Campioni vulnerabili
17 Maggio 2023Corse,Newsletter
Uno dei pezzi più belli che mi sia capitato di leggere durante questo Giro d’Italia si intitola “Sulla volatilità del Giro”, di Kate Wagner. Non tratta dell’appassionato di volatili Derek Gee, purtroppo, ed è uno degli ultimi che leggerò: ne ho ormai abbastanza di leggere, vedere, scrivere, parlare di ciclismo per dodici ore al giorno e ho portato Ubik di Dick nella valigia per un motivo. Il pezzo di Wagner, dicevamo, riassume bene, in solo due parole, ciò che è stato il Giro finora: «ansia e conflitto».
I due favoriti della vigilia, Evenepoel e Roglic, si sono dimostrati i dominatori che ci si poteva attendere. A parte forse la cronometro iniziale di Remco, nessuno si è elevato in modo particolare dalla concorrenza per la classifica generale: perfino Remco, dopo la vittoria di Cesena e prima dell’annuncio del ritiro, era considerato un finto vincitore della cronometro romagnola. Io e altri amanti del corridore che è Remco sognavamo una performance extra-terrestre in quella cronometro, che così tanto sembrava addirsi a lui: invece Wagner mi ha fornito un punto di vista interessante. «Sono sempre più stanca della de-personalizzazione degli atleti, di presunti avvistamenti di un sempre migliore superuomo [...] e del fintamente neutrale discorso sulla performance aliena. L’atleta è un essere umano soggetto a conflitti interiori e posizioni personali; il ritmo cardiaco aumenta quando l’uomo ha paura».
E motivi per avere paura gli uomini che corrono questo Giro d’Italia ne hanno diversi: il meteo e il Covid, per citarne due. Il passato stesso dei possibili vincitori del Giro è un campanello di allarme, che ricordano bene: Roglic ha una lista di fallimenti nel momento topico piuttosto lunga per il campione che è, Geoghegan Hart è un po’ scomparso dopo il Giro 2020, Thomas ama finire sull’asfalto, Almeida è uscito allo scorso Giro per Covid proprio sul più bello. Avremo, insomma, un vincitore del Giro vulnerabile. Queste prime dieci tappe di Giro ci hanno ricordato «della fallibilità umana, delle manchevolezze dei corpi stessi» chiosa Wagner.
Per questo ho trovato particolarmente azzeccato ciò che ha detto in conferenza stampa Magnus Cort Nielsen - un attaccante nato che prima di ieri al Giro era stato molto dietro le quinte -, dopo aver vinto a Viareggio. «In qualche modo, il mio corpo ha continuato a funzionare. Ho avuto paura che il mio corpo potesse smettere di funzionare». Meno superuomini, più campioni vulnerabili: a pensarci bene, evviva.
Maschere
16 Maggio 2023Corse,Newsletter
Maschere. Perché Viareggio ed il suo Carnevale sono maschere. Perché sotto la pioggia battente ed il freddo, ogni volto è maschera: la pelle è modellata dal freddo e scolpita dalla pioggia. Gli occhi sono più occhi, gli zigomi diventano appigli, le sopracciglia scolpite, persino i baffi appaiono immobilizzati e gonfi. Ogni linea del volto è tratteggiata: così appare il viso di Magnus Cort Nielsen, che vince nel giorno della fuga, del Passo delle Radici, della nebbia, di un presagio di novembre. Maschere perché anche essere ciclista è una maschera, come ogni lavoro, dentro e dietro a quella maschera, desideri umani: quelli di Nielsen che vorrebbe scalare il Kilimangiaro e vedere un film sotto le stelle, accanto a una tenda.
Dietro a quella maschera, un bicchiere di buon vino a Natale ed i bambini che giocano su un tappeto: è Alessandro De Marchi, che, a trentasei anni, riesce ancora a cogliere alcune prime volte nelle fughe- lo ha fatto alla Strade Bianche ed a Napoli- seppure le sue fughe siano innumerevoli, il fatto però che, ogni volta, vi trovi qualcosa di nuovo, racconta la sua capacità di viverle quelle fughe, di guardarle e di coglierne un significato altro dalla vittoria a fine corsa. Così ha attaccato anche oggi, ha portato via la fuga, ha fatto le discese in testa, stanco, così stanco, dopo più di 190 chilometri, da perdere per un attimo le ruote di Gee e Cort Nielsen sul rettilineo d'arrivo e, poi, da ritrovare energie chissà dove e sprintare. Terzo. Chissà dove? Nella strada che ancora c'è, rifugio della paura e del coraggio. De Marchi, da tempo, ha scelto il coraggio.
Maschere come una maschera è la fuga: quasi una catarsi, una purificazione, per chi la compie e per chi la guarda. Nella società, per gli uomini e le donne fuggire, lontani da tutto e tutti, può essere un desiderio di qualche tempo, poi diventa terrore, perché degli altri si sente necessità, anche solo della possibilità degli altri, di cercarli, di sentirli, di guardarli. Vedere un uomo in fuga è come vedere un cinema, affrontare quel brivido attraverso un gesto che è realtà e metafora. Una particolare forma di teatro.
Maschere di dolore, con un braccio alzato e i denti stretti: Warren Barguil, che non riusciva neppure ad appoggiare la mano al manubrio eppure è ripartito. È arrivato centotrentanovesimo, dopo più di 23 minuti. Ovvero 23 minuti in più di pioggia e dolore. Quel tempo in più che vorrebbe chi è felice, lo ha chi patisce. Una volata vincente dura pochissimo, una caduta dura da lì a chissà quando. Le maschere più difficili da togliersi, perché non si possono levare, devono andarsene da sole. Non c'è trucco. Non è un carnevale.
Maschere di fatica: quella di Milan e di quella linguaccia a dire "sono a tutta", in salita e poi in volata. Mentre sta dando tutto e dopo averlo dato. Questo dare tutto è qualcosa che riappacifica con chi si è, con quello in cui si crede. Potrebbe scrivere molto sul tema Pasqualon, che, in una maschera sempre più disegnata dalla pioggia, è tornato in testa al gruppo per aiutare Milan. Credono in questo i ciclisti, crede in questo chiunque si sforzi di andare avanti anche quando fermarsi sembra semplice, persino ovvio, anche quando la maschera è di delusione, di freddo che ha fatto il nido nelle ossa: chiedetelo a Dainese, a Groves, a Gaviria, a Matthews e a tanti altri.
Maschere per provare a partire anche se non si è stati bene: così ha fatto Aleksandr Vlasov, maschere per tranquillizzare chi chiama da casa dopo un infortunio, una madre, un padre, una moglie, un figlio, ancora maschere di scalatori come Davide Bais che, a sera, in camera, pensa alla baita di montagna che sta ristrutturando.
Proprio in quelle camere, in un momento di solitudine, le maschere cadono: resta tutto quello che non si dice, che non si mostra, ma che si ha dentro. La delusione più profonda, il timore di sentire male, di arrendersi, di deludere. Perché, alla fine, solo di uomini si tratta. Ed è proprio questo quel che più vale.
Sulla forza mentale (di Remco)
16 Maggio 2023Corse,Newsletter
Meteorologicamente parlando, certo, quella di domenica è stata una giornata del cavolo. Dal punto di vista degli orari, certo, è stata una giornata del cavolo, perché le cronometro iniziano tardi e finiscono tardissimo. Logisticamente parlando, certo, è stata una giornata del cavolo: dopo la tappa ci siamo sorbiti più di un’ora di viaggio verso la sede del giorno di riposo, San Giovanni in Persiceto. Eppure, ho potuto ascoltare - e tanto è bastato per ribaltare completamente la giornata - due persone che amano e studiano le questioni di cui si occupano. Non c’è niente di meglio di chi ha passione per il proprio lavoro e decide, per grazia, di offrire al pubblico spicchi della propria mente.
Paolo Zanfini, da un anno direttore scientifico, ha cominciato a lavorare nella Biblioteca malatestiana di Cesena molti anni fa, come apprendista. Ogni libro che ci mostra, e solo nell’Aula del Nuti ce ne sono 343, sembra un suo figlio. Con lo stesso spirito entusiasta e propositivo ci parla di una rarissima copia miniata del De Civitate Dei di Sant’Agostino conservato nella Biblioteca e di una mostra temporanea che affronta una pagina più moderna della storia dei libri, quella dei pop-up.
La seconda persona in questione è Remco Evenepoel. Poche ore prima dell’annuncio del suo abbandono al Giro d’Italia, il campione del mondo è arrivato sorridente nel truck della conferenza stampa dove lo aspettavamo io e uno scarno contingente di giornalisti. Rotto il ghiaccio con una domanda sui watt che ha spinto nella prima parte di cronometro, Remco è stato un fiume in piena: ha parlato della crono che aveva appena percorso in lungo e in largo, dilungandosi oltremodo, soddisfacendo curiosità e suscitando ulteriori domande. Soprattutto, dando la netta impressione che fosse una persona perfettamente consapevole, in controllo. Uno sportivo che ha craccato la disciplina che pratica. La sua primissima risposta ha compreso discorsi su planimetria, fondo stradale, vento, scelta di traiettorie, riflessioni circa sé stesso e il ciclismo moderno e altre cose che non ho neanche avuto il tempo di appuntarmi.
Questa incredibile lectio magistralis di Remco mi ha ricordato una cosa che si dice di Michael Jordan e del suo Flu Game, Gara 5 delle NBA Finals 1997. La serie tra Chicago e Utah è sul 2-2 e a Salt Lake City si gioca una partita dal peso enorme. Jordan è fortemente debilitato (forse causa pizza avvelenata, forse altro), ma gestisce le proprie energie talmente bene, esercitando un controllo sulla partita mentale prima che fisico, che riesce comunque a segnare 38 punti. Alla sirena finale si lascia andare sfinito tra le braccia di Scottie Pippen.
Secondo Federico Buffa, addirittura, mentre cercava di riprendersi dall’intossicazione alimentare prima della partita, Jordan immaginò ogni possesso della partita stessa, prevedendo i movimenti suoi, dei compagni e degli avversari. Avete mai visto gli occhi di Remco - a proposito di menti che visualizzano qualcosa di diverso - quando si prepara per una cronometro, basso sulle appendici e con la testa vicinissima alle mani? Non sono occhi che si dimenticano.
Nonostante il loro corpo non fosse al massimo, insomma, la loro mente ha sopperito, e anzi la prestazione è bastata per mettere il muso davanti al fotofinish: Remco di un secondo, Jordan di due miseri punti. Non sono contesti paragonabili, l’importanza del palcoscenico è del tutto diversa e mille altri fattori differiscono. Ma la forza mentale di Remco a Cesena ha avuto, scoperta a posteriori la malattia, un che di jordaniano. Mi si perdoni il riferimento divino, giuro non l’ho letto nel De Civitate Dei di cui sopra.
Il proprio posto nel mondo
14 Maggio 2023Corse,Newsletter
Giornata perfetta al Giro
14 Maggio 2023Corse,Newsletter
È stata una giornata perfetta, al Giro d’Italia. Perfetta per il disegno: un finale mosso, con splendidi muri, in posti da urlo, come le selvagge e verdissime gole del Furlo. Perfetta per la logistica: per i tifosi che si sono assiepati sui Cappuccini per vedere due passaggi della corsa, per i tifosi che a Fossombrone hanno potuto vederne fino a quattro, per i giornalisti che hanno goduto di una rara vicinanza tra sala stampa, arrivo e bus delle squadre. Perfetta perché a Pontedazzo di Cantiano abbiamo incontrato tante persone: alcune ci hanno offerto un’amatriciana, altre ci hanno invitato davanti al loro camino. Tutte erano lì, assieme alle altre, per il Giro d’Italia.
È stata una giornata perfetta perché - l’elenco non è finito, anzi dura ancora un po’ - dopo sei partenze consecutive stamattina l’abbiamo presa su dolce, come si dice dalle mie parti, evitando la partenza di Terni. Non siamo, però, andati dritti all’arrivo: ci siamo immessi nel percorso in località Osteria del Gatto (PG), attraverso una stradina sterrata con buche grosse come piccoli laghi.
È stata una giornata perfetta perché, sulla salita dei Cappuccini, abbiamo incontrato un gruppo di amici di vecchia data. Si sono radunati per passare assieme il weekend: sia per pedalare loro che per veder pedalare altri. Il loro sorriso e la loro eccitazione, siccome di questo Giro vedranno solo una tappa, è stata spontanea e contagiosa.
In ultima istanza, ecco, è stata una giornata perfetta al Giro perché non ho nemmeno le parole per descriverla meglio di così, per ricordare chi ha guadagnato su chi, chi si è staccato, chi ha vinto e chi ha perso. Mi ha solo reso felice, e tanto basta.
Vivere l'agonia di Ben Healy
13 Maggio 2023Corse,Newsletter
“S'immagini il lettore" la lingua stretta d'asfalto, in mezzo al bosco, verticalità e tornanti, della salita de "I Cappuccini". Non è un caso la citazione manzoniana, perché, sarà il nome del muro, sarà la follia divoratrice di metri e asfalto dell'attacco di Ben Healy, ma, vedendolo attaccare, a cinquanta chilometri dall'arrivo, ci sono tornate in mente le parole dedicate da Manzoni a Padre Cristoforo, mentre rimprovera Renzo, al lazzaretto: «una voce che aveva ripresa tutta l'antica pienezza e sonorità, la sua testa cadente sul petto s'era sollevata, le gote si colorivano dell'antica vita; e il fuoco degli occhi aveva un non so che di terribile». Quel fuoco, quel qualcosa che viene da lontano e racconta una verità, è nelle gambe di Healy quando, senza paura, sceglie di restare solo: l'unico modo per avere la certezza di vincere, l'abbiamo sentito dire. Attaccare.
Sgraziato, sbilenco in bicicletta: se fosse vera quella storia che racconta di come una coppa di champagne sulla schiena di Anquetil, in una cronometro, non avrebbe versato nemmeno una goccia, la stessa coppa, probabilmente, zampillerebbe champagne da più parti, sulla schiena Healy, ma chi ha detto che sia sbagliato, che la storia di una coppa di champagne consumata non sia ugualmente bella e piena zeppa di amori e umori. L'attacco di Healy è l'apologia della fatica, l'esaltazione della massima difficoltà, una ricerca mai finita, un viaggio disperato e di speranza. È nato a Kingswinford, nel 2000, ma ha scelto l'Irlanda, la terra da cui venivano le biciclette del padre, quelle che vedeva e da cui ha tratto ispirazione. Sopracciglia folte, barba, orecchini e capelli neri, mossi, che fuoriescono dal cappellino. Ha qualcosa del cantante, qualcosa dell'attore forse. Ha quel cognome che pare quasi vezzeggiativo e che fa pensare al verbo inglese "heal" ovvero guarire.
L'attacco è la sua guarigione, un antidoto contro l'ovvietà, anche a costo di perdere, perché quando si mette in piedi un'azione così si può uscirne non solo sconfitti, ma distrutti. Invece Healy guarisce e aumenta il vantaggio: dietro, nella fuga, quella portata via con fatica, dopo 70 chilometri, hanno volti stanchi, tirati, si attaccano e si punzecchiano. Secondo sarà Gee, terzo un ottimo Zana. Ben Healy viene da lì, ma sembra di un'altra galassia, pur con un’origine, una scintilla, comune: la fuga, per l'appunto.
Della stessa apologia della fatica, si ritrova qualcosa in Leknessund e in Roglič. Il primo prova ad andare in fuga, per aumentare il vantaggio, per sgravare i compagni di una parte di lavoro, risponde all'attacco dello sloveno, poi pagherà, ma andate a riascoltare Healy e forse questo vi interesserà meno. Roglič attacca, sorprende Evenepoel, guadagna, il giorno prima di Cesena, dove tutti aspettano Evenepoel mattatore. Un gesto, un segnale. Non solo: forse anche involontariamente un modo di arrivare dall'altra parte, di lasciare qualcosa, un dubbio (chissà) nei rivali, il pepe, il fuoco, la passione, la voglia in chi guarda. Senza preoccuparsi delle gocce di champagne che possono cadere.
Ieri, in molti, hanno parlato di Marco Pantani. Noi ne parliamo oggi, pensando alla sua frase: «Vado così forte in salita per abbreviare la mia agonia». Sull'agonia ci fermiamo. Lo è stata anche quella di Healy, anche se pare essersi divertito, lo è stata e si vedeva da come maltrattava la bicicletta sull'ultima ascesa a "I Cappuccini". Verrebbe da chiedergli: «Perché hai attaccato a cinquanta dall'arrivo, quando, probabilmente, avresti potuto vincere lo stesso, gestendoti e facendo l'azione nel finale?». Verrebbe da pensare a una risposta del tipo: «Per vivere la mia agonia» E, quindi, guarire. Nascere o, forse, crescere.
"No guerre, sì rostelle"
«Uno scatto secco dopo essere stato in fuga con Gotti, il knockout! Siamo con un primo piano di Pantani. Pantani che taglia il traguardo, vince! Alza il braccio Pantani!» esclama un esultante Adriano Dezan sul finale dell’ottava tappa del Giro 1999. La Pescara-Gran Sasso è durata oltre sette ore, ma in salita il Pirata ha fatto la differenza ed è riuscito a strappare la maglia rosa a Jalabert.
Anche quel giorno, lassù a Campo Imperatore, due muri di neve si ergevano a lato della strada. Un nebbione esoterico non faceva intravedere nulla: un urlo di Dezan squarciò inquadrature neutre di persone a caso all’arrivo, «eccolo!».
Se nel 1999 si saliva da Assergi e Fonte Cerreto, nel 2023 si arriva al “piccolo Tibet” - com’è soprannominata la piana subito sotto i chilometri finali verso Campo Imperatore - da Calascio e Santo Stefano di Sessanio. Cambia l’inizio della salita, cambia anche la capacità delle televisioni di trasmettere la tappa: le quasi sei ore di corsa sono state trasmesse in diretta integrale e senza particolari interruzioni. Sei ore, inutile nasconderlo, senza grandi emozioni.
Quattro corridori in fuga prendono grande vantaggio, ma l’unico con vittorie da professionista - Henok Mulubrhan, campione africano - si stacca ai -119 dall’arrivo. Restano tre gregari, là davanti: Simone Petilli, Davide Bais e Karel Vacek. In motocronaca Stefano Rizzato non può che constatare che il gruppo dei capitani è «quasi fermo». E poi ancora, riguardo una cucina abruzzese pacifista: «La cosa migliore che ho visto in questi ultimi chilometri è stata lo striscione “no guerre, sì rostelle”».
Questo attendismo tra gli assi, oltre ad essere diametralmente opposto a quello della tappa del Gran Sasso di Pantani, mi ha ricordato una delusa considerazione di Indro Montanelli al Giro del 1948: non citeremo uno scrittore in ogni pezzo, da qui a fine Giro, ma a pensarci meglio perché no. Insomma, parlando del difetto di combattività degli assi il giornalista fucecchiese chiosò: «Non lo capisco e, per parlarci chiaro, non mi piace».
L'ultimo passo del ballo del freddo
L'ultimo passo, anzi, l'ultima pedalata, dal ballo del freddo, a Campo Imperatore, al Gran Sasso, è di Davide Bais. È un passo segnato dalla fatica e dalla rabbia. È un passo segnato da tanti sogni spezzati come sono spesso le fughe, l'ultima proprio ieri, a Napoli, per De Marchi e Clarke. È il passo perfetto, a chiudere la danza, prima di levare le braccia verso quella che pare quasi una creatura mitologica di altri tempi, la montagna. Simile a un ghepardo, ma dal manto verde, maculato di bianco, dove riposa la neve, un manto che, con la crescita dell'animale, con l'altitudine che sale, diventa sempre più bianco. L'ultimo passo, dal ballo del freddo, è lo scatto decisivo, a pochi metri dal traguardo, è un passo raro, mai riuscito, nonostante tante prove. Riuscito solo nel giorno del ballo del freddo, quassù, al Gran Sasso. A Davide Bais.
Ha caratteristiche peculiari il ballo del freddo: gambali in battere e levare, indossati e tolti, per la pioggia dei primi chilometri e per il sole che proietta le prime ombre. Mantelline chiuse, riaperte, richiuse, poi tolte, buttate in ammiraglia. Acqua che si asciuga e diventa freddo e, poco dopo, sudore, maglie aperte, slacciate, promesse di neve e vento, che spazza queste zone. Mani rivestite da guantini e dita fuori: bianche per la pioggia fredda e rosse per il caldo della fatica.
Davide Bais, Simone Petilli, Karel Vacek, in fuga sin dai primi chilometri, fatica per fatica, freddo per freddo, questo è il mestiere della fuga. Il mestiere della fuga è quel sogno spezzato a cui si accetta di andare incontro ed alla fine, forse, ci si abitua anche al fatto che la moltitudine, ovvero il gruppo, lo spezzi, ma nella progressione di un uomo in fuga, nei rilanci per allontanare il gruppo, nell'elastico per restare attaccato alla ruota di chi è all'attacco con te, nel controscatto, c'è l'infinito di quel verbo, del verbo sognare. Un infinito che affascina, che attrae, di segno uguale e contrario a qualunque ciclista. Infinito ovvero consapevole del fatto che le fughe non finiranno mai. Non sarebbero mai finite lo stesso, ma Davide Bais, che vince a Campo Imperatore, è un monito in più, per ricordarselo, per ricordarlo a chi, magari, stava pensando che domani non sarebbe andato in fuga, perché stanco dalla prima settimana di Giro d'Italia, o quasi certo che tanto la fuga non sarebbe arrivata oppure spaventato dalle due settimane restanti. Ogni tanto un ciclista ci pensa, non lo dice, ma ci pensa. Soprattutto nei giorni del ballo del freddo.
In tre, assieme per ore, in tre all'atto finale di questo ballo. Simone Petilli, che attacca già ai meno sei dal traguardo, che forza l'andatura, che, dirà, poi, di aver sbagliato, perché era meglio aspettare. Karel Vacek, che avrebbe smesso solo qualche tempo fa, che non lo ha fatto per rispetto dei sacrifici che, invece, ha sopportato per poter anche solo pensare di essere un ciclista. Vacek che si stacca più volte, rientra, sembra quasi fare la differenza e torna a patire. Davide Bais che controlla l'uno e l'altro, mentre lo sguardo, celato dagli occhiali, è rivolto solo alla strada. La concretezza di chi, a forza di confrontarsi con la fuga, ha capito che non resta altro da fare che controllare la propria strada, e gli altri faranno quello che faranno. L'uomo in fuga lavora solo sul proprio istinto, lo affina, e sulla propria solitudine, anche se non è materialmente solo, su come affrontarla, gestirla, su come fare i conti solo su una bicicletta e un pugno di muscoli.
L'ultimo passo del ballo del freddo è questo: un passo di libertà, di prospettiva, di indipendenza, che è la base di ogni legame. Il fratello, Mattia Bais, esulta durante gli ultimi due chilometri: in questo linguaggio comune, costruito dal fuggire, dall'andare, dall'affrontare la moltitudine inventando una via, un linguaggio conosciuto, scavato, vissuto. In gruppo non succede molto, è vero, anzi, quasi nulla. Solo un allungo di Evenepoel sul finale, che precede Roglic. Ma non è il momento di parlarne.
Domani, più o meno alla solita ora, qualcuno proverà ad andare in fuga. E domani, più o meno alla solita ora, avrà un motivo in più per scegliere di farlo, piuttosto che di non farlo. Perché dall'ultimo passo del ballo del freddo è uscito Davide Bais, che a forza di sogni spezzati, di fughe interrotte, ne ha ricostruito uno di sogno e, con tutti i pezzi che c'erano in giro, è uscito un gran sogno. Una grande fuga.
«Meravigliosa corsa umana»
Una definizione particolarmente calzante del Giro d’Italia è firmata da Alfonso Gatto: «meravigliosa corsa umana». Come il poeta campano, anch’io oggi mi sono convinto del fatto «che i sogni sono fatti di montagne e di cielo, di città popolose abitate da uomini felici che stanno alla finestra a veder passare il mondo». Quelle di Gatto dal Giro del 1947 erano cronache intrise di «originario stupore per quei benedetti ragazzi che riusciranno a volare su due ruote sole come angeli»: era un’epoca, quella, in cui le macchine della stampa potevano transitare tranquillamente in gruppo. I giornalisti potevano parlare coi corridori durante la corsa o fare colazione a fianco dei campioni.
Oggi l’accesso è molto più limitato. Non mi era mai capitato, prima di ieri, di seguire la corsa da dentro. Poi è successo che Shimano avesse un posto libero in macchina, mi hanno detto vuoi montare su? Sono andato. La tappa di Napoli era nel mirino di tanti: per il suo disegno su e giù tra la penisola sorrentina, per il fatto di accadere in una città che festeggia la fine di un’attesa di 30 anni, per il poter tornare - dopo l’anno scorso - a mangiare la pizza sul lungomare. Sono quindi salito in macchina per godere di tutta la tappa da un punto di vista privilegiato: mai come nella tappa di oggi mi sono reso conto di quante persone attendano l’arrivo del Giro. Si è passati in zone popolate, calorose, colorate: un San Siro e un Anfield lunghi 160 chilometri.
È difficile citare quali comuni ci abbiano riservato un’accoglienza migliore di altri, ma ne cito tre per motivi diversi. Il primo è Pollena Trocchia, perché non avevo nemmeno idea di cosa fosse prima di oggi e, travestito a festa per il Giro, mi ha fatto una gran impressione. Il secondo è Sant’Antonio Abate, per tutte quelle persone che se ne sono infischiate delle transenne del traguardo volante e hanno voluto incitare Alessandro Verre più da vicino, pur rispettando la distanza di sicurezza. Il terzo è Sorrento, perché non capita spesso di vedere due ali di folla a lato strada e sopra di te striscioni per tutta una rosa di calciatori.
La tappa di oggi è passata due volte attorno al Vesuvio, da Pompei, sulla costiera amalfitana e poi su quella sorrentina. È passata la fatica nelle gambe di Alessandro Verre, che per 80 chilometri ha inseguito vanamente. È passata la splendida vista verso Furore e il suo fiordo. È passata una giornata a Napoli, e io a malapena me ne sono accorto, stupito com’ero di tanta bellezza.
Come la festa per Napoli
Ci hanno detto che, a Napoli, il concetto di festa, tra le altre cose, è racchiuso in una domenica insieme, mentre sul fuoco c’è il ragù. A dire il vero, la festa è nel ragù che inizia a “pippiare”, ovvero a sobbollire. Quel pippiare è l’inquietudine dolce e turbolenta della felicità, di un attimo di dimenticanza, per dirla con Totó.
Quel “pippiare” è quel classico sbuffo che è ben più di un suono: è un profumo, un posto a tavola aggiunto all’ultimo, un tavolo, anche piccolo, attorno cui possono stare tante persone, “perché a quello serve una tavolata”. Abbiamo ascoltato e abbiamo pensato che se è così, festa è, in fondo, la possibilità del circostante di realizzare il proprio significato, oppure uno dei propri significati. Festa è l’azzurro delle decorazioni per il Napoli Campione d’Italia, perché i bambini, quando giocano a pallone la prima volta, sognano un tricolore sul petto. Festa è Diego Armando Maradona perché manifestazione di un talento, di un divertimento che fa divertire, che porta dimenticanza. E, nel frattempo, quel che non va resta sospeso, da solo, e quasi perde di peso.
Festa è il gruppo che pedala sulle strade della Costiera Amalfitana: perchè quelle biciclette sembrano perfette per stare lì, perché i mille colori di una canzone, che da queste parti si sente spesso, sono dentro e attorno il gruppo. Festa non è solo musica, grida di gioia e notti con la luna a vista, festa è anche il silenzio di chi sa che, oggi, la propria festa sarà diversa. Sarà un dolore quietato, il sollievo di un lettino dei massaggi, di una doccia, la consapevolezza di essere stati coraggiosi, perché, ricordate, festa è realizzare la propria possibilità. Pensiamo ad Andrea Vendrame, che è partito con una “disgiunzione alla spalla sinistra” dopo la caduta di ieri. Lasciate stare i termini precisi, vuol dire dolore, male, vuol dire non potersi girare nel letto senza sentire male e faticare a tenere il gruppo quando “mena”, come si dice in gergo, in una tappa mossa, agitata. La sua festa è così, dolorante, opposta al concerto di festa tradizionale, ma identica al coraggio, alla volontà. Alla realizzazione di ciò che si ha dentro, anche se fa patire.
Un discorso simile e diverso vale per Alessandro De Marchi e Simon Clarke. Nelle sensazioni, guardandoli, seguendoli, sperando in quella fuga, che si tifa sempre ma oggi forse di più, c’è il “pippiare” del ragù. Uno sbuffo dentro, un tuffo di qualcosa che salta e zampilla, che può essere preludio alla gioia o all’amarezza, alla mancanza. La fuga è la loro personale festa, il loro sentire, il loro manifestarsi, la loro radice che si espande e cerca altri luoghi. La loro festa è una curva, un momento in cui il gruppo scompare. Vengono ripresi a trecento metri dall’arrivo dopo aver scosso polmoni e nervi all’indicibile. Si cercano con una mano sulla spalla, mentre poco più avanti Mads Pedersen vince, esulta.
Quella di Pedersen è, forse, la festa classica, è forse una domenica, anche se è giovedì: è il traguardo dopo la fatica, dopo il lavoro, dopo quasi una settimana di Giro. È la soddisfazione costruita lentamente, come lentamente si costruisce una volata: nei meccanismi, nei tempi, nella velocità e nel caos che riempie quei momenti. Pedersen che stringe la mano a Milan, un’altra sfumatura di festa.
E nell’aria c’è quell’inquietudine che fa presagire la festa, la realizzazione di qualcosa. Diverso per ciascuno come diversa per ciascuno è la festa.