Trek Store Bergamo, Lallio
Non fate nulla, limitatevi ad immaginare e ad ascoltare. Lo sentite? C’è un televisore acceso, sono circa le tre del pomeriggio, fa caldo, molto caldo, è luglio, persino la leggera brezza che, ogni tanto, arriva dal mare, è calda, quasi un asciugacapelli puntato addosso. Serve appena appena a smuovere qualche fronda degli alberi e le tende di quelle finestre aperte che, passeggiando, si intravedono nei centri abitati. Sui tavoli dei bar, dell’aranciata fresca, della limonata, un bicchiere con dello sciroppo di menta, canotte e pantaloncini corti, anche qui la televisione è accesa. Ma torniamo alle case, dove, all’esterno o poco più in là, in un campo, i ragazzini, a scuole terminate, giocano a calcio. Avviciniamoci per sentire meglio quella voce che risuona da più parti: è Adriano De Zan, impegnato nell’ennesima telecronaca di una tappa del Tour de France, mentre i campi di girasoli scorrono in video, assieme alla lotta per la maglia a pois, tra gli uomini in fuga, su una cima alpina o pirenaica, quando al traguardo mancano ancora molti chilometri. Fabio Sinatra è lì, in uno di quei salotti, su uno di quei divani, accanto ai nonni, tutto occhi. Siamo in Sicilia, ad Avola e Fabio è arrivato qui da circa un mese, giusto appena finite le lezioni, resterà fino a settembre. Una classica estate italiana, una classica estate da adolescenti, di quelle in cui, a sera, si va sul lungomare a mangiare un gelato, a vedere i fuochi d’artificio, oppure, da qualche parte, a vedere altre ruote girare, altre biciclette sfidare il vento, nella gara notturna che tutte le estati si fa in città, l’ultima settimana di luglio.
Bergamo era distante in quei giorni siciliani, Avola, invece, è vicinissima in questi giorni lombardi, bergamaschi, perché appena chiediamo a Fabio Sinatra, direttore dello Store Trek di Bergamo, di parlarci del suo rapporto con la bicicletta, la memoria pesca là: «La bicicletta l’ho conosciuta per nonno, grazie a lui ed attraverso di lui. Certo non pensavo che sarebbe diventata parte del mio mestiere, ma che mi sarei sempre ricordato di quei giorni lo sapevo. Del resto, chi non si ricorda le estati da giovani? Chi dimentica le prime passioni o i discorsi fatti con i nonni a compiti finiti?». Una bicicletta Trek c’era già, era rossa e Fabio la condivideva con il fratello, c’era anche una Bianchi, dai nonni. Quella Trek rossa era stata acquistata in un piccolo negozio, saranno stati venticinque metri, accanto al palazzo dove vive e guardando dalle finestre ce lo si raffigura ancora, anche se, ormai da qualche anno, quel negozio non c’è più. Le biciclette, invece, a Bergamo ci sono sempre: fanno parte dei risvegli della domenica mattina , dei velodromi, della “Tre sere di Dalmine”, e delle gare dei più giovani. «In città, sono tantissimi i volontari che si impegnano affinchè le gare dei ragazzini siano possibili, aiutano le società a pensarle, a crearle, ed è interessante osservare i loro gesti, la dedizione che ci mettono ed il tempo che dedicano. Vedere correre quei ragazzi accresce la passione, la voglia di fare un altro giro in bici, uno in più, ma anche fermarsi ad osservare i volontari fa lo stesso effetto. Mi è capitato, lo consiglio». Sinatra parla di piccole attenzioni, le stesse che lui da sempre applica alle biciclette, racconta che il primo tipo di approccio è tattile: toccare la bici, conoscerla in questo modo, esplorarla, starci a contatto. All’inizio era tutto più semplice: la passione per il ciclismo, per il basket, il lavoro in Decathlon e sempre le mani “fisicamente” sulla bicicletta, appena ne aveva la possibilità. Poi una telefonata, la carica di direttore, soddisfazioni e responsabilità che devono coesistere perché le biciclette del suo negozio, una volta uscite di lì, vanno a percorrere i viaggi ed i giri di altre persone e chi pedala sa cosa vuol dire: «Un viaggio in bici è un’esperienza ed a noi quell’esperienza interessa in ogni dettaglio. Chiunque pedali, sa che possono esserci tante cose, minime ma fastidiose, che rovinano il momento: un rumore, una scomodità. Noi vorremmo che la pedalata fosse immersiva, che permettesse di non pensare ad altro se non che al ruotare dei pedali ed alle istantanee di paesaggio da ricercare, da portare a casa, da raccontare. Credo sia una bella responsabilità provare a garantire tutto questo, molto difficile, ma stimolante. Tra l’altro, a me le responsabilità sono sempre piaciute».
Per meglio raccontare questa sensazione, Sinatra ci accompagna, grazie al racconto, in uno dei suoi tragitti preferiti, in città, verso Monte di Nese: sono otto chilometri di salita abbastanza impegnativa, in mezzo al bosco, in estate si sta bene ed in autunno è un fiorire di colori: lassù, in cima, c’è il paese. Lo Stelvio è lontano da qui, ma un cartello, nello store, lo ricorda, insieme a un’immagine enorme, sulla parete sinistra dello store: «Tre settimane prima che tutto questo arrivasse in negozio, ero andato a scalare lo Stelvio: ho voluto metterlo qui per ricordare quell’esperienza, per tenere a mente la fatica bella, la sofferenza tremenda e piacevole allo stesso tempo, del pedalare, quella che piace a me». La prima cosa che colpisce del negozio sono le dimensioni, ben ottocento metri quadrati, in stile moderno, al secondo piano c’è l’officina in cui ci si occupa di sistemare le bici, i loro ingranaggi, e di restituirle come nuove, quaggiù, invece, un’autentica distesa di biciclette, circa duecento. Impattante, senza dubbi: «Le persone sono spesso abituate ai piccoli negozi, qui possono letteralmente perdersi fra le biciclette, da scegliere, da guardare, anche solo su cui fantasticare. Quel televisore è sempre acceso su qualche corsa: le persone si siedono al tavolo, bevono qualcosa, commentano. Qualcosa di simile a quello che avveniva a me, nelle mie estati siciliane».
Sinatra ci sta presentando la zona di accoglienza del cliente, quella dove si può guardare la tv, ma anche leggere un libro, una rivista o lavorare qualche istante al computer. Si fa un passo indietro, quando il negozio era appena stato aperto: «Era una nuova realtà, certamente il nome Trek ha aiutato, ma chiunque entrasse era nuovo qui e noi eravamo nuovi ai suoi occhi, non ci conosceva e non lo conoscevamo. Allora si inizia a parlare, a presentarsi, bisogna trovare un punto d’incontro e, nel nostro caso, il punto d’incontro è facile: la bici. Credo sia difficilmente descrivibile il potere che hanno quelle ruote, quel manubrio, la sella, l’insieme degli ingranaggi, l’epica che ha trasmesso ed il divertimento che lascia quotidianamente. Non è facile descriverlo perché va oltre e si traduce nella capacità che questo mezzo ha di far aprire le persone, talvolta di alleggerirle o di liberale da un peso che portano addosso». L’esperienza accomuna molti e Fabio Sinatra resta stupito ogni volta che ci riflette: «Il giro in bici non si fa solo con amici di lunga data, magari è un cliente, qualcuno che hai appena conosciuto: glielo proponi e ti dice di sì, spesso senza alcun dubbio: è uno degli inviti che le persone accettano senza chiedere nulla, se non la destinazione. Non finisce qui. Inizi a pedalare e parli di bicicletta, magari del meteo o del luogo in cui ci si fermerà per un panino ed una birra, passa qualche chilometro e ti ritrovi a confidarti. Qualcuno diceva che la bicicletta è amicizia, è vero».
Dentro e fuori, in negozio e sulle strade. Ora torniamo fra quelle duecento biciclette, precisamente alle mattine in cui Sinatra arriva qui e si mette a lavorare: «Potrei muovermi ad occhi chiusi qui dentro, conosco ogni angolo di questo posto. Sento l’odore delle ruote e dei copertoni, anche quando sono via, mi basta pensarci e quel profumo arriva, assieme all’orgoglio». L’eccellenza di Trek, di cui parla Sinatra, alla fine, è ricondotta alle cose semplici: la conoscenza di un luogo, il fare casa, il non essere solo un lavoro, «sebbene sia un lavoro e non avrei potuto chiedere di più: biciclette e persone assieme, conoscere le une attraverso le altre e viceversa». Si nota dallo sguardo che Fabio Sinatra rivolge ai clienti, non appena escono: «A me interessa che siano soddisfatti, e non parlo solo o tanto del prezzo, parlo piuttosto del sentirsi bene per la bici su cui pedalano, dell’essere felici di un problema risolto e tutti sappiamo cosa si prova quando la propria bici torna apposto». Quelle persone, in molti casi, erano sulle strade del Giro d’Italia 2023, quando il Giro ha fatto tappa a Bergamo.
«Conosco le vie della città, ma ti giuro che mi chiedevo come facessero a starci, come potessero essere così tante, in Città Alta quasi non si riusciva a passare. Un gruppo di amici ha fatto le salite di quella giornata, attraverso strade secondarie, per trovare i corridori, per guardarli ed incitarli, a voce alta, decisa, al mondo della gente di queste strade: gente testarda, tenace, dura ed attenta alle cose più importanti a cui dare rilevanza». A Fabio Sinatra piace questa dimensione del ciclismo: racconta dei tre professionisti di Avola e dei tanti atleti di Bergamo e dintorni, oltre a “Il Lombardia”, la gara di casa, in un certo senso. Ripensa a Marco Pantani, a Mario Cipollini, a Paolo Bettini, «a tanti campioni che basta averli visti una volta e non te li scordi più, nemmeno se ti allontani dal ciclismo».
Ed, in effetti, almeno per qualche anno, Sinatra, il ciclismo, lo ha seguito da casa, giocava a basket a livello agonistico, uno sport molto diverso, con, però, in comune l’elemento “persone”: «Senza gli altri, non vai da nessuna parte. Nel ciclismo, come nel basket, conta la squadra, in ogni sfaccettatura. Anche se non si è professionisti, ma si parte per un viaggio, anche se si è soli, contano le persone. Quelle che incontri, che saluti o che ti salutano, quelle con cui fai un tratto di strada. A Pasqua ho fatto un viaggio in bici verso Montpellier, partendo da Ventimiglia: era la prima volta, so che ce ne saranno molte altre. In primavera vorrei andare in Toscana, in mente ho anche i paesi del Nord, in cui la bicicletta è al centro della quotidianità». Da come ce lo racconta, siamo certi che di viaggi ne farà molti e anche molto presto, nel frattempo, ogni mattina, Sinatra torna in negozio, dove si orienta anche a luci spente, dove si siede per un caffè e ascolta le persone chiedere, raccontare, parlare di biciclette. Quel ragazzino, ad Avola, in un pomeriggio afoso d’estate, qualche anno fa, davanti ad una telecronaca del Tour de France, non l’avrebbe mai detto.
Cicli Lazzaretti, Roma
Una voce circola fra le vie di Roma: pare che Romolo e Remo, dopo aver fondato la città, abbiano anche fondato un negozio di biciclette. Bella questa, direte. Certo, a livello temporale le date sono decisamente sfalsate: Roma venne fondata nel 753 avanti Cristo, quel negozio nel 1916 dopo Cristo, ma, si sa, le leggende hanno poco a che fare con la realtà, semmai con le impressioni, con i sentimenti e con i tempi passati che, appunto perché trascorsi da molto, restano avvolti in un alone di mistero da cui si può iniziare a raccontare una storia. Però i nostri Romolo e Remo hanno davvero attraversato le vie della città e, davvero, si sono fermati a quel negozio in Via Bergamo 3a, che, agli inizi, era pieno di macchine da cucire per riparare le maglie di lana dei ciclisti di quei giorni. A dire il vero, in negozio restava Remo perché Romolo aveva una vena più avventuriera, viaggiatrice, ed era un ciclista vero e proprio. Un professionista degli anni venti, del Lazio, ciclista indipendente, che corse anche con la società ciclistica Binda e che, nel 1924, vinse una tappa al Giro d'Italia, la Bologna-Fiume, ben 415 chilometri di strada. Remo, invece, era dietro il bancone di quell'emporio ciclistico, come si chiamava all'epoca, con un camice nero, sempre al lavoro, ma senza la frenesia che oggi si respira ovunque. Amava i ragazzi, i più giovani, li cercava con lo sguardo e, se vedeva che erano appassionati di ciclismo, gli mostrava le sue biciclette: i padri pagavano le cambiali e Remo consegnava le bici ai figli. Era un uomo semplice, buono. Romolo e Remo, sì, Romolo e Remo Lazzaretti.
Il racconto della storia e anche della leggenda dei due fratelli ce lo fa Simone Carbutti, nipote di Remo, anche se nonno non l'ha mai conosciuto e tutto quello che sa di lui viene dalla narrazione di mamma e papà. Siamo proprio all'interno di Cicli Lazzaretti, il negozio storico, e la storicità si respira a pieni polmoni, a partire da quella grande cassettiera, quell'enorme scaffalatura, che occupa tutto il muro dietro il bancone, a cui immaginiamo di rivedere il signor Remo nello svolgimento del suo mestiere. Notiamo, poco più in là, nello spazio piccolo ma custodito e curato con attenzione del locale, un soppalco in vetro e acciaio che si sposa perfettamente con il clima antico, c'è anche l'officina in cui i meccanici studiano e aggiustano, sistemano e modificano, e, accanto alle attrezzature più moderne, si cimentano anche in lavori più classicamente da officina, come sistemare un carrellino, ad esempio. Ed eccoci alla vetrina dove anche un cambio od una leva sono esposti ed illuminati ad esaltarne le caratteristiche, quasi fossero gioielli. A pochi metri da qui, una decina, forse una ventina, un altro negozio, sempre Lazzaretti, più recente, nato dieci anni fa, per chi ricerca l'ultimo pezzo, la bici all'ultimo grido: si scorgono le volte a mattoncino, tipiche dei palazzi storici, e quelle nicchie al muro, dove sono riposte le biciclette, talmente bene da sembrare dei quadri. Carbutti riprende la storia: dal fratello della madre, anch'egli Romolo, che, dopo un periodo in negozio andò in Brasile e si occupò di biciclette anche là, fino al padre, Mario: gran pedalatore che, però, conosceva poco la parte tecnica del lavoro.
«Mio padre è stato uno dei primi ciclo-escursionisti, a fine anni ottanta, ad esplorare l'Africa, pedalando. Ho foto in cui è con bambini dello Zaire, una di queste è diventata anche la copertina di una rivista, ci sono filmati a raccontare i suoi viaggi in Nuova Guinea, fino al Kilimangiaro. Si trattava di viaggi abbastanza improvvisati, per i canoni odierni, davvero al limite anche per quanto concerne la sicurezza: si dormiva in tenda, si contattavano le missioni locali ed i consolati. Per orientarsi si usava una cartina e poco altro, gli inconvenienti erano all'ordine del giorno, i tentativi folli anche. Come quel giorno in cui si avviò verso il Kilimangiaro per scalarlo in bici: gliela sequestrarono alla base e dovette proseguire a piedi». Mario Carbutti ha smesso di fare questi viaggi a causa delle varie guerre, sorte in quelle zone, e Simone è cresciuto in città. A Roma, dove non si respirava l'aria del ciclismo eroico che c'era, ad esempio, in Toscana: si ricorda del Trofeo Lazzaretti, a Monte Sacro. Una gara aperta ai dilettanti che, vincendola, dava l'opportunità di passare fra i professionisti: Davide Rebellin fu uno degli ultimi a conquistarlo. Quando Simone è ragazzo, sono gli anni delle biciclette da cross, con il cambio sulla canna orizzontale, le cosiddette saltafossi: «Non volevo la saltafossi, invece sono stato uno dei primi ad averla, quando ancora nessuno aveva la mountain bike». Nel negozio ci sono sempre state bici da corsa, senza mai tralasciare la parte urbana, le e-bike e le biciclette da passeggio, si sistemano biciclette d'epoca ed eroiche e per Simone Carbutti che è cresciuto, sin da bambino, in mezzo alle bici, iniziare a lavorare in quei locali è quasi naturale, dopo aver lasciato l'università al secondo anno. All'inizio, però, non è per nulla facile, come non lo è mai lavorare in famiglia, a contatto con i genitori, per differenza di vedute e di visioni, date dalla differenza di età: «Nel tempo, entrambi abbiamo smussato i nostri lati caratteriali più complessi. Da parte mia, ho imparato un lavoro, conoscendo la vecchia meccanica della bicicletta, una meccanica davvero difficile, più di quanto si possa pensare, necessaria anche a fronte di un mondo che si sposta sempre più verso la tecnologia, altrimenti manca un pezzo. Credo anche di aver portato un pizzico in più di modernità, di innovazione: papà non sbagliava, per nulla, ma, in tema di biomeccanica, prendeva le misure con il metro ed il mercato, oggi, richiede una precisione superiore, con macchinari a ciò dedicati. In fondo, quello fra generazioni è uno scambio».
Le parole virano da una descrizione ad una riflessione, sul modo di fare il proprio lavoro: «Cerchiamo di essere onesti, abbiamo meccanici davvero qualificati e in molti ci dicono che siamo bravi: l'intenzione è quella, di fare il meglio e di farlo nel miglior modo possibile. Tuttavia sicuramente a qualcuno non piacciamo, qualcuno ci critica, è scontento del nostro operato ed è giusto che sia così, va bene così». Non sono passati molti giorni da quando un call center ha contattato Cicli Lazzaretti, spiegando che, a fronte del pagamento di una cifra, sarebbe stato possibile eliminare le recensioni negative dai loro profili social. Simone Carbutti, dall'altra parte del telefono, non ha avuto esitazioni: «Perché dovremmo volerle cancellare? Devono restare, come restano quelle belle. Il fatto è, semmai, che le cose negative fanno sempre più notizia di quelle positive, ma è normale, succede sempre». Di certo, là fuori, le persone vogliono vedere, vogliono conoscere quel luogo che, si racconta, molti vadano a visitare prima di recarsi al Colosseo: in quella strada camminano e si incontrano persone di spettacolo, della politica e lavoratori delle botteghe, dei negozi che alzano la saracinesca con le prime luci dell'alba. Simone Carbutti e tutti coloro che lavorano in negozio cercano di mettersi a disposizione, di lasciare al cliente non solo una bicicletta, ma un'esperienza e, magari, le risposte a tutte quelle domande personali, che ciascuno ha, quando cambia la bicicletta o la porta a far aggiustare, ma che nel commercio online non si possono porre: «La gentilezza, l'accoglienza, l'essere ospitali è quel qualcosa in più che abbiamo il dovere di donare a chi passa a trovarci, caratteristiche che raccontano le persone e fanno parte delle persone, che si riconoscono in queste e le ricercano nella loro quotidianità. Una bicicletta è anche la narrazione di una passione, di un sogno, di un'idea. Una volta, forse, tutto questo era più presente, perché c'era meno fretta, più tempo per fermarsi ad ascoltare una storia e Lazzaretti vuole anche essere un club, un posto in cui quei momenti ci siano ancora e più vivi che mai, pure a negozio chiuso».
Carbutti sta pensando a tutti quei ciclisti, magari anziani, che tempo fa si ritrovavano solo per raccontarsi storie del passato: bastava vedersi e le chiacchiere prendevano il via, insieme al viaggio indietro negli anni, nelle gare o negli aneddoti. Perché c'è lo scambio come clienti, ma c'è anche la fiducia, il volere andare da Lazzaretti perché lì conosci chi può mettere le mani sulla tua bicicletta e sai la competenza e l'attenzione che vi dedicherà. Oggi si tende ad essere meno disponibili all'ascolto rispetto a qualche anno fa: «Certe volte consigli e noti chiaramente che la persona preferisce fidarsi di quel che ha letto su internet o su un libro rispetto a quel che puoi mostrare tu, attraverso l'interazione. Lo confesso: ci si resta male, se si lavora in un certo modo». Già, anche il mestiere, come lo avrebbe chiamato Remo, è cambiato e la risoluzione dei problemi si è fatta più complicata: «Ai tempi di papà bastava alzare il telefono, serviva qualche giorno, ma le cose si risolvevano, adesso le problematiche si moltiplicano e atterrano tutte qui, poi, visto che le risoluzioni sono più complesse, talvolta ci si trova a non poter aiutare il cliente per fattori che non dipendono da noi. Penso sia una delle cose che mi piacciono meno di questo lavoro».
Forse, prosegue Carbutti, si è perso un poco di quel sentimento genuino che si nutriva nei confronti di una bici, quello che ne faceva poesia, quasi un ricordo di una radice antica ed eroica, posseduto, conservato e curato da ben pochi. Non capita spesso di ritrovarlo, come un profumo o un colore raro, ma qualche volta sì, mentre si è in mezzo alle biciclette e non ci si sta pensando. In quel momento, entra un anziano signore, come successo appena qualche settimana fa, si guarda attorno, cerca una bicicletta e a chi gli chiede che bici desideri, risponde: «Sai, ho ottant'anni e la mia prima bicicletta l'ho comprata da Cicli Lazzaretti. Questa probabilmente sarà l'ultima, l'età è quella che è, ma non pensiamoci. Vorrei che uscisse da qui, come quella di quando ero ragazzino. Ho questo desiderio, potete accontentarmi?». Simone Carbutti era con le orecchie attente e l'animo all'erta, perché di quella poesia crede che il ciclismo abbia bisogno, quanto Cicli Lazzaretti, anche ora che il futuro, la modernità sono ad un passo. L'augurio è di incontrarli, conoscerli, farne parte, senza perdere il gusto del racconto, seduti ad un tavolo, davanti ad un caffè, dopo un giro in bicicletta, oppure poco prima di partire. E, se così sarà, chissà quante prime e quante ultime biciclette usciranno da questo locale.
Eroica Caffè Milano e Padova
Giancarlo Brocci racconta spesso i suoi pomeriggi di ragazzo, quelli in cui scoprì il ciclismo. Accadde in qualche caffè della Toscana, sì, caffè, non bar, come si chiamavano in quegli anni, mentre da qualche parte si correva il Giro d'Italia od il Tour de France, era maggio, oppure luglio, e, sul bancone, c'erano i quotidiani con l'articolo riferito alla tappa del giorno prima. Qualcuno gli chiedeva di leggere quei pezzi a voce alta, lui apriva il giornale, lo spalancava, il profumo della carta svolazzava, come i fogli, ed iniziava la lettura: la gente si fermava, restava ad ascoltare la sua voce e, non potendo vedere, si permetteva il lusso di immaginare le vette, le discese, le volate, persino le crisi e le cadute. Anche il bottegaio diventava romanziere e qualunque tappa era ad immagine e somiglianza di chi la stava ascoltando, nonostante le parole fossero le stesse per tutti, vibrate dalle corde "del Brocci", impregnate di toscano.
Sono passati più di cinquant'anni da quei giorni, i bar sono cambiati quasi quanto le strade che si arrampicano sulle montagne, anche le biciclette ed il ciclismo sono diversi, ma la sostanza, in fondo, è sempre quella: di sudore, di fatica, di immedesimazione e di piacere, qualcosa che ricorda la felicità. «Le radici- spiega Andrea Benesso, che cura la comunicazione di Eroica- sono antiche e sono le stesse, il ciclismo resta condivisione. Fa piacere pensare ad un bicchiere di vino davanti alla tv, ad un arrivo sul Mortirolo o sull'Alpe d'Huez, con nel piatto della ribollita o della finocchiona, quei vecchi caffè all'italiana li ricordiamo tutti, come quei pomeriggi, anche chi non li ha vissuti, in fondo, li ricerca, perché oggi si sono un poco persi». Allora, per la prima volta nel racconto degli Alvento Points, la nostra sarà una storia discontinua nel tempo e nello spazio, come avrebbe detto Italo Calvino, ne "Le città invisibili", tra Padova e Milano, dove hanno sede i due Eroica Caffè, nati da queste constatazioni: «Le due chiavi sono bellezza e cultura. La bellezza della fatica, coniugata con la conoscenza dei luoghi, tra storia e geografia, con il sollievo di una sosta, di quella forchetta o di quel cucchiaio che pescano nei sapori forti della tradizione ed anche la tradizione è cultura, il tutto in compagnia, perché la bicicletta è piacere, profondo, originale». Nasce così questa storia.
Eroica Caffè Milano sorge, di fatto, su un vecchio locale di ricambi per auto e moto, all'esterno c'è ancora la vecchia insegna, mantenuta, tale e quale, allo stesso modo di parte della struttura interna che conserva aspetti industriali, come il soppalco del magazzino, su cui l'architetto ha insistito molto, affinchè si potesse respirare l'aria della Milano di ieri, per poi guardarsi attorno e orientarsi nel mondo eroica, tra bici storiche, cimeli e vecchie maglie. I locali sono ampi, grandi sono i tavoli: la velocità non è di qui, serve, invece, il tempo, la tranquillità per restare assieme, per farsi compagnia, per accogliere anche chi non fa parte di questo mondo, che deve sentirsi bene, a casa, perché essere ospitali significa questo ed è valore fondante di Eroica. La città è complicata, chi vi abita, di solito, in bici va verso l'esterno ed è difficile che qualcuno prenda la bicicletta per entrare a Milano. Si vedono ciclisti urbani, il mondo delle Cargo Bike, la realtà di chi lavora in bicicletta ed è questa la community che si ritrova su quei tavoli, in un'atmosfera bike friendly. A parlarci è Giacomo, che vi lavora da fine 2020, lui che rimase colpito dalla prima volta a Gaiole in Chianti, ma anche a Montalcino: «In piazza ho visto un gruppo di persone ballare lo swing: insieme c'erano signori di settanta anni e ragazzi di venti. Incredibile». Lui che ha ascoltato Lorenzo Barone e Willy Mulonia, in Mongolia ed in Alaska, e riesce solo a narrare lo stupore: «Quanta forza di volontà serve? Quanto bisogna essere tosti per farcela, per resistere?». Non vuole, invece, parlare di clienti, dice che sono persone e come tali vanno trattate, provando a conoscerle, a stabilire un rapporto. Fanno così anche gli eroici di Milano e dintorni che, ogni tanto, accolgono un nuovo eroico, che passa dal locale, magari per caso, probabilmente proprio in cerca dell'incontro da cui verranno altre pedalate e altre storie, scambiate a pranzo o a cena.
A Padova, Eroica Caffè è uno dei più spaziosi della città ed anche questo si abbina perfettamente all'ospitalità: in caffè più piccoli può capitare di sentirsi a disagio ad occupare per molto tempo i tavoli, quasi si rubasse spazio ad altri ospiti, qui no. Anzi, c'è stupore da parte di chiunque entri: si fanno foto alle biciclette ed alle maglie, ci si sorprende, come due signore, qualche giorno fa, per quei menù con a fianco l'indicazione dei chilometri da percorrere per smaltire i piatti degustati. Benesso prosegue: «Un invito a godere delle cose belle: mangiate con gusto, ci sarà poi modo di smaltire, è sbagliato privarsene». L'arredamento è a cavallo tra passato e futuro, riviste e libri sono un omaggio alla cultura delle storie e dei racconti, come gli incontri e le presentazioni che si tengono, nelle sere qui. Notevole è anche la panca lunga dieci metri a celebrare il record dell'ora di Francesco Moser. Mentre i viaggiatori scoprono Padova ed anche gli stranieri sono incuriositi dal locale e fiduciosi in un brand internazionale. Qui è Davide ad accoglierci: appassionato di bici e di gravel, un classico in città, ha esplorato i Colli Euganei, le zone intorno, in Veneto. Viene al lavoro in bicicletta ed a fianco a lui ha un amico con cui condivide ogni cosa, sin dalla nascita, ad un giorno di differenza, dalla prima infanzia, dalle elementari. Il lavoro l'ha imparato da papà e dice orgoglioso che «non lo cambierebbe mai».
Certo, negli anni l'ha modernizzato, ha affiancato alla ristorazione altri aspetti che le persone ricercano. «Quando si entra qui, tra le luci soffuse del locale e quell'arredamento ordinato-disordinato, siamo tutti uguali. Essere ciclisti significa anche spogliarsi della maschera sociale che indossiamo sempre, salutarsi con un ciao e soprattutto con il nome. Non si può capire che differenza faccia sentirsi chiamare con il proprio nome. Ci si siede più volentieri, si torna sorridendo». Lo sguardo cade sui menù: pasta e fagioli, trippa alla parmigiana, in inverno la ribollita e poi quelle "ruote", quell'impasto panificato e poi farcito in ogni modo, anche con la mortadella. Ci sono anche momenti più complicati, quelli in cui gli incontri finiscono, la festa si silenzia e c'è da sistemare tutto, oppure nei giorni di overbooking. L'auspicio è che Padova possa ancora crescere nell'attenzione alla mobilità, negli eventi dedicati alla bicicletta.
Si ritorna a Giancarlo Brocci, al suo ricordo di quelle letture da ragazzo e alle persone che ascoltavano. «L'idea è quella che chiunque abbia una bella storia e voglia raccontarla possa pensare di passare di Eroica Caffè e trovare qui persone curiose di sentire. Certo, ospitiamo anche nomi importanti, famose, professionisti, penso a Lachlan Morton e Nathan Haas, contenti di essere passati da noi- prosegue Benesso- ma la fiducia di cui parliamo è quella nelle storie. Ha fatto qualcosa di bello? Bene, sai che questo è il tuo spazio. Vuoi sentire una bella storia? Allo stesso modo, è il tuo luogo, anche se non conosci per nulla chi racconterà, perché qui le storie sono pane quotidiano».
Si commentano anche le gare, trasmesse in diretta televisiva, come in occasione di "Mai dire Milano-Sanremo", dello scorso anno. Insieme alle biciclette che i clienti possono portare all'interno: a Padova, un giorno, c'erano circa 890 bici nel locale, accanto al tavolo in cui pranzare o cenare, senza il bisogno di continuare a guardare fuori, per controllare che nessuno l'abbia toccata: «Si tratta di un gesto di cura e le persone hanno voglia di questi gesti, i ciclisti, poi, in particolare». Quando la porta si apre e qualcuno arriva, tutto si muove affinché quell'approdo sia un momento piacevole, di risate, divertimento, accoglienza ed inclusione, ogni volta fra persone diverse, più o meno giovani, famiglie e ragazzi: «Dovreste vedere gli stranieri che si presentano, fanno conoscenza, scoprono luoghi, attraverso le ride e sanno di essere nel posto giusto, stradisti o gravellisti che siano. A Padova, c'è la città, i Colli Euganei, dove il 99% dei ciclisti padovani fa il suo giro, si può salire nel verde, oppure andare verso il mare, verso Chioggia, attraverso gli argini dei fiumi che collegano le città, praticamente senza auto. A Milano, è interessantissimo il progetto "AbbracciaMi": uscendo in qualsiasi direzione dalla città, si può pedalare attorno e ritrovarsi, nel giro di pochi chilometri, in zone con tanto verde e tanta acqua. Non sono di certo io a scoprire i Navigli». Si pensa anche a delle mappe che possano essere messe a disposizione per suggerire una gita, un tragitto.
Non è stato facile, soprattutto all'inizio, in piena pandemia, il successo che è arrivato è speranza, forza per pensare ad altre aperture, anche all'estero: ogni settimana arrivano richieste di persone che si riconoscono in Eroica ed è un orgoglio perché è come riconoscersi nel “made in Italy": «La radice del ciclismo storico la troviamo in Italia, come in Francia. Sono questi i paesi in cui ci sono ricordi così profondi: mio padre vedeva il Giro ed il Tour al bar, esattamente come Brocci. Il ciclismo era quasi una religione, a tratti più del calcio, della nazionale italiana. era uno sport in cui poteva emergere l'italianità: il sacrificio, ma anche il piacere, la gioia, la bellezza, la capacità di assaporare la realtà, anche quando complessa. Quella socialità molto toscana, sarà per questo che, se penso ad Eroica me la immagino come una vecchia cartolina che ritrae la Toscana, con tutti gli elementi caratteristici tipici».
L'arredamento all'interno dei locali può variare, soprattutto cambiano le biciclette di volta in volta esposte: Benesso cita la bicicletta di Fausto Coppi, della Cuneo-Pinerolo, oppure delle Colnago di raro pregio, convivono biciclette da strada e da pista, oggetti unici ed inestimabili, custoditi e valorizzati. Qualcuno parte da casa e si ferma ad Eroica Caffè per mangiare una fetta di torta prima o dopo il giro quotidiano, altri vengono per pranzo o cena, soprattutto adulti, mentre i giovani affollano le ore dell'aperitivo. Ogni tanto si risente la voce di Giancarlo Brocci e lo si vede arrivare, sedersi al tavolo ed iniziare a chiedere, a raccontare una qualche avventura, come fosse a casa e Brocci, ad Eroica Caffè, ha proprio la sensazioni di essere a casa, in una seconda casa, mentre incontra il suo popolo e parla di biciclette e di ciclismo eroico. Alla fine, non è cambiato poi così tanto, nonostante gli anni che sono trascorsi.
Foto in evidenza: Chiara Redaschi
Gialdini Sport, Brescia
Non appena qualcuno, passando da via Triumplina 45, a Brescia, scorge la vetrina di Gialdini e varca l'ingresso, dopo essersi guardato bene intorno, una fra le prime domande che pone, a Paolo Gialdini, a Matteo, il fratello maggiore che segue l’amministrazione, oppure agli altri ragazzi che lavorano in negozio, è tanto semplice quanto dalle radici profonde. Magari accanto ad una bicicletta oppure ad un'attrezzatura da bikepacking, da sci, mentre si chiacchiera di percorsi e avventure, di materiali e di dettagli, ecco l'interrogativo: «Ma tu l'hai provato? Tu l'hai fatto? Ci sei stato?». Vale per qualunque cosa, è una sorta di testimonianza diretta che viene richiesta a chi sta affidando una bici oppure il consiglio di un viaggio, quasi un punto d'appoggio per la fiducia che si cerca di instaurare mentre si conversa: «Non è così strano, in fondo. Succede anche quando ci si incontra tra amici; qualcuno propone qualcosa e l'istinto umano è di trovare un appiglio, una certezza, per potersi fidare e, semmai, sperimentare la proposta. A me pare, anzi, molto bello perché è come se la persona con cui stai dialogando dicesse: "Mi fido della tua impressione, delle tue sensazioni". E, se fra amici è cosa normale, quando non ci si conosce, è fatto raro. Il punto è provare a non deludere quella aspettativa: per farlo è necessario mettersi in gioco in prima persona, conoscere nei dettagli ciò di cui si racconta. In una parola: provare, essere dentro quel che si racconta». La lezione di Paolo viene da suo padre ed è una di quelle lezioni tanto forti perchè non trasmesse solo a parole, ma legate ad un modo di essere e di fare. Potremmo anche dire che la lezione venga da lontano, nel senso sia cronologico che spaziale. Due coordinate: Africa, 1978.
L'anno è quello in cui il padre scopre l'Africa: inizia a studiarla, a conoscerla, ne resta affascinato, ne parla spesso, a casa e con i conoscenti, sogna, spera, pensa, ipotizza e progetta di andarci. Il crescendo rossiniano dei verbi è lo stesso delle azioni, l'idea si fa sempre più concreta: viene allestito un camper, con tutto quello che può servire e non resta che partire, per toccare con mano ciò che la mente aveva esplorato da tempo. Già, ma l'Africa è lontana e le comunicazioni sono quasi impossibili con Brescia: si fa ponte a Napoli e da lì al capoluogo lombardo. Arriva dicembre, per due settimane c'è solo silenzio: nessuna notizia, nessun contatto. Un quotidiano locale, una mattina, titola: "Bresciani dispersi nel deserto". A casa si ha paura: è l'ansia, è il panico. Per fortuna sarà un falso allarme: papà Gialdini tornerà a Brescia, entusiasta del viaggio, innamorato dell'Africa, contento dell'esperienza vissuta. «La sua prima riflessione era stata: "E se questo entusiasmo potessero viverlo anche molti altri? Alla fine, non serve molto, forse potremmo provare a mettere a disposizione delle persone che passano da qui quel che serve, in modo che quel desiderio, magari nascosto dalla quotidianità e dall'apparente impossibilità del viaggio, possa diventare realtà". Detto, fatto. Attraverso l'allestimento di furgoni e camper per il deserto, ha cercato di trasmettere ai suoi clienti quel che aveva vissuto in quei giorni». Il negozio Gialdini esiste dal lontanissimo 1860, inizialmente come bulloneria e ferramenta, ma da quel 1978 comincia il cambiamento: abbiamo parlato di attrezzature per camper e furgoni, verrà, poi, la passione per la speleologia, le gite in montagna e quell'amico che gli parla dell'outdoor. Gran parte di quel che il signor Gialdini conosce arriva in negozio e si migliora di anno in anno, un luogo di condivisione di idee e progetti. Tanti sipari che si aprono in quello spazio: il running, il trekking, l'outdoor, lo sci, lo scialpinismo, l'alpinismo, il camping. Paolo Gialdini cresce in questa atmosfera.
Praticamente di fronte a casa, c'è il Monte Maddalena e sono tanti i giorni che trascorre in montagna: fa snowboard alle Deux Alpes, inverni su inverni a Madonna di Campiglio, linee in free ride, alla ricerca costante dell'adrenalina, di qualcosa di estremo che gli resti addosso. Nel frattempo passano gli anni, la vita cambia, gli incontri si succedono: è il portellone aperto di un furgone a fargli scoprire più da vicino la bicicletta. In quel furgone ce ne sono diverse e un dipendente gliene parla, proposta e prova, come succede con le scoperte. Giù dalla montagna in bicicletta: dapprima il cross country, successivamente una bicicletta che si rompe, proprio in discesa, è il pretesto per sperimentare il downhill, fino al 2014, all'interesse per la mountain bike e per i viaggi, poi, per il gravel. «Ho compreso ben presto che la bicicletta rappresentava un insieme di cose che già facevano parte della mia quotidianità, era solo il momento di cambiargli forma, modo di manifestarsi, ma di fatto non cambiava molto, non si perdeva nulla, semmai, anzi si aggiungeva qualcosa. Una bicicletta è la fatica della salita, dello spostamento, solo con le proprie energie, è l'adrenalina della discesa, ma anche la scoperta continua del viaggio, di pochi metri, come di centinaia di chilometri». Paolo Gialdini lascia la montagna, anzi, lascia un certo modo di viverla e continua a esplorarla attraverso la bicicletta, con cui ricerca sentieri nuovi e nuove sensazioni. Il legame padre-figlio, in questa storia come in molte altre, si manifesta in vari fatti, per esempio nella stessa modalità di rielaborare ciò che capita e di raccontarlo, di metterlo a disposizione. Si arriva così ad un nuovo sipario in negozio, uno spazio che già esisteva, ma che si amplia, quello legato al mondo bici, al mondo viaggi e avventure pedalate, al vento in faccia e all'acido lattico nelle gambe. «Ho portato la bicicletta nel mio lavoro o, forse, lei stessa si è intrufolata in quel che facevo. Ne sono grato perché non capita a tutti di poter lavorare attraverso una passione, un divertimento. Fosse una persona la ringrazierei, con una bicicletta è più complesso e il modo per dire grazie è farne parte della quotidianità, viverla il più possibile. Non a caso sono particolarmente fiero della polvere, del fango e dei graffi, dei segni, sulla mia gravel. Ne sono orgoglioso perché significa che abbiamo fatto tante cose assieme, che ho passato tempo, ore, in bici. Così li guardo e mi sento fiero».
Quell'angolo del negozio, che Paolo cura personalmente, racconta anche un'altra sfaccettatura delle giornate di Gialdini e di chiunque: «Si parla spesso di libertà, parlando di biciclette e di ciclismo, quell'angolo è il mio angolo di libertà. Durante le nostre giornate, siamo spesso costretti a fare ciò che ci viene richiesto, dalle esigenze o dalle volontà di altri: lì decido io, scelgo, invento, provo, riprovo». Dicevamo che la bicicletta era già tema del negozio e qui torna il signor Gialdini, il padre di Paolo, «quel veggente», come lo descrive il figlio, che già vent'anni fa, in un viaggio in Europa, in Germania, vide le prime borse da bikepacking e pensò di portarle in negozio, perché le persone cercavano quelle borse, le volevano, ne avevano bisogno. Una veduta ampia, come quella che si gode appena si entra da Gialdini: una metratura decisamente importante e l'occhio si perde tra tutto quello che è esposto, che si può cercare, tra tutto quello che «possiamo dare». La citazione è sempre di Paolo: quel poter dare rende bene l'idea dell'interpretazione di un mestiere. Come quando, pochi minuti dopo, aggiunge, con entusiasmo genuino: «Tempo fa, sono passato da Scavezzon, a Mirano. Stavamo parlando d'altro, quando mi ha detto: "Ah sì, conosco Gialdini". Parlava di mio padre. Mi sono sentito grato e mi sono tornate in mente molte cose».
Si riferisce ai viaggi di papà, in cui, ogni volta, cercava qualcosa di nuovo, qualcosa che potesse migliorare ciò che già c'era. Ripensa alla curiosità con cui il signor Gialdini si guardava e si guarda attorno, provando a cogliere i dettagli delle cose, anche ora che, con internet, è molto più difficile innovare, ma non importa, suo padre continua a farlo ed a Paolo ed al fratello ha insegnato a orientarsi così tra le cose con cui hanno a che fare, che è poi, aggiunge Paolo, l'unico modo in cui è possibile svolgere questo tipo lavoro, provando a dar corpo ad una visione.
L'altra caratteristica fondamentale è l'ospitalità: «Si declina nel tentativo di far sentire a casa, in un luogo sicuro, protetto, chi viene a trovarti, per lasciare un buon ricordo, perché è solo così che si sceglie di far ritorno. Non solo: per il rispetto che si deve a chi decide di fidarsi. Chi acquista deve poter chiedere informazioni, tutte quelle che vuole e deve trovare qualcuno preparato, che risponda in maniera minuziosa, mettendo sul tavolo non solo la propria competenza ma anche la propria esperienza personale, cosa che spesso la grande distribuzione, quella legata ad internet, non può fare. Noi crediamo nel presentarci con nome e cognome, nel bere un caffè assieme, nel creare un rapporto basato su comprensione delle esigenze ed empatia. La curiosità, di cui parlava mio padre, non è fondamentale solo per le biciclette, anche per le persone. Devi avere voglia di conoscerle, di capirle». Tutt'attorno, alle biciclette ed alle parole, le immagini del viaggio di Ettore Campana, Scalo Sogni, quello di Willy Mulonia, che proprio qui si è rifornito per il suo viaggio in Patagonia, in Alaska, ed è diventato un amico, le foto delle montagne bresciane e quelle di un cliente che è andato in Nepal, per aiutare i bambini. A tratti una sorta di museo, immerso in aria di montagna.
Chi lavora qui conosce perfettamente i sentieri della zona, è in grado di segnalare ogni minimo cambiamento, ogni rischio, ma anche ogni vista mozzafiato ed ogni posto in cui riposarsi, asciugarsi il sudore o bere un sorso di acqua fresca: una goduria, in certe circostanze. L'attenzione, la cura, non termina nel momento della vendita, prosegue, in un filo temporale senza soluzione di continuità, in cui la dedizione è la parola chiave: «Non sto esagerando, l'idea è quella di immedesimarsi nel cliente. Scegliamo quel che è giusto fare, oppure che è meglio fare, come se la bicicletta fosse la nostra, come l'avventura fosse la nostra. Lo avvertiamo come un dovere. Ovviamente si può scegliere diversamente, anche il contrario di quel che indichiamo, però è giusto agire così, un fatto di coscienza».
I ciclisti che arrivano da Gialdini sono i più disparati, caratteristiche, biciclette e modi di viverle completamente diversi. Brescia, il posto felice di Paolo, la città in cui giravano le prime bici gravel, riesce a unirli tutti, sarà per la varietà del territorio, che spazia dal centro, al lago, alla base delle montagne, alle salite, sempre differenti, quelle che permettono di fare 1500 metri di dislivello in pausa pranzo e tornare al lavoro rinfrancati, un giorno con la bici da strada, con la gravel, anche con la mountain bike, divertendosi. Magari passando da Gialdini, per due chiacchiere o per chiedere qualcosa e progettare una nuova gita.
Foto: Paolo Penni Martelli
Trek Store, Massa
«Proviamo a pensare ad un panino, sì, ad una comune michetta di pane. Una di quelle lavorate di notte e sfornate la mattina presto, che arrivano tra le mani ancora calde. Bene, facciamo un passo indietro: al panettiere che sta preparando l'impasto mentre fuori è buio. Qualcuno seguirà scrupolosamente la ricetta: l'insieme di ingredienti sarà perfetto e certamente il panino piacerà al cliente che lo porterà a tavola. Qualcuno, invece, farà delle modifiche: non casuali, assolutamente. Per esempio considererà l'umidità dell'aria e saprà che anche quella influirà sul sapore del pane, così aggiungerà un pizzico in più di qualche ingrediente piuttosto che un pizzico in meno di un altro. Chissà se il signore o la signora che assaggeranno quella michetta lo capiranno. Forse sì, forse no. Non è nemmeno questo l'importante. Di certo, però, la seconda tipologia di panettiere avrà fatto una cosa fondamentale: avrà ascoltato. Non si ascolta quel che si fa per un riconoscimento esterno, per la voce degli altri, lo si fa per una forma di rispetto verso ciò a cui si lavora». La descrizione di Claudio Rossi, General Store Manager del Trek Store di Massa, è così dettagliata che, nel primo pomeriggio della città, quasi ricerchiamo il profumo del pane fresco, in realtà, fra le pareti del negozio, si respira l'odore degli ingranaggi delle biciclette, ma il discorso non cambia e la parola, il verbo all'infinito è sempre quello: ascoltare. «La bicicletta va ascoltata, non c'è nulla da fare. Anche da come si fa cadere il manubrio si può capire se ci sono dei problemi. Il suono della catena, quando gira, rivela moltissime cose. La linea guida deve essere la base, poi c'è quello che ti scorre fra le mani e lì anche un quarto, persino un decimo, di giro di vite fa la differenza».
Si tratta di una conoscenza antica, che affonda le proprie radici nella pratica di qualunque ciclista. Anche Claudio Rossi, infatti, ha corso in bicicletta e ricorda con una sensazione di malessere il momento in cui, talvolta, i meccanici gli riconsegnavano la bicicletta e lui continuava ad avvertire qualcosa che non andava. Forse, proprio per questo, quando ha smesso, ha voluto comprare una propria bicicletta e quella ha cercato di conoscerla nel modo più profondo possibile: smontandola, rimontandola, guardando e toccando ogni singola parte, esplorandola. Mettendoci le mani, insomma, e provando la soddisfazione di aver risolto da solo il problema del proprio mezzo che, ora, poteva tornare in strada. Così Rossi non riesce proprio a capire quei ciclisti che non conoscono la propria bicicletta, che non l'ascoltano. Sarà che lui sin da bambino era praticamente incantato dall'oggetto bicicletta: «Ricordo che le osservavo muoversi in città e restavo stupefatto dai riflessi del sole sulle parti cromate: quel loro luccicare, nel movimento, mi ha sempre affascinato. Tanto da portarmi lontano da Como, dalla mia città natale». Sì, era il 2010 e Claudio Rossi si era appena licenziato dal suo vecchio lavoro, immaginando un luogo in cui quella passione potesse diventare un mestiere. Quel luogo è in Toscana, vicino al mare: si tratta di Massa, la città in cui Rossi ha scelto di vivere.
«Lo dico spesso: venite a Massa, sedetevi su una panchina, magari proprio sul lungomare, e guardate cosa succede. Biciclette che vanno e biciclette che vengono. Si percepisce la gioia dell'andare in bici da queste parti. In questo senso, Massa assomiglia a Como. Se chi arrivasse qui dovesse inventarsi un lavoro, penso che lavorare con le biciclette potrebbe essere una buona soluzione, una bella idea». In quei giorni, per la prima volta, Rossi sentiva dire spesso da qualche ciclista: «Mi si è rotto un razzo». Non capiva di cosa si trattasse, poi glielo hanno spiegato. Il razzo, per un toscano, è il raggio della ruota: «Sinceramente, se ci penso, rido di gusto ancora oggi. Ma, allo stesso tempo, il razzo mi ricorda qualcosa che va veloce, che va lontano. La bicicletta può avere senza dubbio queste due caratteristiche: quindi vada per il razzo». Siamo, allora, nel 2010 e Rossi "crea", questo è il verbo scelto nella chiacchierata, il suo primo negozio di biciclette, con officina e servizio clienti. «Era un salto nel buio: chi avrebbe potuto dire come sarebbe andata? L'investimento era stato minimo: era uno spazio di quaranta metri quadrati, presto sono diventati centocinquanta metri quadrati ed ho inserito vari marchi di biciclette». Un agente Trek, qualche anno dopo, gli chiede se è interessato a rivendere biciclette Trek: lui accetta. Tutto diventa più grande, più importante, gli eventi si susseguono: nel 2016, quel negozio diventa il primo concept store Trek in Italia, successivamente sarà il primo negozio bandiera in Italia, con una sede ancora più grande, fino a divenire il primo negozio ufficiale di proprietà Trek, nel nostro paese. Non è solo uno scorrimento temporale, perché, in corrispondenza di ogni data, di ogni cambiamento, bisogna considerare il rapporto con i clienti, con chi torna in quei locali.
«All'inizio c'è stata una fase di assestamento, forse anche di diffidenza perché chi mi conosceva, chi mi aveva visto tirare sù la serranda di quella prima officina, ora mi vedeva in un nuovo ruolo, come dipendente, e faceva fatica a capire. Anche i rapporti, le relazioni di ogni tipologia, sono fatte di ascolto e di dimostrazioni, di spiegazioni. Qui si incontrano persone, con il loro vissuto, la loro storia, e avviene uno scambio umano. Io la definisco proprio esperienza umana. Col passare dei giorni, tutti hanno capito che il rapporto era rimasto lo stesso». L'ospitalità disegna i confini delle cose: una forma di ospitalità che, fino a non molti anni fa, non era nemmeno immaginabile in un luogo in cui, di fatto, si vende, si aggiusta o si ripara: «Le persone devono essere sempre a proprio agio, se è così, tornano. Magari anche senza acquistare: tornano perché stanno bene in quell'ambiente. Si sentono a casa, si trattasse anche solo di chiedere un consiglio. La parola giusta è empatia». Lo stabile si affaccia su viale Roma e viale della stazione, siamo nel centro di Massa, non lontano dal mare: la struttura è industriale, il parcheggio è all'interno. L'ingresso è costituito da un'ampia vetrata, coperta da sticker ed immagini di ciclismo, guardando verso l'alto, all'interno, si nota il soffitto con travi di acciaio sospese, a cui è collegata l'illuminazione. Ci sono ingressi diversi per la vendita e per l'officina.
«Sai che, ogni tanto, mi capita di passare dal vecchio negozio, il primo, quello che ha segnato l'inizio di questa avventura: ora è sfitto, non utilizzato. Quando hai passato molto tempo in un posto, ti spiace vederlo così, vorresti ancora il movimento, l'andirivieni di persone. Io, però, cerco di ricordarmelo ancora com'era, perché è da lì che tutto è partito». In Toscana si usa il termine biciclettaio per chi vende o aggiusta biciclette, Rossi racconta che, visto il livello a cui si è arrivati oggi, fa strano quel termine, molto originario, genuino, allo stesso tempo, però, è bello, è legato alle radici, è importante: «La bicicletta deve essere fatta per durare, credo sia necessario raccontarlo. Nel processo di vendita non viene mai menzionato il prezzo, nonostante colui che acquista cerchi di focalizzarsi subito su questo aspetto. Si prova, invece, a mostrare la qualità del prodotto più bello nella categoria desiderata. Si beve un caffè assieme e se ne parla. Ma non ci si ferma qui: si può provare la bicicletta, farci un giro. L'importante è che la persona che è di fronte a te capisca il valore della bici, non solo il prezzo. Si tratta anche di un fatto di cultura».
Il valore si traduce, nella quotidianità, nel prendersene cura e nel farlo con determinate attenzioni: entro ventiquattro ore dall'ingresso in officina la bicicletta deve essere sistemata e tornare nelle mani del ciclista. In generale, Claudio Rossi parla di un controllo del mezzo un paio di volte l'anno, in ogni dettaglio, in ogni ingranaggio, una sorta di revisione. In quest'ottica Trek ha una filosofia ben chiara: il cliente è l'eroe, colui che compie il viaggio, l'impresa, mentre chi lavora sulla bicicletta è la guida, qualcuno che si mette a disposizione per permettere all'avventura di prendere il là. I dubbi ci sono anche in chi lavora, in chi mette le mani fra le viti e l'olio, fra la catena, la sella, il manubrio e l'importante è che questi dubbi vengano espressi, che ci si confronti: «Serve una sensibilità particolare anche per lavorare su una bicicletta, per accorgersi di un rumore strano, di una rigidità, di una vite da stringere. La sensibilità, però, si può imparare, a patto di chiedere, di fare affidamento sull'esperienza e di scambiarsi queste esperienze. Con i miei collaboratori lavoriamo in questa direzione». La buona notizia è che sempre più persone vogliono muoversi in bicicletta, anche in bicicletta elettrica, in città e questo è indubbiamente qualcosa di grande che permette di guardare verso le città del Nord Europa, il modello a cui ispirarsi, il futuro per quanto concerne le biciclette.
Il dialogo procede fitto fino a che l'attenzione si posa su un quadro, inviato a Claudio Rossi dal presidente di Trek, John Burke. L'immagine raffigura un grosso capanno rosso, poco più sopra una dedica con un pennarello nero, ancora più sù, stampato, un altro testo, anche questo in rosso, evocativo: “Vedi qualcosa di più grande”. Rossi ci spiega che si tratta di un estratto dal libro "filosofia" di Trek. «Tu vedi un capanno rosso, giusto? Anche io ed in effetti il capanno rosso c'è ed è ben chiaro, evidente. Questa è la situazione in cui ci troviamo tutti quando iniziamo a realizzare un progetto a cui abbiamo tanto pensato, che abbiamo tanto immaginato. Muovendo i primi passi abbiamo la sensazione che ci sia poco o nulla. Un capanno rosso, forse neanche quello. Quel quadro è un invito a ricordare che, quando saremo in quella situazione, avremo l'obbligo di guardare oltre, di cercare qualcosa di più grande: quello che potremo realizzare, con impegno, con costanza, con sacrificio, con fatica. Il punto è che per muovere il primo passo è necessario vedere oltre il capanno rosso. Nonostante ci sia, ci sia sempre». Fuori, vicino al mare, anche adesso c'è il fruscio delle ruote di biciclette che partono e ritornano. Bisognerebbe fermarsi su una panchina e limitarsi ad ascoltare, ad ascoltarle. A Massa, in Viale Roma 5.
Piccolo tramonto interiore
"...Da godersi in riva al lago con il calare del sole", cantavano, anzi, cantano ancora i Vintage Violence. Passato, imperfetto, oppure così presente e vivido il ricordo di una stagione appena terminata. Così in fretta, troppo in fretta. E non facciamo nemmeno in tempo a raccogliere i cocci, che un’altra sta per partire.
Ci rimane nel cuore uno strappo, è un magone. Una ferita che mai si potrà rimarginare. Negli occhi le lacrime, un nodo in gola che non va giù a pensare a quel giugno del 2023 e a Gino Mäder. Ogni volta che parliamo di ciclismo pensiamo a lui, inutile nasconderlo, ma mi fermo qui perché è difficile scriverne.
Ci rimangono negli occhi le grandi classiche e i grandi nomi. Persino le tante storture e ci scuserete se dimenticheremo qualcuno o qualcosa. Ci rimangono negli occhi anche quelle piccole cose. Intanto ci sono quelle piccole corse che si fregiano del nome “Classic” e sono alla loro prima edizione, qualcosa di buffo quando pensiamo alla Muscat Classic - Oman. Prima edizione della corsa, ma che è servita a capire chi è Franceso Busatto, 4° in volata alla sua prima con i professionisti, e che avrebbe poi sfornato una stagione eccellente. Su di lui tenderemo a riporre diverse speranze in un futuro che dal 2024 sarà già a tinte World Tour: non è un caso se è il primo corridore italiano che nominiamo qui, ora. Esplosivo, potente, resistente, ricorda per certi versi il Grillo Bettini e in tempi di magra ci faremmo andare bene anche solo un terzo di quello che fece il corridore toscano.
Ma parlavamo di grandi classiche: presa una per una una stagione dove vincono solo i grandi nomi è qualcosa che di rado accade e allora archiviamo il 2023 così: Strade Bianche (Pidcock), Milano Sanremo (van der Poel), Omloop Het Niewsblaad (van Baarle), Kuurne Bruxelles Kuurne (Benoot), E3 Harelbeke (van Aert), Gent-Wevelgem (Laporte), Giro delle Fiandre (Pogačar), Amstel (Pogačar), Freccia Vallone (Pogačar), Liegi (Pog… ah no, Evenepoel, una caduta a inizio gara ci toglie la possibilità di uno scontro frontale tra i due); e poi ancora, nella seconda metà di stagione: San Sebastian (Evenepoel), Mondiale (van der Poel), Plouay (Madouas), Quebec (De Lie), Montreal (A.Yates), Giro dell’Emilia (Roglič), Lombardia (Pogačar) e l’eccezione che ha chiuso la stagione: Riley Sheehan che l’otto ottobre conquista la Paris Tours correndo da stagista, da (quasi) perfetto sconosciuto ed è vero che ne abbiamo già parlato, ma è qualcosa da ripetere fino a memorizzare.
Da raccontare - lo abbiamo fatto, ma la citiamo - anche l’ultima tappa del Giro, la crono del Lussari, in contrapposizione a un Giro piuttosto bruttino e caratterizzato dal vento contro alle intenzioni di rendere la corsa più interessante e briosa rispetto a quel poco che si è visto, ma per fortuna di quel Giro restano anche i fuggitivi, le fughe e le loro vittorie conquistate o le imprese sfiorate: le storie di Healy e Gee, di Frigo e Pinot, i successi di Dainese, Zana e Milan che, in una stagione così così per il ciclismo italiano, restano fra i ricordi migliori della stagione.
Poi c'è Ganna, il miglior Ganna di sempre che fa brillare diverse cose appena le sfiora solo con lo spostamento dell'aria: podio alla Sanremo, top ten ad Harelbeke e alla Roubaix (sesto nella regina delle classiche), tappa alla Vuelta e alla Tirreno, campione italiano a cronometro, argento mondiale a cronometro, e due ori e un argento in pista tra mondiale ed europeo. 6 vittorie in stagione, miglior italiano nel ranking mondiale: annata da 10 (per la lode attendiamo ancora un po') o, come si direbbe, da incorniciare. A 27 anni è un punto di partenza per quello che potrà essere in un 2024 cruciale: classiche, Giro (parrebbe) e poi dritti verso Parigi a provare a riscrivere qualcosa di importante sul parquet di Saint Quentin en Yvelines, ma lo diciamo subito: non sarà facile. Danesi, inglesi, eccetera, spingono forte.
Osservando l’orizzonte e il sole del 2023 che cala e si tuffa direttamente nel lago vengono in mente la crisi di Tadej Pogačar a Courchevel, il suo team radio, “I’m gone, I’m dead”, l’azione di Mathieu van der Poel a Glasgow, la stagione di Mads Pedersen, tutta, l’inizio 2023 e poi la fine di quella di De Lie, due momenti caldi da cui ripartire per poi pensare nel 2024 di limare dove possibile e pensare a sfidare i più grandi nelle grandi corse. Confermarsi è la parte più difficile, si afferma, ma intanto: il Toro sono due anni che va forte e migliora e se c'è uno che sembra abbia tutto per consolidarsi e proprio lui.
Quello spicchio, ormai, di stella che brucia mentre colora di rosso l’orizzonte ci fa pensare alla Jumbo Visma che a tratti ha imbarazzato nel suo dominio - come non dimenticare quello che abbiamo visto alla Vuelta? I risultati di van Aert, un corridore che non ci saremmo mai aspettati di commentare come un eterno piazzato: alla Roubaix poteva cambiare la sua stagione, mentre alla Gent-Welegem si è tirato addosso karma negativo. L’attesa in Belgio intorno a tutto quello che può fare Remco Evenepoel, le vittoria di Bilbao e Mohorič, piene di tante cose, le volate (im)perfette di Philipsen, le vicende di Miguel Angel Lopez, le cadute, le ferite. E altro che dimentichiamo, di cui abbiamo parlato e di cui ancora parleremo.
Il sole è scomparso, ora, mentre stiamo scrivendo. La stagione è finita. Il sole, nemmeno messa giù l’ultima parola, è già pronto ad alzarsi fra pochi mesi. Dall'altra parte del mondo, Australia per ricominciare.
Foto: Sprint Cycling Agency
Biciclette Rossignoli, Milano
Ai tempi di Sergio Rossignoli, Milano era completamente diversa. I negozi, allora situati nel centro-sud della città, vennero distrutti dalle bombe della guerra mondiale, ma anche Corso Garibaldi, dove trovò casa "Biciclette Rossignoli", non aveva nulla a che fare con quel che si vede oggi, mentre ci si accosta alla vetrina. «Non c'era tutto questo sbrilluccicare. Ai nostri giorni, Corso Garibaldi è un'isola felice, di una felicità anche finta, se vogliamo, è una via di miliardari, di privilegiati. Quando ero piccolo io e vivevo qui, era quasi una strada della rive gauche di Milano. Si vedevano prostitute ed alcolizzati. Si sapeva che da queste parti c'era il covo degli anarchici e la casa di Pietro Valpreda. Certo, questa è la nostra strada, quella da cui proveniamo e non lo scordiamo nemmeno per un secondo, tenendo sempre presente che è una strada di fatica, sacrifici, grosse difficoltà, non un eterno presente del privilegio»: a parlare è Matia Bonato, nipote di Sergio Rossignoli, eppure, pur non avendolo conosciuto, siamo subito convinti che parole simili avrebbe potuto pronunciarle anche Sergio.
Lui che capiva a vista d'occhio se un telaio fosse dritto o storto. Quel vecchio telaista che, tanti anni fa, scaricò una cinquantina di telai nel cortile di Rossignoli potrebbe ben raccontarlo. Sì, perché Sergio, prendendone uno in mano, lo ammonì con uno sguardo: «Quei telai sono tutti storti». Il telaista contestò, ma il signor Rossignoli, con la dima, confermò quell'impressione «e lo cacciò "a pedate", facendogli portare via pure tutti i telai». Lui che considerava i meccanici parte della famiglia e a molti comprò casa. Lui che, forse, non aveva la classica dolcezza dei nonni, ma a Matia ha insegnato le cose più importanti: «Poteva esserci un copertone da mettere o due viti da sistemare nel divano della casa in montagna e lo sentivi che mi chiamava: "Ue' nani, sù, vegn qui a darmi una mano!". Era andato a lavorare giovanissimo: dormiva spesso in officina, perché c'era tanto lavoro da fare e poco tempo per farlo. Un uomo molto affezionato alla sua creatura, sempre presente nel momento del bisogno della famiglia. Autorevole, autoritario. Tutti gli davano del lei per il rispetto che suscitava».
Sergio Rossignoli è stato a capo di Rossignoli fino agli anni ottanta: andava spesso in bicicletta, anche in città, e delle biciclette si prendeva cura come fanno i meccanici perché era un meccanico. Matia Bonato ha ancora oggi presente la bellissima Rossignoli, con telaio Alan, su cui pedalava: la puliva attentamente, registrava il cambio e prima di uscire si vestiva da ciclista. «Portava la camera d'aria, ma non la borraccia. Diceva che bere, in bicicletta, fa male. Per i suoi ottant'anni, i miei diciotto, facemmo un giro assieme. Negli ultimi tempi, portò quella bicicletta, quasi a custodirla, nella sua casa in collina, in Val d'Intelvi. Mi è rimasta la cura nel parlare di bici e nell'aver a che fare con le bici che aveva lui». La storia racconta che Matia arriva in Rossignoli circa dodici anni fa, nel 2011, proprio quando manca il nonno ed il negozio attraversa un periodo difficile. Lascia il suo precedente lavoro e sceglie di proseguire la via tracciata dal nonno, non senza timori, non senza preoccupazioni: «Il primo concetto con cui mi sono trovato a fare i conti è quello di responsabilità, o meglio, di una responsabilità diversa da quella che si sperimenta da dipendente. In un'attività di questo tipo, ci sono persone che arrivano alle sette del mattino in officina, a lavorare, che magari hanno un mutuo, dei bambini piccoli e tu devi pensare a loro, è un dovere morale. Ho vissuto almeno un paio di momenti davvero complessi qui ed il nostro stipendio era l'ultimo ad essere pagato. Non è facile». Eppure Matia, insieme a Giovanna, Renato e Giorgio, della vecchia generazione, e a Matteo, suo cugino, continua a lavorare in negozio: è orgoglioso di essere l'unico Bonato insieme a tanti Rossignoli e ci scherza sopra. Quando gli chiediamo come si gestiscano le altre difficoltà del suo lavoro, la risposta, già dal tono, ridimensiona tutto: «Credo sia evidente ai più che cosa facciamo. Non operiamo a cuore aperto, non curiamo bambini gravemente malati: sì, è un lavoro ed in tutti i lavori ci sono cose difficili, ma una volta che si ha chiaro questo, si capisce che, bene o male, è tutto alla nostra portata».
Quando si entra da Rossignoli e si sente l'odore di gomma, di muri leggermente scrostati, è impossibile non pensare alla storicità, non artefatta, del luogo e a tutta la strada fatta. Si avverte subito la bicicletta vissuta come mezzo: per andare al lavoro ed anche per “sbarcare il lunario”, il che apre tutto un discorso sulla professionalità e sulla cultura che, ci spiega Bonato, sono sempre più necessarie nel mondo del ciclismo: «Rossignoli è anche storia, ma non solo storia. La storia va di pari passo con la modernità: ogni giorno arrivano da noi biciclette di altissimo livello e voglio che i nostri meccanici sappiano trattarle. Siamo anche il negozio del freno a mazzetta e dell'anziana sciura milanese, però non solo. I miei figli sono nati al Buzzi e quando mi è stato chiesto se fossi tranquillo, ho risposto: "Sì, perché lì fanno nascere bambini come da noi si cambiano le camere d'aria". Parlavo di casistica e competenza. Mi piace pensare che chi viene da noi abbia lo stesso pensiero, la stessa fiducia». Già, i meccanici ed il loro "posto sincero": «Sì, perché come tutti i meccanici sono scontrosi, poco amici dei santi, litigano tra loro, usano le mani per lavorare, si tagliano, si fanno male, conoscono la teoria e l'empirismo che la manualità porta». Quel male alle mani, per giorni e giorni, Matia Bonato lo conosce bene: l'ha provato a marzo, quando ha scelto di montare lui copertoni e camera d'aria sulla sua bicicletta e, dopo quaranta minuti, ne è uscito con le mani distrutte. Quel giorno, ha ripensato a una massima del dialetto milanese, in cui si riconosce: "Ofelè fa el to mesté!". Ovvero alla necessità che ognuno faccia il proprio, in ogni campo.
È la realtà di ogni negozio, di ogni luogo in cui le persone si alzano all'alba per iniziare a lavorare, in cui qualcuno porta dentro e fuori quaranta, cinquanta biciclette al giorno, si confronta, parla, ascolta, cerca di capire. E questa consapevolezza, aggiunge Bonato, è il motore per decidere di fare rete, di fare squadra: mentre l'e-commerce che è sempre più importante, un fenomeno con cui non si può competere, può spazzarti via. Mentre la specializzazione, l'iperspecializzazione, ti lascia indietro se non studi, se non ti aggiorni e la bicicletta è cambiata tantissimo, da quella prima gravel, «che sembrava una bici da corsa, ma col passaggio più ampio e le gomme tassellate», che Matia vide e di cui mandò la foto ai suoi collaboratori, meravigliato, affascinato. C'è tutto questo e poi c'è la sensazione che si prova mettendo in bicicletta qualcuno e quella non cambierà mai: «A cascata, in quel momento, succede una quantità di cose e si trasmette una quantità di valori incredibili, la libertà, lo stare insieme, la sostenibilità, l'efficienza. Se si tratta di una bici da città, intuisci il modo in cui cambierà la città, la modificherà con il suo scorrere, se è una bicicletta da corsa pensi allo sport, al benessere, alla scoperta del territorio, se, invece, metti in sella un bambino sei certo del fatto che quel giorno la sua vita cambierà, perché la prima bicicletta la ricordiamo tutti. In generale, quando metti qualcuno in sella inneschi un cambiamento fortissimo ed inesorabile».
Matia Bonato si ferma, un attimo di silenzio, e riflette su quel permanere di questo sentimento. Poi, a voce più bassa, riprende a parlare: «Rossignoli è da sempre legato alla città, a Milano: una città in cui ci riconosciamo, ma, allo stesso tempo, una città profondamente imperfetta, che deve cambiare. Provare ad innescare il cambiamento e, poi, leggere di incidenti mortali in bicicletta è scoraggiante. Porta a riflettere sulle conseguenze di ciò che facciamo: spesso meravigliose, talvolta drammatiche. Io ho due figli e guardo la città con i loro occhi: quel che va bene per i miei figli va bene anche per me. Serve una città a misura di persone, le biciclette vengono di conseguenza. Se continuiamo a fare quel che facciamo è perché crediamo nel fatto che una città a misura di persone sia meglio, per tutti. Per questo noi incontriamo chi ha una responsabilità politica e chiediamo cosa intenda fare per questa situazione. Da un campo non si possono pretendere solo i frutti: bisogna lavorare, bisogna zappare. La città è il nostro campo».
Da molti anni, in Rossignoli si è presa la decisione di restare aperti anche al mese di agosto: si parla di presidio della città, di punto fermo in cui si sa che, anche nel caldo soffocante, ci si può rifugiare e sentirsi a casa: in un luogo non anonimo, che, in qualche modo, permette di riconoscersi e, quindi, di tornare. Il tutto perché l'essere umano, come diceva Aristotele e come ricorda Matia Bonato, è un animale sociale, con tutto il bello ed il brutto che ne consegue: «Non siamo ipocriti: c'è anche tanta maleducazione, bisogna dirlo. Anzi, a dire il vero, c'è di tutto, perché così sono le persone. Milano è anche la città dei "fighetti", dei giovani che si comportano da "fighetti", ma noi ci siamo da prima e sappiamo che anche questa è una maschera, che, grattando grattando, l'essere umano è sempre lo stesso. Spesso pieno di solitudine, di dolore, di voglia di sfogarsi, di raccontare tutto, anche se non ci si conosce. Basta una birra, una coca cola, per liberarsi. Può essere pesante, talvolta lo è. Può essere gratificante, perché per noi la bicicletta è un mezzo per parlare alle persone, per fare cultura, attraverso un libro o un incontro. Alla fine, non può bastare vendere una bicicletta. No, non può proprio bastare».
Così passare da Rossignoli - che nel 2021 ha ottenuto l'Ambrogino - vuol dire vedere il compressore fuori dal negozio, utilizzarlo, magari dire un "grazie", scoprire un servizio che un negozio offre alle persone, alla città. La nuova sfida riguarda la biomeccanica e il Rossignoli Bike Lab, appena aperto, rivolto sia agli amatori di lungo corso, a chi controlla i millimetri della sella ed i watt, ma anche a chi la bici l'ha scoperta più di recente ed ha male alle spalle, al ginocchio, al sedere, formicolio alle mani: «Al suo interno, un professionista, preparatore atletico, si preoccupa di metterti in sella e un software di Retool verifica ogni parametro. Si tratta di qualcosa di simile alle astronavi: si pedala con tutti dei bollini addosso e ci si vede pedalare sullo schermo. Ad essere sincero, questa cosa mi ha messo un poco i brividi, pensando a nonno che chiudeva un occhio per mettere a fuoco. Chissà cosa avrebbe detto, me lo sto immaginando». Si sorride qualche istante, poi, chiediamo cosa avrebbe effettivamente detto il nonno. «Fammi vedere come si fa»: avrebbe detto così, Matia ne è certo: sarebbe stato entusiasta come era entusiasta del primo cambio Campagnolo, quando uscì.
Parlando di una bicicletta: «quella che ha traghettato il nostro paese dalle macerie della guerra al boom economico che, purtroppo, poi, l'ha cancellata, quella di Coppi e Bartali, dell'epica e della tragedia di Pantani, quella che racconta moltissimo sia a livello sportivo che a livello spiccio». Quella di "Biciclette Rossignoli", in Corso Garibaldi 71, a Milano.
Giant Revolt X Advance Pro 0 - Gravel, ma anche di più
La prima impressione, spesso, è quella corretta. Quando abbiamo visto per la prima volta la nuova Revolt abbiamo pensato: «altroché gravel, qua c’è molto di più!»
Partiamo dal telaio, progettato con una geometria ottimizzata per le sospensioni e abbinato a una forcella da 40 mm di escursione, il tutto a favore di una guida fluida, soprattutto sui terreni accidentati. I foderi verticali ribassati con tubi di diametro inferiore, poi, sono pensati per assorbire ulteriormente gli urti e le vibrazioni della strada.
Noi l’abbiamo testata all’interno di un bosco, tra ghiaia, radici di alberi, fango, e possiamo assicurarvi che la sensazione è quella di essere su un mezzo davvero molto sicuro. Altra caratteristica importante è la presenza di un flip chip sul forcellino posteriore, che consente di regolare l'interasse e aumentare la distanza pneumatico – telaio: corto per maneggevolezza e rapidità o lungo per una migliore stabilità alla velocità. L'impostazione lunga oltretutto permette di utilizzare pneumatici di diametro fino a 53 mm. Si avete capito bene, 53! Per quanto riguarda il reggisella la scelta è ampia: si può utilizzare quello telescopico, oppure optare per il D-Fuse per una maggiore comodità o, ancora, passare a quello rotondo standard da 30,9 mm. Infine, il manubrio Contact SL XR D-Fuse, perfetto su questa bici per ridurre ulteriormente l'affaticamento assorbendo urti e vibrazioni.
Come potete capire è una bici che strizza l’occhio al mondo delle mtb, senza perdere le caratteristiche classiche del mondo gravel. Ci avevamo visto giusto, «gravel, ma anche molto di più!»
Scavezzon Biciclette, Mirano
A Mirano, in via della Vittoria 141, dalla strada non si vede pressoché nulla. Sì, ci sono due finestre, ma l'occhio è ben lontano da intuire cosa possa esserci dietro quei vetri. Un piccolo mistero, che accresce la curiosità. Il primo incontro con "Scavezzon Biciclette" ha soprattutto il profumo della sobrietà e della cautela, dell'attenzione, delle prime volte: di quando ancora non ci si conosce, ma qualcosa dice che è il momento giusto per iniziare a scoprirsi. Di lunedì mattina, è Martino ad accompagnarci verso l'interno del negozio che non si è ancora svelato, e lo fa parlando del più e del meno, come sempre in queste occasioni, mentre sta passeggiando con il cane: «Nostra madre ci ha insegnato la cura degli oggetti, anche di quelli vecchi, già usati: recuperare, rivedere, riproporre. Grazie a mamma abbiamo imparato che un pezzo di falegnameria può diventare ben altro dal suo primo utilizzo, come una parte di rotaia o la catena di una bicicletta ferma da tanti anni. Non è un fatto molto diverso dalla cura dei regali, dal posto che si dedica ad un pensiero su una mensola o su un tavolo.
Quello che vedrai è legato a stretto filo a questo pensiero. Ed in ogni cosa che guarderai ricorda: sii ironico. L'ironia è fondamentale, non se ne può fare a meno». Una sorta di lente attraverso cui guardare, un modo per sentirsi a casa propria, quando le porte si aprono e l'universo "Scavezzon Biciclette" si mostra. Universo perché ricco di cose, di oggetti, di scritte, di carte, di quadri e ovviamente di biciclette. Ed in ogni universo, tanto è ampio l'ambiente che serve qualcuno che accompagni.
«Vorremmo- continua Martino- che la visita del negozio fosse un viaggio emotivo, persino spirituale arrivo a dire, un percorso che possa suggestionare e portare oltre quello che c'è. Ah, dato importante: un poco di stronzaggine ce la mettiamo, ma è buona, è per guardare meglio la realtà». Martino Scavezzon ride, noi invece prendiamo a riflettere sulle sue parole, chiave di lettura dell'osservazione. Andrea, fratello maggiore di Martino, aveva proprio ragione: «C'è qualcosa di artistico in ogni idea di mio fratello, è il suo modo di essere e lo ha portato in negozio. Io dico che è l'anima artistica di queste mura: tutto ciò che vedi sulle pareti, appoggiato, scritto o raffigurato è farina del suo sacco. Ha studiato all'Accademia di Belle Arti e la sua formazione si sente».
Sì, gli Scavezzon sono tre fratelli; il terzo è Emilio, il meccanico dell'officina. «Lui è burbero-narra Andrea- ma è una caratteristica abbastanza comune dei meccanici. Con le biciclette se la intende perfettamente. Testardo, di certo, ma geniale. Deve trovare la giusta sintonia e poi non lo ferma nessuno». Raccontano che hanno sempre vissuto assieme, lavorato assieme, condiviso tutto. Che qualche volta non è stato facile, ma non avrebbero potuto o saputo fare diversamente. Anche nel 1985 quando, con cinque milione di lire, rilevarono una licenza per la vendita delle biciclette ed iniziarono a fare questo lavoro assieme al cugino, almeno fino al giorno in cui il cugino disse: «Sono stufo, qui si fa la fame, io me ne vado». I fratelli si guardarono e fu Andrea a prendere l'iniziativa: «Proseguiamo noi». Così fu, dopo che Andrea Scavezzon terminò l'università, la facoltà di architettura, e provò diversi altri lavori, tra cui un lavoro in comune e uno a Marghera, nell'ambito dei servizi ferroviari. In effetti, nel negozio, si intravedono oggetti realizzati con materiale delle rotaie e Martino riprende a raccontare: «Non c'è un disegno o un progetto preciso dietro quel che si vede. Semmai c'è una riflessione continua ed un affidarsi a quel che sentiamo o viviamo noi. Crediamo sia il racconto di un percorso di tanti anni».
L'attività, come noi la vediamo, risale al 1990, «in quegli anni in cui c'era tanta buona volontà ma pochi soldi e bisognava crescere in fretta anche per quello, ora siamo in nove in negozio». Dice così Andrea e poi apre una parentesi personale: «A me piace proprio l'oggetto bicicletta. Mi è sempre piaciuto, come mi sono sempre piaciute le corse e andare a correre in bicicletta. L'oggetto bici, però, è ineguagliabile, di qualunque bicicletta si tratti. A questo proposito, ripenso a nonno». Il ricordo è quello di una bicicletta Umberto Dei, comprata dal nonno negli anni 50, utilizzando due stipendi dell'epoca: una bicicletta che c'è ancora e che, con la giusta manutenzione, svolge ancora il proprio compito. «Forse la domanda da porsi è: chi lo farebbe oggi? Probabilmente nessuno o quasi. Quando mi confronto con altri commercianti io mi concentro molto su questo punto: la qualità è necessaria perché permette di durare, di essere usufruibile nel tempo e una bicicletta deve durare nel tempo. Di più: una bicicletta deve entrare nella nostra quotidianità e far parte dei gesti di ogni giorno: andare a fare la spesa, andare dal barbiere, dal dentista, a sbrigare commissioni. Qui parliamo di cultura, di mobilità sostenibile. Non è vero che non si può, si può. Ma la qualità è il primo tassello della catena: c'è uno standard sotto cui non si può andare. Il nostro pensiero è questo».
Nel negozio si vedono: Brompton, cargo bike, biciclette pieghevoli, mountain bike, bicicletta da corsa, fino alle bici gravel. Andrea racconta di avere un rapporto stretto e particolare con ogni bicicletta presente e passata, con la Brompton, però, il legame è più forte: «Rispecchia quell'ampiamento dell'uso della bici di cui parlo: con lei ho percorso lo Stelvio, il Sellaronda e, sempre con lei, ho vissuto gli attimi più usuali delle mie giornate di lavoro». Ci sono i cani che girano per il negozio e c'è un tavolino con una macchinetta del caffè che lascia intuire il profumo della bevanda.
«Sai perché? Perché è una vera macchinetta del caffè, con ancora i chicchi, non di quelle con le cialde". Esclama Andrea sottilmente orgoglioso: "Il rapporto umano è quel che più ci interessa: noi dobbiamo conoscerti, farti tante domande prima di consigliarti una bicicletta. Poi tu sceglierai quella che preferisci, ma il nostro dovere è consigliarti quella che, in base a ciò che sappiamo di te, è quella perfetta. Sì, c'è un qualcosa di armonico tra una bici e chi ci pedala sopra. La conoscenza serve a scovare questa armonia». La parte umana del lavoro degli Scavezzon sulle biciclette è raccontata magistralmente da seicento cartoline, scritte a mano, ognuna con un francobollo, inviate ai clienti del negozio, con un messaggio diverso ogni volta, cartoline che vengono collezionate, cartoline da collezione per la cura e l'attenzione con cui vengono preparate e poi spedite.
L'interesse per le persone è anche visibile da quei dogi di Venezia ritratti in bianco e nero ed esposti e dall'inciso di Martino: «Perché fanno parte della storia di questo territorio, ma soprattutto perché sono personaggi curiosi». Un'attenzione coniugata con un pari interesse per la bicicletta ed il binomio è il viaggio, le strade che portano da un luogo all'altro. «La realtà è che- parola di Andrea Scavezzon- quando viaggiamo in bicicletta percorriamo spesso sempre le solite strade, quelle a cui siamo abituati. Prendiamo coloro che, nelle nostre zone, vanno al Montello: spesso lo fanno per vie pericolose. Ma quante strade alternative ci sono, magari fra i boschi o lungo il corso dei fiumi, che non conosciamo e che potrebbero piacerci? Sono strade sicure, lontane dal traffico». Da questa considerazione è nata la MiAMi, social ride che quest'anno affronterà la decima edizione, il 28 ed il 29 ottobre: «Da Mirano a Mirano, passando un anno per Asolo ed un anno per Arquà Petrarca, su strade secondarie, nella natura, affascinanti. Sono sempre più le persone che ci raggiungono e alla fine restano tutte meravigliate. La frase più comune? "Non avremmo mai pensato". Rende l'idea».
Viaggi come quelli che fa Andrea che, senza alcun dubbio, ammette: «I viaggi che hanno a che vedere con la bicicletta sono i migliori, però io mi guardo sempre intorno, vado a vedere altri negozi e qualche idea, qualche spunto lo porto sempre a casa». Ci fa l'esempio di quando è andato a Seattle e ha visitato questo negozio, nato da un anno e mezzo: il clima è freddo, spesso c'è anche ghiaccio per le strade, allora, in un locale, lì sotto, sono stati posizionati dei ciclosimulatori e le persone, quando hanno voglia di pedalare e non possono uscire, lo fanno attraverso di loro. Scavezzon osserva anche il posizionamento delle bici, il modo di esporle: è interessato soprattutto al mondo anglosassone, al loro approccio alla bicicletta.
Il flusso del racconto riprende con Martino che mette al centro l'ironia: «I nostri non sono clienti, sono pazienti. Il termine non è casuale, visto quante attenzioni hanno per il loro mezzo. Ma non finisce qui, ognuno ha le proprie fisse, le proprie stranezze. Devo andare nel dettaglio?». Noi stiamo già ridendo, pregustandoci i particolari, e la risposta non può che essere affermativa: «Un signore del Friuli Venezia Giulia, ad esempio, è fissato con gli ingrassatori. A me è venuto il dubbio: "Ma pedala anche oppure prende la bicicletta per avere l'ingrassatore?". Di sicuro ha una sorta di collezione di ingrassatori a casa ed è una delle prime cose che guarda quando viene qui, osservando minuziosamente Emilio ingrassare le bici. Un pomeriggio c'era qui un ragazzo con una bici da ingrassare: beh , l'abbiamo fatta ingrassare a lui. Non riesco a descrivervi la sua felicità nel farlo». Una sorta di squarcio dell'umanità che può racchiudere un negozio ed un negozio di biciclette.
Ogni tanto arriva anche il figlio di Andrea: ha voluto scegliere lui ogni dettaglio della propria bici ed ovviamente, visto l'ambiente in cui è cresciuto, di biciclette se ne intende, ma per ora non pensa a questo tipo di lavoro per il futuro. «Io fra qualche anno vorrei lavorare meno, verrò comunque in negozio, ma una volta alla settimana, magari. Vorrei vivere ancor di più la bicicletta sulla strada e farla entrare ancor più nella mia vita quotidiana. Lo dico ai giovani, c'è possibilità di vivere con questo lavoro ed è un bel lavoro». La passione si sente, uguale a quella che ha fatto iniziare tutto trent'anni fa, sebbene molto sia cambiato: «Indubbiamente, è cambiato il mondo e la bici con lui, ma il bello è che la bicicletta, per quanto cambi, resta sempre la stessa, almeno nelle linee base. Ora c'è più elettronica ed è una differenza sostanziale. Sono aumentati anche- il tono di voce fa intuire lo scherzo- i modi in cui i clienti chiamano la camera d'aria. Non è così difficile da dire, ma non hai idea di quante variazioni sul tema si incontrano». Storie di incontri e della lingua che è parte di una terra, come i ciclisti, come Toni Bevilacqua, soprannominato "Labron", che è rimasto nel ricordo della gente.
Anche le fotografie sono parte del negozio, alcune in particolare. Martino, circa 25 anni fa, ha ritratto, in bianco e nero, circa 250 clienti affezionati; quelle foto ci sono ancora e sono una testimonianza, del tempo che passa, dei cambiamenti, di un momento preciso e del rapporto che si crea con le persone, in quello spazio senza vetrine, tra il ferro ed il legname che viene riutilizzato, tra le immagini del gruppo che va e della gente che lo aspetta e poi lo segue con lo sguardo, tra i vari soprammobili, che si celano e si mostrano, e tra tutte quelle biciclette. Quello spazio dei tre fratelli Scavezzon che non è solo un negozio di biciclette.
Foto: @maxiezzi
Trek Bicycles, Firenze
«Quando si tratta di biciclette è diverso. Chi ti consegna una bicicletta da riparare oppure osserva una bicicletta che vorrà acquistare, direttamente o indirettamente, ti racconta una parte della propria vita. Vieni a sapere dove vive, cosa fa di lavoro, dove va di solito ad allenarsi, la strada sterrata che lo gasa, la discesa su cui fa velocità, con chi fa la gara al cartello, il luogo del lungo di domenica e molto altro. E, mentre conosci tutte queste cose, piano piano ti accorgi che quella persona che, appena è entrata dalla porta ti ha fatto un cenno per chiederti qualcosa, non ti è più estranea. Si tratta di un inizio di rapporto, di un principio di conoscenza: puoi aggiustare molte altre cose, puoi vendere tante altre cose, ma difficilmente vivrai questa sensazione. Personalmente vengo dal ramo dell’abbigliamento e so che è differente».
Sono le prime cose che ci dice Marco Della Maggiora, store manager del Trek Bicycle di Firenze, in via delle Cascine 35: ci troviamo nell’ex Manifattura Tabacchi, un tempo luogo di sigarette e sigari, riqualificata, negli ultimi cinque o sei anni, e rivista in chiave moderna. Restano i mattoncini rossi, le porte ampie in legno e le vetrate, sopra, su alcuni soffitti, anche i tubi che scorrono; fuori da qui, il Parco delle Cascine, da un lato, e i Lungarni che portano al centro, dall’altro, l’aeroporto dista dieci minuti o poco più. Si racconta che presto, in questa zona, sorgerà un albergo e le vie nei dintorni diverranno un nuovo polo attrattivo della città di Firenze, simile a Citylife a Milano, per rendere l’idea. Il futuro che si avvicina e cambia le cose, spesso le migliora, eppure
Della Maggiora tiene un angolo per la malinconia, per i ricordi, e, mentre chiacchieriamo e fuori infuria il temporale, torna con la mente alle vecchie botteghe dove si riparavano le biciclette: «C’erano il signor Mario o il signor Gianni, con la voce forte e le mani che avevano appena rivoltato la catena, il grembiule sporco di unto, sulla soglia di una botteghina. Mario e Gianni conoscevano tutti e tutti li riconoscevano, poi, sai come sono fatti i fiorentini: quando ti intravedono, iniziano a gridare metri e metri prima per salutarti con la loro cadenza ed il loro: “Ciao bimbo”. Sì, ora il mercato della bicicletta è andato da un’altra parte e Mario e Gianni non ci sono più, però sono un romantico della bicicletta e, anche se qui è tutto nuovo, io a quelle botteghine penso spesso».
Del resto, i fiorentini, Della Maggiora lo spiega bene, sono sempre gli stessi: scrutano il colore viola in ogni dettaglio della città, lo inseguono quasi, anche nelle cartelle dei bambini che vanno a scuola la mattina, e si fermano ad ammirare il Giglio, il simbolo di Firenze, ogniqualvolta lo vedono. In negozio ce n’è uno, illuminato al neon, grande come tutta la parete, mentre uno più piccolo è stampato sulla maglietta con il marchio Trek che Marco ha addosso: «Ho in mente una maglietta così, ma viola, non nera: vedrai, maglietta viola e giglio. Non resisterà nessuno, li conosco ormai, nonostante io sia di Massa Carrara». Per esempio, Marco Della Maggiora conosce la loro maniera goliardica di dir le cose, dei toscani e dei fiorentini in particolare: «Sono amiconi, ma solo se scelgono di fidarsi: in quel caso, pacche sulle spalle, abbracci, prese in giro sono all’ordine del giorno e vengono a trovarti in negozio anche se non hanno nulla da comprare o da sistemare. Però, attenzione, perché se non gli si va a genio, a Firenze hanno la memoria lunga e non c’è verso di fargli cambiare idea».
Anche quel professore dell’Università di Londra, nativo di Firenze, che qualche settimana fa è passato dal negozio e ha scritto una bellissima recensione, sull’aria europea che ha trovato in via delle Cascine, era così. Ma qui arrivano anche americani in viaggio, olandesi che visitano il Chianti, spagnoli e quasi sempre si fanno precedere da una telefonata e quel nome già conosciuto, Trek, per l’appunto, serve da rassicurazione, quasi fosse un conforto, un sentirsi a casa, pur se lontani. Poi entrano in negozio, sentono l’odore di copertoni e di uno spray lubrificante alla ciliegia, che ultimamente si usa spesso e impregna l’aria, sono socievoli, desiderano conoscere, spesso imparare, farsi consigliare, in poche parole, hanno voglia di fidarsi. «In Italia siamo diversi. Tempo fa abbiamo distribuito dei volantini per il lavaggio gratuito della bicicletta: si tratta di smontarla, lavarla, ingrassarla, comunque di metterci le mani. Voglio dire che fidarsi può non essere così istantaneo, però, anche per questo si può fare qualcosa. Venendo in negozio, capirai».
Il negozio ha due ingressi, uno sul lato del parco, l’altro interno. Tutto è situato su un solo piano, da una parte si trovano le biciclette destinate alla vendita, da corsa, elettriche, da bambino, da passeggio, mountain bike, e dall’altro quelle destinate al noleggio, tra cui un posto di rilievo è occupato dalle gravel. All’interno della manifattura tabacchi, è invece posta l’accettazione: Leonardo, il Service Leader, effettua la prima ispezione della bicicletta, proprio assieme al cliente, per vedere ogni dettaglio: il tutto viene registrato dal PC e da quel momento scattano le ventiquattro ore entro le quali la bicicletta, a meno di ricambio di pezzi non presenti in officina e quindi da ordinare, deve essere riparata e riconsegnata al cliente. Daniele, il meccanico, è in officina: richiama con una “pistola” lo scontrino e vede tutti i lavori che ci sono da fare, li esegue, poi custodisce i pezzi sostituiti che verranno riconsegnati insieme alla bicicletta, in modo da raccontare ciò che è stato fatto. L’officina è chiusa, ma non del tutto e Daniele, spesso, incontra il cliente quando viene a ritirare la bicicletta.
«Inutile nasconderselo, non è bello sapere che qualcuno ha messo le mani sulle nostre bici e non sapere chi. Siamo sempre curiosi di vedere ciò che viene fatto, o, almeno, di conoscere chi lo ha fatto. Nelle botteghine succedeva ed il meccanico era un confidente come il barbiere del centro. Un pezzetto di quel mondo, noi lo riportiamo qui, anche oggi che non basta più un martello per sistemare una bici, ma serve anche la tecnologia. Il contatto fa in modo che il meccanico diventi il tuo meccanico, un senso di appartenenza reciproco; si ha piacere di vedere il cliente che torna perché sai che il tuo lavoro è stato riconosciuto, che questa volta lascerà ancor più volentieri la bicicletta nelle tue mani». C’è il gergo fiorentino, una sorta di vocabolario della bicicletta: i copertoni sono i fascioni ed il leva copertoni è il leva fascioni, mentre il mastice è il masticione. In un’altra stanza si nota subito un vascone per lavare le biciclette e una vaschetta, più piccola, in cui lavare il pacco pignoni, la pedivella e la catena. La prima frase è sempre: «Come posso aiutarla?». Poi il lei diventa tu, fino ad arrivare al nome. Soprattutto non deve mai passare troppo tempo tra l’ingresso in negozio e le prime parole: «Si tratta di cura, di attenzione per qualcuno che ha bisogno di supporto e ti sta cercando. Puoi avere altre mille cose da fare, ma appena entra è doveroso che tu lo faccia sentire accolto. Con gli ospiti si fa così».
Ad un certo punto, tra ingranaggi di biciclette e racconti buffi, ecco la doccia e la cucina: sì, avete capito bene, entrambe presenti in negozio. Della Maggiora precisa che sono due elementi a cui Trek tiene molto, perché accrescono l’aria di casa e perché aumentano anche la voglia di andare a pedalare: lui stesso, spesso, esce al mattino alle sette, sgambata, due o tre ore di pedalata e via in negozio.
«A Firenze si fa dislivello come niente. L’altro giorno ho fatto quaranta chilometri e ben mille metri di dislivello, la doccia in negozio però mi salva. Una sciacquata, ci si cambia e si è pronti per iniziare la giornata, come si fa a casa. Anche la cucina fa famiglia: in certi giorni passiamo lì la pausa pranzo, altre volte facciamo il punto della situazione, la riunione di quindici minuti prima dell’apertura. Siamo in quattro, forse non servirebbe, ma vogliamo farla lo stesso: un domani, quando sarà necessaria, avremo presente meglio il significato del ritrovarsi a parlare, non solo per sbrigare faccende, ma per la condivisione. Io ho quarantacinque anni, i miei collaboratori fra i ventiquattro ed i ventinove, potrei essere un babbo per loro, e per molti aspetti mi sento di esserlo, per le ore che scegliamo di passare assieme, pur non essendo obbligati a farlo, ad esempio. Forse, anche per questo fermarsi più ore in negozio pare semplice».
Sì, perché è capitato e capita spesso che quando fuori si fa buio e sui Lungarni cala il silenzio, intorno all’una di notte, sbirciando dagli ingressi dello store si intraveda ancora qualcuno, si sentano le voci, le risate, aria di festa, e, guardando meglio, si veda che nel locale ci siano tante persone, in tenuta da ciclista. C’è appena stata la ride notturna del mercoledì, talvolta nelle zone di Impruneta, altre verso San Casciano, organizzata da Trek Bicycle, e, tra una birra ed una coca cola, si continua a divertirsi.
«La bicicletta è uno strumento conoscitivo pazzesco. Quando si pedala, si inizia a parlare della salita o del tragitto, poi, però si finisce per affrontare discorsi che nemmeno ci si sarebbe sognati. Così si parla del figlio e di che scuola fa, dei genitori, di quello che è accaduto sul lavoro. In una parola, si fa comunità». Il luogo per eccellenza dell’incontro è un bancone, con quattro sgabelli, davanti ad un televisore attaccato alla parete, con una bici d’epoca vicina alla macchinetta del caffè e al frigorifero: lì in autunno ci sono i cioccolatini, con la forma di una maglia da ciclista, anche iridata, per le occasioni più importanti, prodotti dallo zio di Jasper Stuyven, cioccolatiere belga, ed in estate bevande ghiacciate, popcorn e patatine.
Qualcuno porta il proprio computer e, mentre aspetta che la bicicletta venga riparata, si mette a lavorare. Non ci si incontra solo per eventi legati alle biciclette, qui si possono organizzare corsi di yoga, presentazioni e qualsiasi altro evento che abbia alla radice l’idea dello stare insieme. In estate, sovente, a quel bancone, ci si mette a guardare il Giro d’Italia e il Tour de France: «Niente scherzi, eh. L’ho già detto a tutti: l’anno prossimo, quando parte il Tour de France da Firenze, il negozio resta chiuso e si va a vedere la corsa. Quel giorno, vedrai che anche i fiorentini al viola vorranno affiancare il giallo, un colore che riempirà le vie. Quel giorno saremo la casa della corsa più importante al mondo ed in città se ne parla già adesso». Se ci si guarda attorno, a dire il vero, si nota ben presto quante biciclette ci siano a Firenze e quanti pedalatori: si fa enduro sopra la città e si arriva qui dalla Versilia, mettendo chilometri nelle gambe, certe volte su percorsi da vera e propria classica. Certo, le biciclette girano, vanno, scoprono, si lasciano scoprire attraverso chi le guida, talvolta attraverso gli ambassador, e poi tornano, si fermano, aspettano di ripartire, che qualcuno le controlli o le sistemi. Magari le scopra. Che qualcuno ne abbia cura. Da queste parti, tra il Parco delle Cascine ed i Lungarni, Trek Bicycle, all’ex manifattura tabacchi, è la casa da cui partire ed in cui fare ritorno. Il temporale si è quietato, un giro, adesso, ci sta proprio bene.