Quelle cose che noti a Hoogerheide
3 Febbraio 2023CorseCiclocross,Mondiale
La prima cosa che si nota, una volta arrivati al parco di Hoogerheide, è il gigantesco prefabbricato dedicato all'accoglienza degli ospiti. Una creatura articolata di acciaio e plastica che si estende su due piani per 150 metri di lunghezza; sembra un incrocio tra un incubo uscito dalle raccolte di "Padania Classics" e la tribuna degli scommettitori di un ippodromo. E sta sempre lì, occhieggia sullo sfondo di quasi ogni passaggio del circuito. Incombe.
La seconda cosa che si nota, una volta arrivati al parco di Hoogerheide, è il labirinto di tubi, scale e passerelle che ha l'obiettivo di trasformare il paesaggio in buona parte pianeggiante in un selettivo circuito da ciclocross. Adrie van der Poel, che il tracciato l'ha disegnato senza disdegnare la aspettative del figlio, favorito numero 1 per la prova élite maschile, dice che è più duro di quanto sembri, più di quanto si è abituati all'annuale appuntamento col suo omonimo GP. Eppure la prima gara scorre via velocissima, aiutata da un clima inaspettatamente gentile a queste latitudini, in questa stagione.
La terza cosa che si nota, una volta arrivati al parco di Hoogerheide, sono insieme una presenza e un'assenza. Perché oggi a Hoogerheide ci saranno sì e no un migliaio di persone. La maggior parte sono atleti e meccanici in ricognizione, e il fondamentale esercito pacifico di lavoratori che rende possibili questi appuntamenti, e il ciclismo tutto. Ma manca qualcuno. La staffetta mista è prova molto spettacolare ma troppo giovane per intrigare il grande pubblico, tanto più un un venerdì lavorativo. E così il parco di Hoogerheide si vede, si vedono i prati e gli alberi, si sente persino qualche uccello cinguettare. È il bosco brabantino che respira, prende fiato prima di un weekend in cui saranno il calpestio di migliaia di piedi, le urla di migliaia di gole, lo scorrere di migliaia di birre a farla da padrone. Dicono gli organizzatori di aver venduto circa trentamila biglietti soltanto in prevendita, altri diecimila sono attesi in coda ai botteghini nella giornata di domenica. Hoogerheide è una festa abituale del ciclocross, da oltre vent'anni celebra la dinastia dei Van der Poel e intende continuarlo a fare anche quest'anno, con numeri sempre più grandi.
L'ultima cosa che si vede, uscendo dal parco di Hoogerheide, è una lunga fila di ragazzini in bicicletta, fermi, vestiti con gilet fluorescenti. E un'altra lunga fila che li raggiunge alla rotonda che immette nel circuito, dividendosi la strada con la nazionale dei Paesi Bassi quasi al completo (Mathieu van der Poel non c'è) che si scalda pedalando sull'asfalto. Ci sono delle grida pacate, dei saluti, qualche scampanellata, poi le due file si ricongiungono e pedalano via, a gruppo compatto. È l'ora dell'uscita delle scuole, i ragazzini tornano a casa, e a Hoogerheide si fa quello che si fa ogni giorno, mondiali o non mondiali: si pedala.
Cresce, esplode, De Lie
La facilità con la quale Arnaud De Lie ha vinto ieri la prima frazione dell’Étoile de Bessèges, classico appuntamento di inizio stagione in Francia, ha ricordato la medesima inclinazione di un certo Peter Sagan per quel tipo di arrivi: pochi minuti in cui sprigionare potenza e saltare gli avversari in vista del traguardo.
E per certi versi simile - anche se al momento giocano su terreni differenti di coinvolgimento - è quella sorta di spavalderia genuina che esprimono nel godersi una vittoria. Ieri niente segno delle corna, lui è "Il Toro di Lescheret", ma si guarda indietro, scruta i corridori dribblati e che affannosamente tagliano la linea del traguardo alle sue spalle, e si esibisce in un gesto quasi di liberazione per la fatica fatta sulla rampa finale.
La crescita di Arnaud De Lie appare netta, anzi lo è, così come il modo con cui sconfigge gli altri corridori su terreni che si assomigliano: vincere su uno strappetto che taglia le gambe sembra diventare un marchio di fabbrica.
Sale di livello lo scontro, e il classe 2002 belga cresce a sua volta. Ieri a Bellegarde ha messo la sua squadra davanti a metà gara, spezzando il gruppo ed esasperando la fatica dei suoi, sportivamente parlando, nemici. Poi sullo strappo che portava al traguardo, dopo il lavoro di un altro suo compagno di squadra, ha lasciato sfogare Mads Pedersen nel tratto più impegnativo prima del plateau finale dove, dopo aver stretto i denti, ancora pieno di energie bruciava un corridore come il danese, che lo scorso anno, su quello stesso arrivo vinse con (estrema) facilità: un momento che fu prodromo della sua miglior stagione in carriera, almeno in fatto di continuità.
Cresce, esplode De Lie, che solo un anno fa si presentava raccontando della sua vita a Vaux-sur-Sûre, della fattoria e di come, la mattina prima del suo successo più importante tra gli Under 23, si alzò presto, come ogni giorno da quando era bambino, per mungere le vacche. Poi salì in macchina, raggiunse Grotenberge, preparò bici e vestiti e andò a vincere in volata la Omloop Het Nieuwsblad di categoria. Disse di aver sentito la fatica di quella levataccia, in gara. Almeno fu sincero.
Impressionante è la facilità con la quale in questi primi 13 mesi di professionismo De Lie abbia alzato le marce della competitività: passando dall’essere un ottimo prospetto a dare nemmeno troppi ambigui segni di predestinazione. È sicuramente presto (ma nemmeno troppo), pensare fin dove potrà abusare della pazienza dei suoi avversari, maltrattandoli su arrivi dove in passato hanno vinto o dominato, avendo pur sempre solo 20 anni.
L’idea di vederlo prima o poi (più prima che poi) scontrarsi con i più grandi del ciclismo di oggi, e su traguardi via via più prestigiosi, ci sta facendo venire l’acquolina in bocca.
Diario dal Teide: "E io chi sono?"
31 Gennaio 2023StorieElisa Longo Borghini,Trek-Segafredo
Erano i primi anni 2000, il periodo dei mondiali di ciclismo, l'inizio dell'autunno: Elisa Longo Borghini ricorda i cortili, le telecronache in televisione e un gruppo di amici che giocavano a fare i ciclisti professionisti, ispirandosi alla gara vera di cui arrivava la voce dal televisore. Ricorda tutti quegli "io sono Freire", "io sono Valverde" che i bambini improvvisavano prima di dare il via alla contesa. Ricorda soprattutto il suo spaesamento perché il ciclismo femminile si vedeva poco in televisione, del ciclismo femminile si sapeva poco e lei, mentre tutti avevano un campione da interpretare, restava a chiedersi: «E io chi sono?». Si è domandata e continua a domandarsi quante ragazzine abbiano provato la stessa cosa. Un sospiro di sollievo lo ha tirato qualche tempo fa, quando Marta, sua nipote, di nove anni, le ha detto: «Da grande, voglio scattare come Katarzyna Niewiadoma». Ha pensato che lei avrà qualcuno in cui rispecchiarsi, che non resterà a farsi quella domanda. Parte proprio da qui il racconto di una nuova pagina di diario.
Ormai sono diverse le ore di allenamento che Longo Borghini ha messo nelle gambe sulle pendici del Teide e questo la porta sempre più vicina alla stagione che sta per iniziare. Nel mezzo di una pioggia fitta, per contrasto, è tornata con la mente a Cesena, al Giro dello scorso anno, ad una crisi dovuta al caldo, al troppo caldo, e, alla fine, si è detta che, per quanto sia stato difficile arrivare al traguardo in quelle condizioni, quello dell'anno scorso è stato un Giro importante. Capiamo presto che il concetto di bellezza del ciclismo per Longo Borghini non è strettamente legato a un risultato personale: dice che una delle tappe più belle della storia del Giro d'Italia femminile è stata in Liguria, nel 2016, «ho accumulato un sacco di minuti di ritardo, ma sentivo che davanti il gruppo era scatenato».
Quando non deve fare classifica, riesce a fare cose che vorrebbe fare sempre, come parlare a inizio gara con le più giovani del gruppo, le cicliste meno conosciute: «Alcune corrono in bici pur avendo un altro lavoro e vanno ad allenarsi a sera, concluso il turno. Hanno una voglia intatta e attaccano. Non interessa se poi vengono riprese, interessa il fatto che abbiano ancora il desiderio di provarci. Non è facile a certe condizioni. Mi chiedo: cosa potrebbero fare se avessero le possibilità ideali per essere cicliste? Credo dovremmo chiedercelo tutti».
Sono proprio le diverse condizioni di partenza a far pensare Elisa Longo Borghini, quando, ad esempio, parla di quelle realtà in cui alcune ragazze hanno solo una bicicletta e quella di scorta è condivisa, perché l'allenamento fa molto, ma, se non si parte dallo stesso punto, il confronto è falsato.
«Non mi vergogno a dirlo: da junior c'è stato un periodo in cui non andavo avanti. Ho provato a ritirarmi dopo trenta chilometri di una corsa perché non ne avevo più e, quando non riesci a finire le gare, è dura. Spero di essere un modello per loro, perché mi rivedo in loro. Non sono un fenomeno, non lo sono mai stata, non pensavo di arrivare dove sono arrivata, per nulla. Quel che sono oggi deriva solo dall'allenamento, fatto di tanta fatica e sacrifici. Vorrei che a queste ragazze fosse permesso di fare lo stesso perché possono farlo, ma per permetterglielo bisogna cambiare qualcosa». Così è un bene che ci siano più gare World Tour affiancate alle gare maschili, però bisogna salvaguardare le corse minori, incrementarle, se possibile, come è necessario tutelare le squadre più piccole, anche perché «senza il loro futuro, anche le squadre più grandi non ci sarebbero. Non bisogna scordarlo, quando si arriva».
Forse, proprio pensando al suo periodo più difficile, dice che, sin da ragazza, ha imparato che, quando si va a vedere una gara di ciclismo, è giusto aspettare fino al passaggio degli ultimi, non correre via dopo il transito della maglia rosa o della maglia gialla. Quel periodo è stato quello in cui si allenava con il fratello Paolo e una salita di nove chilometri, vicino a casa, sembrava non finire mai: «In quei giorni, le mie barrette erano le merende kinder, Paolo continuava a spingermi, a dirmi che mancava poco, sempre meno. Doveva aspettarmi perché, se fosse andato più veloce, mi sarei fermata. Mi aspettava come si sedeva accanto a me in quei sabato sera a casa, con me influenzata e i miei genitori lontano per lavoro. E non si può credere a quanta fatica faccia ancora oggi Elisa Longo Borghini, per questo la parola gregario è fra più belle che conosca e, se non fosse andata com'è andata, mi sarei messa a disposizione e essere un buon gregario non mi avrebbe reso meno orgogliosa di me. Anzi». Qui torna il concetto di lavoro e di quanto, visto che il ciclismo è uno sport di squadra, fare bene il proprio compito, qualunque esso sia, permetta di tornare in camera d'albergo la sera ed esserne fiere: «Il nome che resta è uno, ma nelle mie vittorie c'è chiunque abbia fatto qualcosa per me in quel giorno o nei giorni prima. Si dice che i compagni di squadra tengono coperto il capitano e questo "tener coperto" non è gratuito. Costa acqua, vento, ritmi elevati, acido lattico. Le mie compagne si prendono carico di tutto questo».
Elisa Borghini ritiene sia essenziale permettere la conoscenza di tali aspetti perché serviranno a tutte quelle ragazze che, magari senza che nessuno lo sappia, stanno sognando di essere cicliste. L'anno scorso, al Tour de France, ha acceso la televisione e su France2 ha visto una pubblicità del Tour femminile: «Come me, l'avranno vista in molte e avranno avuto la certezza che, oggi, non bisogna più aspettare una replica a tarda sera per vedere una corsa femminile». Il Tour, spiega Elisa, fa bene al movimento, perché è un'idea cresciuta nel tempo, perché l'organizzazione è andata a casa delle ragazze che si contendono la generale e le ha intervistate, poi, ha diffuso quei contributi in televisione, chiunque ha potuto conoscerle. «Certo non bisogna scordarsi delle corse più piccole che hanno sempre scommesso su di noi, ma questo innalzamento dell'attenzione porterà anche loro a continuare a crescere, a migliorarsi».
L'alba ha dei colori stupendi al Teide e vale anche la pena anticipare la sveglia per godersela. Accade pure alle cicliste che poi salgono in sella e scattano. Forse accadrà così pure a una bambina di oggi che un domani, ricordandosi uno di quegli scatti, potrà dire: «Mamma, voglio scattare come Elisa Longo Borghini».
Diario dal Teide: la fuga impossibile
Qualche volta, in ritiro, nei giorni di riposo, Elisa Longo Borghini permette alla fantasia di spaziare. Ultimamente le capita spesso di immaginare una fuga, una fuga impossibile, una di quelle fughe che, come dice lei, si possono solo pensare e mai mettere in pratica, soprattutto quando si è Longo Borghini. Lei le chiama "fughe ignoranti", dove l'aggettivo si richiama alla follia e, quindi, alla bellezza: «Penso ad uno scatto dopo dieci chilometri di una tappa del Tour de France, su uno strappo su cui nessuno farebbe mai nulla. Quelle fughe che fanno esplodere il gruppo, con atlete da ogni parte. Se facessi qualcosa di simile, giustamente, dalla radio mi chiederebbero spiegazioni. Non accadrà, ma, qualche volta, vorrei essere nei panni delle atlete più giovani che queste cose possono permettersele». Un pensiero di questo tipo e dall'altra parte il mare, come ieri.
Solo un pensiero perché nei giorni di riposo, Longo Borghini, negli anni, ha imparato a non toccare proprio la bicicletta, ma non è stato facile, a causa di quel senso del dovere che, tempo fa, le faceva pensare che non si potesse, che non fosse giusto. «Facevo troppo» ci dice e la frase riassume molti momenti. Per esempio, il 2017, il mondiale di Bergen, l'overtraining, le cose che non vanno e un pensiero che si affaccia: «E se fosse finita qui? Se fosse il momento di smettere?». Ha sempre saputo che la vita di una sportiva ha un termine e, in fondo, si è sempre ripetuta di essere pronta ad accettarlo, semmai spera di capirlo prima, che non sia uno stop forzato, ma una consapevolezza che arriva, una scelta, non un'imposizione «perché se non sei tu a scegliere, è molto più difficile farsene una ragione, ma, comunque, ci sono altri capitoli, altre pagine». Così, a quella domanda, nel 2018, ha provato a rispondersi sinceramente e sarebbe stata pronta a scendere di sella, se avesse sentito che al ciclismo non poteva più dare il 100%: «Preferisco non iniziare nemmeno se so che non posso essere totalmente in quello che sto facendo. È una questione di rispetto: per me stessa e per ciò che faccio».
Fino a una telefonata, quella di Luca Guercilena che le proponeva un progetto in Trek Segafredo. Elisa ascoltava le parole di Guercilena, rispondeva e, intanto, pensava: «Perché mi vogliono? Perché vogliono proprio me? Non è la mia stagione, non è il mio momento».
Ha risposto subito di "sì", ha firmato quel contratto, quanto ha vinto lo sapete, lo sappiamo, ma, a distanza di anni, in un pomeriggio di gennaio, Longo Borghini pensa soprattutto a quanto, nella sua carriera, l'aiuti la consapevolezza che qualcuno ci crede, che qualcuno ti crede, come Luca Guercilena in quel momento. Tornando indietro nei ricordi, pensa che una delle prime volte in cui questo fatto ha avuto importanza è stato nel 2013, quando ha vinto il Trofeo Binda, la prima volta, l'ultima, invece, è di due anni fa. C'erano già dei risultati importanti, ma lei voleva la certezza che il ciclismo potesse essere il suo lavoro, così ha parlato ai genitori: «Datemi due anni, tre anni al massimo. Provo a diventare una ciclista e, se non riesco, mi rimetto sui libri». C'era un corso per interpreti in Università Bicocca, Elisa Longo Borghini ricorda di aver cercato informazioni a proposito, per essere pronta. In ogni evenienza. Non è servito perché, poi, il Trofeo Binda l'ha vinto.
«Quando dicono che il primo a credere in quel che vuoi fare devi essere tu, è vero. Ma da soli non ce la fanno neppure i campioni. Anche i campioni hanno bisogno di sapere che per i propri genitori possono riuscirci, che per la propria famiglia possono riuscirci. Restare soli a vedere un sogno è davvero troppo». Anche perché la crepa dei dubbi, del timore di non essere all'altezza, può arrivare anche in corsa e basta poco. Bastano quelle voci confuse dei tifosi che sembrano solo un insieme di suoni che nessuno distinguerà mai, invece, si colgono nettamente: «Quando sei al massimo dello sforzo, tutti i sensi si acuiscono, qualunque sensazione si esaspera. Vale anche per l'udito. Soprattutto quando ti stacchi, quando sei in fondo al gruppo e le altre se ne vanno. Certe parole sono come sberle involontarie: "Guarda, Longo Borghini è staccata" oppure "Longo Borghini è in crisi". Le senti e ti dici che non è possibile, che non puoi non farcela, che non puoi non essere all'altezza. Voglio dire: ha importanza ciò che senti a bordo strada e io alcune volte ho reagito proprio per qualche voce sentita lì. Dietro tutta l'epica, alla fine, ci sono solo esseri umani e gli esseri umani cercano anche queste cose». Intanto i vestiti per l'allenamento del giorno dopo sono pronti sul letto e la bicicletta è in garage.
Proprio in quel momento, a Longo Borghini viene in mente che non l'ha ancora lavata e, quando non c'è gara, la lava sempre. Spiega che è una pratica che l’aiuta anche a pensare, a riflettere. Si tratta di un'abitudine che risale ai tempi del team Top girls Fassa Bortolo. Lucio Rigato, il suo direttore sportivo, aveva un assioma: bici pulita, atleta pulito, maglie pulite, atleta pulito. Longo Borghini spiega meglio questo concetto: «Non è cosa da poco dire: questa è la mia bici. La maggior parte del tempo lo passo su questa bici, le devo rispetto come si deve rispetto al proprio lavoro. Faccio attenzione a non rigare il telaio e, per quanto sembri assurdo, mi infastidisce anche quando i meccanici la toccano troppo. Inizialmente non volevo la toccasse nemmeno Jacopo Mosca, il mio compagno. Poi ho capito che lui ha lo stesso approccio che ho io con la bicicletta e oggi può prendersene cura anche lui. Ma c’è voluto tempo. La bicicletta è una parte di me e con ciò che sento appartenermi sono molto riservata. Lo difendo».
Una bicicletta con cui gareggia, perché è il suo lavoro, una bicicletta che, in realtà, identifica come stile di vita, come modo per divertirsi, per farsi del bene. Dice che è questo l’importante e lo sintetizza con una frase di disarmante semplicità: «Se non ti diverti, cosa lo fai a fare? Talvolta bisogna divertirsi seriamente, tutto qui». Oggi, al Teide, riprendono gli allenamenti e il mare è più lontano.
Diario dal Teide: "Io non sono capace di farti tanto male"
25 Gennaio 2023StorieElisa Longo Borghini,Trek-Segafredo
In cima al Teide, il passaggio delle nuvole è particolare ed Elisa Longo Borghini lo ha notato proprio lunedì, quando si è trovata a pedalare fra quelle nuvole basse che avvolgono pietre e terra. Dopo qualche metro, la mantellina era bagnata, piena di minuscole gocce, come se piovesse, in realtà il cielo era limpido, ma, «sarà l'altitudine del Vulcano, sarà che quelle nuvole erano davvero radenti il terreno, si ha la sensazione di sfiorarle». Non le era mai capitato e, anche mentre ce lo racconta, fatica a spiegarselo. Le montagne, in fondo, possono sorprendere anche chi le scala da sempre. In realtà, però, oggi Longo Borghini ha in mente un'altra cosa, una frase che torna da molti anni fa. Una frase che dice così: «Io non sono capace di farti tanto male».
Sarà perché martedì è stata giornata di test e al Teide è arrivato Paolo Slongo, il suo preparatore, da molti anni, non da sempre, però, perché, nei primi tempi, Elisa era preparata dal padre.
Ferdinando Longo Borghini allenava i fondisti, si occupava dello sci di fondo, e, quando la portava a fare le salite, diceva più o meno così: «Negli ultimi cinquecento metri, fai il medio, la soglia e poi lanci la volata». Elisa ricorda ancora le volte in cui lo guardava e: «Ho i battiti alti, papà». Lui rispondeva con naturalezza: «Tira su un dente». Longo Borghini aveva la sensazione che per suo padre la fatica fosse qualcosa di inevitabile, non solo nel ciclismo, nella quotidianità, per questo l'accettava: bisognava sopportare e continuare a spingere. Anzi, abituarsi a farne di più. È cresciuta così, almeno fino a quando il padre le ha detto che ormai era tempo che percorresse la sua strada affiancata da un preparatore professionista.
«Non volevo, perché mi trovavo bene con lui, perché significava ripartire da capo e chissà come sarebbe andata. Ho chiesto molti perché: mi ha detto che era il momento per lui di farsi da parte, che le cose diventavano più importanti e che bisogna lasciare che un figlio percorra da solo la propria strada. Ad un certo punto, ha riso. Mi ha fissato, lo ricordo come fosse adesso: "Poi, se vuoi sapere la verità, io non sono capace di farti tanto male". Quella frase l'ho capita tempo dopo, ho capito il bene che c'era dentro: quando ci si prepara, ci si allena, si soffre e non tutti riescono a vederti così». Prendete, ad esempio, la giornata di ieri: cinque ore di allenamento e il test del lattato.
Funziona in questo modo: un tratto di salita, un chilometro e mezzo, un piccolo esame del sangue per verificare il valore del lattato prima di iniziare a pedalare e si torna a ripetere continuamente lo stesso tratto. Ogni volta che si arriva in "vetta" si ricalcola il valore, fino a che si raggiunge un parametro standard, denominato soglia, quattro millimoli. Da quel momento, si ripete ancora il test, da fermi, per due volte, dopo tre e sei minuti. Ciò che emerge fotografa la condizione attuale dell'atleta: «Non sarò in piena forma per le prime gare, ma da marzo penso di sì, lì potrò dire la mia». A noi, allora, viene naturale parlare di scatti, di quando si lascia il gruppo o il gruppetto sul posto e si va via, si va a vincere. Cosa c'è di più naturale della tentazione o della voglia di scattare per una ciclista?
«Ti confesso che, all'inizio, scattare mi faceva paura. C'è un gruppo di cento atlete e tu, da sola, parti, attacchi. Nei primi tempi, sembra quasi una lesa maestà al plotone. Mi vergognavo ad attaccare. Pensa che il primo attacco, che ricordo come tale, avvenne al trofeo Binda 2011. Non per andare a vincere, ma per riportarsi sul primo gruppo. Mi dicevo "adesso parto", mi rispondevo "ma no, che figura ci fai se non riesci a staccarle?" e argomentavo "tanto non ti conosce nessuno, anche se ti riprendono, non si ricordano chi sei". Dopo questa frase, ho attaccato davvero». A Plouay, sempre nel 2011 il primo scatto dalla testa del gruppo, per provare a vincere. Un poco di margine e il plotone che torna ad inglobarla: «Non potevo andare da nessuna parte, mi sono spenta da sola. Sono rientrate senza nemmeno aumentare il ritmo. In quel momento, però, avevo la percezione di essere davvero una ciclista».
Spiega Longo Borghini che quella sensazione non cambia mai: appena si affaccia alla mente l'idea di scattare, quel misto di adrenalina torna e scompiglia come le prime volte. Basta solo pensare: «Adesso le seguo, poi attacco e le stacco». Si insegue di grinta o di intelligenza, dipende dalle salite.
C'è Elisa e c'è Longo Borghini. A fare tutto questo, sul Teide, è Longo Borghini, Elisa, invece, è altro. «Per chi mi vuole bene voglio essere solo Elisa. Devo essere solo Elisa. Longo Borghini resta da una parte, resta agli incoraggiamenti delle persone, dei tifosi, tutte cose che fanno piacere, ma non posso fermarmi lì. Elisa, invece, racconta il ciclismo come un qualunque altro lavoro perché per Elisa è così. Per Elisa c’è la strada in cui è cresciuta, la scuola che ha frequentato, le amicizie di quel tempo, le parole con mia madre che vedo sempre meno e che, per stare con me, è arrivata fin quassù».
E ancora ci sono tutti quei fogli su cui, anche in una camera, affacciata sul Teide, anche mentre fuori ci sono solo le poche luci dell’alba, segna ciò che le viene in mente. Il foglio, poi, lo butta via, ma ha bisogno di vedere scritte le idee che le frullano in testa. C’è un libro di Carlos Ruiz Zafón, “L’ombra del vento”, che è il suo preferito da sempre e la musica che porta ovunque. “Qui vicino, ho percorso una salita che si chiama “Jama”. Questo è anche il titolo di una canzone che mi ha fatto ascoltare una persona molto importante per me. Ho iniziato a scalare e, nel frattempo, in mente avevo solo le parole di quella canzone”. Forse il senso della musica, come delle parole, per chi pedala è questo: legare cose lontane.
Tutte cose apparentemente normali, come un passaggio di nuvole basse in alta montagna o uno scatto per una ciclista. Tutte cose che, in realtà, normali non lo diventano mai. Per fortuna, aggiungiamo noi. Elisa Longo Borghini, intanto, là fuori, ha ripreso i lavori sulla soglia e sui cambi di ritmo: il menù di questi giorni.
Diario dal Teide: la prima volta di Elisa Longo Borghini
22 Gennaio 2023StorieElisa Longo Borghini,Trek-Segafredo
Mentre il dialogo con Elisa Longo Borghini si infittisce, sulle pendici del Teide, dove si trova da sola, in altura, da giovedì, sono le cinque del pomeriggio, in Italia, invece, a qualche migliaio di chilometri di distanza, l'orologio segna già le sei della sera. È una delle prime cose che Longo Borghini ci fa notare: «Alle diciotto, qui, calerà il silenzio. Un silenzio totale, assoluto. Non so cosa accada alla giornata, quando scocca quell'ora, ma ogni volta è così. I rumori scompaiono, sembra non esserci più nulla». Sarà questa l'ora delle parole, dei ricordi, dello scambio di opinioni, fino a che Elisa Longo Borghini sarà lassù. Basterà un telefono e questo sarà il nostro "Diario dal Teide".
Il Teide, già, la vetta più alta della Spagna, un vulcano, sull'isola di Tenerife, che raggiunge i 3715 metri sul livello del mare, con ancora un lato avvolto nel mistero, almeno nell'immaginazione, come tutte le vette. È la prima volta che Elisa Longo Borghini, Trek Segafredo, viene in altura qui, lei che il primo ritiro in altura l'ha fatto nel 2011, a Livigno. Certo, del Teide ha sentito più volte parlare, perché sul Teide vanno molti ciclisti a costruire il lavoro della stagione che verrà, ma arrivarci è tutta un'altra cosa: «Lo scorgi da lontano sull'ampia strada che percorri. Pensi che, lassù, sia il luogo della solitudine, invece no, invece, qui, durante la giornata, non ci si sente soli. Ci sono navette che accompagnano i turisti, c'è, soprattutto, la funivia che arriva in vetta e che continua a percorrere il suo tragitto, a scandire il tempo che passa». Longo Borghini ripensa alla montagna, a quello che per lei ha sempre significato, al fatto che, ci dice, forse, è necessario esserci cresciuti per conoscerla meglio.
«Potrei dire che sono sempre andata a pedalare in montagna: pedalavo ore e ore, da sola, strada dopo strada, passi e valichi in successione, cambiava la vegetazione, cambiava l'aria, mi stancavo, mi sfinivo in montagna. Però, per qualche ragione, ho sempre avuto la spinta per tornarci». Del resto, Elisa Longo Borghini, fra le montagne, è cresciuta, quelle del Verbano Cusio Ossola che non hanno l'aspetto lunare che si nota affacciandosi adesso alla sua camera d'albergo, ma sono sempre montagne e la spiegazione del suo carattere, del suo modo di essere, la trova proprio vicino a casa.
«La nostra è una vallata, le vette sono tutte attorno, da qualunque parte guardi. Non è detto che chi ci arrivi si trovi subito a proprio agio perché spesso piove e, quando fa freddo, l'aria punge. Ma chi resta, chi ha pazienza e inizia a camminare scopre cosa c'è nei meandri della vallata: certi scorci, quel verde che resta in memoria. Ora che ci penso, io assomiglio a quella vallata. All'inizio posso sembrare sulle mie, "musona", in realtà non lo sono. Mi piace ridere, rido di gusto, ma ho bisogno di tempo. Perché, per iniziare a ridere, devo iniziare a fidarmi, a conoscere. La vera Longo Borghini è questa». Intanto c'è il Teide e anche "lui" è da conoscere, da studiare. Non a caso, Elisa cerca informazioni, ovunque, legge, studia, fotografa oltre a pedalare e, poi, riflette e si preoccupa di ciò che resterà di tutto questo, quando sarà passato molto tempo: «Posso dire di vedere i luoghi da una prospettiva privilegiata, quella di atleta. Una prospettiva che, però, non prevede un tempo per il turismo, perché i luoghi ci scorrono accanto e non si visitano quasi mai. Però la cultura ci è concessa, possiamo informarci e tornare a casa sapendo qualcosa in più. Viaggiare consapevolmente. Altrimenti cosa resta? Solo valigie e zaini che si riempiono e svuotano di continuo. Ora sto cercando di capire qualcosa in più a livello geologico di quel gigante, del Teide».
I primi giorni di un ritiro in altura vanno affrontati con tranquillità, con calma, altrimenti "ti finisci", precisa Elisa in modo deciso. Fra poche ore, con lei ci sarà anche Paolo Slongo, il suo preparatore. Intanto si pedala dai 1980 metri fino ai 2300 e quando si arriva intorno ai 2100 il respiro inizia a essere più difficoltoso. «La sensazione è quella del cuore in gola, qualcosa che si avverte spesso all'inizio. Il corpo deve ambientarsi e serve qualche giorno. Questo processo avverrà anche quando tornerò a casa e dovrò abituarmi nuovamente a un'altra aria. Quello è il momento in cui "smaltisci il ritiro", la migliore forma fisica arriverà dopo poco». C'è anche il fatto che, in ritiro, si è lontani dalle gare e ci si resta per molti giorni. Ovviamente è una percezione soggettiva, tuttavia, per molti, il ritorno in corsa è difficile. Così, almeno, è successo spesso a Longo Borghini.
Lassù ci si prepara per un traguardo distante settimane, a volte mesi. Un traguardo che, inutile nasconderselo, quest'anno sarà il Tour de France. Anzi, ancora meglio, come aggiunge lei stessa: il mese di luglio, arrivare pronti in quei giorni e «quando si è pronti, ce la si gioca ovunque». La differenza non è sottile e Elisa l'ha compresa in un momento di apparente rammarico: l'anno scorso, dopo il Tour de France. «Ricordate come avevo vinto lo Women's Tour? Bene, avevo provato sensazioni buone e avevo anche vinto divertendomi e facendo divertire. Eppure, dopo il dolce amaro lasciato dal Tour, sembrava cancellato. Mi sono resa conto che sono bastate le prestazioni della Grande Boucle e delle Ardenne perché mettessi tutto in discussione». Il tutto per diversi giorni, fino a che, a fine stagione, si fa il punto di ciò che si è fatto e la prospettiva cambia: «Avevo vinto una Parigi Roubaix a cui non pensavo nemmeno di partecipare, non potevo dimenticarlo. Forse, in quel momento, si è fatta ancor più strada la consapevolezza che fosse giusto lavorare in vista di un periodo più che di una singola gara».
L'ubicazione della camera di Longo Borghini fa sì che dalle finestre si senta il rumore del vento, una brezza che, a tratti, risuona. Non c'è solo l'allenamento in un ritiro in altura, c'è anche il tempo della riflessione e Longo Borghini dedica molto spazio all'introspezione. «Anche la solitudine, che si prova quando tutto tace, non è negativa. Anzi, credo sia una solitudine che fa bene perché consente di fare chiarezza. Talvolta non ci si pensa, ma abbiamo bisogno di momenti da dedicare alla riflessione, per avere un quadro più chiaro delle cose. È un tempo importante quello che le dedichiamo, non meno importante di quello sui pedali. Tutto è strettamente collegato: quello che hai già fatto, quello che stai facendo e quello che farai. Penso non esista futuro, senza quello che hai già lasciato alle spalle. Di più: serve oggettività nel vedere quello che è già passato. Serve la volontà di vedere gli errori, perché imparerai, ma anche quella di vedere il buono che c'è stato perché ti renderà forte, ti restituirà consapevolezza»
In quei momenti di solitudine, di riflessione, il vento sembra portare odore di zolfo, un odore che Longo Borghini non è nemmeno certa appartenga a queste zone: «Penso sia un ricordo di quando, da bambina, andavo in vacanza alle isole Eolie. Sull’Isola di Vulcano c’è quel profumo. Qui non credo, gli altri non lo sentono. A me, però, piace pensare che sia reale, così non indago oltre. Mi fa felice percepirlo».
Adesso fuori c’è solo silenzio. Martedì sarà giorno di test e noi torneremo lassù, seppur a molti chilometri di distanza. Il “Diario dal Teide” è solo all’inizio.
DS Gaspa
La stagione del ciclismo su strada è ormai conclusa e per tutti sono stati mesi di gioie, di delusioni, di emozioni. Lo sono stati per i tifosi, per i corridori, ma anche per chi corridore non è più, e in questo 2022 ha conosciuto un nuovo esordio.
Per la nuova puntata di Parole Alvento siamo andati in Canton Ticino, a trovare Enrico Gasparotto, che ha appena portato a termine la sua prima stagione da direttore sportivo. Una lunga chiacchierata che parla di un Giro d’Italia vinto dall’ammiraglia ma anche e soprattutto delle relazioni umane che si instaurano in una squadra, e di come sia fondamentale coltivarle e tutelarle.
Intervista e voce: Filippo Cauz
Sound design: Brand&Soda
Silk Road Mountain Race
Con i suoi 1850 chilometri e 32.000 metri di dislivello, la Silk Road Mountain Race è verosimilmente la gara di adventure cycling più dura al mondo. E forse definirlo ciclismo è persino sbagliato, perché tra le brulle montagne del Kirghizistan capita che la bicicletta diventi persino un impiccio, un’ingombrante compagna di viaggio da spingere a piedi, su e giù per le pietraie, sperando di trovare presto il terreno per rimontare in sella. Un viaggio duro e selettivo ma non per questo meno spettacolare e affascinante, che lo si affronti in corsa o fuori. Federico Damiani e Claudio Ruatti si sono incontrati in Kirghizistan, uno reduce da una travagliata gara, l’altro in viaggio in bicicletta. Complice una bottiglia di prosecco, hanno condiviso con noi il loro racconto.
Voci: Claudio Ruatti, Federico Damiani
Sound design: Brand&Soda
Colombia es Pasion!
C’è chi ha lavorato nei campi, chi ha venduto biglietti della lotteria e chi si è svegliato all’alba per fare il giro dei mercati. C’è chi è cresciuto tra le bombe e con il rombo degli elicotteri militari e chi è stato costretto sin dall’infanzia a percorrere chilometri ogni giorno, su strade dissestate e pericolose.
La storia del ciclismo colombiano è una storia di fatica e di dolore, ma anche di coraggio e di tenacia. È la storia di una generazione di ciclisti che è riuscita a partire alla conquista del mondo dello sport, cambiando per sempre le vicende del proprio Paese. La raccontiamo insieme a Matt Rendell, autore dell’ultima uscita della collana Pagine Alvento, Colombia es pasión!
Voci: Filippo Cauz, Gino Cervi
Ospite: Matt Rendell
Sound design: Brand&Soda
Il fuciliere di Goodwood
È passata alla storia con un nome noto ad ogni appassionato, “la fucilata di Goodwood”. Ma dietro alla vittoria di Beppe Saronni al Campionato del Mondo del 1982 c’è una lunga storia fatta di sconfitte brucianti, di rivalità ricucite, di grandi maestri, di compagni pazienti, di piani riusciti. A 40 anni di distanza, e in occasione della settimana in cui si assegnano le nuove maglie iridate, torniamo a vivere quella corsa attraverso il racconto di Marco Pastonesi, intervallato dai ricordi in prima persona del protagonista iridato.
Testo e interpretazione: Marco Pastonesi
Ospite: Beppe Saronni
Intervista: Filippo Cauz
Sound design: Brand&Soda
TESTO INTEGRALE DELLA PUNTATA
La fucilata scatta a 300 metri dall’arrivo. Le prime quindici pedalate in piedi sulla bicicletta. La fucilata sibila a 200 metri dall’arrivo. Quattro pedalate seduto in punta di sella. La fucilata echeggia a 150 metri dall’arrivo. Nel vuoto degli avversari, nel pieno degli spettatori. La fucilata va a segno già a 50 metri dall’arrivo. Le mani in alto, le braccia al cielo, i capelli al vento, il sorriso alla storia. La fucilata di domenica 5 settembre 1982. La fucilata dei Mondiali di ciclismo professionisti su strada. La fucilata mondiale di Beppe Saronni. La fucilata di Goodwood.
Eppure la fucilata di Goodwood non è quella di un giorno e non dura solo un giorno. Comincia più di un anno prima e non finirà mai. Comincia il giorno dopo i Mondiali di Praga, domenica 30 agosto 1981, tutto in un solo giorno (donne, dilettanti, cronosquadre dilettanti, professionisti), quando la spedizione italiana torna in patria. Il volo sull’aeroporto della Malpensa. Alfredo Martini, il commissario tecnico degli azzurri, deve recuperare la sua macchina, alla Volkswagen di San Vittore Olona. Con Martini c’è (ci sarà sempre) Franco Vita, autista e molto altro: da meccanico a collaboratore, custode, confidente, testimone, in una sola parola amico. Con senso di rispetto e spirito di fedeltà, dal primo momento in cui si sono legati all’ultimo istante in cui si sarebbero lasciati. Ma prima di infilarsi in autostrada, per una vecchia sana abitudine, i giornali. Vita accosta, scende, acquista. La Gazzetta dello Sport, il Corriere dello Sport, Stadio, Tuttosport. I quattro – era un primato, quello italiano – quotidiani sportivi. Mentre Vita riprende il volante, Martini considera, subito, le prime pagine. E riconsidera la foto dell’arrivo, dello sprint, della volata. Primo Freddy Maertens, il belga, secondo Giuseppe Saronni, l’azzurro, terzo Bernard Hinault, il francese. Martini nota come Saronni tenga le mani alte sul manubrio, non basse. Alte da scalatore, non basse da velocista. Alte offrendo più resistenza all’aria, e al tempo, e alla storia, e non basse sfuggendo, sottraendosi, incorporandosi. “Una pugnalata alla schiena – sospira Franco Vita, ripensando alla muta e sofferta espressione di Martini – gli sarebbe stata meno dolorosa”.
Goodwood. Letteralmente: il legno buono, il bosco buono. Goodwood è una località, la residenza di campagna per i duchi di Richmond. Qui, nel 1802, un ippodromo. Qui, dal 1901, un campo da golf. Qui, durante la Seconda guerra mondiale, un aeroporto. E qui, nel 1948, intorno all’aeroporto, un circuito automobilistico e motociclistico. Qui, a un centinaio di chilometri e un paio d’ore in macchina da Londra, la sede dei Mondiali di ciclismo del 1982. Dalla loro istituzione, a Copenaghen in Danimarca nel 1921, solo una volta i Mondiali di ciclismo sono stati ospitati nel Regno Unito: a Leicester, nel 1970 (e a Leicester, anche in questo 1982, si disputa la rassegna iridata su pista). Così questa è la seconda volta, in una sessantina d’anni, che il Regno Unito ospita i Mondiali.
Il circuito ciclistico di Goodwood è lungo una quindicina di chilometri, in parte ricavato nel circuito automobilistico e motociclistico, e ha l’altimetria di un’onda, con una salitella prima e dopo l’arrivo. In 3 chilometri si sale da quota 41 a quota 161 metri. Nei primi millecinquecento metri la pendenza è dolce: una media del 3 percento, con punte che non sfiorano neanche il 4 percento. Nella seconda metà, altri millecinquecento metri, la pendenza si fa più dura: una media del 6 percento, con punte che non superano il 7 percento. E qui, dopo una curva a destra e un’altra a sinistra, il traguardo. Poi si rimane in quota, con un falsopiano, finché la strada scende. Quella salitella è la chiave del percorso. Lo sa Martini, lo sanno tutti. Gli esperti definiscono quella salitella come “pedalabile”, termine indefinito, generico, vago. Una salitella da fare con il rapportone, quello da pianura. Solo così si può fare la differenza. Interpretando la salitella come se fosse un vialone piatto. Ingannandosi. Perché, sia chiaro, questo non è un muro, non è uno strappo, non è neppure uno zampellotto. E’ solo una salitella. E’ materia da velocisti, da passisti veloci, da scattisti, da finisseur. E’ materia per esplosivi e resistenti, resistenti nell’esplosività, esplosivi nella resistenza. E’ materia da Saronni. Gli inglesi prevedono un “uphill sprint”: letteralmente, una volata su per la collina. Comunque – data la distanza: 18 giri di un circuito lungo una quindicina di km, totale più di 275 km – questa corsa sarà sempre materia da fondisti.
La squadra italiana è ufficializzata dopo la Coppa Placci. I nostri avversari la chiamano “la Squadra”. Sul suo diario, Martini ha già scritto la storia. Così.
1 Gavazzi Pierino Atala
2 Amadori Marino Famcucine
3 Argentin Moreno Sammontana
4 Baronchelli G. Battista Bianchi-P.
5 Bombini Emanuele (R) Hoonved-B.
6 Ceruti Roberto Del Tongo
7 Chinetti Alfredo Inoxpran
8 Contini Silvano Bianchi-P.
9 Leali Bruno Inoxpran
10 Masciarelli Palmiro Famcucine
11 Moser Francesco Famcucine
12 Petito Giuseppe (R) Alfalum
13 Saronni Giuseppe Del Tongo
14 Torelli Claudio Famcucine
E poi il personale: meccanici, massaggiatori, medico e, per la prima vota, il responsabile del settore alimentare. Si chiama Sergio Chiesa e anche lui sarà prezioso per creare armonia, equilibrio, eleganza, rispetto. Dalla tavola alla bici, dal riposo all’agonismo, dalla cucina al ciclismo, non è poi così grande la distanza.
La Squadra è costruita su Moser e Saronni con Gavazzi possibile terza punta. Da campione italiano merita rispetto. Moser è il più antico dei corridori moderni, o forse il più moderno dei corridori antichi, e sarà anche, fra qualche anno, pur sempre da corridore contadino, il primo corridore scientifico e tecnologico. Ha, nelle sue caratteristiche, un vantaggio che è anche uno svantaggio: per vincere, deve arrivare da solo. Gli riesce a crono, ovviamente, ma anche in linea. E le vittorie per distacco, in solitudine, sono quelle più gloriose. E’ in forma, ma non in formissima. Ed è al suo nono Mondiale: vanta una vittoria (nel 1977 a San Cristobal, in Venezuela) e due secondi posti (a Ostuni nel 1976 e al Nurburgring nel 1978). E’ un gigante, un monumento, un campione. Lo chiamano “lo Sceriffo”: detta legge.
Saronni, lo scrive Mario Fossati (“Il Giorno” del 4 giugno 1979), “è una sintesi del corridore ciclista. Possiede uno scatto da velocista e un corredo tecnico da pistaiolo. Si inciglia quando occorre nelle ruote del plotone e sempre quando occorre se la fila con un’esplosione di americanista”. E ancora: “L’intelligenza di Saronni non è unicamente funzionale. Saronni non è cresciuto in fretta. E’ semplicemente milanese ed essere milanese o milanese dell’hinterland è una soda esperienza”. Aggiunge: “Fuori dalla corsa il suo cervello fila”. E chiosa: “Come Moser, Saronni pensa a voce alta”. Ragazzo-prodigio, sfrontato il giusto, non accetta sudditanze. Professionista a 19 anni, sembra già appartenere al futuro: l’origine metropolitana, la simbiosi (e l’osmosi) fra pista e strada, la guida di uomini geniali come Ernesto Colnago artista-industriale della bicicletta e collaudati come Carlo Chiappano laureato all’università della strada prima da corridore poi da direttore sportivo. Beppe è già al suo sesto Mondiale: il primo, quello vinto da Moser, lo ha corso da “stagista”, e ha chiuso nono, poi quarto, ottavo, ritirato e secondo. Una vocazione per i piani alti.
Il circuito di Goodwood si adatta più a Saronni che a Moser. Martini lo sa. E lo sa anche Moser. Ma Martini – come avrebbe confidato in una puntata di “Sfide” per Rai3: “Non erano due che andavano a prendere il caffè insieme” – fa grande opera di diplomazia. Tre gregari a Franz: Amadori, Masciarelli e Torelli. Uno solo a Beppe: Ceruti. Alla ricerca dell’equilibrio fra Moser e Saronni, Martini ha previsto anche un meccanico per Francesco e uno per Beppe, un massaggiatore per Francesco e uno per Beppe. Le due riserve, Bombini e Petito, vengono ufficializzate il 30 agosto. Martini è un maestro anche di buon senso: sono giovani, non vanno caricati di responsabilità e bruciati per inesperienza, avranno altre occasioni con la maglia azzurra. Un po’ di delusione, ovvio. Ma proteste, zero.
Moser e Saronni costituiscono l’ultimo grande dualismo del ciclismo. Girardengo e Binda, Binda e Guerra, Bartali e Coppi. Ma anche Anquetil e Poulidor, Gimondi e Merckx, Merckx e Ocana. Più diversi di così, Moser e Saronni, difficile immaginarli. Trentino, Moser, e lombardo (anche se nato in Piemonte, a Novara), Saronni. Obbligato a una corsa dispendiosa e generosa, Moser, e costretto a una corsa calibrata e astuta, Saronni. Più forte e resistente, Moser, più veloce ed esplosivo, Saronni. Più vecchio, Moser, sei anni (1951 contro 1957) valgono quasi una generazione. E a questo punto 31 anni, Moser, e neppure 25 Saronni. Differenze nate subito. Di una civiltà contadina, meleti e vigneti, Moser, e di una industriale, calzaturifici, Saronni. Comunque appartenenti a due famiglie innamorate del ciclismo. Una rivalità vera, quella fra Moser e Saronni: autentica, genuina, istintiva, rusticana. Una rivalità che contrappone il tifo, separa gli spettatori, divide perfino giornalisti e fotografi.
Sul suo diario Martini precisa il “Programma”.
Partenza per l’Inghilterra
Partenza da Milano giorno 31 ore 9.35 volo AZ 458 dalla Malpensa arrivo a Londra
Partenza pullman per Goodwood
Giovedì 2 settembre
Preparazione con alcuni giri del circuito
Decidere per i rapporti
Venerdì 3 settembre
Preparazione con alcuni giri del circuito
Domenica 5 settembre
Goodwood – campionato del mondo
Hotel: Avisford Park Hotel Ltd
Walberton Arundel, West Sussex
Tel. Yapton 551215 STD Code 0243
Prima di partire per l’Inghilterra, Saronni ascolta un richiamo del cuore. E va a trovare Carlo Chiappano. E’ il suo direttore sportivo, anzi, era il suo direttore sportivo. Morto in un incidente stradale, il 7 luglio 1982, dalle parti di Casei Gerola. Sarebbe passato da Colnago, a Cambiago, poi sarebbe andato da Saronni, nel Varesotto, invece quel tragico incontro con il destino. Saronni: “Un colpo terribile. Il mio maestro, anche un amico di famiglia. Un giorno, senza dire niente a nessuno, vado alla sua tomba. E lì, davanti a lui, sento di poter vincere il Mondiale, sento di vincerlo, per me, per lui, per noi”. Di questa visita si saprà solo molto tempo dopo.
Nell’Avisford Park Hotel, Saronni è in camera con Ceruti, Moser con Masciarelli. Due gregari – Ceruti e Masciarelli – per custodire segreti, alleggerire tensioni, individuare strategie. Venerdì sera, a 36 ore dal pronti-via, nel segreto della loro camera, Moser e Masciarelli si confrontano. Se aiutiamo Saronni, lo sanno e se lo dicono, lui vince e noi perdiamo lo sponsor. Famcucine contro Del Tongo: guerra, duello, derby, sfida concorrenziale nell’ambito delle cucine componibili. Ma se non lo aiutiamo, lo sanno e se lo dicono, lui non vince e noi facciamo una figuraccia. Tutti quanti: Moser e Masciarelli, e tutti gli azzurri, Martini e i suoi collaboratori, il ciclismo italiano, altro che le notti mondiali del calcio. Masciarelli ricorda ancora quando alla porta della camera bussa Di Rocco. Non è momento da grandi giri di parole. Di Rocco, che per Martini e l’Italia si prodiga anche lui in un’opera diplomatica, domanda quali intenzioni abbiano. I due gli rispondono, all’unisono: se noi aiutiamo Saronni, lui vince, e se Saronni vince, noi perdiamo lo sponsor. Di Rocco li rassicura, qualcosa si farà, lui ha buone conoscenze, come Giovanni Giunco, mecenate del basket a Roseto degli Abruzzi, a Giulianova dirige la Gis Gelati, chissà, indagherà, chiederà, proverà. Forse per patriottismo, o forse tranquillizzato dalla mediazione di Di Rocco, Moser decide di aiutare Saronni. E Masciarelli, uomo-squadra, farà da collegamento, da interprete, da trait d’union. Perché i due, quei due, Moser e Saronni, continuano a ignorarsi, a evitarsi, a non parlarsi. Al momento opportuno, Masciarelli prende da parte Saronni e gli dice: se vuoi vincere il Mondiale, devi rischiare di perderlo. Gli ricorda, come se ce ne fosse bisogno, quello che è successo a Praga, e lo ammonisce: non correre dietro a tutti, non sprecare una pedalata. Gli impone la strategia: non ti muovere fino agli ultimi due giri, poi vedrai che la squadra ti aiuterà in tutto e per tutto. E Saronni si convince. Sapere di non avere Moser contro è un vantaggio, sapere di averlo con è un doppio vantaggio.
Gli avversari, e a indicarli non è soltanto Martini, si chiamano Bernard Hinault, francese, Greg LeMond, statunitense, e Sean Kelly, irlandese. Poi gli irlandesi. Fa meno paura il campione uscente, Freddy Martens, belga. Maertens è stato il nostro castigatore: mondiale nel 1976, su Moser, e mondiale nel 1981, su Saronni. Maertens si aggrega alla squadra dei belgi a Mondiali in corso, un paio di giorni prima della prova iridata, si dichiara in forma, ma non lo è, i compagni lo accettano, ma non lo accolgono.
La mattina del Mondiale, a colazione, anche lo chef-gastronomo-cuoco-albergatore Chiesa avverte la pressione e concede qualcosa alla tradizione invocata da Martini: prepara riso in bianco, filetto di vitello, spinaci con olio extravergine e parmigiano-reggiano grattugiato, caffè. Tuti già concentrati sulla volata perfetta. Un progetto, un obiettivo, un dogma. Tutti gli azzurri sanno che è indispensabile la volata perfetta.
Intanto Martini ha radiografato il circuito e organizzato la corsa. Tre i box: uno all’arrivo, gli altri due lungo il percorso, ma solo all’arrivo i corridori possono prendere borracce. Tre i box, dunque, tre gli uomini a presidiare quei punti fissi come sentinelle e come spie. Siccome non esistono telefonini né auricolari, Martini s’inventa un nazionalpopolare telefono senza fili: altri tre uomini (lungo il percorso per studiare le facce, captare gli sguardi, riferire impressioni in un collegamento con i “walkie-talkie”, le radio ricetrasmittenti. E non è tutto: ogni volta che s’imbocca il circuito automobilistico, Marino Vigna accosta l’ammiraglia, Martini ne scende, osserva personalmente gli azzurri e il gruppo, sente l’atmosfera, annusa l’aria, forse interroga – com’è sua abitudine – il tempo, scarpina per due-trecento metri, quindi si fa riprendere da Vigna al nuovo passaggio. Non è solo con la corsa, Martini, ma nella corsa, dentro la corsa. La vive, la respira e – a suo modo – la corre. A proposito: la delegazione italiana ha già anche ottenuto una piccola ma significativa e pratica vittoria: le auto al seguito della corsa tengono la destra, come in Europa, e non la sinistra, come nel Regno Unito.
Ed eccoci. Domenica 5 settembre. Cielo inglese. Tempo variabile. Sole, pioggia, nuvole, vento, caldo, umido, fresco. Ventimila, forse trentamila spettatori lungo il percorso. Camper, roulotte, auto. La zona della partenza. I corridori. Centoquarantuno iscritti, centotrentasei partenti, per venti nazioni. Saronni si è spillato il dorsale 96. Lo “starter” è Jimmy Kain, ha 98 anni, li porta con leggerezza, ed è stato un pioniere del ciclismo in Inghilterra. Ore 10. Pronti. Via. Il primo giro è di studio. Al secondo giro va in fuga, da solo, Bernard Vallet. Ventotto anni, francese, guadagna tempo e spazio, centinaia di metri e manciate di minuti, saranno al massimo 6’15” al sesto giro, quando Hinault accosta, si ferma, scende dalla bici, sale su un’altra bici e rientra in gruppo. Chissà se, forse scosso proprio da questa sostituzione, il gruppo alza la velocità e si avvicina al fuggitivo.
Gli azzurri controllano la corsa. C’è sempre qualcuno in testa al gruppo e c’è sempre qualcuno vicino a Moser e a Saronni. Moser e Saronni, finché possono, devono salvare la gamba, risparmiare le energie, conservare le forze. La corsa è economia, e anche ragioneria, non solo agonismo. La corsa inanella giri, trattiene emozioni, misura sentimenti. La cronaca è minima. E l’attesa s’ingigantisce. Lungo il percorso ci sono anche i nostri dilettanti e le nostre donne diventati spettatori.
All’ottavo giro si ferma Freddy Maertens. Vuoto, si è spento. Il re è nudo. Intanto, davanti, ci prova Tommy Prim. Ventisette anni, svedese, abita nel Bergamasco, corre per la Bianchi, è arrivato quarto al Giro d’Italia del 1980, secondo a quelli del 1981 e del 1982. Dietro, si ferma Hinault, ma stavolta quando scende dalla bici, non risale, si ferma e abbandona, abbandona e spiega che non è giornata. E’ l’undicesimo dei 18 giri. Martini tira un sospiro di sollievo: un pericolo in meno. Intanto, davanti, Vallet è stato al vento per 140 chilometri, e adesso il vento lo divide con Prim, un minuto sul gruppo. Hinault, il vento, un vento gelido e pesante, ce l’avrà invece dentro, senza sapere neanche il perché, certe giornate sono storte e basta. Vallet si esaurisce e al dodicesimo giro Prim, rimasto da solo, viene catturato e si ritira. Al quattordicesimo giro allunga Serge Demierre, svizzero di Ginevra. A quattro giri e una sessantina di chilometri dall’arrivo, la corsa entra nel vivo. I gregarioni italiani presidiano la testa del gruppo. Si ferma il primo degli azzurri: Leali. Ci sta. Ha dato. A tre giri e più o meno 44 chilometri dall’arrivo, in discesa allunga Moser: il primo dei favoriti a muoversi. “Lo Sceriffo” fa la prima selezione. L’andatura regolare ha mascherato la stanchezza e prolungato l’autonomia. Ma adesso la corsa esplode, il gruppo si allunga, si ricompone, finché si spezza, si frattura, si frantuma. Chi c’è, c’è. Fra chi non c’è, l’olandese Gerrie Knetemann, che proprio a Moser ha scippato il Mondiale del 1978 disputato in Germania lungo un altro circuito automobilistico e motociclistico, il Nurburgring, ma non ci sono neanche Argentin e Contini. Gli altri azzurri resistono. Ceruti è sempre l’ombra di Saronni, scivolato in coda al plotone. I due vengono affiancati dall’ammiraglia. Martini non si rivolge mai direttamente a Saronni, forse per non disturbarlo, forse per non deconcentrarlo, ma passa sempre attraverso Ceruti. Come sta?, gli domanda Martini. Bene, lo rassicura Ceruti. Perché siete in coda?, insiste Martini. E senza aspettare la mia risposta, aggiunge: manca poco. Ceruti e Saronni rimontano.
A due giri e una trentina di chilometri dall’arrivo, il gioco si fa duro. I francesi sono stati ghigliottinati del loro capitano Hinault, i belgi orfani di Maertens sembrano divisi dalle rivalità campanilistiche, gli olandesi appaiono come i più convinti e organizzati, si temono avversari incomodi e scomodi come gli spagnoli e gli statunitensi. Tentano la sorte gli arancioni d’Olanda Theo De Rooy, Hennie Kuiper e il più temuto di tutti, Jan Raas. Se gli olandesi attaccano, gli italiani difendono. Un catenaccio ciclistico. Davanti, Chinetti si prodiga. La vita del gregario può assomigliare alla vita del mediano. Un lavoro di spola e di servizio, oscuro e sporco. Nelle parole di Gian Paolo Ormezzano: “Il ciclismo è la fatica più sporca addosso alla gente più pulita”.
A un giro e una quindicina di chilometri dall’arrivo, un uomo solo al comando, ma di poco e per poco, lo spagnolo Marino Lejarreta, basco, soprannominato “il giunco di Bérriz”. Ma il gruppo tiene Lejarreta, come si dice, a bagnomaria: lo vede, lo controlla, lo lascia cuocere. Stavolta gli azzurri sono fratelli d’Italia. Masciarelli ha promesso che negli ultimi due giri la Nazionale sarebbe stata intorno, accanto, unita per Saronni. Così è. E così sarà.
Saronni ha resistito alla promessa di non sprecare energie, ma adesso non resiste alla tentazione di provarsi. E sulla salitella salta sui pedali e si specchia. Uno-due, uno-due, uno-due. La gamba c’è. In quelle tre pedalate sente il motore rombare, la bici schizzare, gli avversari trasecolare. Si ferma. Basta così. C’è.
L’ultimo giro è ancora attesa. Più snervante, più spasmodica. A 2 chilometri dall’arrivo Saronni è, più o meno, da solo. Fino a questo punto Moser e compagni lo hanno tenuto al coperto. Ma adesso, concluso il lavoro, all’andatura che sale, al ritmo che si impenna, agli scatti che si moltiplicano, gli azzurri si sfilano.
Ai piedi della salitella scatta ancora Lejarreta. Irriducibile e orgoglioso come un basco. Guadagna qualche metro. Chinetti, per istinto, ormai per abitudine, si alza sui pedali. Ma ha le gambe dure e si fa da parte. Adesso il gruppo, davanti, è frazionato. Per scattare è troppo presto. Saronni decide di continuare con il suo passo. E con il suo passo, riprende e salta chi lo precede. L’ultimo, da solo, davanti, è l’americano Boyer. E’ scattato a ottocento metri dall’arrivo, forse meno. Ha ancora una cinquantina di metri di vantaggio. Ma la sua azione si appesantisce, la sua bici oscilla, e lui s’ingobbisce. Dietro c’è l’olandese Johan Van der Velde, poi anche LeMond. E’ a questo punto che la corsa di Saronni non è più di attesa. E’ qui che comincia la sua volata perfetta.
La fucilata scatta a 300 metri dall’arrivo. Le prime quindici pedalate in piedi sulla bicicletta. La fucilata sibila a 200 metri dall’arrivo. Quattro pedalate seduto in punta di sella. La fucilata echeggia a 150 metri dall’arrivo. Nel vuoto degli avversari, nel pieno degli spettatori. La fucilata va a segno già a 50 metri dall’arrivo. Le mani in alto, le braccia al cielo, i capelli al vento, il sorriso alla storia. La fucilata di Goodwood.
Adriano De Zan, in diretta tv (Rai), emula quello che Nando Martellini ha fatto per gli azzurri per la terza volta mondiali nel calcio, ma personalizzandolo: “Saronni campione del mondo! Saronni campione del mondo! Saronni campione del mondo!”.
Primo, Saronni: 6h, 42’22”, a 41,022 km/h. Secondo, a 5”, LeMond. Terzo, a 7”, Kelly. Con lo stesso distacco seguono l’olandese Zoetemelk, Lejarreta, il belga Pollentier, lo spagnolo Fernandez, il tedesco Thaler. Nono è Gavazzi. Decimo Boyer. Moser è ventiseiesimo a 23”. Masciarelli e Ceruti arrivano insieme, trentaseiesimo e trentasettesimo a 1’39”. Argentin è quarantasettesino a 6’. L’ultimo è l’australiano Shane Sutton, a 20’22”. Cinquantacinque arrivati su centotrentasei partiti.
A chi andrebbero i diritti d’autore dell’espressione “la fucilata di Goodwood”? A Fulvio Astori. E’ lui, sul “Corriere della Sera”, il primo a consegnare la fucilata alla storia: “Alla destra dei due, come una fucilata, scatta Saronni con un rapportone irresistibile. Sembra un sasso lanciato da una fionda”. Martini, nel suo libro “Un secolo di ciclismo”, è definitivo: “Uno sprint come quello che fece Saronni, sulla rampa di Goodwood, non l’ho mai visto fare da nessuno”. E ancora: “Quella progressione negli ultimi 200 metri fu sorprendente, credo che sia uno dei gesti atletici più belli nella storia del ciclismo”.
E Saronni? Saronni ha il dono della leggerezza. Per sdrammatizzare, racconta come, dopo il traguardo, esca dolorosamente dallo stato di grazia per colpa di un terribile mal di piedi. Si è stretto i piedi nelle scarpe e le scarpe e nelle gabbiette dei pedali per cercare la massima aderenza e non disperdere energie. Ma stretti così tanto, da non far quasi circolare più il sangue. Così slaccia i cinghietti, estrae le scarpe dalle gabbiette, mette i piedi a terra. Intanto viene circondato dal servizio d’ordine, quello dei ‘policemen’, i poliziotti inglesi. Sei o sette energumeni, grandi e grossi. Lui piccolo, e ancora contratto nello sforzo, rannicchiato nella volata. Loro alti due metri. Lo proteggono, lo custodiscono, gli fanno ombra. Se Saronni alza lo sguardo, vede un pezzo di cielo. Se guarda in basso, vede le loro scarpe, sono scarponi neri, lunghi come pinne, numero – minimo – 50. Insieme camminano verso il traguardo, il podio, il palco. La gente si accalca, si addensa, spinge. I poliziotti si stringono e stringono Saronni. Finché uno di loro, involontariamente, con quel suo scarpone nero e quel suo peso da rugbista gli pesta il piede, quello destro, proprio quello che più gli duole. Saronni urla. La gente forse pensa che sia un urlo di felicità o di liberazione. E’ invece un urlo di dolore. Istintivamente, Saronni si toglie tutte e due le scarpe e rimane con i calzini bianchi. E sul podio iridato sarà immortalato così.