Ho visto ciclisti incontrare il mondo dall'alto

Allo scrittore Thomas Bernhard sono serviti cinque volumi per raccontare la sua vita, in maniera tanto scomposta che solo nell’ultimo ha affrontato la sua infanzia. O per lo meno quelli che erano i suoi primi ricordi fino ad arrivare all’ingresso nel collegio di Salisburgo. Proprio all’inizio di “Un bambino” racconta che, all’età di otto anni, senza chiedere il permesso a nessuno, aveva deciso di portare fuori dall’androne la bicicletta militare del tutore, allora sotto le armi in Polonia, salire in sella, provare a spingere sui pedali e scoprire cosa sarebbe accaduto. Seppure le dimensioni della bicicletta fossero decisamente sproporzionate per un bambino della sua età, si sentiva “un trionfatore” nell’esplorare prima il Mercato dei piccioni di Traunstein e poi allontanarsi dalla cittadina per provare a raggiungere la zia Fanny a Salisburgo. Chiudendo gli occhi sui rettilinei per assaporare quella felicità, Bernhard capì che “è dunque così che il ciclista incontra il mondo: dall'alto! Corre, corre a folle velocità senza toccare terra con i piedi, essere un ciclista è per lui qualcosa che significa quasi: sono il padrone del mondo”.

Io, che per ora in sella ad una bici vado a zigzag e cerco di tenermi lontana da muri, pali e pilastri, ne so poco di sentirmi in cima a tutto, ma ho pensato fosse una buona idea essere nel luogo in cui i migliori ciclisti si sono dati appuntamento per correre velocissimi senza toccare terra con i piedi e alcuni, addirittura, provare a sentirsi padroni del mondo. Venerdì sarebbe dovuto essere come il primo giorno delle vacanze di Natale: volevo tornare ad avere otto anni come Bernhard e provare sulla salita di Witikon la curiosità e l’entusiasmo di chi non vede l’ora di scoprire cosa si nasconde sotto l’albero addobbato in salotto. Chissà se anche per Muriel Furrer il giorno precedente, quello della gara in linea junior, assomigliava ad un giorno di festa, se quella mattina si è sentita trionfante come quando da bambina è riuscita a pedalare per la prima volta, chissà cos’è successo sotto la pioggia scrosciante nei pressi di Küsnacht mentre scendendo affrontava una leggera curva a sinistra, chissà perché si debba morire a 18 anni da soli, senza che nessuno se ne accorga per almeno un’ora e mezza, facendo la cosa che si ama di più al mondo. Quel venerdì, la mia prima volta ad un Mondiale di ciclismo, nella fan zone di Witikon lo schermo che trasmetteva la gara non emetteva altro che rumori ambientali, mentre tifosi belgi e qualche altro spettatore sul bordo della strada provava a far finta che quella degli uomini U23 fosse una gara normale, ancora una volta sotto la pioggia.

Pioveva anche il giorno successivo ad Uster, alla partenza della gara in linea femminile. Faceva freddo fuori e dentro nel guardare le atlete della federazione ciclistica svizzera disporsi davanti al peloton e mischiare lacrime e pioggia nel minuto di silenzio per ricordare una ragazza che un giorno sarebbe voluta essere in mezzo a quel mucchio di caschi, ruote, gambe che fremono. In quello che era ufficialmente diventato il mio campo base, ovvero la salita di Witikon, ho scoperto che rumore fanno le ruote quando passano sul bagnato a tutta velocità, ho visto un centinaio di cicliste affrontare condizioni proibitive regalando a tutti uno spettacolo sportivo pari a quello di tante gare maschili. Mentre la giacca antipioggia mi abbandonava e urlavo forte il suo nome, a pochi metri da me, Elisa Longo Borghini si è alzata sui pedali per non perdere nemmeno un centimetro dalle ruote di chi aveva davanti. Qualche minuto dopo, sotto un gazebo zuppo come noi esseri umani, circondata da belgi che intonavano a ritmo “Lotte”, ho sperato che tutto potesse succedere ma ho sorriso comunque per quel bronzo che ci ricorda che abbiamo una delle atlete più forti al mondo, anche se non lo diciamo spesso. Prima di sabato, tra i ciclisti italiani, potevano vantare almeno tre podi al Mondiale Paolo Bettini, Gianni Bugno, Beppe Saronni, Francesco Moser, Felice Gimondi, Alfredo Binda, Tatiana Guderzo, Giorgia Bronzini, Maria Canins, Morena Tartagni, a loro si è aggiunta anche Elisa Longo Borghini.

La verità è che prima che la tragedia piombasse su uno degli eventi più importanti dell’anno era la giornata di domenica che portava con sé una sfida diversa dalle altre: c’era solo da capire se sarebbe stata la ciliegina sulla torta di un’estate rasente la perfezione per Remco Evenepoel che dopo i due ori olimpici, sicuramente aveva fatto un pensierino anche su quelli Mondiali, o se, invece, sarebbe stata un’altra Storia, con la S maiuscola, che parlava un po’ italiano, un po’ francese, ma soprattutto sloveno. Che fosse la giornata per eccellenza lo si capiva già dalla partenza a Winterthur, quando è comparso per la prima volta il sole: durante questi Mondiali il meteo ne ha sempre saputo qualcosa più di noi comuni mortali. Ancora una volta sulla salita di Witikon, questa volta l’ambiente che mi circondava aveva un aspetto completamente diverso. Lungo la pendenza fino al 10 per cento, i volti si erano moltiplicati rispetto ai giorni precedenti. C’è chi aveva portato le casse per animare l’attesa con musica internazionale (non sono mancati nemmeno Nek ed Eros Ramazzotti, per la cronaca), chi proponeva su un cartello un nuovo ordine mondiale con a capo Tadej Maočar, Joseph Rogline, Mathieu Trump der Poel e Remco Jong Un, chi, già affamato, aveva con sé tutto il necessario per una bella grigliata con annessa bevuta, chi speranzoso preparava i fumogeni e chi con le bombolette spray o i gessetti scriveva sull’asfalto per ricordare non solo Muriel, ma anche Gino.

Sembrava un’orda quella che è salita la prima volta, poco dietro la fuga, poi piano piano il gruppo ha cominciato a spezzettarsi come fa sempre quando la gara entra nel vivo. Eravamo a dir poco stupiti quando, a poco meno di 100 chilometri dall’arrivo, abbiamo visto una maglia verde davanti a tutti avvicinarsi sempre di più e poi sfrecciare accanto a noi. Abbiamo contato, chi con le dita, chi a mente, chi con le app del telefono, i secondi prima di vedere comparire Remco Evenepoel e Mathieu van der Poel. Abbiamo visto prima il ghigno di dolore di Bagioli nel vano tentativo di stargli a ruota, poi di Pavel Sivakov. Il fatto che il distacco, delle volte, fosse meno di un minuto dagli altri grandi avversari ha lasciato per un attimo uno spiraglio aperto su possibili scenari che non abbiamo visto accadere, perché, come era successo a settembre alle Strade Bianche, quel giorno Pogačar aveva deciso di trasformarsi nell’Hulk di cui ha spesso un adesivo sul manubrio. L’ultima volta sul Witikon davanti c’era solo lui, da solo, una frazione di secondo e un attimo dopo era il padrone del mondo. Adesso possiamo dire che dopo Eddy Merckx e Stephen Roche, anche Tadej Pogačar è riuscito a vincere Giro, Tour e Mondiale nello stesso anno. Per molti l’irresistibile sloveno ha la stoffa per sorpassare il primo, ma per quanto Merckx, il Cannibale, all’Équipe ha ammesso, poco dopo la gara, che a Zurigo è riuscito a fare qualcosa di speciale, il grande corridore belga continua comunque ad essere convinto che il ragazzo ne debba mangiare di avversari ed asfalto per raggiungerlo.

Mentre risalgo la strada che è stata casa per due giorni e mezzo, so che devo darmi tempo e che probabilmente la mia faccia assomiglia a quella di Pogačar, che ai microfoni, dopo la gara, non faceva che ripetere che, durante la corsa, non aveva la minima idea di cosa stava facendo. Qualcuno metabolizza descrivendo a voce alta i passaggi più belli dei sette a cui abbiamo assistito, qualcuno prova a fare un’esamina della nostra Nazionale, qualcuno apre ogni piattaforma social per poter condividere incredulità, entusiasmo, felicità. Speravo che ogni giorno sarebbe assomigliato a Natale e alla fine è arrivato. Non ho comunque la minima idea di cosa io abbia visto: forse un sogno, forse un’impresa, forse ho solo visto un uomo incontrare dall’alto il mondo e rimanere lì, almeno per un po’. Sicuramente ho visto il ciclismo, quello che toglie, quello che dà. Mentre riordino i ricordi, immagino un futuro in cui sull’asfalto non si dovrà ricordare ma solo pedalare veloci, senza toccare mai terra.

Foto: Sprint Cycling Agency


Una storia verticale: Napoli obliqua

Napoli è una città che si arrampica, è la sua morfologia, dal mare alle colline, a caratterizzarla: dal centro, da Piazza Plebiscito, si gira un angolo e sono le stradine ed i vicoli a ispirare. Insomma, Napoli è una città verticale ed è da questa percezione che nasce "Napoli Obliqua", un evento, una pedalata in mountain bike, in gravel per i più esperti, per quelle stesse stradine alla scoperta di un'altra dimensione. Senza maschere, senza filtri, affidandosi alla realtà e mostrandola per quella che è, lasciando poi a ciascuno il compito di trarre pensieri ed idee: «Lo chiamo-racconta Luca Simeone di "Napoli pedala"- viaggio antropologico nella città perché saranno le persone l'elemento chiave, ma, allo stesso tempo, sarà una pedalata lontano dal traffico, in zone pedonali dove saranno i gradini, talvolta gradoni, a segnare l'ascesa o la discesa. Una vasta letteratura sulla "città verticale" aggiunge qualcosa a questa interpretazione, non solo in senso geografico: anche in un condominio, solitamente, c'è una differenza, di posizione sociale talvolta, tra chi vive al piano terra e chi all'attico del piano superiore. La bicicletta è il "fil rouge" ideale per osservare, addentrarsi e comprendere: veloce quanto un pedone in salita, un poco più veloce in discesa. Certamente connessa all'essere umano più di un'automobile».

L'importante, il 27 ottobre, sarà soprattutto non nascondere nulla perché Napoli è stata spesso raccontata attraverso il suo fascino da cartolina, però serve un passo in più visto che Napoli è una città che cambia: basta guardare al Rione Sanità e alle sue domeniche, dove una volta era solo il ragù a bollire nelle pentole sin dal primo mattino, mentre, ora, anche le spezie orientali, quelle del curry, lasciano il loro profumo nell'aria. Storie di migrazioni e di una città che, anche dal punto di vista sociale, si arricchisce.

Non ci sarà alcun ordine d'arrivo, non un podio alla fine della giornata. Anzi, Simeone commenta: «Probabilmente, chi la percorrerà più lentamente potrà guardare meglio, vedere più particolari. La "lentezza" farà più bella l'esperienza, più intensa». L'autunno vivrà il suo pieno in quelle settimane e a Napoli l'autunno significa una temperatura mite, sentieri ripuliti dall'effervescenza della primavera e dell'estate che, talvolta, li scompiglia, alberi che si spogliano delle proprie foglie rendendo le fronde un altro squarcio da cui godere del paesaggio, mentre, nelle giornate nitide, si vede il Golfo, ci si affaccia sulle catene montuose del Matese e del Partenio e si esplora anche la zona interna della Campania. Periodo in cui i visitatori diminuiscono, ci sono più camere libere negli alberghi, ovvero maggiore opportunità di vivere questa esperienza, ultimo anello del Napoli Bike Festival che, quest'anno, è "sparso" nei vari mesi al fine di permettere di partecipare a quanti più eventi si desideri.

«I luoghi non si censurano, ma si indagano, semmai, con cura, soprattutto in sella, provando a portare all'attenzione dell'opinione pubblica e delle istituzioni anche ciò che non va, i problemi, oppure ciò che si potrebbe conoscere meglio. Questo è il ruolo sociale della bicicletta, il motivo per cui è più che mai necessario credere alla bicicletta in questa società. Faccio l'esempio del rione Materdei, dei quartieri enclave, che si perdono in un dedalo di strade, tra scale e gradoni: tanti pezzettini di città che, come in un gioco, mentre i pedali frullano, si uniscono e diventano un unicum pur con le loro differenze. Guardiamo anche al Petraio, sulla collina del Vomero, ma in generale a Napoli nella sua interezza, ai giardini, ai parchi, a Posillipo, alla casa di Pino Daniele, da cui transiteremo, ed ai principali hotspot della città, sino a Piazza del Plebiscito. Qualche salita più dura, un poco di fatica, ma immagino la bellezza della scoperta per chi viene da fuori ed è alla sua prima volta da queste parti».

Sono due i percorsi studiati dagli organizzatori per questa manifestazione giunta alla quinta edizione, rispettivamente di 70 e 40 chilometri: il primo di circa mille metri di dislivello, il secondo tra i settecento e gli ottocento metri di dislivello. Si pedalerà, quindi, verso zone di cui non si parla abbastanza, promuovendo aree di pregio paesaggistico: la zona di Capodimonte, le sue abitazioni storiche, la natura bella e rigogliosa. Ci si inoltrerà nei boschi di Napoli, con le colline che cingono e circondano la città partenopea: «Basti pensare che da Piazza Plebiscito ad uno dei punti più alti della città, l'Eremo di Camaldoli, ci sono non più di otto chilometri e lì si apre un mondo di opportunità legate al trekking. Chi conosce davvero bene via del Serbatoio dello Scudillo? Lì sotto transita l'acquedotto napoletano, da lì si diramano le vie dell'acqua in città: un altro tesoro nascosto».

La cultura è anche cultura dei profumi e dei sapori, la loro storia: i dolci, il celebre Fiocco di neve, il ristoro presso il Parco Giugliano e successivamente l'area Flegrea, un'area vulcanica in cui il bradisismo è realtà, nonostante tutto sembri tranquillo. La leggenda racconta che l'ultimo tra i tanti crateri emersi, che hanno alleviato questa ferita, sia stato il Monte Nuovo, formatosi nel 1538, pare in una sola notte: probabilmente sarà servito più tempo, lo sappiamo, ma così si racconta ed è bello ascoltare. «Chissà, forse per porre fine al bradisismo dovrà emergere un altro cratere, magari in mare, dove non farà danno a nessuno». Una storia obliqua, dal basso verso l'alto, tra salite e discese, dove ci si perde e ci si ritrova: comunque in bicicletta, a Napoli. A Napoli Obliqua.

Foto in evidenza: Giuliano Montieri (da Napoli Pedala)
Tutte le altre foto: Antonello Naddeo (da Napoli Pedala)


Buonenotti, Siena

Ci sono parole che, in fondo, sono sinonimo di ospitalità, di accoglienza, certamente di una predisposizione d'animo gentile verso l'avventore. Due fra queste le abbiamo scoperte, meglio sarebbe dire riscoperte, a Siena, proprio dopo aver varcato Porta Camollia e aver letto quella scritta in latino: «Cor magis tibi Sena pandit». Sì, Siena ti apre il cuore ancor più di questa porta, recita così ed essere ospitali, in fondo, richiede questa inclinazione. Ma le parole a cui ci riferiamo noi sono di uso corrente, nessun lontano eco storico, "nessun latinorum" da rispolverare: buongiorno e buonanotte, tutto qui, nel soggiorno, accanto alla cucina, alla macchinetta del caffè, dove ogni mattina si prepara una colazione, sempre diversa, al b&b che, da questa parola, ha preso il nome: "Buonenotti".

Siamo in Strada di Marciano 23 e Luca Massini ci ha accolto da poco narrando quello che dovrebbe essere un rito: la colazione. «All'alba, c'è Alessandra Forzoni che attende il risveglio di ciascuno, aspetta che entri qui. Ci si saluta, ci si dice reciprocamente buongiorno, poi, l'ospite si siede al tavolo e da lì inizia la conversazione: "Ha dormito bene? Cosa desidera?". Sempre prestando attenzione a quel che il cliente cerca: magari vuole solo un poco di silenzio e allora si sta zitti, ci si muove piano. Le nostre giornate principiano in questo modo».
Accogliere significa anche far sentire a casa, a casa propria, e questo "Bijou hotel" è, in realtà, il ribaltamento dell'abitazione di Luca e Alessandra: un open space simile, pensato come se dovesse essere vissuto dalla loro famiglia, con ogni dettaglio scelto come si scelgono le cose fra le pareti di casa. Alessandra aveva un sogno simile sin dal 2001, 2002, perché l'idea di costruire qualcosa di nuovo, così ideato, le piaceva, ma c'era un posto di lavoro sicuro, uno stipendio fisso e tante certezze che un cambiamento simile avrebbe messo in discussione totale: «Coloro che io non avevo voluto lasciare, nel 2011 mi hanno lasciato. La multinazionale per cui lavoravo ha chiuso, proponendomi un trasferimento tra Brindisi, Rovigo e Roma. Virginia, mia figlia, era ancora piccola e non me la sentivo di andare così lontano. Ho cercato un lavoro simile per molti mesi, ho ricevuto proposte inaccettabili. Ad un tavolo, con Luca, durante un aperitivo, ci è venuto in mente quel sogno nel cassetto e, quasi per scommessa, abbiamo aperto quel cassetto e l'abbiamo tirato fuori. Era un tardo pomeriggio di gennaio». In mente, si fa spazio quella casa che Luca e Alessandra vorrebbero ristrutturare da tempo e che sarebbe, comunque, da ristrutturare: in quell'inverno si progetta, a marzo partono i lavori, a giugno apre il b&b. Era il 2013, undici anni fa.

Hanno avuto «l'incoscienza dei vent'anni, senza avere vent'anni», per il resto, dentro, c'è la loro verità: «A me vengono in mente- spiega Alessandra- i budini al cioccolato che preparavo per Virginia, quando era bambina. Sì, quelli che si comprano al supermercato. Ricordo che li impiattavo, aggiungevo un poco di zucchero a velo, sopra, magari, una fragola o qualche mirtillo. Sai le bruschette alle olive? Mi preoccupavo di disegnare una piccola bocca, un nasino e due occhi. Ospitare è questa cosa qui, avere cura per l'altro, ed io faccio lo stesso a casa nostra, quando preparo la tavola e sposto i bicchieri, un attimo prima di sedermi con Luca e Virginia, perché mi sembrano più belli in un'altra disposizione. I prodotti del "Buonenotti" sono gli stessi con cui pranziamo e ceniamo noi, ma, proprio perché non sono solo a casa mia, chiedo le intolleranze a ciascuno e provo a preparare qualcosa di personalizzato. In un ambiente familiare, ci si sente sicuri anche per questo».

Un giorno, la madre di Alessandra è entrata in quella casa, mentre i lavori erano in corso: c'era solo una parete portante o poco più. «Ma sei sicura di quello che state facendo?». Non lo erano, Luca e Alessandra: avevano timore per quel salto nel buio, in un mondo complesso che non conoscevano e, ancora oggi, stanno studiando, provando a comprendere, mentre la pandemia ha cambiato tutto, anche le persone, che sono diventate più fredde, spesso più nervose. Il timore c'è ancora adesso, perché tutto può cambiare, perché non si sa mai, soprattutto in un'attività di questo tipo, a non voler cambiare sono proprio loro, perché le persone tornano, si ricordano delle attenzioni. In undici anni hanno ascoltato storie di ogni tipo: felici, tristi, hanno pianto, si sono commossi, vissuto mancanze e costruito ricordi: alcune persone arrivano per motivi di studio, altre di lavoro, qualcuno di salute. «Vorremmo essere vicini a chi arriva, in un modo o nell'altro, non abbiamo mai pensato di arricchirci, abbiamo sempre cercato di metterci a cena, a sera, soddisfatti, per la giornata vissuta. A mia figlia- aggiunge Luca- ho sempre detto che i complimenti non bisogna mai farseli da soli, come autoscatti. Devono essere gli altri a riconoscere un tuo merito e se vedono un demerito si ha l'obbligo di ascoltare e capire come cambiare. Qui, le parole belle sono venute dagli amici e dagli ospiti e sono state una spinta». Se non avesse funzionato, c'era un piano "b": avrebbero eliminato due bagni, l'avrebbero trasformato in un appartamento, forse messo a disposizione degli studenti. Forse, sì, perché sono testardi e qualcosa si sarebbero inventati. In mezzo a tutti gli impegni dell'apertura, non si era nemmeno pensato a un sito web, a come promuovere la struttura: l'inaugurazione è avvenuta con un aperitivo ed i primi ospiti sono stati proprio gli amici di una ragazza presente quel giorno. Passo dopo passo, le persone sono arrivate, ad agosto è andato tutto meglio di quanto si potesse pensare e l'autunno, che avevano immaginato di recupero, di riposo, ha mostrato un'altra faccia di questa terra: tutte le persone che arrivano in Toscana con i colori di ottobre e di novembre e vanno al Duomo di Siena, verso le Crete, nel Chianti. Stanchezza, ma anche felicità, perché quel sottotitolo che avevano scelto, «la vostra casa a Siena», non era più solo un modo di dire, ma stava diventando una realtà. Luca continuava ad inforcare la sua bicicletta: «Pedalare significa produrre idee, tornavo, le proponevo ad Alessandra: se funzionavano, le appuntava, altrimenti significava che dovevo rimettermi in sella». La fiducia nei nuovi progetti non è di tutti, anzi, è davvero di pochi e Luca e Alessandra lo sanno molto bene, lo hanno vissuto sulla loro pelle. Non ci credeva nessuno, o quasi, solo la piccola Virginia e Silvia, la sorella di Alessandra, altri dicono oggi quel che dicevano in quegli inizi: «Vedrete, non avrete più un giorno libero, pagherete un sacco di tasse e, sin dal mattino presto, sarete impegnati con il lavoro». Qualcuno ad Alessandra lo ha detto da poco: «Ancora con quelle torte, con quei dolci? Non sei stanca?». No, non lo è, e quando parla delle sue creature si illumina: le crostate di albicocche, di ciliegie, di more, i muffin, pane per la sua creatività, le uova strapazzate che qualcuno degli ospiti ha descritto come "le più buone mai assaggiate". Qualche ospite, al ritorno da una pedalata con Luca, si siede al tavolino, chiede una fetta di crostata e la gusta, con gioia: Luca e Alessandra non si fanno notare, ma non riescono a smettere di guardare e si sentono fieri.
"Buonenotti" è anche una «piccola galleria d'arte», perché Silvia è un'artista e ogni quadro appeso alle pareti è suo. Ogni tanto, se ne aggiunge qualcuno, si cambia il posto di qualcun altro, l'unico a restare sempre è quello nella sala colazioni: anche l'arte accoglie, quel che è piacevole accoglie, quel che è "personale" accoglie. Per questo motivo ogni camera è differente ed ha un proprio nome, perché che sia per lavoro, per studio o per salute, avere la sensazione di essere attesi fa la differenza, pur se non si fa festa. Il parquet, pur differenziato, è la costante. La "Stanza del sole" ha colori che spaziano tra il giallo, l'ocra, il Terre di Siena ed il bianco: la testata del letto è costituita da una cornice apposita, pensata da un corniciaio pedalatore della zona, che l'ha ricoperta con sfoglie di oro zecchino. Le poltrone sono dorate e provengono dalla casa della mamma di Alessandra, mentre i comodini sono in cipresso e quel profumo si diffonde ovunque e ciascuno si chiede da dove provenga. La parete è fatta da Luca, su suggerimento di Silvia, in lunghe telefonate mentre lei è a Puerto Rico: indicazione su indicazione, ora è visibile il risultato finale. In "Contrasti", invece, i colori predominanti sono il bianco ed il grigio sporco, l'arredamento è moderno, la testata del letto è di pietra grigia, il bagno è grande, come grande è la doccia. Da entrambe ci si affaccia sulla campagna senese, in "Contrasti" c'è anche una terrazza per fare colazione all'aperto. La terza camera è anche la più grande: "Il giardino dei sogni". Si tratta di una sorta di "camera zen", dove Alessandra ha ridato vita ad un vecchio scrittoio ed i comodini sono sbiancati da un sapiente artigiano. Più in là, una maglia della "Strade Bianche" appesa, apre la porta ad un'altra storia: Luca e la bicicletta.

Tutto è iniziato per caso, per necessità dopo un incidente in moto, la sua passione precedente: «Mi hanno praticamente dovuto ricostruire un piede e da lì ho iniziato a pedalare, traendone la stessa soddisfazione, che si tratti di strada, di cross o di gravel, la disciplina perfetta per queste terre. Corro in un gruppo sportivo e ho l'attestato di accompagnatore, così porto in giro gli ospiti. Potrei farmi pagare? Sì, ma non lo farò mai: non accetto di ricevere denaro per qualcosa che mi diverte, mi sembrerebbe di approfittarne. Sono felice quando scopro un percorso, quando lo racconto o quando degusto un vino, un piatto di pasta ed un cappuccino, magari a Radda in Chianti. Spesso mi dirigo verso Montalcino, verso le crete, verso i boschi o verso il Chianti. Vado in ricognizione, poi invito gli ospiti. Così ho conosciuto Riccardo Magrini, che viene a trovarci spesso. Con lui condivido anche la passione per il Palio e siamo entrambi della contrada dell'Oca». Sorride, Luca, e racconta che, un domani, al momento della pensione, vorrebbe dedicarsi solo al proprio orto, alla propria bicicletta e alla propria contrada: le cose più semplici e più belle che ha, quelle che, in famiglia, tutela e chiede anche ad Alessandra e Virginia di tutelare con una metafora tratta dal mondo della Coppa America, dalla vela: un approccio "lasco", "andando di lasco", in larghezza, per custodire i propri spazi e arricchirli. «Per Virginia, ad esempio, i tesori sono i cavalli, le lingue, la tecnologia, gli amici, il compagno, l'università, il suo essere un'atleta: nostra figlia passa, magari, per un caffè, ma va bene così, è giusto così, ogni tanto, quando c'è troppo da fare, accorre per aiutarci ed è bello». A Siena, la città di questa famiglia.
«Essere di Siena è la cosa più bella e difficile che si possa vivere: è una città piccola, con tutti i difetti delle città piccole, ma dal punto di vista umano offre quanto nessuno potrebbe mai immaginare. Spesso la detesti e quando la detesti non te ne accorgi, però, appena vai via da qui, ne senti la mancanza, vorresti tornare. Siena è, in fondo, un universo a parte. Avremo la puzza sotto al naso, avremo un carattere difficile, tuttavia Siena è Siena». Forse anche per questo Luca e Alessandra vogliono solo continuare così, non perchè hanno poche idee, ma perchè stanno già bene: magari si potrà aggiungere qualche passeggiata a cavallo, qualche cooking class attraverso le conoscenze culinarie di Alessandra, ma nulla più. Lo ricorda una bottiglia di vino con il nome "Buonenotti", donata dal fidanzato di una ragazza che purtroppo non c'è più e che al b&b si recava perché era vicino all'ospedale dove eseguiva le cure. Oppure quella coppia di anziani signori, sull'ottantina, fra i primi visitatori. Lei, bellissima: un rossetto che più rosso non si può e un cappello di paglia d'altri tempi. Lui, innamorato come non mai: una sorta di principe azzurro, un personaggio uscito da un film, pieno di attenzioni per la compagna, dalla colazione a letto, all'attesa, ad ogni piccola attenzione, perso dietro a quell'amore. Sono queste e tante altre piccole e grandi storie a tenere accesa l'idea nata in quel pomeriggio di gennaio e a far crescere solo la voglia di continuare, per altre "Buonenotti".


Masciarelli Sport Cycling Center, San Giovanni Teatino

«Tutto quello che vedi, tutto quello che ho e, vorrei dire, quel che sono, lo devo alla fatica e allo spirito di sacrificio di due persone umili: mio padre e mia madre»: sono parole di una gratitudine genuina di un figlio verso i propri genitori che, a San Giovanni Teatino, in via Cavour 71, nei locali di "Masciarelli Sport Cycling Center", si sentono pronunciare spesso. A noi le dice Simone Masciarelli, figlio di Palmiro, fratello di Francesco e Andrea, classe 1980, ciclista professionista dal 2000 al 2013. Poi si concede un viaggio indietro nel tempo, mentre indica il padre, settantuno anni, ancora in officina, dal mattino alla sera, a fare il suo "mestiere": «Quell'uomo è vissuto e vive rendendo tangibile quotidianamente il significato dell'applicazione del sacrificio e della dedizione: ciclista o meno, è una sua componente. Sto pensando, ad esempio, al Fiandre del 1984, quando papà era in fuga e sul Grammont, al rifornimento, il direttore sportivo gli disse: "Vai, giocatela, Moser non ne ha oggi. Non aspettarlo". Non capì, si fece riprendere, poi, sul Bosberg, a quindici, forse venti chilometri dal traguardo, quando comprese che Francesco non avrebbe potuto fare risultato, ripartì: concluse al sesto posto. Un Fiandre può cambiare la carriera di un ciclista, avesse proseguito con la fuga, chissà. Ma non era da lui, il suo sentire era quello di mettersi a disposizione, di lavorare duro. Negli anni ottanta, ha pensato a questa attività mentre ancora correva: veniva qui alla fine degli allenamenti, quando era a casa dalle gare e si metteva a lavorare. Queste mura sono venute su grazie a lui e a mia madre che, con tre bambini ancora piccoli, si dava da fare perché potesse esistere».

A Simone, Francesco e Andrea, il padre non ha mai detto molto del ciclismo e, sebbene tutti e tre siano diventati ciclisti, non è stato lui a incoraggiarli a seguire questa via, forse perché l'aveva percorsa in tempi non sospetti. Le persone, però, parlavano, parlavano e parlavano continuamente, come fanno sempre, come fanno ancora oggi a proposito dei figli di Simone, altri due ciclisti in divenire che sentono, spesso, le medesime parole: «Non volevo questo per loro, ho provato a fargli scoprire altri sport, altre possibilità, ma pare quasi una questione genetica, una calamita. Non volevo perché so quel che si dice quando si ha un certo cognome, quasi bastasse quello per fare strada e so anche quanto si soffra. Io ed i miei fratelli facevamo il doppio della fatica, perché non solo dovevamo conseguire un risultato sportivo, ma volevamo fare anche in modo che fosse talmente forte, talmente evidente, da non lasciare spazio a dubbi, a chiacchiere. Perché non è più facile, non lo è mai stato, anzi, può essere più difficile. Erano i tempi in cui, anche dopo una vittoria, arrivavano i rimproveri, perché non era solo importante vincere, era importante come si arrivava al risultato». Palmiro ha proseguito la sua strada in silenzio e, silenziosamente ha invitato anche i suoi figli a fare lo stesso, sarà per questo che «per molti anni ha fatto fatica "a mollare la presa", a lasciarsi andare, a fidarsi completamente ed a lasciarci libertà ed iniziativa fra queste pareti. Credo sia normale, è la sua creatura. Ora lo fa ed io mi sento sempre più responsabile ogni volta in cui vedo la cura che mette su quelle biciclette, nonostante siano passati decenni e tutto sia cambiato. Papà studia, conosce e molti problemi complessi è ancora lui a risolverli».


Masciarelli Sport Cycling Center si estende su una superficie di circa mille metri quadrati ed il progetto è stato, sin dagli inizi, quello di creare uno spazio in cui un pedalatore potesse avere a disposizione tutto quel che è necessario per approcciarsi alla bicicletta. Un luogo, insomma, da cui iniziare a porre le basi per costruire un rapporto, perché quello con la bicicletta è un rapporto a tutti gli effetti, una conoscenza che si amplia con il trascorrere dei chilometri: «In quest'ottica, ritengo che le persone spesso trascurino l'aspetto biomeccanico, della posizione in sella ed è un errore. Anzi, talvolta è la radice del motivo per cui si smette di pedalare. Il ciclismo è vita lenta, in sella si passano ore ed ore e, per fare questa scelta, la bicicletta deve essere un posto "comodo", la fatica, semmai verrà dai percorsi. Laddove non si fa questo passo, diventa sofferenza solo il posizionamento. Il discorso è universale, cambiano le sfumature, dal corridore del Tour de France, alla signora che pedala nel centro cittadino. Il sentirsi a proprio agio deve essere il comune traguardo ed il nostro tempo, a mio avviso, dobbiamo investirlo proprio lì».
All'ingresso, si scorge subito tutto lo spazio espositivo dedicato alle biciclette, nel retro la sala biomeccanica dove lavora Andrea e la palestra di Francesco, sul lato sinistro, invece, tutto quel che concerne le attività, i servizi, l'officina, l'accettazione, l'abbigliamento ed i materiali, mentre la parte commerciale è sul lato destro. «Il nostro è un negozio di storia e di storie, questa è la definizione che preferisco, perché c'è la storia del ciclismo, quella di cui abbiamo fatto parte, come qualunque ciclista, e ci sono le nostre piccole storie, che, talvolta, così piccole non sono, per l'importanza e l'impatto che hanno avuto su di noi, sulla nostra carriera o sulle nostre giornate».

Allora è bello ripetere quella frase che Palmiro dice spesso ed è come un "grazie" al capitano di una vita: «Forse Moser avrà vinto molto anche grazie a me, ma, di certo, io ho vinto tutto quello che ho vinto grazie a lui, perché era un capitano che sapeva ricompensare del lavoro svolto, dell'impegno profuso». Ora, dice Simone, forse c'è più individualismo, minore disponibilità a mettersi in gioco per qualcosa che, alla fine, non comporti un risultato personale, eppure la storia di squadre come UAE Team Emirates e Visma Lease a Bike, prosegue, contiene il medesimo nocciolo duro: atleti che potrebbero essere capitani in qualunque altra squadra che, tuttavia, decidono di mettersi al servizio, di lavorare per una causa, "anima e corpo". Palmiro Masciarelli avrebbe potuto essere uno di loro e alcuni luoghi sono testimoni di questa opportunità, la Spagna, ad esempio, e Barcellona in particolare, con quel Campionato del Mondo concluso al settimo posto, in un finale da solo, senza i suoi capitani, Moser, Saronni, Argentin che, piano piano, avevano ceduto il passo. «Sono gare che cambiano la vita di un atleta, non so cosa sarebbe successo se avesse vinto il Mondiale oppure il Fiandre. Non so nemmeno se sarebbe successo qualcosa di diverso, perché mio padre è così, in fondo». In questo modo ha insegnato l'onestà ai propri figli. Sono tornati tutti e tre in quel negozio: in particolare, Simone, che ha smesso di correre a causa di un problema all'arteria iliaca, si è inserito in quella dimensione quando vi lavoravano più di dieci persone ed è dovuto partire da zero, perché il cambiamento era importante e di commercio lui non sapeva praticamente nulla. Ci è riuscito, se è vero che, attualmente, fa ciò che prima faceva il padre e, come lui, cerca di accontentare tutti. Non ci pensava, non poteva pensarci, non poteva crederci. Andrea ha studiato molto, si è specializzato in biomeccanica, Francesco è volato in California per curare un problema di salute, poi è tornato in Italia ed anche lui si è messo a studiare, per diventare un preparatore. Ma di studiare non si finisce mai.
Simone Masciarelli, intanto, sta provando a riprendersi tante cose di cui l'aveva privato la vita da atleta, in primo luogo i viaggi consapevoli, quelli in cui si sa che si sta viaggiando e si riesce a guardarsi attorno, a memorizzare paesaggi ed a scattare fotografie. Talvolta anche a prendersi il tempo per consigliare un posto da visitare: «In Abruzzo siamo fortunati, tra mare e montagne con varie sfumature nel mezzo. Forse, il preferito è la Costa dei Trabocchi, ma c'è tanto altro e ci sono le strutture per godere di quel che c'è». Ogni mattina, spiega Simone, ci si sveglia con l'entusiasmo di andare a fare il proprio dovere, anche nelle difficoltà, come succedeva quando erano tutti ciclisti, e questo è uno degli aspetti che preferisce, vista la passione che implica e visto che non tutti possono avere questa fortuna, possono plasmarla, crearla. La storia alle loro spalle li rende, spesso, dei punti di riferimento per chi sceglie la bicicletta e, in fondo, se dovessero avere un desiderio non cambierebbero molto, non cambierebbero nulla, anzi. Vorrebbero che, nei prossimi anni, potesse restare così, perché avere un'attività non è mai semplice e, in questi anni, anzi, è molto difficile e confermarsi è già una buona speranza.
Allora torneremo qui, a San Giovanni Teatino, in via Cavour 71, e cercheremo Palmiro che gira inquieto, tenendo tutto sott'occhio, Simone, con il suo senso di responsabilità, Andrea e Francesco, ognuno attento al proprio ruolo, in ogni dettaglio. Torneremo, vedremo tutto questo e sapremo che non è cambiato nulla. Come dice e sogna Simone Masciarelli.


Il monumentale dei Mondiali di ciclismo 2024

 

[I NOMI DEI FAVORITI E DEI PRETENDI ALLE MEDAGLIE POTREBBERO SUBIRE VARIAZIONI: NON TUTTE LE SELEZIONI SONO STATE ANCORA UFFICIALIZZATE]

C’è un evento che, almeno a chi scrive, scalda il cuore più di ogni altro. Uno di quelli che il romantico autore sogna la notte, manco fosse lui a dover correre, sperando che i colori che indossa, quelli della propria nazionale, si possano tramutare, passato quell’istante finale, quella striscia incollata sull'asfalto da qualche addetto, nella maglia iridata. Carbo load per la preparazione: un piatto enorme di pasta al forno e quello che avanza il giorno dopo lo si mette sulla pizza fatta in casa. Lievito madre. Sarà per questo che, la notte, il nostro, sogna biciclette, salite e fatica o più esplicitamente sogna un turbolento Mondiale di ciclismo? Chissà, ma non è ciò che importa, il nostro si è rigirato nel letto tutta la notte convinto che qualche insetto lo stesse pizzicando e alla fine, invece, si è ricordato che il Mondiale stava davvero arrivando, stavolta nella sua ormai consueta ubicazione in calendario, dopo l’anticipo del 2023.

Da domenica 22 a domenica 29 settembre, quindi, eccoli (in tutto il loro splendore?) i Mondiali su strada di ciclismo a Zurigo, un posto strano, per nulla brutto, con quel Lago in mezzo a fare da punto di riferimento in molte corse e che già sappiamo verrà spesso inquadrato in mezzo ad azioni salienti durante la corsa. Facciamo un pronostico prima di addentrarci in questioni più tecniche: qualcuno avrebbe voglia di contare quante volte le immagini si soffermeranno sul Lago? Noi spariamo una cifra: intorno a un centinaio, o poco più. Tuttavia, oltre all’inserimento più classico - almeno dalla riforma del calendario - del Mondiale verso fine settembre, torna pure la solita, vecchia, sporca, persino noiosa formula, così tradizionale fino a farsi amare per abitudine: la rassegna verrà infatti chiusa dalla prova in linea maschile, in un crescendo che, visto anche il percorso, impegnativo (molto) almeno sulla carta, e i suoi partecipanti, promette grande spettacolo.

Quello che segue, nei prossimi capitoli, vuole essere una breve analisi di quello che sarà: breve non tanto per rispondere alle esigenze del lettore o addirittura perché crediamo alla regola che più si scrive e meno si legge, quanto perché, al momento della preparazione e dell’uscita, ancora non sono certi tutti i nomi presenti o le selezioni ufficiali, in particolare modo per le prove in linea in programma al termine della prossima settimana -ma magari per quello ci adopereremo nella prossima newsletter- e, come detto in apertura, la ripetizione giova più all’autore del pezzo che a voi, cari lettori. Portate pazienza, verrà aggiornata mano a mano che saranno annunciati i nomi definitivi al via delle varie corse.

Quindi, gara per gara, ecco orario, percorso e possibili favoriti del Mondiale di Zurigo 2024. Una serie di spunti e pronostici fatti col sorriso e la rassegnazione più totale, consapevoli che al solito ne beccheremo pochi, ma l’importante, come dice il giocatore d’azzardo, è divertirsi.

DOMENICA 22

CRONOMETRO INDIVIDUALE FEMMINILE ÉLITE E UNDER 23

ORARIO 11.51

DISTANZA 29,9 KM

DISLIVELLO 327m

PERCORSO: da Gossau a Zurigo

FAVORITE

Difficile non immaginare una sfida tra Chloè Dygert e Grace Brown: l’australiana campionessa olimpica, medaglia d’argento nelle ultime due prove a cronometro al mondiale, ha annunciato che a fine stagione appenderà la bici al chiodo e quindi avrà motivazioni maggiori su un percorso mosso inizialmente, ma che nella seconda metà diventa un bel piattone quasi dritto che sale verso nord costeggiando il Lago di Zurigo e che pare sorridere di più all’avversaria americana. In alternativa alle due o a giocarsi un terzo posto sul podio i nomi, gira e rigira, sono sempre quelli: Lotte Kopecky, Belgio, fresca di titolo europeo, cresciuta a dismisura anche in questa specialità, punta come minimo a migliorare il 9° posto di due anni fa a Wollongong, quando a vincere fu Ellen van Dijk, Paesi Bassi, altra outsider per il podio, ma tutto dipende da come sta - all’Europeo, chiuso proprio alle spalle della belga, ha dimostrato di essere in crescita rispetto ai Giochi Olimpici. Partono più defilate, ma non sconfitte: Demi Vollering, Paesi Bassi, ciclista per la quale molti di noi hanno un debole, ma che probabilmente si giocherà le cartucce migliori nella prova in linea, Christina Schweinberger, Austria, Juliette Labous, Francia, Anna Henderson, Gran Bretagna. Curiosità intorno alla partecipazione della veterana statunitense Amber Neben, alla sua diciassettesima volta al Mondiale a cronometro, vinto due volte, senza essere salita mai altre volte sul podio, ma con ben quattro quarti posti e solo due piazzamenti fuori dalle dieci. Il suo primo Mondiale fu nel 2002 a Zolder, arrivò quindicesima, aveva 27 anni. In altre categorie ci sono figli o figlie, nipoti, di colleghe e colleghi di quella volta. L’Italia schiera Vittoria Guazzini e Gaia Masetti. Speranze di medaglia pressocché nulle, con la prima che punta ad avvicinare la top ten, o magari entrarci, la seconda, esordiente in una rassegna iridata, a offrire una prestazione dignitosa e magari provare a inserirsi in alta classifica nella categoria Under 23. La corsa, infatti, è valida anche per il titolo Under 23 (enorme stortura: un titolo dato a una categoria che, di fatto, nel ciclismo femminile non esiste) dove le più accreditate sembrano essere, più o meno in quest’ordine: Antonia Niedermaier, Germania, Cédrine Kerbaol, Francia, Anniina Ahtosalo, Finlandia, Julie De Wilde, Belgio, Marie Schrieber, Lussemburgo, e Jasmin Liecht, Svizzera. Quest’ultima potrebbe portare la prima delle (tante? Loro se ne aspettano molte) medaglie alla nazionale di casa, ma ha pure il difficile compito di non far rimpiangere l’assenza dell’atleta rossocrociata più rappresentativa e che probabilmente si sarebbe giocata una medaglia nella gara élite, sia a cronometro che in linea: Marlen Reusser, ancora fuori per un grave infortunio subito tempo fa.

GRIGLIA FAVORITE

⭐⭐⭐⭐⭐ Dygert
⭐⭐⭐⭐ Brown
⭐⭐⭐ Kopecky, Schweinberger, van Dijk
⭐⭐ Vollering, Henderson
⭐ Labous, Niedermaier

CRONOMETRO INDIVIDUALE MASCHILE ÉLITE

ORARIO dalle 14.52

DISTANZA 46,1 KM

DISLIVELLO 413m

PERCORSO: da Oerlikon-Zurigo 46,1km

FAVORITI

46,1 chilometri da percorrere a ferro di cavallo e che uniscono il quartiere Oerlikon di Zurigo con il celebre lungolago della città svizzera: in mezzo un paio di salitelle che spaccheranno ritmo e gambe. Prova (abbastanza) lunga e per grandi cilindrate con il vento che, in caso di bizze, potrebbe pure ribaltare la situazione, condizionare l'andamento generale della prova e la sua classifica finale, mescolare le carte. E proprio sulla carta, ma non solo, Remco Evenepoel dal Belgio arriva in Svizzera per ripartire subito, ma come favorito assoluto. Dovrebbe avere tre avversari che si contenderanno gli altri due posti sul podio: il giovanissimo Joshua Tarling, Gran Bretagna, già bronzo un anno fa, Primož Roglič, Slovenia, vediamo come starà dopo le fatiche della Vuelta, e il mezzano Filippo Ganna, che ha dichiarato tempo fa di essere stanco e provato da questa stagione tanto che la sua presenza è stata pure in dubbio. Dietro i quattro proverà a sfruttare incertezze, ombre o cali Stefan Küng, Svizzera, deluso dall’argento europeo, che cerca la sua terza medaglia iridata in carriera nelle prove contro il tempo, lui che spesso ci è arrivato tra i favoriti e altrettanto spesso ha deluso. Corridore a volte affidabile, altrettante volte indecifrabile e che sta subendo una trasformazione negli ultimi anni da cronoman quasi duro e puro a grande piazzato nelle classiche più importanti e più impegnative, fondista tra i più forti in gruppo, è migliorato pure in salita - occhio quindi a Küng la domenica successiva. Poi ancora: Brandon McNulty, Stati Uniti, uscito malconcio dalla Vuelta, ma di recente autore di tempi strepitosi caricati su Strava e il suo connazionale Magnus Sheffield, corridore che deve ancora arrivare definitivamente, ma in quanto a cilindrata ci siamo già. Mikkel Bjerg (Danimarca), Nelson Oliveira (Portogallo), una sorta di garanzia assoluta di piazzamento nelle gare secche dei mondiali, Jay Vine (Australia), Stefan Bissegger (Svizzera), Raul Garcia Pierna (Spagna), Victor Campenaerts (Belgio) e perché no, anche il nostro Edoardo Affini, di recente vincitore del titolo europeo e forse nella forma migliore della sua vita sono nomi che possono provare il colpo a effetto. Da seguire, per una sporca top ten, anche Derek Gee (Canada), Bruno Armirail (Francia), Mathias Vacek (Cechia) e Søren Wærenskjold (Norvegia). Occhio alle sorprese, Tobias Foss a Wollongong nel 2022, insegna.

GRIGLIA FAVORITI

⭐⭐⭐⭐⭐ Evenepoel
⭐⭐⭐⭐ Ganna, Tarling, Roglič
⭐⭐⭐ Küng, McNulty
⭐⭐ Sheffield, Oliveira, Campenaerts
⭐Affini, Vine, Bjerg, Vacek

LUNEDÌ 23 SETTEMBRE

CRONOMETRO INDIVIDUALE MASCHILE JUNIOR

ORARIO 9:15-11:30

DISTANZA 24,9KM

DISLIVELLO 40m

PERCORSO ZURIGO-ZURIGO

FAVORITI

Dritta e piatta lungo il lago e dalla durata di 24,9km. Non semplice indicare i favoriti in una categoria dove regnano equilibrio e incertezze, e dove sono state poche le sfide fra tutti i nomi più importanti. Il Belgio lancia Jasper Schoofs (con lui Matisse Van Kerckhove, da annotare non solo per il nome, bellissimo, ma anche perché potrebbe puntare a una top ten): sarà di nuovo testa a testa come al recente Europeo con il neerlandese Michiel Mouris? Crediamo di no, o comunque non solo loro per il podio e lo spieghiamo anche in tre motivi. Intanto perché il livello è più alto, così come la posta in gioco, e poi perché, come abbiamo detto, in queste corse tra gli junior vanno tutti così forte che un giorno primeggia uno e un giorno l’altro. Il terzo motivo, ma ci arriveremo poi, è la presenza di colui che sposta in alto l’asticella e lui sì parte, davvero, con i favori del pronostico. Sono tanti i corridori che non solo potranno salire sul podio, ma anche vincere: la Francia con il fenomenale Paul Seixas - uno dei due, tre più forti juniores al mondo per costanza e livello di risultati, anche se lo vediamo più favorito nella prova in linea - e con lui l’interessante Louis Chaleil, suo compagno di squadra con la maglia della Decathlon. La Danimarca, ecco, ci siamo, è al via con quel fuoriclasse che porta il nome di Albert Whiten Philipsen e con Carl Just Pedersen, ennesimo Pedersen del ciclismo di vertice danese. Gli Stati Uniti schierano l'atteso figlio d’arte Ashlin Barry, forse potrebbe avvicinare la medaglia più qui che nella prova in linea, la Norvegia Marius Innhaug Dahl e Felix Ørn-Kristoff, la Spagna Hector Alvarez e Adria Pericas, futuro già segnato nel World Tour per entrambi, la Germania i temibili Paul Fitzke e Ian Kings, con quest’ultimo che ha già firmato con la Visma Devo, i Paesi Bassi, oltre al già citato Mouris, campione europeo in carica, avranno tra le proprie fila uno dei corridori di spicco per continuità di questo biennio, ovvero Senna Remijn, ragazzo che va molto forte anche nel ciclocross. Tutti i nomi fatti sono possibili medagliati. Tra gli outsider, invece, quindi un gradino sotto, segnaliamo l'irlandese Seth Dunwoody, il polacco Dominik Kryskow, il britannico Dylan Sage e il neozelandese Reef Roberts. Per fare del corridore un mestiere, come spesso accade ai ragazzi che si cimentano nel ciclismo in Oceania, Roberts è dovuto partire verso l'Europa dove è arrivato a inizio stagione, per la precisione in Francia e si è già fatto notare per risultati di peso. Estremamente completo e già capace di ottenere risultati importanti in questa sua prima vera e propria stagione su strada - ha battuto Seixas ed Alvarez, tanto per citare due dei cinque più forti della categoria - ha un nome meraviglioso, Reef, ovvero, barriera corallina, che già lo qualifica come uno dei corridori di culto e da seguire nel futuro. Infine, difficile per l’italia salire sul podio: i due che ci proveranno sono Lorenzo Finn e Andrea Donati, ottenere due piazzamenti nei 10 sarebbe comunque un risultato di spicco.

GRIGLIA FAVORITI

⭐⭐⭐⭐⭐ A.W. Philipsen
⭐⭐⭐⭐ Mouris, Schoofs
⭐⭐⭐ Chaleil, Roberts
⭐⭐ Ørn-Kristoff, Fietzke, Seixas
⭐ Kings, Dunwoody, Sage, Finn, Barry, Dahl, Alvarez

CRONOMETRO INDIVIDUALE MASCHILE UNDER 23

ORARIO 14.45-17.30

DISTANZA 29.9 KM

DISLIVELLO 327m

PERCORSO Gossau Zurigo-Zurigo

FAVORITI

Trenta chilometri di corsa per gli Under 23, prova che vedrà al via alcuni professionisti del World Tour (forse, si spera, per l'ultima volta) che partiranno come favoriti: su tutti Alec Segaert, Belgio. «Voglio vincere e chiudere un cerchio», ha detto il tre volte campione europeo a cronometro tra gli Under 23 che nelle ultime due edizioni del Mondiale è partito come principale pretendente alla medaglia d’oro finendo per uscire sconfitto prima contro Søren Wærenskjold e poi contro Lorenzo Milesi. Gli avversari, stavolta? Tre UAE Team Emirates: Jan Christen, Svizzera, vittima di una bruttissima caduta alla Coppa Sabatini, ma ha recuperato e si presenta al via, quindi siamo sicuri avrà la gamba per provare a salire sul podio. Antonio Morgado, Portogallo, talento ancora inesplorato, forse dei tre UAE il meno forte a cronometro in questo momento, diamante pregiatissimo, infine Isaac Del Toro, Messico, quello che ha dato maggiore garanzia nelle prove contro il tempo in stagione e che potrebbe sfruttare pure l'aver corso la Vuelta recentemente. A loro si aggiunge il panzerone svedese Jakob Söderqvist, uno che in futuro potrà diventare dominatore della specialità: ricorda per certi versi Tony Martin. Outsider per il podio: gli spagnoli Markel Beloki e Ivan Romeo (Team Movistar) sono nomi da seguire, soprattutto il secondo ha già discreta esperienza, un motore rodato e a inizio stagione andava forte anche contro avversari di un certo livello; Adam Rafferty, irlandese, come Beloki corre tra i professionisti in maglia EF, ha i numeri per salire sul podio, non c’è dubbio, mentre appare impresa più complicata per i due americani della Ineos AJ August (professionista da inizio stagione e a tempo pieno) e Artem Schmidt (lo è da settembre) i quali potrebbero puntare, però, a una top ten, in lotta magari con il regolarissimo svizzero Fabian Weiss, l'olandese Wessel Mouris, già bronzo pochi giorni fa all'Europeo, i due italiani, Bryan Olivo e Andrea Raccagni Noviero. Il canadese Michael Leonard, anche lui professionista con la Ineos, tra gli ultimi citati è quello con più chance di poter salire sul podio, più defilati, invece, il tedesco Niklas Behrens, una delle sorprese della stagione, l'altro belga, Robin Orins, premio 2024 alla regolarità, Ben Wiggins, Gran Bretagna, il quale però arriva da una prima stagione tra gli Under 23 piena di problemi e gare non concluse, e il lituano Aivaras Mikutis.

GRIGLIA FAVORITI

⭐⭐⭐⭐⭐ Segaert
⭐⭐⭐⭐ Del Toro, Söderqvist
⭐⭐⭐ Christen, Morgado
⭐⭐ A. Rafferty, Leonard
⭐ Romeo, Orins, Mikutis, Raccagni Noviero, W.Mouris, AJ August

MARTEDì 24 SETTEMBRE

CRONOMETRO INDIVIDUALE DONNE JUNIOR

ORARIO 8:30-10:30

DISTANZA 18,8KM

DISLIVELLO 36m

PERCORSO Zurigo-Zurigo

FAVORITE

Da Sechseläutenplatz e ritorno per la cronometro di martedì 24 settembre, unica gara in programma quel giorno. C’è affollamento anche qui, per la prova junior della ragazze Under 19, difficile scegliere una favorita assoluta, ma se dovessimo fare un nome sceglieremmo quello della neerlandese Fee Knaven. La classe 2006 ha conquistato di recente l’argento europeo nella prova contro il tempo a 1’’ dall’oro di Paul Ostiz, spagnola, altra pretendente alla vittoria. Megan Arens sempre per restare nei Paesi Bassi, la britannica Imogen Wolff, ma soprattutto la sua compagna di squadra, futura stella del ciclismo mondiale, Cat Ferguson, oltre a una delle sue grandi rivali della categoria, Celia Gery, Francia, alle due australiane Emily Dixon e Lauren Bates, altre accreditate a salire sul podio. Lara Liehner, tra le atlete di casa, Viktória Chladonová, Slovacchia, Lidia Cusack, USA, Ilken Seynave e Luca Vierstraete, Belgio, Kamilla Aasebø, Norvegia, la tedesca Messane Bräutigam, la ceca Nela Kankovska e l’irlandese Lucy Bénézet Minns, possibili outsider da medaglia. L’Italia schiera Misia Belotti ed Elena De Laurentiis con l’ obiettivo tutt’altro che semplice di riuscire ad avvicinare una posizione a ridosso delle dieci.

GRIGLIA FAVORITE
⭐⭐⭐⭐⭐ Knaven, Ferguson
⭐⭐⭐⭐ Wolff
⭐⭐⭐Ostiz, Lagenbarg
⭐⭐ Gery, Bénézet Minns, Bates, Dixon
⭐Bräutigam, Kankovska, Chladonová, Cusack, Seynave, Vierstraete, Aasebø

MERCOLEDI 25 SETTEMBRE

STAFFETTA MISTA

ORARIO 14-17:30

DISTANZA 53,7KM

PERCORSO ZURIGO-ZURIGO

FAVORITE

Assente il Belgio, con la testa, le gambe e le dichiarazioni, già proiettato alle prove in linea, ma pure i Paesi Bassi, saranno Italia e Francia le principali favorite. L'Italia punta all'oro e bisogna affermarlo senza troppi giri di parole. Una squadra che può contare su quattro medaglie su sei tra europeo e mondiale a cronometro Ganna, Affini e Cattaneo è nettamente la più forte in campo maschile, dove servirà scavare un solco: ai ragazzi si aggiungo Longo Borghini, Realini e Paladin per completare l'opera. La Svizzera campione in carica è senza Küng- punta tutto su domenica, al suo posto l'Under 23 Weiss- e ormai da tempo senza Reusser, paga due assenze che peseranno moltissimo anche nella corsa al podio. La Francia con Armirail, Guernelec, Thomas al maschile, Cordon Ragot, Kerbaol e Labous al femminile fa paura e grazie alla frazione femminile è persino più equilibrata dell'Italia ed è la principale antagonista della selezione azzurra. Lotta alle medaglie comunque aperta anche ad Australia (Matthews, O'Connor, Vine, Brown, Chapman, Roseman-Gannon), Stati Uniti (McNulty, Powless, Vermaerke, Ehrlich, Neben, Stephens) e Germania (Brenner, Heidemann, Schachmann, Koch, Lippert e Niedermaier). Più defilate, invece, la Danimarca (con Bjerg, ma senza Asgreen) e l'Austria con Christina Schweinberger.

GRIGLIA FAVORITE
⭐⭐⭐⭐⭐Italia
⭐⭐⭐⭐ Francia
⭐⭐⭐ Australia
⭐⭐ Germania, Svizzera
⭐ Stati Uniti, Danimarca, Austria

GIOVEDI 26 SETTEMBRE

PROVA IN LINEA JUNIOR DONNE

 

ORARIO 10.00-12.00

DISTANZA 73,6KM (+1,2KM)

DISLIVELLO 972m

PERCORSO: DA USTER A ZURIGO

Prima parte in linea e poi un giro e mezzo del circuito finale.

FAVORITE

Iniziamo a conoscere meglio il percorso che ospiterà tutte le prove in linea da qui al fine settimana, seppure le ragazze Under 19, dopo una prima parte di 30km circa, lo affronteranno solo per un giro completo (27 km), che sarà comunque quello decisivo vista la presenza di diversi strappi che non danno respiro, come i due iniziali, Zürichbergstrasse (1,1 km all’8%, max. 15%) e quello di Witikon (2,3 km al 5,7%, max. 9%), con l’ultimo che si rivelerà spesso quello decisivo e che arriverà a circa sette chilometri dal traguardo. Parlando in generale: il percorso che, almeno sulla carta, appare esigente, favorisce corridori dotati di resistenza, fondo, cambio di passo. Nel caso che dall'ultima salitella all'arrivo nessuno fosse capace di fare la differenza, allora premierebbe chi, alle caratteristiche sopra elencate, saprà anche aggiungere lo spunto veloce. Questo vale per tutte le gare in programma seppure con le dovute differenze di approccio e ritmi. Venendo alla prova junior femminile: favorite d’obbligo: Cat Ferguson (Gran Bretagna) e Celia Gery (Francia) ma la sfida si potrebbe allargare ad altre francesi (Melanie Dupin, Nina Lavenu, oltre all’interessante biker Amandine Muller) e britanniche (Imogen Wolff su tutte), e poi ancora alle ceche (Stepanka Dubcova, Daniela Hezinova e Nela Kankovska), alle solite olandesi, di nuovo con Fee Knaven, Megan Arens e Puck Langenbarg, ma in generale tutte potenzialmente atlete da medaglia, dalla slovacca Viktória Chladonová, alla belga Auke De Buysser o alla canadese Alexandra Volstad. Anche qui l’Italia non parte con grandi speranze di medaglia, anche se Chantal Pegolo, Silvia Milesi, Eleonora La Bella e Giada Silo proveranno a dire la loro in una gara che non vede un'italiana sul podio dal 2017 quando Elena Pirrone vinse con un bellissimo attacco da lontano e Letizia Paternoster chiuse terza.

GRIGLIA FAVORITE
⭐⭐⭐⭐⭐ Ferguson
⭐⭐⭐⭐ Gery, Chladonová
⭐⭐⭐ Arens, Langenbarg, Wolff
⭐⭐ Volstad, De Buysser, Hezinova, Cusack
⭐ Silo, Lopez de Roman, Kanokovska, Bräutigam, Muller, Blackburn

PROVA IN LINEA JUNIOR MASCHILE

ORARIO 14:15-17:15

DISTANZA 127.2 KM (+1,2KM)

DISLIVELLO 1.913m

PERCORSO DA USTER A ZURIGO

Prima parte in linea e poi tre giri e mezzo del circuito finale.

Finalmente, per la prima volta in stagione, vedremo il meglio degli Under 19 affrontarsi faccia faccia con diversi corridori che passeranno di categoria entro pochi mesi, ma non solo, alcuni di loro li vedremo a breve pure muovere i primi passi tra i professionisti, questa è la tendenza, ormai. Percorso selettivo, dove da ore sta cadendo diversa pioggia, e davvero tanti nomi da seguire: Hector Alvarez e Adria Pericas (Spagna), Lorenzo Finn, ma occhio anche ad Andrea Bessega ed Enea Sambinello (Italia), Felix Ørn-Kristoff (Norvegia), Pavel Sumpik (Repubblica Ceca). Tutti i francesi: Paul Seixas, ovviamente, ma anche Aubin Sparfel, Paul ThierryElliot Boulet e Baptiste Grégoire (Francia), Sebastian Grindley ed Elliott Rowe (Gran Bretagna), Jasper Schoofs, Edouarde Claisse, Jenthe Verstraete e Loic Boussemaere (Belgio). Poi ancora: Kasper Borremans (Finlandia), Paul Fietzke, Benedikt Benz e Ian Kings (Germania), Pavel Gosczurny (Polonia) Ko Molenaar e Senna Remijn (Paesi Bassi), Seth Dunwoody e Patrick Casey (Irlanda), Erzen Valjavec (Slovenia), Reef Roberts (Nuova Zelanda) Ashlin Barry (USA), questo , forse, tra i nomi indicati è quello che avrebbe preferito un percorso meno esigente da un punto di vista altimetrico, ma occhio a portarselo dietro allo sprint. Infine la Danimarca. Squadra al solito compatta e fortissima, che proverà ad accendere, come si confà al loro modo di correre, la corsa, sin dai primi metri dell’ingresso nel circuito finale (che percorreranno in maniera completa tre volte). Al via, per i danesi, Theodor August Clemmensen, Anton Low Larsen, Noah Moller Andersen, tutti outsider per una vittoria finale, ma soprattutto Albert Withen Philipsen. Ci siamo tenuti il meglio per la fine: il danese, campione del mondo in carica, è il favorito numero 1 della corsa. Potrà staccare gli avversari di potenza oppure batterli in uno sprint ristretto, ma se dovessimo scommettere due centesimi lo faremmo sulla prima ipotesi: l’arrivo in solitaria proprio come un anno fa a Glasgow e come il suo idolo, Mathieu van der Poel.

GRIGLIA FAVORITI
⭐⭐⭐⭐⭐ A.W. Philipsen
⭐⭐⭐⭐ Seixas, Finn, Alvarez
⭐⭐⭐ Pericas, Schoofs, Sumpik, Fietzke
⭐⭐ Ørn-Kristoff, Clemmensen, Gosczurny, Boussemaere, Remijn
⭐ Claisse, Thierry, Boulet, Grégoire, Bessega, Dunwoody, Barry, Casey

VENERDÌ 27 SETTEMBRE

PROVA IN LINEA MASCHILE UNDER 23

ORARIO 12.45-16.45

DISTANZA 173.6KM (+1.2 KM)

DISLIVELLO 2.483m

PERCORSO DA USTER A ZURIGO

Prima parte in linea e poi quattro giri e mezzo del circuito finale.

FAVORITI

La prova per gli Under 23 vedrà, come nella cronometro, al via diversi corridori già presenti persino nel World Tour e alcuni di loro saranno presenti con grandi ambizioni. Come nella cronometro i tre UAE, Antonio Morgado (Portogallo, da seguire anche Alexander Montez e Daniel Lima), Isaac Del Toro (Messico) e Jan Christen (Svizzera, in coppia col fratello Fabio proveranno a fare tanti danni alla corsa) saranno fra i corridori da battere, ma a seguire i tanti nomi che si contenderanno le medaglie: a leggerli capirete quanto sarà alto ed equilibrato il livello. Il Belgio schiera cinque tra Jarno Widar, Robin Orins, Aaron Dockx, William Lecerf, Alec Segaert ed Emiel Vestrynge: ognuno di questi corridori è in corsa per vincere. Riuscirà il Belgio a sfatare il tabù della gara Under 23? Mai una vittoria a un Mondiale, pur arrivandoci spesso da squadra da battere. L’ultima medaglia è quella del compianto Lambrecht, argento a Innsbruck nel 2018 e prima di lui a medaglia solo Van Asbroeck, bronzo nel 2012 e Vansummeren argento nel 2003. Mai una vittoria a causa spesso di controprestazioni individuali o disastri di squadra. La Francia avrà in Ewen Costiou il capitano, quest’anno è andato forte nella prima parte di stagione, vincendo anche una corsa e spesso è stato in fuga al Giro. Con corsa resa dura magari dal maltempo rischia di essere uno dei favoriti assoluti. Thibaud Gruel e Noa Isidore, invece, aspetteranno un eventuale sprint ristretto, con il primo che è dato in grande forma. Gran Bretagna con uno squadrone: Joe Blackmore è una delle rivelazioni stagionali, ha vinto tra i professionisti dove ha anche ottenuto piazzamenti in semi classiche in Belgio, ha conquistato l’Avenir, va forte in salita, nelle corse di un giorno e sa pure sprintare. Corridore a tutto tondo come non ce lo saremmo aspettati. Caratteristiche simili, ma in proporzione è meno forte, Bob Donaldson, altra carta pericolosa in uno sprint ristretto così come “il van Aert britannico” Matthew Brennan che a tratti in questa stagione ha impressionato sia nelle salite brevi che allo sprint. Un tridente niente male. Anche l’Italia porta tre ragazzi già tra i professionisti e la squadra punta, seppure non sarà facile, il livello è alto, a una medaglia. Giulio Pellizzari, che avrebbe fatto la sua figura anche nella nazionale di Bennati, sarà deputato a fare corsa dura e a marcare quelli come lui cercheranno di selezionare il gruppo e andare via; Davide De Pretto e Francesco Busatto dovranno tenere duro - e ne hanno le caratteristiche - e magari far valere sul traguardo il loro spunto veloce. Poi c’è Simone Gualdi, uno dei migliori primo anno tra gli Under 23, corridore buono per tutti i tipi di gara, anche per entrare in fuga o aiutare la squadra, stesso discorso per Pietro Mattio, mentre Florian Kajamini, dovesse essere scelto lui, darà una mano agli altri o, dovesse servire, si muoverà nelle prime fasi di corsa. Ma dicevamo del livello alto e dei tanti pretendenti: la Spagna ha tre professionisti: Jaume Guardeno, Ivan Romeo e Igor Arrieta, più Pablo Torres, uno dei più forti corridori quest’anno tra gli Under: tutti e 4 preferiranno gara dura. Andrii Ponomar è la punta dell’Ucraina, ed è interessante anche la selezione statunitense con AJ August e Artem Shmidt per corsa dura, Cole Kessler per la fuga da lontano e Colby Simmons per la volata. Ancora: Gal Glivar capitano per la Slovenia, veloce e resistente, Martin Svrcek, bronzo a Glasgow, per la Slovacchia (ma occhio a Novak e Schwarzbacher), Matyas Kopecky per la Cechia - se lo si porta allo sprint sono guai, discorso simile che riguarda il neozelandese Lewis Bower.  C'è Fran Miholjevic, altro professionista che ha disputato la Vuelta di recente, per la Croazia, sicuramente ci proverà dalla media distanza e quindi sarà da seguire con attenzione e la Danimarca con Rasmus Pedersen (ma non solo, selezione forte e compatta come sempre). Ancora Alexander Hajek per l’Austria, Tim Torn Teutenberg (per la poco probabile volata), Emil Herzog (per corsa selettiva) e Niklas Behrens (anche lui cercherà l'azione buona da lontano) per la Germania e infine i Paesi Bassi, con corridori buoni per ogni situazione, ma soprattutto con Huub Artz e Tibor Del Grosso che partiranno verosimilmente con i gradi da capitano e tra i papabili per le medaglie.

GRIGLIA DEI FAVORITI
⭐⭐⭐⭐⭐ Morgado
⭐⭐⭐⭐ Del Toro, J. Christen
⭐⭐⭐ Del Grosso, Blackmore, De Pretto, Widar, F. Christen
⭐⭐ Dockx, Costiou, Gruel, Brennan, Pellizzari, Orins, Segaert, Artz
⭐ Lecerf, Miholjevic, Simmons, Behrens, Herzog, Kopecky, R. Pedersen, Herzog

SABATO 28 SETTEMBRE

PROVA DONNE ELITE (compreso under 23)

ORARIO 12.45-16.45

DISTANZA 154.1km (+1.2km)

DISLIVELLO 2.384m

PERCORSO DA USTER A ZURIGO

Prima parte in linea e poi quattro giri e mezzo del circuito finale.

FAVORITE

Inutile nascondersi, anche qui. Il grande duello dovrebbe essere tra Lotte Kopecky (Belgio) e Demi Vollering (Olanda): la prima "rischia", ammesso che sia un rischio, di fare doppietta consecutiva ad un Mondiale, dopo la vittoria dello scorso anno a Glasgow, la seconda, invece, dopo la delusione subito al Tour de France Femmes, superata da Katarzyna Niewiadoma (Polonia, altro nome da tenere d'occhio), nonostante un successo da ricordare all'Alpe d'Huez, avrà ancora più voglia di vincere. Al recente Tour de Romandie, ci è sembrato di assistere alle prove generali tra le due, aspettiamo la grande "prima". Nelle fila olandesi, tra l'altro, vi sarà anche Marianne Vos: carta da giocare nel caso in cui  servisse un piano b, magari con una corsa meno selettiva. Elisa Longo Borghini guiderà la selezione azzurra: accanto alla campionessa italiana, tra le altre, Gaia Realini, anche lei bene al Romandia, ed Elisa Balsamo, sue compagne di squadra anche in Lidl-Trek, Soraya Paladin, una garanzia in termini di donna squadra, ed Erica Magnaldi, in crescendo al Tour de France Femmes. Se Grace Brown è una delle principali favorite per la prova contro il tempo, occhio a sottovalutarla in linea. Una motivazione extra? Si tratta, per lei, dell'ultima rassegna iridata. La salita, fra le australiane, sarà terreno per Amanda Spratt. Un discorso simile, pur con le ovvie differenze, si può fare per Kristen Faulkner (Stati Uniti): difficile bissare l'exploit olimpico, ma la statunitense ci prova sempre. In casa Usa, menzione speciale per Amber Neben: quarantanove anni e abbiamo detto tutto. Formazione tutto talento, gioventù ed esperienza per la Francia: c'è Pauline Ferrand-Prevot che torna su strada, ma anche Juliette Labous e Cédrine Kerbaol. Occhio a Évita Muzic. Marlen Reusser, per le svizzere, non mancherà solo a cronometro, anche in linea avrebbe potuto inventarsi qualcosa: la punta sarà quindi Elise Chabbey, fresca di contratto con Fdj-Suez. Tra le neozelandesi il controllo sarà tutto per Niamh Fisher-Black. L'eterna Mavi García accenderà fuochi per la Spagna, mentre Cecilie Uttrup Ludwig proverà a fare lo stesso per la Danimarca. Per la Germania attenzione a Liane Lippert, in casa Austria, invece, incuriosisce quel che potrà fare Valentina Cavallar, un recente passato nel canottaggio e prestazioni di rilievo in salita in sella. Christine Majerus si inventerà qualcosa per il Lussemburgo. Fra le Under 23, un ottimo nome è in casa Belgio: Lore de Schepper, sugli scudi al Tour de l'Avenir e al Tour de Romandie. Tra le altre, segnaliamo Shirin van Anrooij, seconda lo scorso anno grazie al tredicesimo posto conquistato, Marion Bunel per la Francia, Antonia Niedermaier per la Germania, Neve Bradbury, tra le fila australiane, Alice Towers e Josie Nelson, per la Gran Bretagna e Paula Blasi ed Eneritz Vadillo, per la Spagna, in rilievo al recente Tour de l'Avenir.

GRIGLIA FAVORITE

⭐⭐⭐⭐⭐ Kopecky, Vollering
⭐⭐⭐⭐ Longo Borghini, Niewiadoma
⭐⭐⭐Fisher-Black, Muzic
⭐⭐ Férrand-Prevot, Labous, Kerbaol, Uttrup, Ludwig
⭐ Mavi Garcia, Lippert, Brown, Faulkner, Spratt, Vos, Chabbey

DOMENICA 29 SETTEMBRE

PROVA ELITE MASCHILE

 

DISTANZA 273,9km (4.5km)

DISLIVELLO 4.470m

PERCORSO DA WINTERTHUR A ZURIGO

Partenza da Winterthur ed entrata nel circuito finale intorno al km 70. Dopodiché 7 giri e mezzo circa del circuito che misura 27km.

Ed eccoci al gran finale domenica 28 settembre. Ecco alla gara più lunga e, non ce ne voglia nessuna delle altre categorie e specialità, più attesa dell'intera manifestazione che quest'anno si terrà in terra rossocrociata a 15 anni dal Mondiale di Mendrisio quando a vincere fu Cadel Evans. Come in altre gare che abbiamo presentato, anche qui sembra tutto apparecchiato per un testa a testa: Tadej Pogačar contro Remco Evenepoel. Lo sloveno avrà una squadra forte e compatta al suo fianco, tutta per lui, con nomi come Matej Mohorič, Primoz Roglič e Jan Tratnik a disposizione. Non è da meno il Belgio che, orfano di van Aert, punta tutto sul campione olimpico: Tiesj Benoot, Tim Wellens e Maxim Van Gils saranno le carte più importanti nel finale. Abbiamo parlato di scontro fra i due, ma voi davvero terreste fuori Mathieu van der Poel dalla sfida per l'oro? Il campione in carica - e a breve uscente - si sta preparando a puntino per questa corsa, ha perso chili, si è gestito nella stagione. Occhio alla sua classe infinita. La squadra di fianco a lui è di buona fattura (assente per infortunio il fedelissimo in maglia orange van Baarle, ma presenti, tra gli altri, corridori in forma come Wilco Kelderman, Bart Lemmen, Bauke Mollema e Frank van den Broek), tanto quanto basta quando hai un capitano di questo livello. Per un posto sul podio combatterà fino alla fine Marc Hirschi, leader della selezione di casa e già sul podio in un Mondiale, selezione di casa che potrà contare soprattutto su Stefan Küng, uno che ai mondiali è spesso davanti, un bronzo e un quinto posto in carriera), uno che più la corsa è dura e più ne raccatta tanti da dietro e Mauro Schmid, che dopo un periodo difficile punta a essere tra le sorprese della corsa. La Francia non ha un capitano ben definito, ma diversi nomi capaci di accendere la miccia anche lontani dal traguardo: Julian Alaphilippe e Valentin Madouas rispondono perfettamente a questo profilo. Romain Bardet, invece, all'ultimo Mondiale in carriera, sarà da temere se la corsa si rivelasse persino più dura del previsto, mentre Romain Grégoire è la carta in caso di sprint ristretto. Gran Bretagna per Tom Pidcock ma non solo: c'è Stevie Williams dal rendimento altalenante, ma in stagione capace di vincere la gelida Freccia Vallone, se dovesse mettersi male con il meteo tenete il suo nome da conto,  ci sono i gemelli Yates, pur sempre corridori capaci di vincere grandi corse o di andarci vicino, anche loro per corsa dura, il giovane Oscar Onley, corridore dal finale molto esplosivo e Jake Stewart. Nell'eventualità di corsa poco selettiva (ma chi ci crede, con al via Pogačar, Remco e van der Poel?) potrebbe fare la volata. La Danimarca dovrebbe puntare su Mattias Skjelmose Jensen, il quale, però, è caduto e si è ritirato al Giro del Lussemburgo. Il giovane danese potrebbe essere pure carta da medaglia. Ci sarà al via Mads Pedersen che darà una mano ai suoi e magari lo vedremo in qualche azione da lontano, mentre nel finale si muoveranno il ritrovato Jakob Fuglsang e il duo EF Michael Valgren, Mikkel Honoré. Richard Carapaz è il leader di un Ecuador che non schiera Narvaez, ma tra gli altri Jefferson Cepeda, la Colombia ha in Santiago Buitrago la sua carta migliore, il Canada Derek Gee e Michael Woods, l'Austria punta su Felix Gall, l'Eritrea su Bini Girmay (e su corsa non troppo dura), la Lettonia ha in Toms Skuijns un corridore da top 5, l'Ungheria punta su Attila Valter e l'Irlanda su Dunbar e Healy. Squadra tutta d'attacco la Germania, invece, Marc Brenner, Florian Lipowitz, Georg Steinhauser e Georg Zimmermann è gente di valore, dotata di fondo e capace anche di inserirsi in qualche azione buona lontano dal tragurdo. L'Australia ha diverse frecce: Jai Hindley, Ben O'Connor, Michael Storer e Jay Vine per corsa dura, mentre Michael Matthews può sprintare per l'ennesimo piazzamento di peso della sua carriera oltre a raccoglierne pure lui diversi per strada grazie alle sue notevoli doti di fondo. Discorso simile per la Spagna: diverse le punte interessanti. Alex Aranburu, seppure in piena metamorfosi da corridore veloce da sprint anche numeroso a corridore di fondo e per percorsi misti, potrebbe aspettare il finale per un bel piazzamento, così come Roger Adrià, mentre Enric Mas, Carlos Rodriguez e Mikel Landa cercheranno di fare corsa dura. Presente anche Juan Ayuso, stagione complessa per lui, ma sulla carta sarebbe potenzialmente capace di lottare per le posizioni di vertice, ma soprattutto Pello Bilbao il quale, vista la forma espressa anche al recente GP Montreal, dovrebbe essere il capitano. Stati Uniti con diversi outsider per una grande corsa: Mateo Jorgenson, Neilson Powless, Magnus Sheffield, Kevin Vermaerke, Brandon McNulty nell'ordine, nesusno di questi è escluso dalla lotta alle medaglie. Infine l'Italia con Andrea Bagioli, Diego Ulissi, Edoardo Zambanini, tra i più in forma degli azzurri, Mattia Cattaneo, Antonio Tiberi e Giulio Ciccone. Metterne anche solo uno nei dieci sarebbe grasso che cola in questo momento difficile per il ciclismo italiano maschile.

GRIGLIA FAVORITI

⭐⭐⭐⭐⭐Pogačar
⭐⭐⭐⭐ Evenepoel
⭐⭐⭐ Hirschi, van der Poel
⭐⭐Jorgenson, Alaphilippe, Pidcock, Madouas, Skuijns, Bilbao, Schmid, Skjelmose
⭐Matthews, Aranburu, Adria, Tiberi, Williams, Van Gils, Dunbar, McNulty, Sheffield, Woods, Grégoire, Küng


Il coraggio e il lavoro: intervista a Martina Berta

Martina Berta ha ripreso a "costruire" al ritorno dall'Olimpiade di Parigi, dove, ad agosto, aveva concluso in quattordicesima posizione la prova di cross-country, nonostante, nei giorni dopo Parigi, ci fosse solamente grande stanchezza, perché l'anno delle Olimpiadi è così: dapprima le qualificazioni, successivamente si mette la testa sull'appuntamento a cinque cerchi e si sacrifica tutto il resto, dentro e fuori dal ciclismo, ma le gare di una giornata hanno una storia a parte e la prova olimpica è una prova di un solo giorno con caratteristiche ancor più particolari. Sostiene Berta che per fare bene all'Olimpiade serva almeno una pregressa esperienza, lei sperava di più, era in forma, non se lo nasconde, ma mettere tutto assieme è difficile e non c'è molto da fare, è un dato di fatto. «Ero stanca, ma sapevo una cosa: all'Olimpiade tutti scoprono le proprie carte, ciò vuol dire avere un osservatorio privilegiato sulla reale condizione delle tue rivali. Era stanco anche il mio staff, ci siamo solo detti cosa potevamo fare per migliorare e abbiamo tirato dritto verso il Mondiale. Nel frattempo, ogni tanto, sentivo qualcuno che diceva: "Guarda che andavi più forte prima. Non ci credevo, ma le orecchie non si possono chiudere e si sentono le voci delle persone attorno». In pochi, infatti, sanno che, quest'anno, Martina Berta ha cambiato allenatore, convinta che per raggiungere quel qualcosa in più che desiderava, fosse questa la scelta giusta da fare, ma, come tutti i cambiamenti, serve tempo perché i risultati arrivino e, nel frattempo, ognuno dice la sua: «La verità è che fino a quando vai forte e vinci hai un sacco di persone attorno, a sostenerti, a incoraggiarti. Come qualcosa inizia a non funzionare, si riducono sempre più e restano in pochi, pochissimi. Ecco, solo quei pochi, poi, capiscono il vero significato dei risultati che ottieni. Gli altri, magari, torneranno, ma non sapranno mai davvero cosa c'è dietro, perché se ne sono andati nel momento difficile. La realtà è che le scelte complesse le affronti sempre da sola, con la fiducia di un ristretto gruppo di persone».

Fra le motivazioni del cambio, soprattutto, forse, la volontà di lavorare sulla base aerobica: nelle partenze, Berta se l'è sempre cavata bene, pagava però negli sforzi ripetuti e nel finale di corsa e, come sintetizza lei, sorridendo, le corse si decidono nel tratto conclusivo, quindi bisogna essere pronti. Probabilmente anche le sue persistenti difficoltà nella short race, in sostanza le qualifiche che stabiliscono le posizioni di partenza della gara della domenica, nel cross country: partire dalla quarta o quinta fila vuol dire, in ogni caso, essere maggiormente esposte a cadute o incidenti, perché «una gara ad inseguire è una gara diversa, comunque vada a finire». Più di uno sguardo è stranito da questa scelta, lei lavora bene, ma, in gara, non riesce ancora ad esprimersi al massimo: il Mondiale di Andorra arriverà con questa situazione e, domenica 1 settembre 2024, Berta conquisterà il bronzo in quella stessa competizione iridata, dietro a Puck Pieterse e Anne Terpstra. Di più: l'ultimo giro sarà, per lei, il giro più veloce. Dopo qualche giorno, di nuovo a casa, la prima considerazione che fa è proprio sul lavoro che paga, sull'aspetto mentale che deve essere strettamente legato a quello tecnico e tattico, soprattutto in un Mondiale, gara di un giorno, differentemente dalla Coppa del Mondo, ma non si ferma qui. «Penso a tanti giovani che soffrono perché intrappolati in situazioni che sentono non corrispondergli: vorrei invitarli a scegliere, a cambiare, a non restare in mezzo al guado, seduti ad aspettare che le cose cambieranno, perché non cambieranno se non le cambierete voi. Provare è la soluzione. Io credo alle decisioni di petto, credo alla scelta, pur se sbagliata. Meglio sbagliare che non decidere, nello stallo si butta via tempo che poi si rimpiangerà. Fare quel che facciamo noi atleti è un sogno per molti, è una soddisfazione enorme, pur se non si vince: ecco, i risultati arrivano anche scegliendo, la strada si fa scegliendo».

Classe 1998, Berta ha ventisei anni e fatica a realizzare quel che è accaduto, di fatto la concretizzazione di un pensiero che aveva dalle prime volte in sella o, per meglio dire, da quel giorno del 2015 in cui ha vinto il Mondiale Juniores: sostiene che la sua carriera sportiva sia nata in quel momento. L'occasione è arrivata e questa volta più di altre è stata una conferma, oltre la stanchezza e oltre tutte le domande. Diverso eppure simile ai risultati conquistati in Coppa del Mondo due anni fa, dopo un'annata viziata da una caduta con la frattura di alcune vertebre. Quando ha visto la prova di Pauline Ferrand-Prevot all'Olimpiade si è "gasata": «Sono convinta sia bello sapere che una prestazione del genere è possibile. Certo, in corsa si soffre, ma, appena tagliata la linea del traguardo, si pensa solo a come fare per avvicinarsi a quel risultato. Ho chiesto come fare al mio allenatore. Vuol dire che continuiamo a crescere, a migliorare. Racconta un progresso e la bicicletta è questa cosa qui». La bicicletta è per Martina Berta un sinonimo del verbo "provare": «Il passaggio nelle categorie junior e under non è stato facile, tuttavia potevo solo provare. Mi dicevo: "Provo, al massimo non funziona". Ci sono esperienze che puoi vivere solo a determinate età e lo sport ad alti livelli fa parte di queste. Non è un dramma, se non va, a patto di non aver rinunciato a priori. Forse qualche volta ho anche pensato di smettere: non l'ho fatto perché continuo a imparare, a migliorare ogni giorno. Io mi sento ancora alle prime armi. Smetterò il giorno in cui, in un momento difficile, sentirò di non aver più nulla da dare». Dal 2022 ad oggi, per esempio, ha lavorato molto in palestra, ha corretto squilibri nel bilanciamento posturale e ne ha tratto vantaggio, indubbiamente, così è accaduto per l'aspetto aerobico nel 2024. Impara il singolo ed impara e cresce il mondo in cui è calato: si può citare il lavoro sull'aerodinamica che tanti atleti stanno sviluppando anche nella MTB, l'alimentazione che è centrale su strada, meno in MTB, tuttavia atlete come Ferrand-Prevot e atleti come Pidcock alzano il livello anche da questo punto di vista, le preparazioni ed i materiali in cui un settore relativamente giovane come la MTB ha fornito spunti anche per le corse su strada.

Martina Berta resta la ragazza che è sempre stata: riservata, di quelle che non amano essere al centro dell'attenzione, è appassionata di sci e arrampicata. In sella va lontano ed ha scelto la bicicletta per poterlo fare, per scoprire una velocità giusta ed esplorare tutti quanti i luoghi che nessuno sport le avrebbe permesso di scoprire, chiusa in un palazzetto. Seria, professionale, eppure desiderosa, quando non corre in bicicletta, di staccare completamente la spina e liberarsi: «Il nostro è un mondo di orari e tabelle prefissate, troppo schematico per rappresentare la vita reale: è un lavoro e come tale va vissuto. Mi piacerebbe comunicare questo ai più giovani, raccomandando loro di avere sempre altro su cui contare fuori dal ciclismo, perché, in certi giorni, è tutto quello che serve per andare avanti. La serietà non è nemica della leggerezza, è possibile impegnarsi molto e allo stesso tempo sapere che sarà un picnic in mezzo al bosco a permetterti di proseguire, dopo aver ripreso fiato».

Foto: Sprint Cycling Agency


Casa Conte Rosso, Avigliana

Lassù, sbattuto contro il cielo sopra Avigliana ed il suo centro medievale, sono ancora ben visibili i resti del Castello dei Savoia: la piazza, lì sotto, è denominata Conte Rosso, nel ricordo della storia di Amedeo VII di Savoia, soprannominato, per l'appunto, Conte Rosso. Questo dettaglio è avvolto tra storia e leggenda: qualcuno parla della sua folta barba rossa, altri dei suoi capelli rossi, qualcuno menziona gli abiti rossi vestiti per la nascita del primogenito, altri ricordano invece la sua ferocia, senza pietà alcuna, in battaglia. Pare, infatti, fosse uno spavaldo, il Conte Rosso. Qualunque sia la realtà di questa storia di un passato lontano, quando Alfredo Di Giovanni e Maria Teresa Vecchiattini ci accolgono in Casa Conte Rosso, nell'omonima piazza, al numero 20, quel nome ci colpisce ed il racconto della sua leggenda avvolge il pomeriggio di un qualcosa di misterioso.

«Non abbiamo voluto cambiare il nome perché è parte di questi luoghi, è identità, ma, allo stesso tempo, abbiamo scelto di aggiungere la parola casa per raccontare una ricerca costante, quella che tende sempre più alle esigenze di chi varca quella porta, che si tratti di un singolo o un gruppo. In ogni caso, si tratta di un ospite e l'ospite è al centro di questa casa».

L'ospite è, tendenzialmente, un viaggiatore e l'idea, nata prima della pandemia, era proprio quella di dar forma a una "casa del viaggiatore", qualcosa di solido e stabile in mezzo alle tante incertezze e alle tante sorprese di ogni viaggio. Qui, ogni persona può parlare di viaggi, lasciar libera la fantasia, sfogliare libri e guide di paesi lontani, magari incrociarsi per le scale con chi vende viaggi per il tour operator "Viaggi solidali", conversare, entrare in comunione con le possibilità e la conoscenza che offre agli umani la vastità del mondo, ma, allo stesso tempo, può distendersi su un letto, ascoltare il silenzio, guardare fuori dalla finestra, cenare al ristorante della Ciclocucina, con i piatti di Fabrizio Platzer e la caratterizzazione riguardante il mondo della bici delle pareti. Nel dehor sulla piazza, ai tavolini, basta una birra fresca, dal Nord del Belgio, nelle Fiandre, una sorta di "madeleine" di Proust per ogni straniero ad Avigliana, un panino con le acciughe, un piatto di spaghetti alle vongole, una cucina casalinga, familiare, dalla carne alla cucina vegetariana, per aver voglia di fermarsi e farsi raccontare tutto quel che si cela dietro la storia del Conte Rosso: il suo mistero e la sua bellezza.

Alfredo sostiene che qui si sia chiuso un cerchio, iniziato in Viaggi Solidali, a Torino, a Porta Palazzo, nel cuore multietnico della città: «Non è stato facile abbandonare il posto in cui siamo cresciuti, ma, un bando ci offriva questa possibilità e sebbene talvolta ci chiediamo chi ce lo faccia fare, poco dopo, torniamo a metterci tutta la cura di cui siamo capaci, perché vogliamo bene a questa idea. In fondo, Torino è solo a mezz'ora di treno, Avigliana è il punto di partenza ideale per andare sui monti, in Val di Susa, in bicicletta o a piedi, e qui il progetto si completa, sulle orme di qualcosa già avvenuto in Francia: la cucina e l'ospitalità assieme. L'ospite e l'oste non sono estranei che si incrociano per caso. All'inizio può essere così, tuttavia noi crediamo in un reciproco interesse umano, nelle domande e nelle risposte, nel lasciarsi qualcosa. Noi crediamo alle porte aperte». In effetti, a ben guardare, la reception dell'ostello è all'interno del ristorante e Fabrizio lavora così, affacciato sulla sala: un'accoglienza differente, in paesi di grande impegno e poche parole. La porta scorrevole tra i due ambienti riporta una gigantografia di Nelson Mandela, attorno scorgiamo stampe originali della Domenica del Corriere di Torino, dedicate alla pista, a Maspes, a Bartali, a Coppi, al Giro d'Italia, alle biciclette e a chi dura fatica in sella, in generale.

Siamo ad agosto, il periodo delle Olimpiadi di Parigi, Fabrizio esce dalla cucina, ha qualche minuto di pausa, poi accenderà il televisore e seguirà le gare di ciclismo su pista: «Volevamo rendere vivo questo posto. Qualcuno si chiude nella propria realtà, noi vogliamo uscire, in semplicità, come siamo, con la musica che ci piace e le voci e le gesta dello sport in televisione, senza la classica tenuta, legati al territorio. Qualcuno ci resta male, perché si aspetta altro, un'altra cucina, un'altra bottiglia di vino. Noi siamo questi ed in questa piazza abbiamo provato a portare quel che non c'era». Il legame con il territorio vive in ogni dettaglio dell'ostello, come narra Alfredo: «I letti sono fatti da un fabbro di Almese, le tende da un'azienda di Avigliana, c'è un tocco industriale, il respiro della storia trascorsa e camere accoglienti per ogni tipologia di visitatore. Spesso ci dicono che non sembriamo un ostello, ma più una sala relax». Alfredo prende il cellulare, cerca un messaggio in una vecchia chat, sono parole di una psicologa della Fondazione Elice di Milano che è stata qui con diversi ragazzi. Rilegge a voce alta una frase: «Non siamo stati ospitati solo da un ostello, ma da una comunità di persone che si sostengono e supportano vicendevolmente e offrono supporto e aiuto ai loro ospiti». Fa una pausa: «Vedi? Qui c'è tutto». Ed è vero, c'è tutto, come c'è tutto in quei ragazzi che, alle loro famiglie, hanno parlato di quei giorni.

In fondo, si sono incontrate due storie simili, perché anche la Ciclocucina di Fabrizio non è nata qui, bensì proprio a Torino, la città in cui nacque la Lancia ed in cui, da giovane, per ben vent'anni, Platzer operava come termoidraulico. In seguito, il licenziamento e, dodici anni fa, un piccolo angolo, circa trenta posti, in zona San Paolo e una trattoria a tema per unire, come si fa con i puntini, due passioni: l'arte della cucina e la libertà della bicicletta nel vento. Undici anni ed il trasferimento ad Avigliana, in Casa Conte Rosso, con gli stessi ideali, perché, l'abbiamo detto, cucina e accoglienza sono in perfetta armonia: la pedalata resistente, dalla zona San Paolo verso il Col del Lys, i libri da presentare e quelli già presentati, le serate musicali, campioni del ciclismo e giornalisti, ma anche gruppi parrocchiali, le nazionali giovanili del baseball, i primatisti del mondo, il triathlon, il pentathlon, le ciclopedalate degli studenti. Nella Ciclocucina dei primi anni, il bancone, le sedie ed i tavoli erano stati lavorati da gruppi di amici: ognuno aveva messo la propria opera in qualcosa, in una sorta di opera collettiva. Successivamente il progetto è stato affidato a professionisti, ma la linea guida è rimasta la medesima: stessi colori, tra il grigio, il giallo ed il nero, una lavagna scolastica appesa al muro, i vecchi tavoli, le strutture in ferro ideate da un fabbro, molti oggetti costruiti recuperando parti di vecchie bici, ma anche portachiavi, magliette e un pensiero costante alla beneficienza, a progetti solidali. E, ogni volta che Fabrizio la raccolta a qualcuno, termina sempre con un invito: «Dovresti venire a vederla». La chiave dell'ospitalità. Un'altra chiave sono le parole e la parola più importante, tra queste mura, è responsabilità, in primis sotto forma di turismo responsabile: «Siamo in territori poco battuti, è necessario dare a chi viene da queste parti la possibilità di conoscerli, attraverso l'interazione e la collaborazione con altre realtà della ristorazione, ma anche con chi si occupa di arte, di laboratori. Siamo una piccola realtà ma, compatibilmente con il nostro mestiere, giriamo molto il territorio e si tratta di un territorio pieno di itinerari: la ciclovia francigena, il Colle Braida, la Sacra di San Michele, la Val di Susa, la collina morenica, poco più in là Bardonecchia e altre infinite possibilità, tra mountain bike e strada».

L'edificio, come detto, è suddiviso in due: ostello e ristorante, sotto, nel salone interrato, un deposito in cui lasciare le biciclette e diverse attrezzature per le riparazioni più piccole, perché davvero tante persone giungono qui in bicicletta. Sono presenti 42 posti letto e ben 52 biciclette possono essere ospitate, qui, sotto le camere, inoltre è in lavorazione una bike room maggiormente funzionale per il futuro, per rendere ancor più completo il progetto e porre ancor più al centro bici e ospitalità, anche quando da questi parti transitano eventi di ciclismo. Alfredo, in realtà, non era un appassionato di ciclismo, però la vicinanza di Fabrizio lo sta coinvolgendo e anche lui si trova a fantasticare sulle imprese di grandi ciclisti: in questo c'è il racconto di quando Platzer andò a vedere Vincenzo Nibali alle Tre Cime di Lavaredo nel 2013, ma anche quello del suo ultratrail delle Dolomiti e la sensazione di fatica senza parole, mista a meraviglia, quando, all'arrivo, ci si guarda attorno. C'è il vento in faccia dei viaggi in Corsica e molto altro. Allora Alfredo immagina uno scambio sempre maggiore tra esperienze e racconti della Namibia, del Perù e di altri paesi dall'altra parte del mondo e storie vicine, delle valli e dei borghi.

Questa, dice lui, è la più grande possibilità che offre la bicicletta e, in Casa Conte Rosso, sta già accadendo. Basta sentire tutte le persone che arrivano qui dall'estero e conoscono il progetto, conoscono la realtà di questa casa del viaggiatore: «Vorremmo svilupparla maggiormente anche all'esterno questa struttura, ma non è facile, perché ci troviamo in un centro storico e siamo sottoposti ai vincoli della sovrintendenza. Noi, tra l'altro, siamo una realtà complessa, perché uniamo più aspetti. Non c'è solo l'ostello, non solo l'agenzia di viaggi e nemmeno solo la cucina: siamo un insieme di cose e abbiamo il dovere di raccontarlo e più riusciremo a raccontarlo più funzionerà. Sogno una navetta che, partendo da Avigliana, possa girare in queste zone e arrivare fino a qui, facendo visitare il borgo medievale, aprendo ulteriormente alla conoscenza di questi posti e, quindi, a nuove possibilità». Il futuro è, per Alfredo, Maria Teresa e Fabrizio, ancora una volta nella parola responsabilità, connessa ad un ostello responsabile: «Responsabilità implica confronto con la realtà in cui si è ed il tentativo e la voglia di intervenire, per consolidarla o cambiarla. Un ostello responsabile è un ostello che si confronta con le difficoltà, che, ad esempio, sostiene chi ha più bisogno, aiuta nella ricerca del lavoro. Difficile, certo, ma essere casa significa anche accettare questa sfida e continuare il proprio cammino».


La dolce vita, Narvik, Norvegia

All'aeroporto di Narvik, era atterrato da poco l'aereo da cui sarebbe scesa Nadia Vaudagna. In auto, in un parcheggio, la aspetta Bruno: è sera inoltrata, ma la luce non abbandona la terra di Norvegia, è luglio, è l'estate del 2023. In città, si dice che Bruno sia l'italiano che vive qui da più tempo, dal 1965, per la precisione, quando vi arrivò, ancora ragazzo, dal Friuli Venezia Giulia, giovane musicista, all'avventura. Nadia è partita da Cavaglià, nella zona di Biella, con lei due ragazzini, i suoi figli, la loro vecchia casa ormai è lontana e non vi farà più ritorno. Fra qualche giorno, a Narvik, anzi, arriverà un vero e proprio bilico con all'interno «tutta la nostra vita precedente». Riccardo Perazzolo, il padre di quei giovani, ha un biglietto aereo prenotato e ben presto seguirà lo stesso volo verso il paese dei fiordi: un volo reale, nel cielo, come quello di un aeroplano, un volo di fantasia come quello delle persone che vanno via e ricominciano da zero, con solo il coraggio. "La dolce vita" è il titolo, una reminiscenza di Fellini, di questa storia ed è il nome di un locale, un bar, caffetteria, gelateria, con le sedie colorate, i dehors più chiari, gli ombrelloni bianchi e i fiori tutto intorno.

Un luogo dove si viene accolti da un bancone con linee che ricalcano un container, su cui sono incisi dei numeri: la latitudine di Narvik, quella di Cavaglià e la distanza dall'Italia alla Norvegia, quasi fosse realmente un container, in viaggio da un porto A ad un porto B: un omaggio al porto di Narvik, affacciato sulle montagne. Chissà, forse, un domani, da queste parti, esisterà anche una rainbow street, una strada colorata dai colori dell'arcobaleno, così sognano Nadia e Riccardo. In città è tutto sfumato tra il grigio ed il nero, questione di storia: della miniera di Kiruna, del ferro che vi si ricavava, della guerra, dei tedeschi, degli inglesi e del centro città raso al suolo. Allora, per "La dolce vita" si cerca il colore, lo si porta. Ma la storia è anche la loro storia, quella di una famiglia nata e cresciuta in Italia che, un pomeriggio, ha chiesto ai propri figli: «Noi vorremmo fare questa scelta, voi sareste d'accordo? Basta un vostro no per bloccare tutto e restare qui, basta un vostro sì per iniziare a muovere passi più decisi». Quei bambini hanno risposto sì e, a distanza di otto anni da una vacanza in Norvegia, sui fiordi, nell'aria leggera e nella natura incontaminata, di un verde intenso, dopo tanti pensieri, altrettanti progetti e molti cambiamenti, un altro volo si è alzato sopra le nuvole.

«La dolce vita non è la nostra. A sera siamo stanchi: la luce continua, in questa stagione, non permette di riposare bene, si perde il senso del tempo. Alle ventuno siamo ancora nel locale e, talvolta, alle due di notte, ci sorprendiamo ancora intenti a fare qualcosa. Non è facile. Forse immaginavamo una vita più semplice, meno impegnativa: non è così. Il tempo non c'è mai, le giornate non bastano. La dolce vita è quella che si nasconde tra le piccole cose d'Italia, che tutti conosciamo perché siamo diventati grandi respirando queste atmosfere: i pranzi e le cene come una festa, a tavola assieme, il caffè ad un tavolino, la possibilità di tirare il fiato e guardarsi attorno, pur con mille problemi. L'Italia è anche questo. Noi vorremmo raccontarlo, a chi a Narvik abita, ma anche a chi vi transita per lavoro o per un viaggio, perché, è vero, la dolce vita non è la nostra eppure non ci manca niente, siamo felici e, soprattutto, guardando avanti, negli anni, non vediamo una nebulosa indefinita, ma una strada, un posto o un tempo verso cui camminare». Nadia, la sera, frequenta i corsi di norvegese organizzati dai volontari della Croce Rossa, e, piano piano, sta imparando la lingua. Riccardo, ormai, conosce le persone che abitualmente varcano la soglia di ingresso del locale e non ha più quel timore che aveva all'inizio, quando le vedeva austere, inespressive, quasi fossero arrabbiate o deluse dal gelato o da quell'affettato. Non lo ha più perché questa è la loro essenza, ma, sulla porta, si voltano sempre e dicono qualcosa di bello sulla loro esperienza. Non a caso, Bruno cita spesso un vecchio detto norvegese: «Meglio farsi perdonare, che chiedere». La musica è in sottofondo e copre i silenzi, la voce bassa di chi conversa nel locale. A Capodanno, invece, i fuochi d'artificio illuminano il cielo e anche nelle case si fatica a sentirsi parlare. Dicono sia un classico, una sorta di tregua dal silenzio.
All'interno di questo locale, l'origano di Pantelleria, i vini della zona di Asti e di Cuneo, l'olio che proviene dall'Umbria, la pasta, molti gusti di gelato, con la frutta ed il latte fresco, al modo in cui Nadia ha imparato l'arte del gelato da sua cognata e come, successivamente, ha studiato, il caffè, quello italiano, per cui non serve il "siru", le essenze di vaniglia e caramello, che vengono miscelate al caffè norvegese, così tostato, così dorato, da essere troppo forte, con un sapore che si cerca di coprire e così via, tutto di origine italiana, fino al pesto ligure con cui vengono condite le bruschette. Qualche tempo fa, il pesto era finito e, per qualche giorno, non sono state servite più nemmeno le bruschette, per quel principio per cui tutto è, per scelta, italiano. «La nostra missione- raccontano Nadia e Riccardo- è quella di portare qui odori e sapori della tradizione mediterranea e provare a diffondere una cultura differente riguardo al cibo. Spiegando, raccontando e ascoltando». Una missione per cui sono necessari tempo e progetti da sviluppare: «L'Italia, purtroppo, a nostro avviso ha smesso di investire sui giovani, sull'istruzione, sulla sanità, e, quando manca questa visione, automaticamente viene a mancare la possibilità di progettare un futuro, allora si va altrove. Oltre che di sci, sono un appassionato di calcio: è già la seconda volta che non riusciamo a qualificarci al Mondiale. Cosa stiamo facendo per modificare questa realtà? Qui ci sono campi a disposizione dei bambini gratuitamente. Lo stesso vale per la scuola. Non una questione economica, ma di immagine e di visione ampia sulla realtà, di sicurezza. L'esempio è pratico: le porte che ci sono qui, basterebbe una spallata per abbatterle, eppure tutti hanno la certezza che non accadrà. Tutto è connesso, si tiene per mano». Già, le connessioni, spesso casuali, tuttavia capaci di legare storie apparentemente distanti.

Allora, Narvik, la città con la stazione ferroviaria più a nord del mondo, con un porto libero dai ghiacci e l'aeroporto, è stata scelta quasi per caso, prima che succedessero tante altre cose: il comune stava rinnovando dei locali che voleva adibire a caffetteria. Nadia e Riccardo conoscono un signore, il cui nonno, nel 1950, in veste di esploratore, arrivò da Bormio, a caccia di pellicce di foca: quell'anziano signore divenne anche console. Il nipote, invece, aiuta la coppia in questo trasferimento, ma non è l'unico. Un'impiegata del comune li sostiene con la ricerca della casa, una delle poche colorate, rossa, in cui ora vivono, e con l'inserimento a scuola dei figli. Si sentono cercati, voluti, a tratti attesi, nonostante il comune abbia altre proposte. Qualcuno ha dato una mano con il trasloco, oppure nel trasporto di un divano. Prezioso, in ogni caso. Fino al momento in cui, come dei paracadutisti esperti, bisogna lasciarsi andare e avere il coraggio di volare: «Non sappiamo come vivranno questa situazione i nostri figli, con il passare degli anni: noi siamo convinti che possa essere una grossa opportunità anche per loro, pur con le difficoltà che sono naturali». Fuori scorrono le ruote delle biciclette che, nonostante le temperature, a volte molto rigide, girano praticamente ogni giorno in gran numero: c'è sempre uno spazio per i bambini e una strada che porta alle Lofoten, dove si tiene la Cicloturistica. Sulle montagne, anche nei mesi di crepuscolo, la neve è sempre pronta ad accogliere gli sciatori, magari con una luce ad illuminare il percorso. Le piste da sci arrivano quasi fino alla città e Riccardo è uno sciatore provetto: quando si scende, pare quasi di sciare sul mare, è suggestivo. Altre volte, sono lunghe camminate ad allietare le giornate, verso i laghi.

"La dolce vita" resta lì, a Narvik, in quel punto esatto, che sembrava casuale, invece non lo è, è perfetto, perché, anche solo cento metri più in là non avrebbe funzionato come, invece, accade, e ogni giorno continua a raccontare: «Ci piacerebbe che questo fosse un angolo in cui mettere da parte gli orologi, le loro lancette ed il ticchettio che pare ci insegua sempre. Perché il tempo che si dedica al cibo, al buon cibo, non è tempo buttato via, non è tempo perso per cui bisogna mangiare di fretta, senza quasi sapere cosa si stia mangiando, senza gustarsi le vivande, senza assaporare il momento. Al contrario, si tratta di un tempo prezioso, però servono anni per impararlo. Dobbiamo dire che qualche segnale c'è e qualcuno, dopo aver sperimentato questa dimensione, la sceglie». Le missioni, si sa, sono affari un poco speciali, per cui serve dedizione e pazienza: un pezzetto di Italia nell'Artico sta provando ad avverare la propria e sembra ci stia riuscendo.


L'ultimo ballo di Rigoberto Uran

Articolo di Carlo Giustozzi

I primi colombiani arrivarono nel grande ciclismo europeo negli anni ‘80. Il precursore, per onor di cronaca, fu in realtà il Cochise Martín Emilio Rodríguez. Ottimo passista, gregario di Felice Gimondi tra Salvarani e Bianchi, vinse due tappe al Giro nel ‘73 e ‘75 e un Trofeo Baracchi. Fu anche campione del mondo nell’inseguimento individuale tra i dilettanti e detenne, nella stessa categoria, il record dell’ora.

Un decennio dopo, al Tour iniziava a partecipare la Café de Colombia, squadra sponsorizzata dalla federazione colombiana dei coltivatori di caffè. Il primo successo di tappa arrivò nel 1984 con il capitano Luis Herrera, che tre anni dopo vincerà anche la classifica generale della Vuelta. I colombiani erano piccoli, mingherlini, ottimi scalatori. Se in salita vanno così bene, pensò Bernard Hinault, li attaccheremo in pianura, li batteremo nelle cronometro. E andò proprio così: la Colombia ha dovuto aspettare Egan Bernal per la prima maglia gialla sul podio di Parigi.
Nel frattempo, però, tanti ciclisti colombiani si sono affacciati in Europa. Il paese sudamericano ha iniziato il processo di “internazionalizzazione” del ciclismo: l’apertura a nuovi talenti provenienti da ogni parte del mondo. Tra questi, un posto speciale nel cuore degli appassionati ce l’ha uno scalatore che si ritirerà a fine stagione, e che sta nel frattempo correndo la sua ultima Vuelta. Stiamo parlando di Rigoberto Uran Uran, per gli amici italiani Ciccio.

Prima degli ottimi risultati raggiunti e dei piazzamenti nelle classifiche generali, di Uran ricorderemo la sua genuinità, l’ottimismo, quel modo simpatico di parlare e di pensare che lo ha sempre contraddistinto. E pensare che il colombiano della EF, un uomo che tutti descrivono solare, ha dietro di sé una storia difficilissima.
È nato nel dipartimento di Antioquia, a oltre 1800 metri di altitudine, in una famiglia molto povera. Il padre vende i biglietti della lotteria, la prima bicicletta gliela regala la zia. In una vecchia intervista al Corriere della Sera, Uran raccontò che alla prima gara non sapeva neanche cosa fosse una cronometro. Lo hanno messo semplicemente in sella dicendogli: “Fai più veloce che puoi”. Quella gara Rigoberto la vinse, mettendo subito in mostra il suo immenso talento. Ma i festeggiamenti per i suoi successi durarono poco: dopo pochi mesi il padre venne ucciso da una pallottola vagante, una tragica fine comune a tanti negli anni della guerra per il narcotraffico.
A soli 14 anni Uran si trova a dover mantenere la propria famiglia. Comincia lui a vendere i biglietti della lotteria per le strade, ma non lascia mai la bici. Tra gli juniores raccoglie molti successi, tra cui il campionato nazionale di categoria su strada. La disciplina in cui va meglio è però la pista, e sembra quasi un errore se si pensa che poi sarà tra i migliori scalatori del mondo.
Finite le categorie giovanili, Rigoberto ha un grande dilemma davanti. Se vuole continuare la sua carriera nel mondo del ciclismo e tentare il salto nel professionismo deve andare in Europa. Non è una decisione semplice: vorrebbe dire lasciare in Colombia madre e sorella, che dopo aver perso già il padre rimarrebbero sole. In una situazione così difficile, Uran mostra un grande coraggio. Sa che questo è un sacrificio importante, ma è anche l’unico modo per provare a migliorare le condizioni proprie e della famiglia.
Tante volte leggiamo delle storie di ciclisti del passato, per i quali la bicicletta è stata un’ancora, un’occasione di salvezza per uscire da una vita che dà poche possibilità. Qui ci troviamo in un passato molto più vicino, una condizione di grande povertà in cui si trovano tutt’ora miliardi di persone nel mondo.
A 19 anni firma con la Tenax-Salmilano e si trasferisce a Brescia. L’inizio non è facile, ma anche con l’affetto della sua famiglia “adottiva” riesce a superare le prime difficoltà. Come raccontato da lui al Corriere: “Dopo due mesi mi mandano in gara sul pavè e mi rompo subito la clavicola. Però a fine stagione il contratto arriva. Merito anche di Melania e Beppe, la mia “famiglia” italiana, di Brescia. Mi hanno sempre aiutato, anche quando ho fatto un incidente gravissimo al Giro di Germania 2007, che mi costò diverse fratture. Anche grazie a loro il rapporto che ho con l’Italia è speciale”.

Da quel lontano 2006 non si è più fermato, correndo da capitano i grandi giri nelle squadre più importanti. Prima la Caisse d'Épargne, poi il Team Sky, la Quick Step e infine la EF, dove è arrivato nel 2016, quando si chiamava ancora Cannondale, e dove è rimasto fino a oggi. Nel tempo ha raccolto un palmares molto importante: due vittorie di tappa al Giro, una al Tour e una alla Vuelta, diverse classiche di spessore e tre secondi posti nei grandi giri (alla Corsa Rosa nel 2013 e 2014, e al Tour nel 2017, a neanche un minuto da Chris Froome). Il piazzamento a cui è più legato rimane la medaglia d’argento ai Giochi Olimpici di Londra 2012, arrivata con la maglia del suo paese sulle spalle.

In un’intervista a inizio stagione, Uran ha comunicato la sua volontà di lasciare il ciclismo a fine 2024. Il colombiano ha ritenuto che la sua avventura sia giunta al termine dopo 19 anni nel mondo del professionismo, in cui ha raccolto quattordici vittorie e una miriade di piazzamenti. Ha detto che le ragioni sono diverse: “Il primo motivo è la famiglia. Il ciclismo professionistico ti richiede impegno e sacrifici, togliendo tempo alla famiglia e ai figli. Il secondo è l’età: è difficile mantenere un rendimento elevato e questa generazione di giovani è veramente troppo forte”.
Qualcuno dirà che avrebbe potuto vincere di più, che i mancati successi nella generale non gli permetteranno di essere considerato tra i migliori dell’ultimo decennio. Ma i risultati sono solo una piccola, minima, parte della storia di uno sportivo, e ancora più di un uomo con un passato difficilissimo alle spalle. In Colombia è una celebrità, è ancora oggi molto più amato di altri che hanno vinto di più come Nairo Quintana o Egan Bernal. Per tanti, tantissimi è un esempio di qualcuno che si è fatto da solo, che invece di lavorare per le bande di trafficanti si è dedicato tra mille sacrifici allo sport che amava, mantenendo nel frattempo la propria famiglia lavorando per strada. E che, diventato famoso, non si è dimenticato delle proprie origini, aprendo imprese e fondazioni benefiche a vantaggio dei suoi compaesani bisognosi.
Il gruppo non perderà il ciclista più forte, ma sicuramente non conterà più su un hombre vertical. Buena suerte, señor Rigoberto.

Fonti:
Tuttobiciweb, Dal «Corriere della Sera». Uran: corro per salvarmi dai narcos
Dal canale Youtube di EF Pro Cycling, Gracias, Rigo | Rigoberto Urán's retirement interview | Explore series | Presented by Wahoo
Cyclingnews, ‘In the end, what you’re looking for is satisfaction’ – Rigoberto Urán and the fear of the final phase
Procyclingstats.com, Rigoberto Urán

Foto: Sprint Cycling Agency


Gioia e la bicicletta

In quel momento, Gioia Fusci desiderava solo una cosa: cambiare. Un verbo particolarmente difficile da declinare quando si è molto giovani, praticamente impossibile durante l'adolescenza, non perché non lo si voglia, bensì perché, in quegli anni, il cambiamento sembra una cosa impossibile: «Da ragazzi pare tutto assoluto, immobile, decisivo, soprattutto le cose negative, quelle che ci opprimono, spesso cresciamo convinti che non ci saranno mai variazioni, quasi rassegnati ad un verdetto. Più grandi scopriamo che, nell'esistenza, di definitivo non c'è praticamente nulla, tutto scorre, tutto cambia, anche molto velocemente, anche in peggio, può succedere, ma cambia. Ora che lo so, è importante che io lo dica». Sì, Gioia desiderava cambiare perché, in molti istanti, aveva avuto la netta sensazione di «aver ricevuto una brutta mano di carte», questo è l'esempio, al momento della nascita, di essere stata, insomma, sfortunata.
Il pensiero è soprattutto alle crisi epilettiche notturne che l'hanno sempre colpita: «A quindici, sedici anni, non è facile lussarsi la spalla sette o otto volte e dover continuamente fare fisioterapia per recuperare. Mi ricordo ancora la sensazione che provavo vedendo una signora di mezza età che riusciva molto meglio di me negli esercizi. Ed io faticavo anche a gestire il movimento necessario per bere una tazzina di caffè». Sarebbe facile lamentarsi, sarebbe facile darla vinta a quel pensiero, che pur bussa alle porte, e lasciarsi andare, autocommiserarsi, Fusci non lo fa. Non glielo permette la famiglia in cui è cresciuta, il comportamento che ha sempre visto tenere dai genitori di fronte alle difficoltà: «Non mi hanno commiserata, avvolta in una protezione che avrebbe bloccato la mia crescita. Non l'hanno fatto perché di fronte alle avversità, che hanno colpito anche loro, hanno presto compreso che l'unica possibilità data agli esseri umani è reagire. A diciannove anni sono partita per Bologna per studiare Veterinaria, a venticinque sono venuta a Pisa: alla fine, penso che sia stato questo il mio modo di rispondere a quel che mi succedeva. Io non mi deprimevo, io mi arrabbiavo».

La bicicletta è arrivata a colmare questa volontà di cambiare. Potremmo dire che Gioia Fusci e la bicicletta si siano trovate a metà strada, nel tempo giusto per capirsi e viversi. Dapprima come un'opportunità per andare dove voleva e quando voleva, per mettere in pausa il tempo e i pensieri, successivamente in maniera sempre più forte e passionale, «come gli amori appena nati, tormentati», tanto da farle dire che, ad oggi, le risulta impossibile pensare ad una quotidianità senza la bicicletta: «Abbiamo tutti bisogno di qualcosa che ci faccia stare bene,a cui attaccarci, aggrapparci. Anni fa, per me, erano i cavalli, ora lo sono ancora ma, restando in tema, in una forma di amore più quieta, simile ai vecchi amori, che mantengono la stessa profondità, ma diversa intensità. Ora è la bicicletta, non so per quanto e nemmeno me lo chiedo. Cambierà forma probabilmente, come tutto il resto, è un dato di fatto, non qualcosa da analizzare». Allo stesso modo, si è modificato il suo stile di vita e alcuni concetti si sono fatti più chiari, più veri, più definiti: quello della fame e della sete, ad esempio. Quando si parte in bicicletta, puntualizza Gioia Fusci, è necessario preparare il cibo e riempire la borraccia, se non lo si fa, se ci si dimentica, poi non ci sono scuse, alternative e il bisogno di acqua e di cibo, in sella, mordono senza ritegno, in una forma che non conosciamo nella vita di tutti i giorni. «Scegliere la bicicletta pone di fronte a un impegno, a una responsabilità, a un ritmo differente delle giornate. In questo aspetto, pur con tutte le differenze del caso, non è così diverso dalla decisione di avere un cane. Se esci quattro o cinque in bici e non programmi prima, ti ritrovi svuotato e non vai più avanti. Ho presente, come stesse accadendo ora, quando mi è successo al Campionato Italiano di cronoscalata. Una rivale mi ha passato una borraccia ed io l'ho stretta a più non posso, era la mia salvezza, era tutto quel che mi serviva e che mi mancava».
Se ci si riesce, però, e Gioia ci è riuscita, si può arrivare ad ottenere quella "rivincita" che tanto si cercava, in cui, in fondo, si sperava. Nel settembre di due anni fa, Fusci riesce a scalare per due volte lo Stelvio. In cima non vuole crederci, guarda il panorama e le sembra impossibile: «Mi sono detta che andavo bene così, che anche il male era servito, era stato un percorso. Alcune volte, quello che abbiamo dentro non ci piace, quelle sono le occasioni in cui quel che facciamo può riappacificarci con noi stessi e con l'esterno ed essere orgogliosi. Cosa era riuscita a fare quella ragazza che si era lussata otto volte la spalla: imperfetta, certo, come tutti, ma un poco meno imperfetta di prima. L'importante è non rassegnarsi alle situazioni come ci sono date: si fa quello che si può con quello che si ha, provando a migliorarle ed a migliorarsi, in una ricerca costante». Per alcune cose vorrebbe assomigliare a sua madre, per altre a suo nonno, è certa del fatto che ciascuno sia meglio di noi in qualcosa e se ci rivolgiamo a quella parte possiamo imparare. Dice che su alcune strade di casa «ha fatto il solco» a forza di percorrerle per allenarsi, qualche amico scherza: «Fai il criceto!», riferendosi alla ripetitività del gesto, al sacrificio, alle gare che non vanno bene e alla delusione del momento: «Uno dei miei modelli è Elisa longo Borghini: una volta, dopo una Liegi-Bastogne-Liegi, disse: "Beh, l'anno prossimo ce ne sarà un'altra. La rabbia quando va male è naturale, ma non si può permetterle di rovinare tutto, serve solo a trovare una soluzione per crescere».

Lei ha imparato a differenziare gli allenamenti, i giri in bicicletta e a fare di ogni viaggio un'occasione per visitare un luogo nuovo, a costo di allungare di qualche giorno la permanenza: ha esplorato così la Sardegna, Tivoli e lo Stelvio stesso. Si rivolge in particolare ad altre ragazze, ad altre donne, perché crede che la bicicletta sia, fra le altre cose, uno strumento di emancipazione: «Sono veterinaria, mi occupo di cavalli e, purtroppo, per quanto siano sbagliate, ho fatto l'abitudine a certe cose: essere chiamata signorina invece di dottoressa solo perché si è donne e si è giovani, sentire pazienti che chiedono dove sia il dottore, senza nemmeno considerare che sei tu. Ormai mi scivolano addosso queste cose, ma è sbagliato. Come è sbagliato sentire uomini che sostengono che atlete donne, a tirare in testa al gruppo, in testa al gruppo, "facciano il buco", è un pregiudizio, è ignoranza. La bicicletta emancipa perché ci ricorda una volta di più quanto possiamo fare da sole, le nostre capacità, la nostra autonomia e la nostra libertà».
Quel male che ha vissuto giù dalla bicicletta le ha permesso di conoscersi e, oggi, sa di lei cose che nemmeno immaginava, soprattutto ha capito quanto molte cose scontate, in realtà, scontate non siano: «Si arriva così ad apprezzare il valore di quel che c'è. Personalmente prendo una pastiglia al mattino e una alla sera per riuscire a stare come sto: la bicicletta, a mio avviso, è una magnifica celebrazione della salute, dello stare bene. Guardare una persona in bici deve ricordarci la bellezza del nostro corpo, le sue possibilità e tutto quel che impara continuamente. Sarà per quella sensazione che ho provato da giovanissima, della brutta mano di carte ricevuta in dono, ma tutto questo mi sembra enorme. Così dalla bici non riesco a stare lontana».

Foto Federico Biasci