Antica bellezza
25 Settembre 2022CorseEvenepoel,Wollongong 2022
A tratti, sotto i raggi di sole del tardo pomeriggio di Wollongong, la maglia del Belgio di Remco Evenepoel ha qualcosa di antico. Quasi una cartolina d'altri tempi, spedita di domenica. Qualcosa di antico lo ha anche il ciclismo che per quanto sia cambiato negli anni, per quanto cambierà, mantiene alcuni tratti che emozionano allo stesso modo, a metà tra passato e futuro.
La solitudine di un ciclista, ad esempio. Il gesto di Remco Evenepoel emana una bellezza antica: quando sceglie come direzionare la corsa, quasi un artigiano, qualcuno che lavora alla bicicletta, al telaio, che lo rende adatto alla persona, all'uso, quando, poi, allunga quel gruppo come una corda di violino e si intuisce un suono, quasi l'accordo iniziale di una musica, quando aspetta e freme per poi andare via con Lutsenko. Non scatta da dietro, non cerca di sorprenderlo: fa il suo passo, duro, logorante e Lutsenko si stacca, stanco, non lo regge più, cerca conforto dall'acido lattico in un attimo di quiete a poco meno di trenta chilometri dall'arrivo. Davanti, Evenepoel se ne va e da solo guadagna, inesorabilmente. Senza freni, senza tregua, senza pausa.
Qualcuno racconta che alcuni pittori provano una sorta di frustrazione, di lieve dolore, perché per quanto si cerchino i giusti colori, il giusto accostamento, luci e ombre, ciò che l'occhio vede non riesce mai a essere realmente intrappolato dalla tela. Non è l'occhio a essere ingannato, è solamente il fatto che a ciò che vediamo accostiamo un sentire particolare ed è complesso mostrare quel sentire in modo che anche chi legge, chi ascolta, possa provarlo. Allora richiamiamo alla memoria ciò che avete visto, ciò che abbiamo visto e ognuno sa quello che ha provato.
Basta una frase: «È scattato Evenepoel» per innescare una serie di reazioni, di sensazioni, le stesse per tutti e a quelle ci richiamiamo, quelle resteranno quando penseremo a Evenepoel con la maglia iridata, Campione del Mondo. Questa è la bellezza antica di cui parlavamo, di una bicicletta, del ciclismo. Di Evenepoel che si porta la mano sulla bocca al traguardo, poi sulla testa, la scuote nell'aria e solo alla fine alza le braccia. Quel senso di felicità che impedisce di stare fermi, qualcosa a cui avrà pensato in tutti i chilometri in solitaria perché Remco, oggi, ha vinto il Campionato del Mondo, prima di vincerlo. Il tumulto, però, è troppo forte per gestirlo, anche più dei suoi attacchi, del suo smisurato talento. E gioisce, incontra i compagni, abbraccia Alaphilippe, quasi un passaggio di consegne, si dicono qualcosa, chissà che cosa, di sicuro qualcosa che li accomuna, perché a chi ha provato la stessa emozione non serve spiegare nulla: sa come ti senti. Poco dopo, si cerca van Aert, una mano sulla spalla, pochi gesti.
La bellezza antica del ciclismo è anche nelle parole genuine di Lorenzo Rota, che era lì a giocarsi una medaglia, poi un calcolo sbagliato dei tempi e gli azzurri si sono piazzati, ma per quel podio non c'è stato nulla da fare, nonostante una corsa vissuta nell’unico modo possibile: «Era come un dietro moto». Così il talento si riconosce, piace, provoca sollievo anche se c'è rammarico, dolce e amaro. Trentin quinto, Bettiol ottavo, Rota tredicesimo: per noi finisce così.
Sul podio, con Evenepoel, Laporte e Matthews. Finisce come finiscono sempre questi giorni, comunque sia andata. Evenepoel parla con i giornalisti, dice molte cose, una in particolare: "Sono felice". Normale esserlo, certo, dopo una gara simile. Forse più strano dirlo, perché si ritiene ovvio, quasi una frase di rito. Lo sarà, probabilmente. Ma a noi piace vederci quella antica bellezza che non trascura anche le cose più semplici e le vive fino in fondo.
Il bello e l'attimo
21 Settembre 2022CorseCronometro,Guazzini,Wollongong 2022,Kung,Cronometro a squadre
È vero, oggi qualcuno con gli occhi da tifoso potrebbe parlare di delusione, potrebbe dire "che peccato!" - sì "che peccato" lo potremmo dire anche noi - ma oggi celebriamo il bello. È vero, tre secondi sono niente, fanno male, più a loro che a noi, ma oggi è sceso in strada anche il bello.
Guazzini, Cecchini, Longo Borghini che non sono solo armonia e musicalità in quei loro cognomi in rima e ritmo, ma il bello è la cadenza che mettono in strada, nella cronometro a squadre mista.
La tattica studiata nei dettagli, la potenza: a tutta nella parte finale, veloce, tecnica. Peccato, sì per quei tre secondi, ma va così, nonostante una prova che li ha portati a guadagnare diversi secondi alla Svizzera, ma non quanto bastava per vincere l'oro, tanto quanto bastava per vincere un argento: un argento che è bello lo stesso.
E va così, anche perché cambiamo punto di vista e pensiamo a Stefan Küng: quanto bello è stato finalmente vedere mentre si scrolla di dosso per una volta quei pochi secondi di ritardo che finalmente diventano di vantaggio? Tre secondi che sono un attimo e lui contro quegli attimi ci ha sbattuto per una carriera intera. È vero c'è qualcuno che sostiene come questa gara valga poco o non sia interessante (noi siamo dello schieramento opposto: a noi la cronometro a squadre mista piace un sacco! ), ma nei panni di Küng godiamo per quell'attimo - e chissà che gli serva anche per spostare un po' di quella magia e farne qualcosa di ancora più grande domenica.
Un attimo, come direbbe il Groucho inventato da Tiziano Sclavi: "Un attimo è il tempo che intercorre tra lo scattare del semaforo verde e l'idiota dietro che suona il clacson". Sì, un attimo è davvero poco, anche nel ciclismo.
Il bello oggi a Wollongong non era certo il tempo, ma lo erano le curve prese a tutta che ogni volta ti lasciavano il respiro in gola. Per un attimo, prima di vedere i corridori lanciarsi come degli elastici.
E oggi lo celebriamo il bello, il bello contro l'attimo, come quello che passa tra la partenza della frazione maschile olandese e la catena che si incastra e costringe Mollema a fermarsi; il bello contro l'attimo come quello che passa invece tra la partenza della frazione olandese femminile e la caduta di Annemiek van Vleuten che ne compromette definitivamente la gara. E non c'è stato bello nel non poter vedere gli olandesi giocarsi le proprie carte. Ma va così.
Il bello è quello di Bissegger - anche se il casco è così brutto - Schmid, Küng che danno, al tempo delle ragazze, Reusser, Koller e Chabbey, quel poco che bastava per vincere e loro resistono per quei tre secondi, per quell'attimo.
Il bello è vedere come il movimento femminile italiano crea talento, perché Guazzini, anche oggi con un passo da prima della classe, è talento, e anche lei ci farà divertire, rendendo bello ciò che a noi piace del ciclismo. Non solo per un attimo.
A Wollongong riapre l'ufficio facce
18 Settembre 2022CorseEvenepoel,Ganna,Wollongong 2022,Foss,Kung
È una danza con diversi attori. Diversi balli per tutti i gusti. Cambia da corridore in corridore, da posizione a posizione. Sembrano, quei corridori, lo abbiamo detto più volte, esseri arrivati dal futuro che fanno un tutt'uno con la bicicletta, metà uomini e metà mezzo meccanico e dove forcelle, manubrio, ruote e pedali sono semplici appendici del loro corpo. Che esercizio assurdo la cronometro!
La prova contro il tempo è questa: un miscuglio di gestione delle forze al millimetro, di posizione aerodinamica, di forza e di cadenza di pedalata, di scelta del rapporto, di sofferenza mentale, di sforzo fisico da portare oltre ai propri limiti per - come nel caso di oggi - quaranta, cinquanta minuti.
Quella di Wollongong, 18 settembre 2022, è qualcosa in più rispetto a tante altre perché in palio c'è una maglia da campione del mondo. E a Wollongong, Australia, 18 settembre 2022, è saltato il banco. Perché? Alzi la mano chi si aspettava Tobias Foss vincitore. Buon corridore, è vero, un Tour de l'Avenir nel palmarès - che arrivò, se non a sorpresa come il titolo di oggi, poco ci manca - un passato prima nel biathlon, dove pareva una promessa, sciava bene e sparava meglio, e poi nella mountain bike dove imparò a guidare oltre i limiti come successe alla Liegi Bastogne Liegi per Under 23 di qualche stagione fa quando si lanciò come un matto in discesa per staccare i due in fuga assieme a lui che poi lo superarono nettamente in volata, e all'epoca, ma anche prima, parlando del ragazzo norvegese si diceva: "Bel corridore, ma per vincere deve arrivare da solo". E più solo che in una cronometro...
La prova contro il tempo di oggi non è solo danza o sorprese, aerodinamica, potenza o cadenza, ma è anche, o soprattutto, una questione di facce: quella di Stefan Küng è incredula, dove la delusione è smorzata dalla fatica; ne trova sempre uno che va più forte di lui, anche se di poco, in linea o a crono non fa differenza: se la sua costanza fosse stimata a un centesimo per piazzamento, Küng varrebbe oro, altro che argento o bronzo.
La crono di oggi è questione di facce, sì: quella di Remco Evenepoel, appena tagliato il traguardo - sarà terzo - quando gli dicono che ha vinto Tobias Foss è tutta un programma. «Chi? Foss?!».
Quella di Foss, da Vingrom, paesino vicino Lillehammer dove qualche anno fa il censimento contava 642 abitanti quasi equamente diviso tra maschi e femmine, è quella di un incredulo campione del mondo a cronometro: tra i professionisti aveva vinto solo a casa sua in Norvegia; quella faccia sarebbe utile da studiare per capire cosa c'è dietro - e magari quale fede - ma per farlo dovrebbe riaprire l'Ufficio Facce di Viola, Cochi e Renato. Quella faccia è un campionario di incredulità, di dubbio, di piacere, di lacrime.
Poi alla fine tolte quelle facce e gli occhi piccoli incastrati in un viso da bambino, gli resta una medaglia d'oro sul collo e una maglia iridata che porterà fino all'anno prossimo. Mica male Tobias Foss, nuovo campione del mondo della cronometro.
«È stata dura?»
2 Settembre 2022StorieGiro del Friuli,Epis,Buratti
Intorno alla bocca, Giosuè Epis ha un segno che pare un principio di disidratazione. Subito tagliato il traguardo, affannato ma felice, circondato da un gruppo di persone, esclama con un sorriso a pieno volto: «Questa è buona!» lasciando in sospeso il riferimento: la vittoria nella seconda tappa del Giro della Regione Friuli Venezia Giulia, la più importante della sua giovane carriera? Oppure il piacere di scolarsi una bevanda - seppure in versione ridotta - che quando la mandi giù dopo una giornata in bicicletta provoca un benessere difficilmente spiegabile? Non glielo abbiamo chiesto.
Vanno all'attacco in nove, poi diventati otto vedremo, su un percorso che è un su e giù estenuante, durante tutto l'anno, per i ciclisti amatori della zona che spesso maledicono il dover tornare a casa passando per queste strade, sapendo che non c'è un metro di pianura, ma che invece, chi il corridore lo fa di mestiere (o studia per esserlo) beve di gusto come fosse, appunto, la bevanda di cui sopra. Dissetante, ma con le bollicine.
Ha tenuto duro, Epis, racconta a quel gruppo di persone che lo circonda, ma sapeva di poter contare sul suo guizzo veloce; con lui c'era gente navigata - per la categoria - come Zurlo, oppure la coppia piena di talento della Alpecin Devo, Vandebosch e Verstrynge, ma davanti è arrivato lui, con la maglia gialloblù della Carnovali Rime. Questo è ciò che conta.
Subito dopo passato il traguardo di Colloredo di Monte Albano, in provincia di Udine, un rettilineo infinito che tira all'insù, Davide Toneatti sembra quasi spaesato. Si guarda intorno dentro la sua maglia azzurra leggermente diversa dal celeste Astana che indossa in questa stagione su strada: è qui con la nazionale italiana che per l'occasione ha portato cinque corridori tutti provenienti dal ciclocross. Toneatti è un ragazzo della zona, di Buja per l'esattezza, come Milan, come De Marchi per contestualizzare il talento che arriva da un piccolo paese alle porte di Udine, e ci teneva a spiccare e poi a lasciare il segno. In fuga anche lui ci è andato vicino tanto così.
Lo dipingono tutti come puntiglioso, serio, quasi maniacale nel cercare la perfezione. Lo sprint lo vede battuto, ma più che spaesato in verità sta cercando con lo sguardo i suoi genitori che da almeno un'ora e mezza non stavano più nella pelle in attesa dell'arrivo del figlio.
La gioia di Epis, la tranquilla ricerca di uno sguardo familiare di Toneatti, la delusione di Nicolò Buratti, altro ragazzo quasi di casa, Corno di Rosazzo, sempre in provincia di Udine, ma quasi dalla parte opposta.
Indossa la maglia gialla di leader - che passerà sulle spalle di Zurlo - perché ieri sera la sua squadra, il Cycling Team Friuli, aveva dominato la crono che apriva il Giro della Regione Friuli Venezia Giulia (Giro del Friuli, per gli amici e per farla breve) e lui era passato per primo sotto lo striscione del traguardo.
Oggi l'arrivo era perfettamente tagliato sulle misure di un ragazzo (classe 2001) cresciuto per gradi, ora esploso quest'anno e appena uscito da tre vittorie in fila, Poggiana e Capodarco, dure e prestigiose, Rovescalesi. Tre vittorie che indicano perfettamente le caratteristiche di un corridore veloce, resistente, esplosivo.
Davanti in fuga c'era Bryan Olivo suo più giovane compagno di squadra (2003) nel Cycling Team Friuli: altro ragazzo friulano. Talento da coltivare del nostro ciclismo, forte nel ciclocross, fortissimo su pista e - giovanissimo, è un primo anno - alla ricerca della sua dimensione anche su strada.
Un problema meccanico lo ha tagliato fuori dalla fuga e la sua squadra successivamente non è riuscita a chiudere il buco. Ci dicono piangesse a fine gara per la delusione, ma le occasioni non mancheranno per ricamare un palmarès da primo della classe.
La rabbia di Buratti ha gli occhi rossi dalla fatica, ma si dissolve all'improvviso quando si accorge che dietro le transenne ci sono alcuni amici venuti a vederlo correre. «È stata dura?», gli chiedono. Buratti, fa un segno con la testa come dire: "che ci vuoi fare, questo e il ciclismo". Buratti, poi, sorride.
Dietro il sorriso di Chaves
2 Settembre 2022StorieEsteban Chaves,Vuelta
Eppur sorride. Verrebbe da dire così, incontrando Esteban Chaves in questa Vuelta a España. Eppure ovvero nonostante tutto. Nonostante la fatica che è più fatica del solito, nonostante i risultati che non arrivano, nonostante le ruote degli altri sempre più distanti. Una distanza che aumenta ogni volta, davanti a lui, non dietro. Da solo, con pochi, in coda, non in testa. Quasi che quel colibrì danzante fosse diventato un colibrì sgraziato. Leggero eppur pesante. Non una leggerezza di pensieri e azioni, di imprevedibilità e velocità, di scatto e controscatto. Una leggerezza di vuoto: quando le gambe non vanno, quando l'energia finisce.
Pensare a Esteban Chaves senza quel sorriso fa quasi strano perché il suo è un sorriso che sembra restare anche quando fatica, quando si commuove, quando non ce la fa più. Quasi un negativo di una foto, qualcosa che in controluce traspare sempre. Anche in questi giorni in cui, già fuori dalla lotta per la classifica generale, dopo aver lavorato, dopo aver preparato la corsa, far fatica sembra senza un fine, se non quello di immagazzinarla, di assorbirla, di farsene parte. Una prospettiva difficile.
Qui la leggerezza diventa davvero difficilmente sostenibile; da vivere e da trasmettere. Eppur ancora c'è, eppure ancora sorride quando può. Quel sorriso è in realtà un modo di prendere le cose, una filosofia semplice e profonda. Un fanciullino di Pascoli, qualcosa di primordiale. Primordiale, all'origine come sognare di vincere una grande corsa a tappe: così puro, così grande sognano i bambini. Gli adulti ridimensionano, talvolta nascondono quando il sogno è troppo grande. Chaves, per i sogni, è restato il bambino che era e lo ammette.
Anche se ora ha paura. Non tanto di non vincere: un ciclista sa che perdere è molto più facile, molto più probabile. Ha paura di deludere la squadra, le persone che lavorano con lui, che credono in lui. Ha paura perché sente di non poter dare quello che ci si aspetta da lui. Qui la leggerezza diventa pesante, diventa difficile. Perché anche vedere quella festa sulle strade può fare male quando non sai perché le gambe non girano, quando non ti riconosci.
Restare Esteban Chaves, restare un colibrì, che fatica a planare, ma pur sempre un colibrì, era la prova decisiva, l'ostacolo da affrontare ancora una volta. "È la vita da atleta, da professionista" ha detto Chaves. È la vita, direbbe chiunque. Chaves ci sta riuscendo.
La misura di ciò in cui crediamo è nei giorni in cui quel qualcosa, pur potendo svanire, resta. Perché lo abbiamo voluto, non solo perché è capitato. Questa è la forza: Chaves che continua a sorridere e pensa a quando quella bicicletta lo farà nuovamente felice. Davanti a tutti.
Carapaz e saudade
1 Settembre 2022CorseVuelta,Richard Carapaz
C'è qualcosa che richiama l'armonia in Richard Carapaz che se ne va sulle pendici di Peñas Blancas. Quasi un profumo o una sensazione che, da El Carmelo, in Ecuador, arriva fino in Spagna, e sembra proprio aria di casa. Aria di casa come uno scalatore in fuga mentre "la strada si rizza sotto i pedali" avrebbe detto qualcuno.
Ma la fuga di Richard Carapaz è partita ben prima oggi: a inizio tappa, insieme a tanti. I suoi lineamenti, talvolta, a tratti ricordano la “saudade”, la nostalgia. Quando è lontano, persino della sua prima vecchia bicicletta che i genitori recuperarono in una discarica, oggi, invece, proprio di quel sentirsi a casa in salita, del suo essere, delle sue sensazioni. Così attacca la "Locomotora del Carchi", durante la dodicesima tappa della Vuelta a Espana, il primo giorno di settembre.
Attacca per andare in fuga dopo un inizio di Vuelta complicato, dopo essere andato completamente fuori classifica, dopo giorni difficili. Attacca dopo quel maggio che, proprio in salita, sulla Marmolada, gli ha strappato di dosso la seconda volta al Giro. Hindley che parte, Carapaz che si stacca. Lo ricordiamo tutti, dopo venti giorni di gara. Il giorno prima di Verona.
Attacca e torna ad attaccare ai due chilometri dal traguardo questa volta restando solo, sui pedali, poi seduto e ancora sui pedali e ancora seduto. Sta bene così, Carapaz. È tornato a casa: ha fatto quello che sa fare, quello per cui in Ecuador lo imitano, lo cercano. Quello per cui qualche ragazzo lascia la propria terra cercando fortuna.
Ha vinto, alzando le braccia, sollevato, risollevato, rialzato. Anzi, sollevatosi, risollevatosi, rialzatosi perché nessuno tranne lui poteva farlo. Perché in montagna, perché primo davanti a tutti. E, anche se Carapaz conosce bene la vittoria, questa volta sembra ancora la prima volta.
Zoncolan Challenge: oltre la salita
1 Settembre 2022ProgettiZoncolan Challenge
Spesso, quando Walter Franz esce in bicicletta, con lui, nel carrellino dietro, c'è Joseph, suo figlio. Per Joseph, otto anni, affetto da una forma di autismo grave, gli oggetti attorno sono estranei: a causa di un deficit cognitivo, Joseph non comprende e non parla. Quando è su quella bicicletta, però, sorride, anzi, più la bicicletta va veloce, più sorride. Walter conosce bene la felicità che può dare una bicicletta, lui stesso l'ha sperimentata, anni fa, ma vedere suo figlio felice è più importante. Vedere suo figlio felice fa quella bicicletta più importante. Fa tutte le biciclette più importanti. La bicicletta, in quel momento, è una opportunità di cambiare qualcosa.
Zoncolan Challenge, in fondo, nasce da qui. Sabato dieci settembre, alle sedici, Walter inizierà a scalare lo Zoncolan e lo farà per otto volte, fino alla domenica alla stessa ora. Joseph non ci sarà, non nel carrellino di Walter, almeno. «Mi dicono tutti che è difficile e lo so. Lo è. Ma, nella vita, ci sono tante cose più difficili a cui non pensiamo mai fino a quando non ci capitano. Forse servirebbe un poco di cura in più. Perché il dolore di una salita finisce, altri dolori non si affrontano così. L'ho imparato conoscendo la disabilità». Walter parla delle disabilità gravi, di Joseph, delle parole che non arrivano e di quell'universo del silenzio che ribalta lo stomaco. «Un genitore soffre anche quando il figlio ha mal di denti perché lo vede provare dolore. Noi, quando vediamo soffrire nostro figlio non sappiamo perché, non possiamo saperlo, non possiamo chiederlo a lui, non possiamo chiederlo a nessuno».
Sullo Zoncolan, accanto a Walter, potrà esserci chiunque: in bicicletta, con una bicicletta elettrica, persino a piedi. Perché lo Zoncolan non si sale da soli, come da soli non si cresce, non si impara. «Imparare a nuotare, ad esempio. Non ho mai saputo farlo e un paio di anni fa mi sono iscritto a nuoto. Qual è il problema? Rinunciamo a tante cose di cui abbiamo paura, quando possiamo riuscirci benissimo. Forse dovremmo farle proprio per rispetto di chi non può farle. Di chi non potrà mai farle». Walter pensa a Joseph: «In quell'universo del silenzio c'è molto da imparare. Da quel silenzio abbiamo capito che c'è un futuro da tutelare: il futuro di mio figlio e dei ragazzi come lui. Una casa, una possibilità di essere autonomi».
Pedalando Walter ha pensato a tutto ciò che in questi anni ha capito dell'autismo chiedendo a medici, a esperti. Soprattutto in casa un ragazzo autistico grave è esposto a ogni rischio: «Ho pensato che l'opportunità potesse essere un progetto, potesse essere small-house, un prototipo di casa in cui Joseph possa vivere anche quando sarà solo. Una casa che rispecchi le sue abitudini, che si adatti a lui per non fargli male, per non fargli troppo male. Perché gli oggetti possano essere meno estranei. Con dei tablet ai muri». Walter l'ha pensata su Joseph, ma ogni bambino e ogni ragazzo è diverso. Ogni famiglia può pensare a una casa che sia davvero casa, che protegga. Insieme a questo un trust, derivato dalla legge "dopo di noi" che garantisca le possibilità economiche a questi ragazzi. Perché il loro domani passa anche da qui.
È difficile da raccontare, da capire fino in fondo. Non il progetto, la sensazione che si prova sentendosi impotenti. «Quell'idea, in bicicletta, mi ha fatto capire che qualcosa si può fare. Da quel giorno, sono ancora più legato alla bicicletta». E dalla bicicletta si può partire come ha fatto quel signore che, tempo fa, ha portato suo figlio a pedalare con Walter e Joseph. «Mi ha detto che era importante vedesse, capisse . Entrasse in contatto con una realtà diversa dalla sua. Non so se qualcuno porterà i propri figli a Zoncolan Challenge, ma lo spero. È importante che un bambino possa capire mentre si diverte, perché la bicicletta è il primo segno di autonomia, di libertà. Assomiglia a quando inizi a conoscere qualcosa. Conoscere e pedalare sono verbi similari».
All'evento sarà connessa una raccolta fondi per continuare a dare forma a questi, a queste idee. «Più volte ci siamo sentiti soli, più volte non abbiamo saputo come fare, perché non conoscevamo quasi nulla. Da soli, ascoltando, abbiamo provato a imparare. Pedalare assieme è anche combattere quella solitudine, dire: "So che succede così, ci sono passato, vivo la stessa situazione". Da lì poi nasce il coraggio per continuare a viverla e per continuare a pensare al futuro». Quella strada all’insù, quel giorno, sarà tutto questo: oltre la salita.
Un uomo solo (al comando)
30 Agosto 2022CorseRemco Evenepoel,La Vuelta,Vuelta 2022
Se volessimo usare un'espressione tipica o, ancora meglio, volessimo prendere in prestito una delle locuzioni più celebri della storia del ciclismo, diremmo: "un uomo solo al comando".
Ma chi scrive ha un certo rispetto per la tradizione e allora preferisce iniziare questo pezzo scrivendo: "Un ragazzo solo al comando".
Perché di questo si tratta: un ragazzo, poco più che ragazzino, nato nei primi mesi del 2000 che si fa scivolare addosso il tempo, tutto il tempo, che passa e lui appare andargli incontro. Mani basse, testa ficcata in mezzo alle spalle che - spiace contraddire la bonanima di Boskov - nel suo caso non è buona solo a portare cappello, ma anche casco aerodinamico, utile, come da definizione, a tagliare l'aria.
Un uomo solo al comando, anzi un ragazzo: c'è chi vorrebbe esserlo prima o poi come Tiberi alla sua prima cronometro individuale in un Grande Giro, ma non è quel giorno; c'è chi ci resta per un bel po' come Cavagna, che ride e fa segni eloquenti quando vede l'intertempo del suo giovane compagno di squadra che lo supera di parecchi secondi, come se quello lì vestito di rosso appartenesse a un'altra categoria; c'è chi lo è stato spesso al comando, magari non nelle crono, ma per tanto tempo e tante volte: Vincenzo Nibali, e fa male pensare che oggi è alla sua ultima cronometro in un Grande Giro, forse in carriera.
E allora quel tempo che passa oggi appartiene a Remco Evenepoel, vestito di rosso, solo, perché si è soli in bici, figurarsi in una cronometro, mentre spinge il 60x11, compatto sul suo mezzo, potente e dominatore come lo aspettavano in Belgio, come lo aspettavamo tutti, che lo cerchiamo, lo seguiamo, una sorta di stella da prima serata dalle sue parti, tanto che a volte fa persino storcere la bocca.
Quel tempo, presente e futuro, che appartiene anche a Carlos Rodríguez: la Spagna cercava un corridore vero, eccolo trovato. Un po' di invidia. Sana invidia, la stessa che si prova nel vedere Evenepoel, un uomo solo al comando, anzi un ragazzo che oggi è dominatore. Domani chissà, dopo la Sierra Nevada di quello che sta facendo il belga se ne potrà iniziare a parlare più serenamente, intanto strabuzziamo gli occhi e ci facciamo venire male alle gambe dopo averlo visto pedalare così.
L'oro di Tel Aviv: imparare a vincere, imparare a perdere
29 Agosto 2022StorieCiclismo su Pista
Ci fu un giorno in cui Daniele Fiorin, padre di Matteo, gli consigliò di conoscere meglio la sconfitta perché gli sarebbe servito. Essenziale per lui, essenziale per qualunque giovane, nello sport e fuori. Accadde mentre, da ragazzino, Matteo Fiorin giocava a calcio e faceva ciclismo: preferiva il ciclismo, lì vinceva spesso e stava quasi decidendo di dedicarsi solo a quello. «No, credo tu debba continuare almeno per un altro anno anche a giocare a calcio. Non perché il ciclismo non faccia per te, esattamente il contrario. Vinci molto, vinci tanto con quella bicicletta, ma, alla tua età, bisogna anche imparare a perdere altrimenti poi sono problemi». Matteo quel giorno ascoltò suo padre ed oggi, a diciassette anni, nonostante le vittorie, conosce la sconfitta.
«So che quando si perde si è sbagliato qualcosa e bisogna tornare ad analizzare ciò che si è fatto. In realtà, però, so anche che pure quando si vince bisogna riguardare la gara e imparare qualcosa in più per un semplice fatto: chi ha perso, in quel momento sta imparando, se tu che hai vinto non lo fai resti indietro e la prossima volta perderai». Essere pronti, questo è il punto. Pronto per fare il proprio dovere, per un velodromo a Tel Aviv, per una maglia azzurra al mondiale, per il quartetto juniores, per l’inseguimento a squadre, per una medaglia d’oro.
Sì, Matteo Fiorin non avrebbe dovuto essere a Tel Aviv, ai mondiali juniores su pista, ma quando il suo telefono è squillato sapeva esattamente cosa fare, perché lo aveva sempre fatto, perché è un ciclista. «Non ho avuto paura, ma dubbi sì. È normale. Forse per questo devo ancora realizzare. Tutto però apparteneva a Matteo ragazzo, non a Fiorin ciclista. In sella riesco ad essere “cattivo”, deciso, convinto, molto preciso. So quello che devo fare e lo faccio». Nella vita di tutti i giorni è contento di essere Matteo prima che Fiorin. Ha amici ciclisti e con loro parla di ciclismo ma con i compagni di scuola o con chi non è interessato alle due ruote non sente il bisogno di raccontare ciò che fa in bici perché «sto bene così, essere al centro dell’attenzione non mi interessa, non mi piace». In pista, a Tel Aviv, loro: Alessio Delle Vedove, Matteo Fiorin, Renato Favero, Luca Giaimi e Andrea Raccagni Noviero e i timori che passano dopo le qualifiche.
Così perfezionista che dopo l’oro nel quartetto era dispiaciuto per aver mancato per un niente il record del mondo: qualche istante, poi urla, abbracci, l’inno e qualche ricordo. “Da esordiente primo anno quando persi una prova in batteria al meglio delle tre. Mio padre mi si avvicina e mi dice: «Vai e divertiti. Ora devi solo divertirti. Arrivai terzo». Padre e figlio, soprattutto questo, in grado di crescere assieme e poi di fare autonomamente strada: “Quest’anno mi sento più autonomo, ma l’autonomia l’ho costruita anche grazie ai suoi consigli”.
Imparare a vincere, imparare a perdere. Come è successo nella Elimination Race: «Non ero così lucido come avrei dovuto essere. L‘ho riguardata e la riguarderò, capirò l’errore e imparerò». Anche di questo è fatta la realtà di un ciclista: delle corse viste e riviste, di studio, in fondo. Perché quando l’adrenalina della corsa scende, vedi molti dettagli che prima non avevi nemmeno considerato. E poi divertirsi vedendo Wout van Aert e Mathieu van der Poel, su fango o su strada. Quel sano piacere che vedere la bravura fa provare.
In quel velodromo, a Tel Aviv, Matteo Fiorin ha voluto fare una foto con Walter Perez, già Campione Olimpico e Campione del Mondo, ora C.T. della nazionale Argentina. A casa, aveva rivisto una foto con lui, di quattordici anni fa, a soli tre anni. «Ci tenevo ad avere un’altra foto con lui, dopo tanto tempo. Ci tenevo a rivivere quel momento. Soprattutto perché di quel giorno, ovviamente, non ricordo nulla e mi spiace. Volevo ricordarmi di quel momento, così ho chiesto un’altra foto. Un ricordo di quello che ho fatto, di quello che posso fare».
Lorenzo Milesi cercava risposte
28 Agosto 2022CorseTour de l'Avenir,Lorenzo Milesi,Marino Amadori
Oggi era, anzi in realtà lo è ancora, perché non è finita la giornata, uno di quei pomeriggi da tenersi liberi, accendere tutti i dispositivi disponibili e farsi una bella mangiata di ciclismo.
Si corre in Spagna, in Francia - in Bretagna per la precisione - in Germania eccetera, ma gli occhi di chi scrive erano puntati in maniera particolare sul Tour de l'Avenir.
C'era salita, tanta, c'era l'Iseran, che vuol dire 2700 metri di altitudine; c'era una fuga con tanti ragazzi dentro e quella voglia irrefrenabile di muovere le gambe pur essendo ormai al decimo giorno di corsa. Fra questi ragazzi, Lorenzo Milesi, classe 2002, DSM Development Team, ovviamente all'Avenir in maglia azzurra.
È tutto l'anno che va forte: nel pieno della stagione, eravamo ad aprile, ha avuto un incidente con un'auto che l'ha preso in pieno mentre si allenava rompendogli la mandibola; ha interrotto l'attività, ha tenuto a freno la rabbia, l'ha domata, è tornato a correre, si è preparato e a questo Tour de l'Avenir è arrivato con ambizioni.
Personali e di squadra perché uno come lui non ce l'hanno in tanti. Spigliato in gruppo, leader nato dicono, abile a limare, resistente sulle salite brevi, cilindrata di quelle importanti in pianura. Uomo ovunque: come va di moda dire in questo periodo, un coltellino svizzero.
Lo abbiamo visto tirare fuori i suoi capitani dalle difficoltà di tappe nervose nei primi giorni, provare a vincere in prima persona nella seconda tappa - ripreso sotto il triangolo dell'ultimo chilometro; lo abbiamo visto scivolare dietro fino in ammiraglia e risalire pieno di borracce per i suoi compagni di squadra.
Lo abbiamo visto dettare ritmi e tempi nella cronosquadre e negli ultimi giorni lo abbiamo visto andare forte anche in salita. D'altra parte lui a inizio stagione raccontava di aver scelto l'Olanda, la DSM, per capire che tipo di corridore poteva diventare e oggi forse qualche risposta l'ha ottenuta.
L'Italia al Tour de l'Avenir ha fatto un piccolo capolavoro, mi scuso in anticipo per i termini che possono sembrare esagerati, ma così è. E un applauso va anche a chi questi ragazzi li guida, Marino Amadori, che ha saputo trasformare un problema - l'assenza di quei corridori che qui avrebbero dovuto fare i capitani: Garofoli fuori tutta la stagione, Germani e Frigo che hanno dovuto saltare la corsa all'ultimo momento per un incidente ancora con un' auto mentre si allenavano - in un opportunità.
L'opportunità di rilanciare Fancellu, oggi bellissimo in salita mentre attacca e alla sua ruota resta solo Uijtdebroeks, oppure PIganzoli fino a stamattina in lotta per un posto sul podio.
L'opportunità di mostrare Milesi. Ieri, il ragazzo della provincia di Bergamo che corre in bici solo da 4 anni e un po' per caso, dopo essersi rotto i legamenti della caviglia giocando a calcio, è andato forte: 12° nella tappa più dura della corsa. Oggi è andato in fuga; ha resistito sull'Iseran, anzi, era lui a dettare il ritmo in un gruppo di fuggitivi: prima 18, poi 10, poi 6. In discesa ha controllato i contrattacchi e sull'ultima salita è sparito agli occhi dei suoi avversari. Con quel piglio e quel motore descritto sopra.
È partito e ha vinto, e visto quanto va forte, quella che raccontiamo oggi potrebbe essere solo una parte della sua storia.
Per la cronaca la corsa è stata vinta (dominata) dal belga Cian Uijtdebroeks, ragazzo belga classe 2003. Di lui, se non vi è già capitato, ne sentirete parlare.