?
La testardaggine
Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
L'onestà
Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
La lealtà
Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
Il fatto che ci siano sempre
Il tuo peggior difetto?
La testardaggine
Il tuo hobby o passatempo preferito?
La lettura
Cosa sogni per la tua felicità?
Poter realizzare tutti i miei sogni
In che paese/nazione vorresti vivere?
Mi piace il mio paese, quindi dico Italia, senza dubbi
Il tuo colore preferito?
Azzurro
Il tuo animale preferito?
L'orso
Il tuo scrittore preferito?
In realtà non ne ho uno in particolare
Il tuo film preferito?
Anche qui non riesco ad individuarne uno in particolare
Un eroe nella tua vita reale?
Mio papà
Una tua eroina nella vita reale?
Mia mamma, sennò si offende -ride divertita- scherzo
Il tuo nome preferito?
Elena
Cosa detesti?
Le bugie
Un dono che vorresti avere?
Saper leggere nella mente delle persone
Come ti senti attualmente?
Bene
Lascia scritto il tuo motto della vita
Crederci sempre
Dove si sfidano i giovani: il Giro della Lunigiana
7 Settembre 2023Approfondimenti
Il futuro del ciclismo, spesso, passa da queste terre, la Lunigiana, spesso è proprio da questa corsa, il Giro della Lunigiana, da cui puoi trarre interessanti conclusioni su cosa aspettarti dal ciclismo a venire, quali corridori cercare in gruppo, su chi puntare. Hanno messo la bandierina sulla corsa a tappe ligure, arrivata nel 2023 alla sua quarantasettesima edizione, corridori che poi una volta “passati di là”, come si dice in gergo, anche se non è la migliore delle espressioni, ma si fa capire, hanno lasciato il segno. Vi facciamo qualche nome: tra i vincitori del “Lunigiana” troviamo ben sei vincitori di (almeno) un Giro d’Italia dei grandi: Franco Chioccioli, Gilberto Simoni (quest’ultimo è l’unico corridore ad aver conquistato Lunigiana, Giro Under, Val d’Aosta e Giro d’Italia), Danilo Di Luca, Damiano Cunego, Vincenzo Nibali, Tao Geoghegan Hart; qui al Lunigiana quattro delle ultime sette edizioni le hanno vinte corridori come Pogačar, Evenepoel, Lenny Martinez e Morgado… scusate se è poco.
Dello spirito di questa corsa, della sua importanza nel calendario giovanile, ma anche o soprattutto nel dettaglio di come si è sviluppata questa ultima e spettacolare edizione, abbiamo parlato con Valerio Bianco, ufficio stampa del Giro della Lunigiana dal 2019.
Raccontaci un po’ questo Lunigiana, Valerio, qual è la forza di una corsa che da anni è un riferimento anche a livello internazionale per la categoria juniores.
La forza principale è il confronto tra selezioni internazionali, con le nazionali e tutte le selezioni regionali italiane. Normalmente è prima del Mondiale, quest’anno prima dei campionati europei, e quindi spesso è un banco di prova tra i migliori corridori della categoria, tra le varie squadre che dovranno scegliere i capitani. Tra le squadre italiane c’è tanta competizione: vengono portati i migliori corridori e quindi il livello è alto. Il Lunigiana, poi, è una vetrina importante anche in chiave futura per quelli che vogliono continuare a correre. Rispetto al primo anno in cui l’ho fatto è cresciuta proprio la qualità della corsa, il modo di interpretarla tatticamente. Il primo anno per esempio ricordo attacchi e contrattacchi fratricidi: ricordo la Germania che perse il Giro con Brenner perché fu attaccato dai compagni di nazionale, mentre ora trovi squadre che corrono già compatte, corridori già pronti, la Francia da questo punto di vista è stata impressionante, come la Norvegia. Il livello è stato davvero alto. E poi c’è una bella atmosfera, sono dei giorni intensi, ma che valgono la pena di essere vissuti.
Potresti indicarci i maggiori aspetti positivi di questa corsa, soprattutto a livello organizzativo.
Il primo grande successo è aver portato per il secondo anno di fila la corsa a Portofino. La Portofino-Chiavari ha significato per la corsa sconfinare nel Tigullio: vuol dire che c’è grande interesse anche al di fuori delle zone normalmente battute. Lo scorso anno per esempio siamo partiti da Portofino, sì, ma poi siamo tornati subito in Lunigiana e invece quest'anno abbiamo fatto un’intera tappa “all’estero”. Il secondo successo: nonostante un’organizzazione fatta perlopiù da volontari, non è facile, siamo riusciti a fare ben due tappe per il Giro della Lunigiana femminile. Lo scorso anno era una soltanto e ora abbiamo raddoppiato e speriamo che nei prossimi anni si possa aumentare ancora.
Qual è stata la risposta del pubblico sulle strade.
Ottima cornice di pubblico sin dalla vigilia a Lerici quando abbiamo aperto con un dibattito sul ciclismo giovanile al quale erano presenti Bugno, Podenzana, Fondriest. Martedì e mercoledì, poi, nonostante il tempo fosse brutto, c’era tanta gente e alcuni arrivi come Bolano, soprattutto, erano scenograficamente davvero belli, intensi, perché pieni di gente, ma in generale ottima risposta in ogni tappa.
Voi fate un lavoro a livello di comunicazione soprattutto sui social, a livello di una corsa World Tour, quale riscontri avuto avuto con i media?
Sui social abbiamo avuto tante visualizzazioni, abbiamo avuto buoni ascolti nella differita andata in onda sulla Rai, eravamo fissi sui giornali della zona, Tirreno, La Nazione, Il Secolo XIX, articoli pure su L’Eco di Bergamo e in Emilia Romagna e hanno parlato di noi tanti siti internazionali, in Polonia i siti specializzati erano sul pezzo, DirectVelo in Francia, hanno parlato della corsa in Belgio, su Ciclismo Internacional in Colombia nonostante la Colombia non avesse una squadra di grande livello.
Parliamo della corsa: iniziando da un disegno del tracciato selettivo.
Quest’anno abbiamo tolto la tappa di volata disegnando solo tappe adatte alla selezione, anche perché poi queste sono strade che si sposano con percorsi del genere, mossi, vallonati. E poi anche perché visti i comuni interessati era più semplice avere un percorso che esaltasse le qualità di un altro tipo di corridori. Però c’è anche da dire che pure gli anni scorsi, a parte una tappa, il tracciato è sempre stato su questa falsariga. 4 tappe mosse o dure e 1 volata, quest’anno cinque selettive.
Che corsa è stata?
Incerta fino alla fine: i primi tre giorni è cambiato tre volte il leader della classifica, spesso per vicissitudini legate a cadute, mentre negli ultimi due anni Martinez e Morgado, favoriti alla vigilia, si sono imposti praticamente sin dall’avvio, indirizzando la corsa sui loro binari. Invece quest’anno la Portofino-Chiavari, con il suo attacco all'inizio da parte di quasi tutti i nomi più importanti e le squadre più forti, ha cambiato gli equilibri, ed è un peccato non ci fosse la diretta, perché è stata una tappa bellissima.
Quella dove Widar si è staccato nelle discesa del Portello…
Esatto. Sin dall’inizio ci sono stati attacchi, sin dalla prima salita dove è andato via un gruppetto con Mottes, Finn, Guszczurny, Ingegbritsen, e altri, e su di loro è rientrato Bisiaux (il vincitore finale NdA) da solo con un'azione importante. Poi in discesa è rientrato Nordhagen, anche lui da solo, perché Widar che era con lui si è staccato. Una giornata ricca di storie di corsa: tattiche quasi da professionisti con Norvegia e Francia coperte con la fuga, Widar in difficoltà perché con Francia e Norvegia ben rappresentate davanti si è dovuto muovere in prima persona.
E poi il giorno dopo si è decisa la corsa.
Con la caduta di Nordhagen. Io ho parlato con Mottes e Finn riguardo alla caduta ma non è molto chiara la dinamica perché era una discesa molto semplice e forse ha toccato la ruota di un corridore che gli era davanti.
Veniamo ai ragazzi, tu eri a stretto contatto con loro e allora vogliamo capire un po’ intanto chi è il vincitore, uno dei corridori più attesi di tutta la stagione su strada, lui che è stato dominatore della categoria jr nel CX: chi è Leo Bisiaux, corridore di cui sicuramente avremo modo di parlare negli anni perché questo è un grande talento, in una Francia che ne sforna per ogni classe, questo sembra avere qualcosa in più.
La Francia ha corso compatta al suo fianco. Era il capitano designato e così hanno corso, a parte nella prima semitappa dove erano tutti per Grysel. Hanno corso come squadra di club, nelle prime fasi di corsa Fabrie a fare il ritmo, e nel finale a muoversi solitamente Decomble (che ha vinto una tappa e ha chiuso 8° in classifica generale Nda) e Sanchez (9°). Bisiaux è stato da subito uno dei più attivi: a Bolano, seconda semitappa, ha attaccato per primo rimbalzando nel finale e perdendo qualche secondo nel finale. È un corridore secondo me molto più adatto alle salite lunghe che a quelle brevi, si è visto anche sul Portello: lui è rientrato da solo sui sedici corridori davanti.
Poi quest’anno è stato fermo per un po’ per problemi di salute e aveva fatto del Lunigiana il suo grande obiettivo della seconda parte di stagione. Ma se dovessimo paragonarlo a un corridore che già conosciamo tra i professionisti?
Il cittì della Francia mi ha detto che come caratteristiche gli ricorda molto Lenny Martinez. Io lo trovo anche uno molto bravo nel leggere la corsa e anche altruista: nella tappa vinta da Decomble, nonostante fosse in lizza per la maglia di leader, ha attaccato anticipando nel finale e quando è stato ripreso da Nordhagen è partito Decomble che ha vinto.
Parliamo degli altri due big: Jorgen Nordhagen e Jarno Widar. Quest’ultimo corridore per il quale stravedo, in passato il suo allenatore lo ha paragonato - esagerando sia chiaro - a una via di mezzo tra Paolo Bettini e Lucien Van Impe, in effetti per certi versi al Grillo assomiglia davvero anche fisicamente. Poi ha una faccia incredibile, che a me fa impazzire.
Sono praticamente già due professionisti. Nordhagen corre già con la bici della Jumbo, casco con livrea Jumbo, sembra fatto con lo stampino a immagine e somiglianza di Staune-Mittet, i due si conoscono bene, oltretutto, provengono dalla stessa zona, hanno fatto sci di fondo (sci di fondo che Nordhagen ancora pratica ad alto livello e che per il momento in accordo con il suo team - la Jumbo Visma con la quale ha firmato fino al 2027 - continuerà a praticare NdA). Ha avuto sfortuna perché una caduta ha precluso la possibilità di vincere la maglia verde (quella del leader della classifica generale NdA): è stato molto continuo sin dalle prime due semitappe dove ha ottenuto due piazzamenti alle spalle di Widar. In questi giorni scherzavamo sul fatto che la Norvegia non vincesse una tappa da quarant’anni e alla fine su cinque tappe hanno fatto 4 secondi posti.
E di Widar che mi dici?
Si è lamentato molto per la discesa il secondo giorno, ma la strada era perfetta e non ci sono state cadute.
Mi piace sempre di più, un corridore polemico è quello di cui abbiamo bisogno. E poi ha vinto le prime due semitappe dominando nettamente, la seconda con uno scatto bruciante, potentissimo, suo marchio di fabbrica.
Se vedi anche nella sintesi se la prende a un certo punto con il cameraman che lo riprendeva invece di stare sul gruppo davanti. Lui a me ricorda Cian Uijtdebroeks, come si muove, come corre, sembra quasi un po’ gobbo. Nella seconda delle due semitappe, vinte entrambe da lui, è stato devastante. Dopo l’arrivo erano tutti mezzi morti e lui sembrava che ne avesse ancora e ha vinto con distacco. Nel Belgio segnalerei anche Donie che è andato molto forte.
Veniamo all’Italia, iniziando da uno dei più attesi, Lorenzo Finn, che arrivava da un periodo molto brillante e si è dimostrato al livello di alcuni fra i corridori più interessanti in assoluto della categoria, alcuni di loro già secondo anno tra gli juniores e che passeranno con squadre Devo del WT e un futuro praticamente assicurato per diversi anni. Bel corridore…
Gran bel prospetto. Io l’ho conosciuto quando aveva 14 anni ad Adelboden che avevamo fatto un ritiro con la Corratec, lui doveva venire a correre con gli allievi della Ballerini. È un ragazzo che ha una calma incredibile, molto posato e tranquillo.
Tranquillità che poi in bici si trasforma in agonismo.
Ha corso con grande coraggio: sia nella seconda che nella terza tappa è stato lui ad accendere la miccia. Mentre ha pagato un po’ di secondi (alla fine chiuderà il Lunigiana al 2° posto a 12” da Bisiaux NdA) nelle prime due semitappe secondo me a causa del posizionamento in gruppo nell’approccio al finale di tappa. Ed era il corridore più giovane in gara: è nato a dicembre del 2006.
Un mese ed era ancora allievo.
Sì, è un corridore veramente, veramente interessante. Oltretutto la Liguria, per la quale correva Finn, non andava sul podio da quasi vent’anni - e questa corsa non l’ha mai vinta. E hanno anche perso Privitera, uno dei pezzi da novanta della squadra.
Se da Finn ci aspettavamo un buon Lunigiana, Mottes è stata la grande sorpresa. 3° sul podio, vincitore di tappa…
Veniva da un buon periodo e infatti lo avevo evidenziato fra quelli da seguire, ma nessuno si aspettava andasse così forte e ha preso anche il premio della combattività oltre ad aver una bellissima volata a Terre di Luni grazie alla quale ha conquistato la tappa. Ovviamente è un corridore tutto da scoprire e da formare, ma mi sembra uno da salite brevi più che da salite lunghe, ha spunto veloce, è uno esplosivo, può diventare corridore da Ardenne, se proprio vogliamo sbilanciarci. Aggiungo anche che la sua squadra, Trento, ha corso molto bene, una delle più attive e compatte.
Simone Gualdi, invece?
C’era attesa su di lui, è il campione italiano, lo scorso anno è stato il miglior italiano in classifica e anche il miglior giovane in assoluto, però è arrivato al Lunigiana purtroppo dopo una brutta caduta rimediata qualche giorno prima e questo ha condizionato la sua corsa. E dopo essere rimasto tagliato fuori dall'azione che ha disegnato la classifica finale, era anche demoralizzato.
Bisiaux ha vinto la corsa di pochi secondi, qual è stato il momento chiave che ha deciso questo Lunigiana?
Il tratto di salita tra Caprile e Portello ha indirizzato la corsa, ma i momenti chiave sono state le due discese: nella seconda tappa, quella del Portello dove Widar non è riuscito a seguire i nove che poi hanno fatto la differenza in classifica generale, e poi nella terza tappa quando è caduto Nordhagen.
Parlando di ciclismo giovanile italiano, senza nulla togliere ovviamente ai ragazzi passati di categoria negli ultimi anni, la mia impressione è che il biennio 2005, 2006 sia davvero molto valido. Secondo te da cosa è dovuto? Il caso, come spesso accade, di avere annate buone e meno buone, è cambiato qualcosa nella preparazione dei ragazzi, sempre di più vengono seguiti da preparatori anche di spicco, la presenza influente di un certo Dino Salvoldi come CT, un cambio radicale di mentalità, c’è dell’altro? Che idea ti sei fatto?
Mi sembra che tutto venga fatto in maniera molto meno, passami il termine, artigianale, alla bell’e meglio, come si faceva prima. Ora vengono seguiti maggiormente anche nei pre gara: sembrano ormai degli under 23 più che degli juniores. Poi è notevole la presenza di preparatori e procuratori, gli staff in ogni squadra è aumentato: questa categoria ormai è diventata quasi quella di passaggio al professionismo. Li vedo maturi e formati come fossero under 23.
Ultima domanda. Visto che segui molto da vicino il ciclismo giovanile. È una domanda a cui, ammetto, è difficile trovare una risposta, una domanda a cui io non so mai rispondere. Spesso ci ritroviamo, non dico a dominare, ma a ottenere risultati di peso tra juniores e under 23, ci esaltiamo per i talenti che poi una volta passati fanno fatica, spesso prendendole, passami il termine, da corridori che magari venivano regolarmente battuti nelle categorie giovanili. Perché?
Qualcuno è stato sicuramente sfortunato, Baroncini, Battistella, Tiberi. Io non vorrei fare il discorso che fanno tutti che manca una World Tour italiana, ma sostengo l'importanza di una squadra che dia la chance a questi corridori di correre in prima persona. Aleotti, quando ha avuto la possibilità, ha corso il Sibiu da capitano e l‘ha vinto. Green Project sta facendo un ottimo lavoro con i suoi ragazzi e i risultati si iniziano a vedere, vedi Zana prima e ora Pellizzari che hanno la possibilità di giocarsi le proprie carte. Invece spesso questi ragazzi forti, passano in squadre straniere che hanno grande profondità di rosa e gli tocca fare da gregario e qualcuno magari si siede sugli allori. Mentre in una squadra in cui puoi e devi giocarti le tue carte hai delle responsabilità diverse e cambia la mentalità. Io sono curioso di vedere per esempio Busatto che in una squadra come la Intermarché avrà il suo spazio, però se passi in UAE o Ineos o Jumbo è difficile avere la possibilità di provare a giocarti le tue chance in prima persona. Prendi Tiberi: va in Bahrain, ma alla Vuelta ha Buitrago, Caruso, Landa, Poels ed è difficile imporsi. E poi ci sono pochi soldi nelle professional italiane: non è facile nemmeno riuscire a prendere il corridore di talento, ma devi sgrezzarlo.
Per chi volesse passare un'intera e interessante ora con le immagini salienti del lunigiana, questo è il link giusto:
https://youtu.be/G8daZLes5Xw?si=o-LfRVppqm64mAOD
Foto: Michele Bertoloni per gentile concessione del Giro della Lunigiana
Giant Revolt X Advance Pro 0 - Gravel, ma anche di più
La prima impressione, spesso, è quella corretta. Quando abbiamo visto per la prima volta la nuova Revolt abbiamo pensato: «altroché gravel, qua c’è molto di più!»
Partiamo dal telaio, progettato con una geometria ottimizzata per le sospensioni e abbinato a una forcella da 40 mm di escursione, il tutto a favore di una guida fluida, soprattutto sui terreni accidentati. I foderi verticali ribassati con tubi di diametro inferiore, poi, sono pensati per assorbire ulteriormente gli urti e le vibrazioni della strada.
Noi l’abbiamo testata all’interno di un bosco, tra ghiaia, radici di alberi, fango, e possiamo assicurarvi che la sensazione è quella di essere su un mezzo davvero molto sicuro. Altra caratteristica importante è la presenza di un flip chip sul forcellino posteriore, che consente di regolare l'interasse e aumentare la distanza pneumatico – telaio: corto per maneggevolezza e rapidità o lungo per una migliore stabilità alla velocità. L'impostazione lunga oltretutto permette di utilizzare pneumatici di diametro fino a 53 mm. Si avete capito bene, 53! Per quanto riguarda il reggisella la scelta è ampia: si può utilizzare quello telescopico, oppure optare per il D-Fuse per una maggiore comodità o, ancora, passare a quello rotondo standard da 30,9 mm. Infine, il manubrio Contact SL XR D-Fuse, perfetto su questa bici per ridurre ulteriormente l'affaticamento assorbendo urti e vibrazioni.
Come potete capire è una bici che strizza l’occhio al mondo delle mtb, senza perdere le caratteristiche classiche del mondo gravel. Ci avevamo visto giusto, «gravel, ma anche molto di più!»
Scavezzon Biciclette, Mirano
6 Settembre 2023Newsletteralvento points
A Mirano, in via della Vittoria 141, dalla strada non si vede pressoché nulla. Sì, ci sono due finestre, ma l'occhio è ben lontano da intuire cosa possa esserci dietro quei vetri. Un piccolo mistero, che accresce la curiosità. Il primo incontro con "Scavezzon Biciclette" ha soprattutto il profumo della sobrietà e della cautela, dell'attenzione, delle prime volte: di quando ancora non ci si conosce, ma qualcosa dice che è il momento giusto per iniziare a scoprirsi. Di lunedì mattina, è Martino ad accompagnarci verso l'interno del negozio che non si è ancora svelato, e lo fa parlando del più e del meno, come sempre in queste occasioni, mentre sta passeggiando con il cane: «Nostra madre ci ha insegnato la cura degli oggetti, anche di quelli vecchi, già usati: recuperare, rivedere, riproporre. Grazie a mamma abbiamo imparato che un pezzo di falegnameria può diventare ben altro dal suo primo utilizzo, come una parte di rotaia o la catena di una bicicletta ferma da tanti anni. Non è un fatto molto diverso dalla cura dei regali, dal posto che si dedica ad un pensiero su una mensola o su un tavolo.
Quello che vedrai è legato a stretto filo a questo pensiero. Ed in ogni cosa che guarderai ricorda: sii ironico. L'ironia è fondamentale, non se ne può fare a meno». Una sorta di lente attraverso cui guardare, un modo per sentirsi a casa propria, quando le porte si aprono e l'universo "Scavezzon Biciclette" si mostra. Universo perché ricco di cose, di oggetti, di scritte, di carte, di quadri e ovviamente di biciclette. Ed in ogni universo, tanto è ampio l'ambiente che serve qualcuno che accompagni.
«Vorremmo- continua Martino- che la visita del negozio fosse un viaggio emotivo, persino spirituale arrivo a dire, un percorso che possa suggestionare e portare oltre quello che c'è. Ah, dato importante: un poco di stronzaggine ce la mettiamo, ma è buona, è per guardare meglio la realtà». Martino Scavezzon ride, noi invece prendiamo a riflettere sulle sue parole, chiave di lettura dell'osservazione. Andrea, fratello maggiore di Martino, aveva proprio ragione: «C'è qualcosa di artistico in ogni idea di mio fratello, è il suo modo di essere e lo ha portato in negozio. Io dico che è l'anima artistica di queste mura: tutto ciò che vedi sulle pareti, appoggiato, scritto o raffigurato è farina del suo sacco. Ha studiato all'Accademia di Belle Arti e la sua formazione si sente».
Sì, gli Scavezzon sono tre fratelli; il terzo è Emilio, il meccanico dell'officina. «Lui è burbero-narra Andrea- ma è una caratteristica abbastanza comune dei meccanici. Con le biciclette se la intende perfettamente. Testardo, di certo, ma geniale. Deve trovare la giusta sintonia e poi non lo ferma nessuno». Raccontano che hanno sempre vissuto assieme, lavorato assieme, condiviso tutto. Che qualche volta non è stato facile, ma non avrebbero potuto o saputo fare diversamente. Anche nel 1985 quando, con cinque milione di lire, rilevarono una licenza per la vendita delle biciclette ed iniziarono a fare questo lavoro assieme al cugino, almeno fino al giorno in cui il cugino disse: «Sono stufo, qui si fa la fame, io me ne vado». I fratelli si guardarono e fu Andrea a prendere l'iniziativa: «Proseguiamo noi». Così fu, dopo che Andrea Scavezzon terminò l'università, la facoltà di architettura, e provò diversi altri lavori, tra cui un lavoro in comune e uno a Marghera, nell'ambito dei servizi ferroviari. In effetti, nel negozio, si intravedono oggetti realizzati con materiale delle rotaie e Martino riprende a raccontare: «Non c'è un disegno o un progetto preciso dietro quel che si vede. Semmai c'è una riflessione continua ed un affidarsi a quel che sentiamo o viviamo noi. Crediamo sia il racconto di un percorso di tanti anni».
L'attività, come noi la vediamo, risale al 1990, «in quegli anni in cui c'era tanta buona volontà ma pochi soldi e bisognava crescere in fretta anche per quello, ora siamo in nove in negozio». Dice così Andrea e poi apre una parentesi personale: «A me piace proprio l'oggetto bicicletta. Mi è sempre piaciuto, come mi sono sempre piaciute le corse e andare a correre in bicicletta. L'oggetto bici, però, è ineguagliabile, di qualunque bicicletta si tratti. A questo proposito, ripenso a nonno». Il ricordo è quello di una bicicletta Umberto Dei, comprata dal nonno negli anni 50, utilizzando due stipendi dell'epoca: una bicicletta che c'è ancora e che, con la giusta manutenzione, svolge ancora il proprio compito. «Forse la domanda da porsi è: chi lo farebbe oggi? Probabilmente nessuno o quasi. Quando mi confronto con altri commercianti io mi concentro molto su questo punto: la qualità è necessaria perché permette di durare, di essere usufruibile nel tempo e una bicicletta deve durare nel tempo. Di più: una bicicletta deve entrare nella nostra quotidianità e far parte dei gesti di ogni giorno: andare a fare la spesa, andare dal barbiere, dal dentista, a sbrigare commissioni. Qui parliamo di cultura, di mobilità sostenibile. Non è vero che non si può, si può. Ma la qualità è il primo tassello della catena: c'è uno standard sotto cui non si può andare. Il nostro pensiero è questo».
Nel negozio si vedono: Brompton, cargo bike, biciclette pieghevoli, mountain bike, bicicletta da corsa, fino alle bici gravel. Andrea racconta di avere un rapporto stretto e particolare con ogni bicicletta presente e passata, con la Brompton, però, il legame è più forte: «Rispecchia quell'ampiamento dell'uso della bici di cui parlo: con lei ho percorso lo Stelvio, il Sellaronda e, sempre con lei, ho vissuto gli attimi più usuali delle mie giornate di lavoro». Ci sono i cani che girano per il negozio e c'è un tavolino con una macchinetta del caffè che lascia intuire il profumo della bevanda.
«Sai perché? Perché è una vera macchinetta del caffè, con ancora i chicchi, non di quelle con le cialde". Esclama Andrea sottilmente orgoglioso: "Il rapporto umano è quel che più ci interessa: noi dobbiamo conoscerti, farti tante domande prima di consigliarti una bicicletta. Poi tu sceglierai quella che preferisci, ma il nostro dovere è consigliarti quella che, in base a ciò che sappiamo di te, è quella perfetta. Sì, c'è un qualcosa di armonico tra una bici e chi ci pedala sopra. La conoscenza serve a scovare questa armonia». La parte umana del lavoro degli Scavezzon sulle biciclette è raccontata magistralmente da seicento cartoline, scritte a mano, ognuna con un francobollo, inviate ai clienti del negozio, con un messaggio diverso ogni volta, cartoline che vengono collezionate, cartoline da collezione per la cura e l'attenzione con cui vengono preparate e poi spedite.
L'interesse per le persone è anche visibile da quei dogi di Venezia ritratti in bianco e nero ed esposti e dall'inciso di Martino: «Perché fanno parte della storia di questo territorio, ma soprattutto perché sono personaggi curiosi». Un'attenzione coniugata con un pari interesse per la bicicletta ed il binomio è il viaggio, le strade che portano da un luogo all'altro. «La realtà è che- parola di Andrea Scavezzon- quando viaggiamo in bicicletta percorriamo spesso sempre le solite strade, quelle a cui siamo abituati. Prendiamo coloro che, nelle nostre zone, vanno al Montello: spesso lo fanno per vie pericolose. Ma quante strade alternative ci sono, magari fra i boschi o lungo il corso dei fiumi, che non conosciamo e che potrebbero piacerci? Sono strade sicure, lontane dal traffico». Da questa considerazione è nata la MiAMi, social ride che quest'anno affronterà la decima edizione, il 28 ed il 29 ottobre: «Da Mirano a Mirano, passando un anno per Asolo ed un anno per Arquà Petrarca, su strade secondarie, nella natura, affascinanti. Sono sempre più le persone che ci raggiungono e alla fine restano tutte meravigliate. La frase più comune? "Non avremmo mai pensato". Rende l'idea».
Viaggi come quelli che fa Andrea che, senza alcun dubbio, ammette: «I viaggi che hanno a che vedere con la bicicletta sono i migliori, però io mi guardo sempre intorno, vado a vedere altri negozi e qualche idea, qualche spunto lo porto sempre a casa». Ci fa l'esempio di quando è andato a Seattle e ha visitato questo negozio, nato da un anno e mezzo: il clima è freddo, spesso c'è anche ghiaccio per le strade, allora, in un locale, lì sotto, sono stati posizionati dei ciclosimulatori e le persone, quando hanno voglia di pedalare e non possono uscire, lo fanno attraverso di loro. Scavezzon osserva anche il posizionamento delle bici, il modo di esporle: è interessato soprattutto al mondo anglosassone, al loro approccio alla bicicletta.
Il flusso del racconto riprende con Martino che mette al centro l'ironia: «I nostri non sono clienti, sono pazienti. Il termine non è casuale, visto quante attenzioni hanno per il loro mezzo. Ma non finisce qui, ognuno ha le proprie fisse, le proprie stranezze. Devo andare nel dettaglio?». Noi stiamo già ridendo, pregustandoci i particolari, e la risposta non può che essere affermativa: «Un signore del Friuli Venezia Giulia, ad esempio, è fissato con gli ingrassatori. A me è venuto il dubbio: "Ma pedala anche oppure prende la bicicletta per avere l'ingrassatore?". Di sicuro ha una sorta di collezione di ingrassatori a casa ed è una delle prime cose che guarda quando viene qui, osservando minuziosamente Emilio ingrassare le bici. Un pomeriggio c'era qui un ragazzo con una bici da ingrassare: beh , l'abbiamo fatta ingrassare a lui. Non riesco a descrivervi la sua felicità nel farlo». Una sorta di squarcio dell'umanità che può racchiudere un negozio ed un negozio di biciclette.
Ogni tanto arriva anche il figlio di Andrea: ha voluto scegliere lui ogni dettaglio della propria bici ed ovviamente, visto l'ambiente in cui è cresciuto, di biciclette se ne intende, ma per ora non pensa a questo tipo di lavoro per il futuro. «Io fra qualche anno vorrei lavorare meno, verrò comunque in negozio, ma una volta alla settimana, magari. Vorrei vivere ancor di più la bicicletta sulla strada e farla entrare ancor più nella mia vita quotidiana. Lo dico ai giovani, c'è possibilità di vivere con questo lavoro ed è un bel lavoro». La passione si sente, uguale a quella che ha fatto iniziare tutto trent'anni fa, sebbene molto sia cambiato: «Indubbiamente, è cambiato il mondo e la bici con lui, ma il bello è che la bicicletta, per quanto cambi, resta sempre la stessa, almeno nelle linee base. Ora c'è più elettronica ed è una differenza sostanziale. Sono aumentati anche- il tono di voce fa intuire lo scherzo- i modi in cui i clienti chiamano la camera d'aria. Non è così difficile da dire, ma non hai idea di quante variazioni sul tema si incontrano». Storie di incontri e della lingua che è parte di una terra, come i ciclisti, come Toni Bevilacqua, soprannominato "Labron", che è rimasto nel ricordo della gente.
Anche le fotografie sono parte del negozio, alcune in particolare. Martino, circa 25 anni fa, ha ritratto, in bianco e nero, circa 250 clienti affezionati; quelle foto ci sono ancora e sono una testimonianza, del tempo che passa, dei cambiamenti, di un momento preciso e del rapporto che si crea con le persone, in quello spazio senza vetrine, tra il ferro ed il legname che viene riutilizzato, tra le immagini del gruppo che va e della gente che lo aspetta e poi lo segue con lo sguardo, tra i vari soprammobili, che si celano e si mostrano, e tra tutte quelle biciclette. Quello spazio dei tre fratelli Scavezzon che non è solo un negozio di biciclette.
Foto: @maxiezzi
Il questionario cicloproustiano di Erica Magnaldi
Il tratto principale del tuo carattere?
Gentilezza
Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
Umorismo
Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
Sincerità
Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
Spensieratezza
Il tuo peggior difetto?
Eccessiva autocritica
Il tuo hobby o passatempo preferito?
Stare immersa nella natura
Cosa sogni per la tua felicità?
Raggiungere i traguardi per cui lavoro sodo
Quale sarebbe, per te, la più grande disgrazia?
Non poter più praticare sport
Cosa vorresti essere?
Più sicura di me
In che paese/nazione vorresti vivere?
La mia, Italia
Il tuo colore preferito?
Blu
Il tuo animale preferito?
Cane
Il tuo scrittore preferito?
Jack London
Il tuo film preferito?
Braveheart
Il tuo musicista o gruppo preferito?
The Cranberries
Il tuo corridore preferito?
Lizzie Deignan
Un eroe nella tua vita reale?
Il mio ragazzo
Una tua eroina nella vita reale?
Mia nonna
Il tuo nome preferito?
Nike
Cosa detesti?
Fallire
Un personaggio della storia che odi più di tutti?
Hitler
L’impresa storica che ammiri di più?
La resistenza partigiana
L’impresa ciclistica che ricordi di più?
La vittoria di Nibali a Sant’Anna di Vinadio
Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
Il mondiale
Un dono che vorresti avere?
La volata
Come ti senti attualmente?
Ambiziosa
Lascia scritto il tuo motto della vita
“Mens sana in corpore sano”
Sangue e Arena
La Vuelta 2023 è partita con una startlist di livello eccellente, praticamente il meglio - o quasi per i grandi giri - a eccezione di Pogačar e qualche nome di contorno. La Vuelta 2023 però nei primi giorni si è distinta per situazioni che si potrebbero definire bizzarre, se non altro perché poi sono finite tutte “bene”. Bizzarre, sì, a tratti sgradevoli, altro eufemismo, per corridori e spettatori. Sono partiti con la cronosquadre corsa al tramonto, pericolosa, per le vie di Barcelona, con una pioggia fortissima che ha condizionato una gara che man mano andava avanti e più evidenziava la scarsa visibilità - oggi è la giornata mondiale dell'eufemismo. La prossima volta consigliamo a chi si mette in bici per questi esercizi di portarsi dietro una luce di quelle potenti, un po’ come facciamo noi ciclisti della domenica.
Da giorni si conoscevano le condizioni del meteo, si sapeva che le nuvole avrebbero scaricato proprio in prossimità dell’inizio della gara o quando la stessa sarebbe stata in pieno svolgimento: non si sarebbe potuto anticipare? La risposta la conosciamo già, così come i motivi che fanno rima con avaro e amaro ed è quella cosa che fa girare il mondo. Il paradosso è stato che, per rispettare la scaletta, è andata in scena una corsa che di tecnico, interessante e spettacolare non ha avuto assolutamente niente. Poi ci sarebbe anche un altro discorso da fare, forse non è il caso oggi, ma ci buttiamo lo stesso: la cronosquadre è interessante, ma a oggi il divario fra due tre squadre e il resto del mondo è netto. Solo la pioggia e le cadute e l’attenzione particolare (cautela) che a tratti hanno messo alcuni uomini di classifica ha fatto sì che si mescolassero le carte.
Il giorno successivo è grottesco. Si decide, a causa del maltempo che ha continuato a non dare tregua alla Catalunya in quei giorni, di neutralizzare il finale di corsa. In pratica ai piedi del Montjuïc, celebre scalata nella periferia di Barcelona, inserita per rendere spettacolare e brioso il finale della seconda frazione delle corsa a tappe spagnola, viene preso il tempo per la generale, lasciando gli ultimi nove chilometri - salita e discesa, ritenuta pericolosa a causa della pioggia - alla lotta per la sola tappa. E quello che si è visto non è stato proprio il massimo: in pratica va via un gruppetto di ribelli che si gioca la vittoria, manco fosse una kermesse post Giro con tre quarti di gruppo che si alza e sfila fino al traguardo a passo di amatore - amatore scarso, tipo chi scrive.
Ben venga la vittoria di Andreas Kron, corridore perfettamente a suo agio su arrivi del genere, che dedica il successo a Tijl De Decker, scomparso qualche giorno prima mentre si stava allenando in bici. Scomparso per la solita disattenzione di qualcuno che guida un'automobile. De Decker aveva da poco compiuto 22 anni e questa primavera aveva vinto la Roubaix per Under 23. Andava forte, e l’anno prossimo avrebbe compiuto il passaggio dalla squadra Development della Lotto a quella dei grandi. Nel 2024 sarebbe stato compagno di squadra di Andreas Kron. E quindi ben venga il successo di un bel corridore come Kron, e la dedica. Giorni, ancora, difficilissimi per chi corre in gruppo, e ce ne saranno ancora e sempre, per chi segue questo maledettissimo sport. Tornando alle cose più futili, tornando alle cose di Vuelta: vedere il gruppo sfilare a nove chilometri dall’arrivo in totale tranquillità non è stato il massimo, seppure i corridori abbiano le loro ragioni. Forse quello che stiamo vivendo è un momento di passaggio a cui ci dobbiamo semplicemente abituare, ma resta il fatto che Kron, la discesa del Montjuic l’ha pennellata, l’ha fatta a tutta prendendo i suoi rischi, e dopo aver aperto un piccolo gap sul tratto di salita, proprio in discesa, ha fatto la differenza sostanziale. In realtà la parte grottesca della faccenda arriva ora, perché non voglio discutere delle scelte prese dai corridori o da chi li rappresenta, semmai parliamo di come viene prodotta la Vuelta, organizzata: intanto le immagini che arrivavano dall’elicottero. Più che dall'elicottero parevano arrivare da Chandrayaan-3, la sonda mandata sulla luna dall’India, che non permettevano nemmeno agli occhi più sensibili di capire cosa stesse succedendo. E poi il capolavoro dei capolavori, da fare impallidire le sceneggiature del grande cinema europeo di metà novecento. Ebbene, la giuria si è persa il passaggio dei corridori al GPM (che dava secondi di abbuono per la classifica generale, perché, nonostante la neutralizzazione del tempo ai piedi della salita, gli abbuoni sarebbero stati comunque dati) e ha fermato gli spettatori chiedendo se qualcuno avesse filmato il passaggio - questo, potrebbe essere stato il video usato proprio dalla giuria https://twitter.com/FForradellas/status/1695851892532732206 per registrare quei passaggi poi fondamentali ai fini della classifica generale, classifica generale che vedrà, diversi minuti dopo la fine della tappa, al primo posto Andrea Piccolo.
Ma non è finita qui, perché tanto si parla di sicurezza e si fa di tutto perché i corridori possano correre meno pericolo possibili che alla fine uno dei corridori più importanti del gruppo rischia di farsi seriamente male dopo aver vinto con autorità il primo arrivo in salita. Il terzo giorno, infatti, subito dopo il traguardo di Andorra, c'è un tratto di leggera discesa, poca via di fuga, non c’è spazio a sufficienza per Evenepoel che, dopo aver esultato battendosi la mano sul petto non fa in tempo a frenare finendo per schiantarsi contro una donna presente nella calca che si trova spesso alla fine di ogni traguardo, tra giornalisti, soigneur ,eccetera. Si teme il peggio per un attimo, ma Evenepoel con la faccia completamente insanguinata mantiene un certo savoir-faire (sicuramente aver vinto e preso la Roja ha aiutato a calmare il suo temperamento e una sua possibile dura reazione, probabilmente la botta stessa ha contribuito a tenerlo quasi un po’ spaesato) lasciandosi andare solo nell’intervista di rito al vincitore: «Non ne posso più, mi sto seriamente rompendo le balle. Ogni giorno ce n’è una… posso solo dire che spero che la signora stia bene». A noi Remco piace così.
Poi succede anche che, secondo quanto riportano i media spagnoli, il quarto giorno venga “sventato un sabotaggio ai danni della corsa, quattro persone arrestate e sequestrate alcune taniche con dentro circa 400 litri di olio pronti per essere riversati sulla strada”.
Insomma la Vuelta ha fatto la Vuelta, signori, incrociamo le dita per i prossimi giorni.
Foto in evidenza: ASO/UNIPUBLIC-Sprint Cycling Agency
Il questionario cicloprostiano di Alice Maria Arzuffi
Il tratto principale del tuo carattere?
Determinazione
Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
Rispetto e positività
Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
Intraprendenza
Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
Semplicità
Il tuo peggior difetto?
Fissarmi sul negativo quando qualcosa non va come dovrebbe - overthinking
Il tuo hobby o passatempo preferito?
Cucinare
Cosa sogni per la tua felicità?
Una famiglia felice e un lavoro che mi dia soddisfazione
Quale sarebbe, per te, la più grande disgrazia?
Perdere i miei cari
Cosa vorresti essere?
Me stessa, più sicura o forse la nostra cagnolina Gina
In che paese/nazione vorresti vivere?
Italia
Il tuo colore preferito?
Rosa
Il tuo animale preferito?
Cane (bassotto)
Il tuo scrittore preferito?
Carlos Ruiz Zafón
Il tuo film preferito?
Harry Potter / A star is born
Il tuo musicista o gruppo preferito?
Rihanna - Lady Gaga - Cesare Cremonini - Vasco Rossi: difficile sceglierne uno
Il tuo corridore preferito?
Wout Van Aert
Un eroe nella tua vita reale?
Mio papà
Una tua eroina nella vita reale?
Mia mamma
Il tuo nome preferito?
Giulio / Adelaide
Cosa detesti?
Fare la valigia
Un personaggio della storia che odi più di tutti?
Hitler
L’impresa ciclistica che ricordi di più?
Mathieu van der Poel, Amstel Gold Race 2019
Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
Mondiale /Olimpiade
Un dono che vorresti avere?
Teletrasporto
Come ti senti attualmente?
Bene, serena
Lascia scritto il tuo motto della vita
Soffrire/rinunciare oggi per godere domani
Seguendo il flow: Giulia Baroncini è arrivata a Chicago
Di Giulia Baroncini e del suo viaggio in bicicletta, da Trecenta, paese in cui è nata, a Chicago, sulle orme del viaggio di 130 anni fa, di Luigi Masetti, vi avevamo raccontato un paio di mesi fa, prima della partenza, ma, come molti dei fatti della quotidianità, l'arrivo di Giulia a Chicago, a inizio agosto, è stato diverso da come se l'era immaginato lei e da come, scrivendone, ce lo eravamo immaginato anche noi, così, al settantaquattresimo giorno lontano da casa, dalla camera riservata agli ospiti di una casa di Cleveland, una videochiamata ha riavvolto il filo del racconto. «Sto da Dio, altrochè» esclama decisa, seduta su una sedia, con una camicia hawaiana ed in mano una tazza di caffè ancora caldo, negli Stati Uniti è mattina presto, sul soffitto della camera un ventilatore le cui pale, ora, sono ferme.
«Da Chicago sono ripartita giusto l'altro ieri, avrei dovuto fermarmi tre o quattro giorni, mi sono fermata per dieci giorni e, quando sono ripartita, ero dispiaciuta, ma non era iniziata così bene. Qui non sono abituati al bikepacking, così, se vedono qualche viaggiatore in sella, lo fermano tutti e fanno le più svariate domande. A Chicago no, a Chicago mi fermavano tutti e mi dicevano solo "be careful", stai attenta. Queste parole sono state uno schermo attraverso cui, almeno nei primi giorni, ho vissuto la città. Sapevo che la città poteva essere abbastanza complicata, a tratti pericolosa, non così, però. Alla fine, come altrove, sono state le persone a salvarmi dalle paure». Giulia Baroncini spiega che senza gli incontri, probabilmente, sarebbe potuto anche essere noioso, perché una camera d'albergo ed il paesaggio non possono bastare a colmare le giornate di un viaggio. Le persone l'hanno salvata, portandola a fare kayak e mostrandole la città mentre si muovevano su un fiume, oppure accompagnandola in vetta ad un grattacielo per guardare tutto dall'alto, ad un concerto jazz o su una ciclabile accanto al fiume: «Questi due mesi per me sono stati molto intensi, sembrano passati anni da quel nove giugno. Ero arrivata ad un punto di saturazione, forse anche per questo quel "be careful" mi aveva spaventato più del solito, ero stanca. Chicago mi ha ricaricato, le sue persone mi hanno ricaricato e adesso, al pensiero che fra un mese sarà finito tutto, provo già una sorta di malinconia. Non fatevi influenzare da quel che dice la gente, non troppo almeno, vivete le esperienze sulla vostra pelle. Ricordatelo».
Proprio ricordando questo principio, Giulia Baroncini ha preso una decisione: da Chicago è salita su un treno e a Cleveland è arrivata in treno. Quelle strade, quei drittoni, nel nulla, campi, case e asfalto, li aveva già percorsi all'andata, e ora sa cosa è giusto fare: «Non devo fare numeri, non mi interessa tornare a casa e vantarmi dei miei 8000 chilometri in bicicletta, preferisco farne meno, ma gustarmeli. Mi spiego? Voglio dare qualità al mio tempo. Avrei perso l'entusiasmo di pedalare per continuare a chiedermi quando sarebbe finita. Non aveva alcun senso». Qui Baroncini si sofferma per qualche minuto: «Gli americani parlano di "get a feeling", avere una sensazione, provare qualcosa, ascoltare te stesso: ecco, noi dovremmo vivere e viaggiare così. Seguendo il "flow", il flusso, di quel che c'è e di quello che proviamo e, se non sentiamo nulla di buono, forse, dovremmo anche trovare il coraggio di lasciar perdere, di andare altrove, di fare altro. Dobbiamo fare qualcosa per noi, per essere felici». Così, il tempo risparmiato percorrendo quei 500 chilometri in treno Baroncini lo utilizzerà per fermarsi qualche ora in più con le persone con cui si trova bene, per vedere meglio una città. Già altre volte avrebbe voluto farlo e non lo ha fatto, adesso questa occasione non la perderà più.
Intanto a Cleveland, i proprietari di casa, che già l'avevano ospitata all'andata, le organizzano le giornate e lei resta senza parole: partite di baseball, gite e, qualche giorno fa, il giro "Little Italy", con amici italo-americani, che le hanno raccontato tanto della loro storia, di come sono arrivati lì, di come si sono stanziati, della ricerca delle loro origini: «Nel loro sguardo, mentre parlavano dell'Italia, ho capito quanto sia importante anche per me l'Italia. Ho sentito quanto sia bella, quanto siamo fortunati e, forse per la prima volta, ho detto ad alta voce che sono orgogliosa di essere italiana». Siamo abituati a sentirla ridere e anche ora Giulia sorride, ma i suoi occhi sono lucidi, la sua voce increspata: lei che non parla mai di mancanze, che esprime il concetto più totale di libertà, si è commossa. «Forse casa non mi manca, perché non so nemmeno io dove vorrei fosse la mia casa, la mia città. Vorrei casa fosse ovunque, mi sento a casa ovunque. Ho cambiato quattordici case, cinque o sei paesi».
Allora la casa di Giulia è in Svizzera, nelle sue ciclabili, a Lucerna, a Zurigo, in quel fiume dove le persone si tuffano, a Strasburgo, nella ciclabile lungo il Reno, a Bruxelles, che, dopo tante volte, questa volta, in bicicletta, sembrava nuova, a Canterbury, nelle sue campagne, nei suoi cottages, a Londra, nel movimento della città, a Manhattan, nelle sue luci, nella sua gente, di notte, a New York, vista, tempo fa, a Natale, ora in estate, fra qualche tempo, a settembre, in autunno, nella zona dell'Hudson, zona che di solito gli italiani non conoscono per motivi di turismo, a Buffalo, al Lago Erie, dove la vista si apre, all'Indiana Dunes National Park, nel tramonto sulle dune dorate del parco, sul lago Michigan, con Chicago sullo sfondo, casa è perfino nelle campagne e nei drittoni tra Cleveland e Chicago.
Casa è nell'ospitalità che l'America sa donare: «Si nota proprio una sorta di contentezza nell'avere un ospite a casa. Tutte le case hanno una camera in più per gli ospiti, porte aperte, ovunque. Vogliono conoscere, scoprire, se poi dici che sei italiano vanno in estasi. Qui sono abituati al mix di culture e sono affascinati dallo scambio culturale. Non avessi avuto il biglietto dell'aereo prenotato, forse avrei allungato ancora il mio viaggio. Non perché voglia vivere qui, non credo di volerci vivere, ma quelle piccole cose che accadono durante il viaggio mi danno una carica assurda per cui a casa, ora come ora, non vorrei tornare». Accanto alle parole, il rumore dei treni che Giulia ha registrato, perché particolare, diverso da quello che si sente in Europa.
C'è l'odore delle città, particolare, caratteristico, che identifica la città americana, tra mezzi di trasporto e rotaie, quello delle campagne da respirare a pieni polmoni, e c'è il sapore delle pannocchie che anche in Italia le ricorderanno l'America. C'è la lingua in cui si parla che è compagna di viaggio: «Le lingue mi piacciono perché sono una via per entrare nel profondo di una cultura. Qualcuno diceva che parlare la stessa lingua significa entrare nel cuore delle persone, è vero. Se si vuole raccontare qualcosa, ci si riesce, ci si fa capire, ma parlare la stessa lingua è un'altra cosa. Certe volte, ora di sera, sono stanca e faccio fatica anche io, ma mi sforzo lo stesso, le persone lo apprezzano. Mi sembra bello. Per questo motivo ho insegnato qualche parola di italiano a chi me lo chiedeva e ho spiegato come vediamo noi determinate cose: le domande sono un modo di avvicinarsi, di comprendersi».
Un ragazzo di Chicago le ha raccontato di aver vissuto a Bologna, anni fa, e di voler tornare in Italia in bicicletta per un viaggio in bikepacking. La bicicletta di Giulia Baroncini oggi è ferma, ripartirà domani, con un compagno di viaggio che, per quindici giorni, la accompagnerà nel tragitto di ritorno. Seguendo il flow, dei pedali, delle ruote, del vento in faccia, del viaggio.