Il Tour di Caramas
Non sei il favorito della corsa, ma non importa, hai puntato tutta (o quasi) la stagione ai 3400 km circa che ti servono per arrivare a Parigi, partendo da quella splendida città che è Bilbao. In che posizione si vedrà, non è questo il concetto, vale per chi arriva primo, per chi arriva ultimo. Ti sei preparato per mesi, questa gara l’hai sognata, ti sei immaginato diversi scenari in cui avresti potuto attaccare, quella salita, quella discesa, hai studiato il percorso e quindi hai cerchiato di rosso un punto in particolare che ti ispirava. Hai rinunciato a tane cose, come fa chiunque nella vita si pone degli obiettivi, hai studiato la tattica con i tuoi compagni di squadra e i tuoi direttori sportivi, poi arriva il giorno del Tour de France e si parte.
L'avventura inizia da Bilbao, piena di sogni e speranze e passi centosessanta chilometri di corsa tra la pancia e la coda del gruppo, limi, quando sai limare, limi lo stesso anche se non ne sei capace, urli "occhio!" quando c'è da passare di fianco a un collega, compagno, avversario, arriva la prima delle due salite più attese e ti fai trovare davanti, poi discesa, curva, si va a terra.
Sei caduto e ti rialzi, ti guardi intorno e incroci per un attimo lo sguardo di Enric Mas, destino identico, o quasi. Controlli il ginocchio, immaginiamo soltanto il dolore, ma prendi e riparti: vuoi concludere la tappa, un destino che invece a Enric Mas è precluso.
Vai avanti lo stesso, sbuffi, fai fatica, hai la gamba che sanguina, un tuo compagno si avvicina e cerca di farti forza soltanto standoti vicino: ci sono certi momenti in cui una presenza, un’ombra può bastare e quel tuo compagno condivide con te il dolore e sa che in quel momento il silenzio è il miglior conforto possibile.
Intanto, Mas si è ritirato. Non è ripartito, dopo mesi a pensare all’obiettivo podio - fattibile, altroché - il suo Tour de France è durato giusto qualche ora.
Tu arrivi al traguardo, invece, con il ginocchio quasi aperto in due: micro frattura della rotula. All’indomani non riparti, anche il tuo Tour è durato poco più di qualche ora.
Foto in evidenza: Sprint Cycling Agency
Foto Enric Mas da Twitter, Team Movistar
La festa delle pietre
Avete mai avuto il timore di dimenticare una sensazione? Magari una bella sensazione che, in qualche circostanza, avete provato. Sono quelle le occasioni in cui può capitare di pensare: «Non vorrei mai dimenticarmi come mi sento ora». A Valeria Bidoggia è successo la prima volta in cui è stata nelle Fiandre, oppure, per la precisione, la prima volta in cui ha camminato (sì, è bastato camminare) su un tratto di pavè. Ci racconta di averlo accarezzato, di essersi seduta tra quelle pietre e di aver pensato alla storia: «Non c'è essere vivente che possa aver assistito a ciò a cui ha assistito un sasso, una roccia o qualunque altra creatura inanimata. Vero, lì non c'è la coscienza, ma penso che gli esseri umani, quando vi si accostano, possano sentire qualcosa di particolare. Sì, perché noi sappiamo cos'è accaduto lì. Quante biciclette, quanto dolore, quante voci, quanta speranza, è passata da lì. È difficile da raccontare come tutte le cose che percepiamo, ma io l'ho avvertita e ho chiesto a me stessa di non scordarla».
Però la paura di dimenticare c'è sempre e allora si cerca di tornare, di riprovare quel che già si è provato, nella speranza sia ancora la stessa cosa. Valeria ha fatto proprio così e, sulle pietre, è tornata in bicicletta, nella grande festa del sabato, in cui gli appassionati pedalano sul tragitto, come professionisti veri. A tutti gli effetti perché per le persone che sono a guardare non fa molta differenza chi stia passando in quel momento: si tratta, comunque, di qualcuno che sta andando in bicicletta e, solo per questo, bisogna gridare, fare rumore, incitare, forse anche ballare e cantare. «Sai, tutti vogliono riprovare le cose belle, le cose che li hanno resi felici, ma, come sempre, ci sono due volti: il desiderio e la paura. Volevo pedalare su quei tratti, ma avevo anche timore di non farcela, di non essere all'altezza. Forse, persino, di non provare più la sensazione di quella prima volta e di macchiarne il ricordo. In questi casi serve un obbligo: qualcuno che voglia che tu lo faccia. Il regalo di mio marito, per Natale, è stato proprio questo. Il Fiandre ed il coraggio».
Il menu: 75 chilometri di percorso, nove tratti in pavè ed anche la pioggia, perché sabato 1 aprile, in Belgio, il cielo è inclemente. A questo si aggiunge il fatto che questo tipo di tempo atmosferico non lascia tranquillo nessuno, in particolare Valeria: «Credo sia la prova che è tutto nella testa, perché in altre occasioni non sarei nemmeno uscita in bicicletta con la pioggia, figuriamoci su quei muri, con quelle difficoltà. Invece...». Invece è alla partenza ed in macchina ascolta musica che possa caricarla, ha un magone, gli occhi lucidi, canta a voce alta: «Il timore è sempre quello di non essere all'altezza. Nel mio caso è un fatto caratteriale, ma in queste prove pensi ancor di più. In altre occasioni è successo che qualcuno gridasse solo perché ero dalla parte sbagliata della strada, perché "lo intralciavo": ti senti sotto esame, anche se non lo sei. Ed è un peccato. Ecco, prima che partisse il mio Giro delle Fiandre, mi sentivo così, sotto esame». In Belgio, però, tutto questo non c'è, almeno non lì. Si vedono persone che ridono, spensierate e tutto questo si trasmette. «Forse hanno capito il vero senso di giornate del genere. Io guardavo e mi dicevo: "Quasi quasi rido anche io". Sorridevo e pensavo che mi sentivo nel mio posto nel mondo». In particolare, sul Paterberg, muro che Valeria percorre metà in bicicletta e metà a piedi: verso la cima, vede due ragazze che ridono, le guarda e ride: «Mi sono resa conto solo dopo, vedendo le fotografie, che ridevo ovunque. Anche se mi facevano male i polsi, le gambe, tutti i muscoli, persino i piedi». Quella fatica che, per quanto faccia male, si vuole vivere fino in fondo «perché ti fa capire quanto vali, quanto puoi fare da sola, senza dipendere da nessuno, con il supporto di tanti, forse, ma da sola. E sapere che sei in grado di cavartela da sola, cambia tutto, rasserena».
Per questo, sul Kwaremont, quando un gruppo di tifosi italiani capisce che anche Valeria è italiana, e chiama a raccolta tutti, al ritmo di: «Spingiamola, dai!». Lei, tira fuori la voce: «No, vi prego: voglio farcela da sola». Quei ragazzi continuano a incitare e la vedono che, spingendo sui pedali, arriva alla fine: esultano. Sarà uno dei tanti momenti di incontro con i tifosi: «Ad un certo punto ho visto un uomo che mi gridava: "Come on! Come on!". Mi sembrava proprio Andrè Greipel, l'ho guardato e gli ho detto: "Greipel?". Sì, era lui, ed è tornato ad incitarmi». C'è sorpresa perché fa sempre strano vedere qualcuno per cui si tifava che, adesso, fa il tifo per te, in realtà, la risposta di Valeria Bidoggia è naturale.
«Non conta chi hai davanti, conta il fatto che, se conosci la fatica, quando vedi qualcuno che ne sta facendo molta, non puoi che esserne partecipe. Accade qualcosa di simile con il dolore». Sì, tutto questo nel verde delle Fiandre, "indimenticabile", e con, nel naso, l'odore del fango, "piacevole e fastidioso allo stesso tempo". Tutto questo sulle pietre che sono spaventose ma anche rassicuranti, a tratti.
L'arrivo è là in fondo, da molti minuti ormai, ma non arriva mai, quasi fosse un'illusione o il tempo rallentato, fermato. Servono minuti e minuti per transitare sotto l'arrivo, lo stesso dei corridori, di Pogačar o di Kopecky: «Il giorno dopo, mi stupivo del poco tempo impiegato dai professionisti per percorrere il pavè. A me sembra di averci messo un'infinità, ma ce l'ho fatta, con solo 450 chilometri nelle gambe. È incredibile».
Ed in tutto questo, la cosa più importante: «Quella sensazione, quella di cui ti parlavo, che temevo di scordare o di sporcare, è stata la stessa. Identica. Forse davvero non la scorderò mai, non la perderò mai».
Sempre diversa, sempre la stessa: intervista a Gaia Realini
Dopo qualche mese dall'ultima intervista, Gaia Realini, nella nostra chiacchierata, riparte, ridendo, dal sei maggio, quando, durante la sesta tappa de "La Vuelta Femenina", si trovò, a pochi chilometri dal traguardo, in testa alla corsa, assieme ad Annemiek van Vleuten. Siamo, però, noi a mettere sul tavolo una sorta di provocazione: «Dai, adesso puoi dirci la verità: sentivi di poterla vincere?». Non c'è quasi tempo fra la domanda e la risposta e la voce di Gaia riprende, allegra: «Ma nemmeno per sogno. Il mio pensiero era: "Perfetto, siamo in due, faccio seconda e porto a casa un'altra giornata positiva». Dall'ammiraglia, però, non la pensavano così. L'avrei scoperto a breve". Infatti, di lì a poco, sarebbe stata la voce di Paolo Slongo a dirle che quella volata avrebbe dovuto giocarsela. Il dialogo ve lo riportiamo: è più o meno così
«È l'occasione della vita, Gaia. Giocatela»
«Ma come faccio?»
«Stai tranquilla. Devi solo stare tranquilla e fare la tua volata»
«Sì, posso fare anche la mia volata, ma è impossibile. Vince lei, non ci sono dubbi»
«Tu inizia a fare la volata, poi vediamo».
Gaia Realini non era convinta, eppure quella volata l'ha fatta e l'ha vinta: «Non ci credevo in quel momento e non ci credo ancora. Eppure ho rivisto più volte quel finale e la ciclista in maglia Trek-Segafredo sono proprio io. Prima o poi me ne convincerò». Bastano queste poche parole per capire che i successi di inizio stagione e un'indubbia crescita non hanno per nulla cambiato Realini che, per usare le sue parole, resta la ragazza di sempre. «Non sono cambiata e da questo punto di vista credo non cambierò mai. Ti dico di più: se dovessi cambiare, vorrei che qualcuno me lo facesse notare, perché starei sbagliando. Ho ben presente come sono arrivata qui, i sacrifici che ho fatto, so che siamo solo esseri umani, che possiamo saltare molto in alto ma anche cadere giù. Non avrebbe senso». Ci sono stati dei cambiamenti, questo sì, ma di altro genere.
«I risultati portano fiducia, capisci le tue reali potenzialità. In questo senso cambiano. Però i risultati vanno guardati con i piedi per terra, ma proprio con i piedi ben saldi a terra, altrimenti rischiano di portarti fuori strada». Ed in questa acquisizione di fiducia, ha fatto moltissimo una nuova presa di coscienza rispetto all'errore, soprattutto per una persona come Realini che si descrive come estremamente autocritica: «L'errore è parte del processo di crescita, occorre saperlo individuare ed analizzare con un approccio positivo. Ci sta solo indicando dove correggere per migliorare. Il fatto è che chi è molto autocritico, di solito, fatica ad avere questa visione e per gli errori si colpevolizza eccessivamente. In parte lo faccio ancora, ma meno». Ecco dove è cambiata Realini.
Un processo iniziato da tempo ed in continua evoluzione che, però, trova le sue radici nella prima gara di stagione con Trek-Segafredo, l'UAE Tour: in quei giorni, c'erano molti pensieri nella mente dell'abruzzese di Pescara, la maggior parte dei quali avevano a che fare con quello che tutti si sarebbero aspettati da lei, dopo il cambiamento di squadra: «La cosa incredibile è che, per lungo tempo ho vissuto divertendomi gli allenamenti e con una forte ansia le gare. In quei giorni ho capito che nessuno si aspettava qualcosa di particolare da me e nemmeno io avrei dovuto aspettarmi chissà cosa. Solo continuare a fare ciò che già facevo, pedalare al meglio delle mie possibilità. In fondo, perché dovrei essere in ansia per questo? So farlo, l'ho sempre fatto».
Gaia Realini guarda con attenzione ciò che fanno le compagne di squadra, ascolta ogni consiglio, diretto o indiretto, dice che per lei «è pane ogni suggerimento», così ogni gara la riporta a un passo avanti: l'azione con Longo Borghini all'UAE Tour, la vittoria a Montignoso con Spratt, in una corsa in cui non partivano favorite, sino a quel giorno a "La Vuelta", da cui è iniziato il racconto.
Ora il pensiero è al Campionato Italiano a Comano Terme che, il 25 giugno, assegnerà una nuova maglia tricolore: «È un traguardo a cui si lavora da inizio stagione, certamente molto importante. Vedremo come si metterà la corsa, ma io ed Elisa Longo Borghini faremo di tutto per mettere in difficoltà le avversarie. Nel circuito finale, quello da percorrere per quattro volte, c'è una salita di cinque chilometri. Secondo me, un buon punto, in cui chi avrà la gamba potrà dire la propria, sarà il secondo dei quattro giri: la corsa potrebbe esplodere lì».
Quando le chiediamo del significato di quella maglia, Realini inizia parlando di felicità: «Sarebbe un orgoglio, una grande gioia...ma c'è di più. Per me il ciclismo non è mai stato un sacrificio: tutte le volte in cui qualcuno mi chiedeva come facessi a fare la mia vita, rispondevo con la stessa domanda: "Tu come fai a fare la tua?. E, se non lo dicevo, pensavo: "Per fortuna che ho questa vita”. La mia maglia tricolore avrebbe anche questo significato». Forse per questo, quando Realini parla del Giro d'Italia, prossimo appuntamento in ordine temporale, accenna alla tappa di Canelli, a quelle in Sardegna, in cui segnala l'incognita vento, sottolinea l'importanza di vivere questo appuntamento al massimo e poi torna a parlare del lavoro: «Sono contenta quando devo fare la gara, ma per me c'è qualcosa di enorme anche nel lavorare per la squadra. Sai, quando tagli il traguardo e sai che hai fatto molto per le tue compagne, ti senti a posto con te stessa, serena. Una sensazione bellissima. Il giorno del Binda, ad esempio, l'ho provata». E, se sarà difficile, come è sempre difficile una gara a tappe, Gaia Realini saprà come farsi coraggio.
«Quando tutto va bene e vinci, arrivano molte persone che vogliono esserti amiche, che dicono di esserti amiche. Presto scopri che basta un periodo no perché tutti si allontanino. Avere tante persone a fianco può attirare. Io ho capito che me ne bastano poche, davvero poche. La mia famiglia, gli amici e lo staff della squadra. Loro mi fanno sentire coraggiosa».
«Forse al Giro...»: intervista a Marta Cavalli
La mattina, quando le telefoniamo, Marta Cavalli, dopo alcuni giorni a casa, sta per ripartire per le gare, per quel Tour Féminin International des Pyrénées dove coglierà il successo, che vi abbiamo raccontato, ad Hautacam, e, come ogni volta, prima di partire, si prepara a passare a salutare i nonni. Un gesto apparentemente semplice che, però, in questa stagione strana, con molte difficoltà inaspettate, ha spesso avuto un gusto agrodolce: «Tutte le volte mi abbracciano e mi dicono: "Speriamo vada tutto bene, speriamo in un risultato". In questi mesi, ho sentito molte volte questa frase e tutte le volte ho detto "sì, speriamo", pur sapendo che quel risultato non sarebbe potuto arrivare. Ed ogni volta era più difficile, perché, dopo un'annata come il 2022, tutti si aspettano qualcosa da Marta Cavalli e, più passa il tempo, più se lo aspettano». Inizia così un'intervista che prova a riavvolgere il filo degli scorsi mesi ed allo stesso tempo cerca di guardare avanti, ai Campionati Italiani, al Giro d'Italia ed al Tour de France. In generale alle gare perché è lì che Cavalli si aspetta di ritrovare qualcosa a cui, l'anno scorso, si era abituata.
«Non te lo nascondo, sto pensando alla vittoria, del resto ci pensano tutte le atlete. Io, però, so che, in momenti come questi, è ancora più importante, ancora più bella. Importa nulla quale sia la gara, se più o meno prestigiosa, in ogni caso, se vincerò, avrò battuto le atlete presenti, ed io voglio vincere, voglio liberarmi. E, se non dovesse essere la vittoria, almeno un piazzamento, una prova così buona da restituirmi alla me stessa che conosco». Marta Cavalli ci confessa che, in ogni allenamento, ricerca il limite, il momento in cui in salita si è da soli, all'attacco, con tutti i tifosi che gridano, incitano, caricano. Un momento che vive attraverso i muscoli, che fanno male, e immagina, quasi sentisse quelle voci urlare il suo nome, tanto lo desidera: «Non è successo molto tempo fa, d'improvviso ti svegli la mattina e l'idea di fare sei ore di allenamento con 2500 metri di dislivello non ti spaventa più, non ti fa più porre domande, ma ti sprona. Hai voglia di provare quella sofferenza. Quando ho provato quella voglia, ho capito che, forse, il momento più difficile era passato, perché, quando stai male, la sofferenza non vuoi vederla, non la sopporti».
Ma il perché si sia innescato questo meccanismo, nemmeno Cavalli lo sa. Se lo è chiesto più volte e se lo chiede anche mentre parla con noi, mentre ci dice che, con l'arrivo del caldo, le sensazioni sono sempre migliori, che sta bene, che la Vuelta le è servita e, dopo un inizio di stagione a intervalli, questa seconda parte sembra essere migliore. «All'inizio non avevamo capito quanto fosse esteso il problema. Pensavamo a qualcosa di temporaneo, magari una trasferta da cui non avevo recuperato, un momento no, una settimana no, un carico eccessivo. In realtà, nel mio caso, c'era un fattore fisico ed anche un fattore di approccio mentale su cui lavorare. Quindi il fatto era ben più complesso». Non tutte le stagioni sono uguali, Marta Cavalli ce lo ripete spesso, ma, nel suo caso, il fatto che quest'anno venga dopo il 2022 è particolarmente significativo.
L'anno scorso ogni gara era quasi certezza di risultato, quanto meno di prestazione di alto livello, e la condizione fisica era sempre buona, qualcosa che faceva presupporre il risultato, nel 2023, invece, le è capitato più volte di presentarsi alle gare pur non essendo al 100%, l'ultima volta a “La Vuelta Femenina” e questo è stato un banco di prova. «In un certo senso, è un altro passo avanti. Un'altra cosa che dovevo imparare ed ho imparato. Non sono partita senza dubbi o timori per "La Vuelta". Ho anche pensato di rimandare, di aspettare, è normale quando non ci si sente pronti. Poi ho deciso che sarei partita, avevo già aspettato troppo. Anche la famiglia mi ha aiutato in questo, parlandone a casa abbiamo trovato assieme il modo di affrontare questo periodo». A "La Vuelta", in FDJ-Suez, il ruolo di capitana era affidato a Evita Muzic, giovane, per le prime volte alle prese con questo compito, Cavalli si mette a disposizione, sceglie di aiutare, sulla strada e attraverso i consigli.
Il più importante? «Provarci sempre, perché nel ciclismo la fatica viene mascherata, nascosta. Guardi la tua avversaria e ti sembra stia benissimo, che sia incrollabile, invece spesso sta soffrendo, come e più di te. Se continui a provarci, prima o poi, diventa impossibile nascondere la fatica ed emergono i veri valori in campo». Ci viene spontaneo chiederle come faccia lei a mascherare la fatica, a fingere per ingannare le avversarie, lei sorride: «Bella domanda. Se ci fosse, lo direi, però non so fingere, questo è il problema. Se mi guardano in faccia, mentre sono in difficoltà, capiscono subito che quello può essere il momento giusto per attaccarmi. Per far fronte a questa situazione, ho imparato ad andare oltre il limite, a fare più fatica di quella che riuscirei a fare normalmente e a gestirla». Le è capitato ad inizio anno, in corsa, quando, scorgendo il suo stato di difficoltà, le avversarie hanno iniziato a cercare di metterla ulteriormente in crisi: «L'ho vissuta male, mi è sembrato un infierire, poi ho capito che dovevo accettare la situazione e la tranquillità di casa è stata un toccasana». Anche nella quotidianità, Cavalli si spinge sempre verso il meglio, racconta di non essere tranquilla se non mettendo il massimo in ogni situazione "però la vita di ogni giorno non pone le stesse situazioni del ciclismo, è diverso il confronto con i limiti. Credo sia anche una buona cosa, perché non penso sarebbe affrontabile una quotidianità simile a una gara di biciclette».
A "La Vuelta" Marta Cavalli partecipava ad una riunione dopo ogni tappa: un modo per analizzare ciò che aveva funzionato, quel che non era andato come avrebbe voluto e possibili soluzioni. A forza di farlo, ha trovato in quelle riunioni gli spunti per reagire, per cambiare ciò che si poteva cambiare. «Del Tour dell’anno scorso si è già parlato tanto, ma per me quella caduta è un segno profondo. Non era prevedibile, è stato un fatto che mi ha messo in ginocchio in un momento in cui ero nel pieno controllo della situazione. Ovvio che di quella circostanza siano restati dei residui, soprattutto a livello mentale».
A giugno, prima del Giro d'Italia, ci saranno i Campionati Italiani, in palio una maglia tricolore a cui Marta Cavalli tiene molto. Perché l'ha già indossata, nel 2018, e perché da quando corre in FDJ-Suez, una squadra francese, avverte ancor di più l'importanza dell'essere campionessa nazionale: «Soprattutto perché, adesso come adesso, varrebbe più di qualsiasi classica. Un valore che non riesco nemmeno a descrivere, se non con quello che provo pensandoci». E per quella vittoria, Cavalli non ha alcun dubbio: «Devo ricercare qualcosa dentro di me, così otterrò la vittoria». Intanto il Giro d'Italia si avvicina, un appuntamento che, se vissuto bene, potrebbe essere di slancio verso il Tour de France di qualche settimana dopo. L'atleta di Cremona ci tiene molto ed il suo pensiero va subito ai tifosi: «Mi aspettano da tanto, al Giro potranno venire a cercarmi, a salutarmi più spesso. Potrà esserci la mia famiglia ad ogni tappa, gli amici. Il Giro è una corsa che sento mia, la più lunga corsa a tappe. Farò il massimo, anche se dirlo sembra scontato. Io farò il massimo davvero». A sfidarla, le rivali di sempre, in particolare due atlete su cui si sofferma e di cui teme la poliedricità: Demi Vollering e Annemiek van Vleuten. Ma, quando parla delle due olandesi, Cavalli, in realtà, pensa ad altro.
Un pensiero che le fa cambiare la voce e la velocità con cui racconta, un pensiero che le piace: «Le persone ci immaginano come rivali in ogni circostanza. Non è sempre così. Non molti lo sanno, ma quest'anno molte atlete del gruppo sono venute a chiedermi come stavo, a salutarmi al mio rientro in gara. In tanti si sono preoccupati per me, ma, quando lo fa chi condivide i tuoi stessi problemi e le tue stesse giornate, cambia tutto. Ha un significato diverso. Demi Vollering è venuta a cercarmi dopo una sua vittoria: "Oggi mi sei piaciuta, sono contenta di rivederti a questi livelli". Anche van Vleuten mi ha cercato: "Manca poco, Marta. Forse al Giro..."». Già, davvero un bel pensiero prima di chiudere la telefonata.
Questionario cicloproustiano di Mikayla Harvey
Il tratto principale del tuo carattere?
L'ambizione
Qual è la qualità che apprezzi di più in un uomo?
La compassione
Qual è la qualità che apprezzi di più in una donna?
L'empatia
Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
La capacità di comunicare
Il tuo peggior difetto?
Sono il mio peggior critico
Il tuo hobby o passatempo preferito?
Il mio hobby preferito è l'escursionismo e il campeggio in estate. Mi piacciono molto anche lo yoga, il pilates e una giornata alla spa.
Cosa sogni per la tua felicità?
Il mio sogno di felicità è una buona salute ed essere circondata da amici e familiari.
Quale sarebbe, per te, la più grande disgrazia?
Non credo nella sfortuna. Credo che tutto accada per una ragione e che possiamo crescere e imparare dalle cose che vanno male
Cosa vorresti essere?
Per me è importante avere sempre ambizione ed essere felice. Non sono sicura al 100% di cosa voglio essere in futuro perché la vita cambia sempre. Al momento amo essere una ciclista professionista e vorrei che questo fosse il mio stile di vita per sempre, almeno fino a quando non perderò la mia passione per il ciclismo. Probabilmente ci vorrà molto, molto tempo prima che accada. Comunque, dopo il ciclismo, voglio seguire le mie passioni e magari aprire uno studio di Pilates e un piccolo caffè. Anche la famiglia è molto importante per me e un giorno vorrei diventare madre.
In che paese/nazione vorresti vivere?
Attualmente mi piace vivere in Italia. Ho bisogno delle montagne e di essere circondata dalla natura per essere felice.
Il tuo colore preferito?
Rosa
Il tuo animale preferito?
Cani, soprattutto Spaniel
Il tuo scrittore preferito?
J.K Rowling e Nora Roberts
Il tuo film preferito?
Re Leone
Il tuo musicista o gruppo musicale preferito?
Aurora
Il tuo corridore preferito?
Chris Froome
Un eroe nella tua vita reale?
Mio padre
Una tua eroina nella vita reale?
Mia mamma
Il tuo nome preferito?
Bella, che è anche il nome del mio Beagle che è morto qualche anno fa. Amava il cibo e le lunghe passeggiate nella natura
Cosa detesti?
I ragni
Un personaggio della storia che odi?
Hitler
Quale impresa storica ammiri di più?
È difficile scegliere una singola impresa storica che ammiro di più. Tuttavia, un grande momento clou per me è stato quando la Nuova Zelanda è diventata il primo paese al mondo con autogoverno in cui le donne avevano il diritto di voto. Questa è stata una grande mossa per i diritti delle donne e qualcosa di cui sono grata
L'impresa ciclistica che ammiri di più?
Quando Peter Sagan ha vinto i Campionati del mondo di Richmond. Questa è stata la prima gara ciclistica in assoluto che ho visto e ricordo di essere rimasta così colpita dal suo attacco che, da quel momento, sono diventata ossessionata dal ciclismo
Da quale gara non vorresti mai ritirarti?
Non voglio mai ritirarmi da una gara. Tuttavia, se dovessi iniziare la Parigi-Roubaix, la mia missione sarebbe correre fino al traguardo, indipendentemente da qualunque tipo di ostacolo
Un dono che vorresti avere?
Del cioccolato
Come ti senti attualmente?
Attualmente mi sento soddisfatta. Ho appena finito una dura giornata di allenamento, quindi sono un poco stanca, ma in senso positivo. Adoro la sensazione di completare un duro allenamento e rilassarmi per il resto della giornata. Come quando, tra fine marzo ed inizio aprile, mi sono concessa il mio primo gelato dell'anno e mi sono sentita molto soddisfatta. Gusti? Pistacchio e cioccolato, i miei due preferiti.
Lascia scritto il tuo motto della vita
Il mio motto di vita, da quando avevo dodici anni, è stato esplorare, sognare e scoprire. Vorrei dire che vivo ancora secondo lo stesso motto, 12 anni dopo
Le scelte di Soraya Paladin all'Amstel
Potremmo dire che la prestazione di Soraya Paladin, Canyon SRAM Racing, all'Amstel Gold Race di domenica 16 aprile, trovi le sue radici in un fatto tanto semplice e quotidiano, quanto complesso: la decisione. Sì, perché quel giorno la squadra aveva tutte le intenzioni di rendere dura, aspra, una gara già zeppa di difficoltà e resa ancor più angusta dalla pioggia, dal vento e dal freddo che rimbalzavano da una parte all'altra sulle salite, sugli strappi irti del Limburgo. Il punto è che Paladin, nella tattica originale, avrebbe dovuto aspettare il finale e giocarsela nell'eventuale sprint ristretto oppure, comunque, sull'ultimo Cauberg; in riunione, però, c'è la domanda che è il preludio di ogni decisione: «Vorrei movimentare la gara già dall'inizio, mettermi in gioco da subito, anche perché, sul finale, nonostante lo spunto veloce che posso avere, è tutto da dimostrare. Facciamo così?». Le hanno detto sì e lei non ha tardato a mettere in pratica l'idea.
«Mi piace correre in maniera aggressiva anche perché vivi proprio la gara, la senti. Aspettare, alcune volte, ti fa sembrare quasi affacciata ad una finestra a vedere la scena, invece, per come penso io al ciclismo, voglio crearla quella scena, esserne al centro. Provarci, almeno». In giorni così, la prima cosa a favore di Paladin è il suo rapporto con la pioggia, col brutto tempo: preferisce il sole, l'asciutto, ma si ritiene fortunata perché, anche quando piove, sa di riuscire lo stesso a giocarsi le proprie carte ed in gruppo, si sa, in molte, con le stesse condizioni, partono battute. Forte di questa consapevolezza, si getta nel primo tentativo di fuga.
Non è che in fuga ci si trovi, bisogna andarci ed è sempre uno sforzo, ma c'è modo e modo di farlo, convinzione e convinzione: «Che avevo le gambe, in quel momento, l'avevo già capito. Ma non pensavo che fosse quella la fuga decisiva, eravamo lontane. Però ho detto: "Vediamo, entriamoci e poi capiamo cosa succede". In effetti ci hanno ripreso». Fatica e ancora fatica, ma già qualche giorno dopo, Paladin ci scherza sopra, in particolare quando le diciamo che dalle immagini televisive pareva quasi rilassata, quasi sorridente: «Magari lo fossi stata, magari!». La fatica è qualcosa con cui ha sempre convissuto, ma a cui, negli anni, ha dato significati e letture diversi: «Penso di aver capito che non bisogna pensarci. Mi spiego: il corpo sente il male, l'acido lattico, ma l'input per spegnere la lampadina non viene dal corpo, viene dalla mente. Appena pensi: "Che fatica", quasi automaticamente, ti lasci andare. Non devi pensarci, è un dato di fatto. Lo accetti e vai avanti».
Soraya Paladin riparte, più volte. Fino a quando, nel finale, riesce a creare il varco, siamo pochi chilometri prima del Cauberg, in un tratto che, già nelle tornate precedenti, aveva adocchiato. Il gruppo la bracca, Grace Brown la insegue e la raggiunge: «La sfida è con te stessa, il gruppo non puoi bloccarlo e sai che tante atlete assieme, solitamente, sviluppano maggiore velocità». Tra le idee c'era anche un attacco finale proprio sul Cauberg, ma visto che il gruppo ha lasciato un poco di margine, si continua.
Paladin sempre fresca, molto fresca, sino a che, proprio all'imbocco del Cauberg, Brown sembra quasi staccarla. La sua è una mossa ben pensata: «All'imbocco della salita, si svolta e ci sono delle strisce pedonali. La vernice di quelle strisce, con la pioggia, fa scivolare. Ho scelto volutamente di rallentare all'ingresso, poi sapevo di dover spingere ancora più forte, ma la gamba diceva che era possibile». Si dice che il Cauberg sia una salita all'aroma di birra, al profumo di birra, ma Soraya Paladin ha una sua versione: «Non è il profumo di birra quello che annusiamo, è il profumo di vittoria. Visto che sul podio danno un calice di birra, è automatico collegarlo. Devo dire che una bella birra trappista, in quel momento, non l'avrei rifiutata. Anzi».
Il gruppo ritorna, Paladin inizia a zigzagare, viene ripresa e iniziano le manovre per il finale, con Vollering che anticipa tutte e va a vincere. Anche rispetto a questo momento, quello in cui il gruppo riprende i fuggitivi, la visione di Paladin è cambiata nel tempo: «Ovviamente la delusione c'è, il rischio, però, è quello di buttare via tutto ciò che si è fatto. A me l'ha insegnato un mental coach: il problema è dove si focalizza l'attenzione, perché qualcosa di positivo c'è sempre e, se non c'è, si può cercare. In quel momento l'ho cercato: dopo una giornata così, minimo dovevo fare la volata».
E le forze? Sono nella testa. Paladin ritiene che, a quel punto, il 70% sia un fatto mentale e solo il 30% un fatto fisico. Arriva un quinto posto, un altro quinto posto in questa gara: «Il cinque potrebbe essere il mio numero, no?» ironizza Soraya, prima di tornare a parlare della sua condizione: «La forma è buona, non dico nulla, ma, se resta così, si possono fare ottime cose, nelle prossime gare. La Sd-Worx, al momento, ha qualcosa in più, ma arriviamo anche noi. Arriviamo presto». C'è soddisfazione in squadra per il tipo di corsa fatta e c'è soddisfazione anche in Soraya Paladin che, tra le consapevolezze che porta via dall'Amstel, ne ha una in particolare.
«Avere coraggio ripaga sempre. Fare, invece, di aspettare ripaga sempre. Magari non immediatamente, non nei risultati, ma, quando hai coraggio, quando sai di aver avuto coraggio, sei soddisfatta di te, sei felice».
Ben Healy, l'artista
Mi accorsi di lui quando, prendendo nota dei corridori al via del Tour de l’Avenir del 2019, vidi spuntare il suo nome all’interno della selezione della squadra del Centre Mondial du Cyclisme. L’Irlanda, infatti, non era iscritta alla corsa. Era uno dei più giovani, 19 anni ancora da compiere, ma non solo, uno dei classe 2000 (primo anno nella categoria Under 23) più attesi, dopo l’11° posto ottenuto quella primavera alla Gent-Wevelgem e poi altri risultati interessanti, seguendo sempre quel canovaccio che ormai tutti gli appassionati hanno iniziato a conoscere: la fuga.
Foto: Tour de l'Avenir 2019, Facebook
La mattina del 19 agosto 2019 ad Espalion pioveva. Nel pomeriggio, a Saint-Julien-Chapteuil, il tempo non aveva certo dato tregua, anzi a tratti si era messo ancora più di traverso e Ben Healy, inglese di nascita, ma irlandese d’adozione (la famiglia da parte di padre arriva proprio dall’Irlanda e lui scelse la licenza irlandese perché da junior, nonostante i risultati brillanti, tra cui il giro dei Paesi Baschi vinto davanti a Evenepoel, fu ignorato dalla federazione britannica in vista del Mondiale), si lanciò in fuga in quella quarta tappa, e da quella fuga raccolse poi la vittoria, battendo corridori tutt’altro che disavvezzi a certi esercizi, soprattutto se caratterizzati dall’incessante ticchettio sulla testa della pioggia: Hulgaard e Jorgenson, i suoi compagni d’avventura anticipati a circa quattro chilometri dall’arrivo. L’anno dopo vinse di nuovo in Francia attaccando da lontano alla Ronde de l’Isard. Stavolta con il sole.
E con il sole lo vidi dal vivo a Castelfranco Veneto, nel 2021, al Giro d’Italia Under 23. Indovinate un po’ la successione dei fatti? Al mattino, al via da San Vito al Tagliamento, un tiro di schioppo dietro casa mia, gli dissi: «Today is the day, Ben!». Lui non mi rispose, anzi, ma fece qualcosa di più. Mi guardò con un ghigno a denti stretti, poco convinto, quasi fosse un tentativo di tenere fuori dal suo prezioso campo vitale qualcosa inteso probabilmente come un anatema lanciato da uno sconosciuto. Aveva la maglia bianca con la striscia verde e il trifoglio, simbolo di campione nazionale in carica, a difenderlo dalle mie maledizioni.
Come andò a finire… andò a finire che Healy vinse quella tappa, prima attaccando da lontano e poi lasciando per strada i suoi compagni di fuga, staccati a circa tre chilometri dall’arrivo. Dopo il traguardo mi avvicinai a lui complimentandomi, rispose: «Attack is the way» come fosse la cosa più normale al mondo. Chiuse quel Giro d’Italia al 12° posto in classifica, finendo anche secondo nella crono di Guastalla vinta da Baroncini e terzo il giorno dopo nella frazione di Sestola vinta da Ayuso davanti a Tobias Halland Johannesen e con la promessa che un giorno avrebbe provato (e ci proverà prima o poi) a fare classifica anche nei Grandi Giri.
“Artista della fuga” lo chiamano, e Tom Gloag, suo ex compagno di squadra in maglia Trinity Racing, un giorno mi disse: «Quando lo trovi nella starting list stai pur certo che non sarà mai una gara normale». Artista o dotato di una personalità simile, lo definisce invece uno dei suoi direttori sportivi, Tom Southam. «Quando l’ho visto per la prima volta non ho pensato fosse un corridore, semmai uno studente di storia dell’arte o qualcosa del genere»
Ben Healy, classe 2000, sta mettendo in campo anche tra i professionisti tutta la sua disciplina appresa, più che a Storia dell'arte, combattendo il vento trasversale che lo sfidava ogni domenica nelle zone di casa sin da quando era bambino. Ha iniziato con la mountain bike e solo dopo un po’ si è appassionato al ciclismo su strada: non ha nulla di così particolare da raccontare, né chissà quale background indimenticabile, Ben Healy, già da tempo corridore di culto, non spicca per quello che è, anche se sbirciando il suo profilo Instagram si capisce come ci tenga, ma per quello che fa.
Alla Parigi-Roubaix di quest’anno era presente, ma non tra gli iscritti alla gara, semmai come turista, accompagnatore, infine soigneur. Voleva gustarsi l'atmosfera di una delle corse più affascinanti, ma sulle quali, visti i 60 chili di peso, difficilmente potrà mai essere protagonista, forse nemmeno andando in fuga. «Il mio segreto per evadere dal gruppo? Nessuno, semplicemente provarci e riprovarci fino a che hai le gambe».
La squadra gli ha spiegato i punti in cui si sarebbe dovuto fare trovare pronto con il rifornimento, gli ha dato borracce e ruote e lui era lì, come nel suo stile, attento, nonostante quell’espressione un po’ stralunata disegnata da occhi nerissimi e ciglia lunghe. La sua giornata è stata descritta dalla squadra in cui milita, la EF EasyPost, e i nodi focali sono stati: lo stupore nel vedere gruppi sparpagliati ovunque e non vivere di persona quelle sensazioni, ma cogliere l’assurda sofferenza di una corsa come la Roubaix; il rumore delle bici sulle pietre, la difficoltà di stare al passo di una gara fatta a cinquanta chilometri all’ora di media, che ha significato anticipare il gruppo di pochissimi minuti; i suoi compagni di squadra che lo cercavano per ricevere il rifornimento, e infine l'ormai noto siparietto con James Shaw.
Shaw, suo compagno di squadra, al via non aveva preso la precauzione (come per altro fanno in tanti) di correre con i guantini, e a un certo punto, proprio nella zona in cui si trovava Healy, si fermò per un attimo per poi ripartire stremato e le mani indolenzite e sanguinanti. Momento immortalato anche dalle immagini di un telefono:
https://twitter.com/keirp/status/1646986600327282689
«Pover'uomo», esclama Ben con quel sorrisino beffardo che stiamo imparando a conoscere, gli occhi scuri che sembrano sempre rivelare o nascondere qualcosa. «Non lo invidio. Spero che arrivi al velodromo con le mani ancora intatte». Ghigno healyano. Sipario.
Pochi giorni dopo ha rimesso i panni del corridore, interpretando nuovamente quello del fuggitivo-protagonista. Come il miglior De Gendt di sempre, come Ben Healy da più o meno il suo sempre. Ha anticipato, ha attaccato. Prima al Brabante e poi all’Amstel: le Ardenne sembrano essere le terre fatte su misura per uno che ha fatto pratica sulle tortuose colline d'oltremanica.
Secondo al Brabante, battuto allo sprint da Godon, uno parecchio veloce, dopo averlo provato a staccare su diversi muri e dopo essergli rimasto appeso, per qualche grazia ricevuta, sull’ultima collina e poi secondo all’Amstel Gold Race di pochi giorni fa. Secondo dietro Pogačar, primo degli umani, e infatti esultante, in un mese in cui gli è riuscito di sbloccarsi in Italia, vittoria a Larciano e poi tappa alla Coppi & Bartali.
Lo si attendeva in corse di più alto livello e ha risposto bene come secondo degli umani dietro un alieno e staccando un compagno di tante battaglie nelle categorie giovanili delle corse in Gran Bretagna, Tom Pidcock. Mica se lo aspettava, Ben: «Cosa dire della mia Amstel? Che è stata una corsa surreale». Niente male come inizio: ci vediamo nella prossima fuga, magari proprio sulle strade del Giro d’Italia.
Viaggi, risacche e corridori: un Giro di Sicilia al vento
testo: Tothi Folisi
Il mio presidio è uno scoglio soprannominato “scoglio nero” perché da qui più di una persona ha deciso di finirsi, c'è una vista meravigliosa e non ho mai ben capito quale sia la correlazione fra scenografia e dipartita, comunque da qui si vedono le isole Eolie e arrivati a metà Aprile un profumo di tutto quello che passa fra una mulattiera e la risacca.
Nel libro Viaggio in Sicilia, Ibn Jubayr, viaggiatore e poeta arabo-andaluso del 1100, così descrive questo tratto di costa siciliana: "Lasciammo vagare lo sguardo sui terreni e i villaggi che si susseguivano uno dietro l'altro e sulle fortezze in cima alle montagne e scorgemmo sul mare alla nostra destra nove isole [le Eolie] che si elevavano come montagne: da due di esse, poco distanti dalla costa della Sicilia, usciva continuamente fuoco e vedevamo salire fumo, che di notte appariva rosso acceso, con lingue che si innalzavano verso il cielo. È il famoso Vulcano. Ci fu detto che la fiamma viene fuori da spiragli nelle due montagne anzidette [di Vulcano e Stromboli], dai quali si sprigiona con violenza un soffio incandescente che si trasforma in fuoco e accade talvolta che vomiti una grossa pietra lanciata in aria dalla potenza di quel soffio che le impedisce di fermarsi e ricadere sul fondo. E questa, fra le cose che si sentono raccontare e che più suscitano stupore, è cosa vera".
Qui il vento è una costante da ricordare bene, Eolo lavora incessantemente per confondere e in qualche caso cambiare i programmi, la sua effige si trova spesso nelle mattonelle all'ingresso di alcune abitazioni soprattutto nella provincia di Messina, Vincenzo Albanese sembra saperlo, viaggia abbastanza tranquillo e la scritta sulla sua maglia Ciclamino sembra una struttura ricorsiva, correrà al Giro dopo essere stato fermo per molto tempo, dice che cercherà di fare di tutto per riprendersi quello che ha lasciato per strada e da questo Giro di Sicilia sembra sulla giusta rotta.
Da lontano si vede sbucare da una curva il gruppo come un grande falò in movimento, da un lato montagna, e dall'altro mare agitato, gonfio, con i gabbiani che sembrano incuriositi. Passano Damiano Caruso, Mark Cavendish, Rafał Majka, Elia Viviani, tutti con motivazioni diverse, nella stessa giornata uggiosa, nella stessa salita ventosa che si distacca dai cliché odiosi che vogliono quest'isola tutto sole e contentezza.
Questa terra, chi la conosce bene lo sa, ha un'anima nera, ama la penombra, le cose celate come quelle taciute, forse per proteggersi da troppa luce, ma l'incanto è simile a quello che hanno alcuni ciclisti, in quella calma che esita, quando non ci si vuole anticipare. E tutto questo somiglia al carattere introverso di alcuni suoi abitanti. Fisher-Black è un nome perfetto sia come pirata sia come guida turistica per le città arabo-normanne: è il primo a salire sul trono, porterà la maglia fino all'ultima delle 4 tappe, a Giarre arriverà quarto. Terzo il già citato Albanese, secondo il sudafricano Louis Meintjes e primo Alexej Lutsenko della Astana.
Vince dopo 424 giorni, vince dopo la salita dell'Etna perfezionando tutto sul finale. Intervistato, visibilmente stanco, confida di non aver avuto le forze per festeggiare. Nella sua ammiraglia c'è un signore che risponde al nome di Giuseppe Martinelli che di storie leggendarie ne conosce parecchie, lui che ha guidato Pantani, Nibali, Aru.
Bella questa quattro giorni, che si sta sempre più radicando in una regione che di campioni ne ha lanciati tanti, belli i luoghi desolati e quelli pieni di gente, le scolaresche che escono dalle aule per quei dieci quindici secondi di passaggio, il tempo prima e il tempo dopo, l'inconsapevolezza del passante con i sacchetti della spesa, la signora che si lamenta perché fermata dai vigili urbani, bello vedere passare un gruppo nelle strade della propria quotidianità. Quando passa l'auto del fine gara, resta solo il vento, che può essere, come chi va in bici sa benissimo, beatitudine o castigo eterno.
Foto: Sprint Cycling Agency
Giro di Sicilia: una partenza, una poesia
Articolo di Fabio Gariffo, foto di Aristide Tassone
Sono la Piazza. Quella della partenza.
Deserta o gremita, centrale o alberata, occupata o attraversata. Il più delle volte inosservata.
Oggi sono io che osservo.
E non preferisco. Stamani accolgo.
Alle prime luci dell’alba il vociare rauco, il baccano di lavori e transenne. Che limitano, regolano.
A pochi, pochissimi, chilometri stanziano i fenicotteri della riserva naturale dello Stagnone, qui a Marsala. Con le loro esili gambe in acque che sanno di sale e di fenici, ieri hanno visto passare i grandi bus dei ciclisti, abitati da direttori e capitani, sogni e speranze, strategie e rassicurazioni.
Dove vadano a dormire i fenicotteri resta un mistero, in questa terra di misteri.
Ciò che sappiamo è che da qui parte il Giro di Sicilia: altro giro, altra corsa.
Benvenuti Signore e Signori!
Ogni partenza iberna le previsioni. Sospende il frizzante gusto dell’attesa, dal fascino inimitabile. Che ci fa innamorare, fuori e dentro il ciclismo, sport di delicato equilibrio; metafora di vita.
Sono la Piazza, col suo palco di ferro e legno.
A breve spumeggierà di musica e giovani ragazze sorridenti.
Ecco, arrivano i miei invitati e i loro sguardi. Quelli dei bambini e dei loro genitori. Assai diversi per trepidazione e innocenza.
Ecco i turisti, che non sapevano, in scia della festività pasquale appena trascorsa, celebrata dai più fortunati a Roubaix. Li riconosco subito dal naso all’insù e le gambe nude in ogni stagione.
Ecco gli amatori, che amano il ciclismo. Ognuno a modo suo.
È bello vederli la domenica mattina partire da qui con i loro buoni propositi per una “sgambata” sino alla vetta del monte Erice, faro in questo mare azzurro pianeggiante e di accecante luce.
Passano di fronte casa tua? - Usciamo domani? Si interrogano con la tipica cadenza liturgica di una lingua usualmente non declinata al futuro.
I pensieri degli uomini sono privati. Le emozioni no.
Emozioni, eccole, finalmente, ravvivarsi nei volti di tutti: sono arrivate le squadre!
Mi presento loro e le avvolgo. Il monumento che custodisce il ricordo dei mille garibaldini sembra compiacersi quest’oggi di un altro tipo di sbarco.
Un altoparlante - nome azzeccatissimo - scandisce i loro nomi. Con entusiasmo professionale.
Regalo loro carezzevoli raggi di sole fra aguzzi raggi di ruote al carbonio.
Giovani, esigenti, imberbi. E magri. Troppo magri secondo le nonne siciliane il cui affetto per i nipoti si misura in pranzi e i pranzi in doppie porzioni.
Perché da queste parti le arancine di riso non sostituiscono il pranzo e vanno pronunciate rigorosamente al femminile.
I corridori, adagiano con attenzione le loro bici nuove, perfette, ammalianti.
Firmano. Sigillando così la presenza e l’appartenenza. Io c’ero. Ho provato. Ce l’ho fatta.
Molti appassionati avrebbero voluto che dal pullman bianco del team UAE fosse sceso il piccolo principe alieno di nome Pogačar, ma poco importa. Abbiamo altri eroi in queste quattro tappe perché nessuna corsa, in fondo, è minore per chi l’affronta.
Atleti umili e nobili, semplicemente umani. Visti da vicino sembrano somigliare a tutti coloro che pedalano per diletto.
Sembrano. Da fermi.
Forse anche quest’anno, qualcuno di loro troverà un momento di raccoglimento.
Lo sguardo basso, le mani giunte, un veloce segno della croce. Come fece l’anno scorso Damiano Caruso, appena in sella, ben prima del chilometro zero di quel Giro di Sicilia che vinse.
Lui, il gregario, che si sacrifica; che rende sacro cioè. Lui, progenie della Trinacria, che vorrebbe bissare il successo.
Parlano del più e del meno, i corridori. Pronti a misurarsi tra loro e a misurare i loro watt.
In tandem con l’ombra di un imprevisto o un’incertezza, perché chi va in bici sa che tutto ciò che sembra scontato, il più delle volte non lo è.
Mentre i tanti curiosi coi loro piccoli e costosi telefoni sono pronti a scattare per condividere o mostrare un momento registrato, ma non vissuto nella consapevolezza del tempo presente e dei suoi doni incancellabili.
I corridori scatteranno anche loro.
Nell’immancabile fuga di giornata, per mostrare sponsor e potenzialità. Per dovere, per esistere e resistere.
Pronti ad arare le venature asfaltate di questa terra, prostituta d’Europa, concessa ad arabi e normanni, angioini e aragonesi. Terra contraddittoria, esagerata.
Con quali occhi la guardi, Lei ti appare.
Oggi, nella bellissima ma ventosa Marsala - come scriveva Cicerone - è festa.
Una festa pagana. Inebriante come l’omonimo vino di questa terra, un vino da meditazione.
Le riprese tv inquadreranno dall’alto, per qualche istante, le palme, i mulini a vento e il blu che circonda le Egadi. Forse ometteranno nella cartolina il rosso dei tramonti e il grigio dei pregiudizi e dei cliché.
Il soffio della Valle dei Templi di Agrigento asciugherà il sudore dei più audaci dopo circa 160 km.
Tutto, domani, tornerà alla normalità in questo straordinario quotidiano.
Io sono la piazza. Di vuoto piena.
Qui non vi è l’arrivo.
Qui vincono tutti.
Il questionario cicloproustiano di Kasia Niewiadoma
Il tratto principale del tuo carattere?
Testa calda
Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
Senso dell'umorismo
Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
Persistenza
Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
La loro onestà
Il tuo peggior difetto?
Ripensare alle esperienze passate
Il tuo hobby preferito?
Cucinare al forno
Cosa sogni per la tua felicità?
Essere vincente
Quale sarebbe, per te, la più grande disgrazia?
Un osso rotto
Cosa vorresti essere?
Un modello per altri coriddori
In che paese vorresti vivere?
Da qualche parte in cui ci sia il sole
Il tuo colore preferito?
Rosso barbabietola
Il tuo animale preferito?
Cane
Il tuo scrittore preferito?
In questo momento Murakami
Il tuo film preferito?
Girls Trip
Il tuo musicista o gruppo preferito?
Attualmente è Fred Again
Il tuo ciclista preferito?
Al momento Tadej Pogačar
Un eroe nella tua vita reale? Una tua eroina nella vita reale?
Tutte le mamme
Il tuo nome preferito?
Nome per un cane Coco (cocco), per una persona Basilicum, Lilianna
Cosa odi?
Non mi piace usare questa quella parola
Un personaggio della storia che odi più di tutti?
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Quale impresa storica ammiri di più?
La caduta del muro di Berlino
Quale impresa ciclistica ricordi di più?
TDFF con Zwift 2022
Da quale gara non vorresti mai ritirarti?
Strade Bianche
Un dono che vorresti avere?
Vorrei poter parlare le dieci lingue più usate
Come ti senti attualmente?
Completamente a mio agio
Scrivi il tuo motto di vita
Continua a diffondere amore e luce, sorridi e non giudicare mai