Milano Bike Polo

Non sono mai stata così piacevolmente stupita da una realtà e da un modo di vivere la bici come quella del bike polo. Venire accolta, ospitata e introdotta dai ragazzi di Milano Bike Polo è stato davvero un grande regalo e ripenserò sempre piacevolmente alle loro parole e ai racconti in momenti in cui sconforto o delusioni potranno prendere il sopravvento, facendomi dimenticare le numerose realtà positive e inclusive che alimentano la cultura sociale e ciclistica milanese.

Lunedì e giovedì sera, tutto l’anno, presso lo Spazio Pubblico Autogestito Leoncavallo: sono queste le coordinate per assistere alle partite delle varie squadre della comunità milanese del bike polo, al momento la più grande e attiva sulla scena italiana.

A Milano questo sport si diffuse grazie ai primi corrieri che dal 2008 iniziarono a consegnare in bici per una città più pulita. Viaggiando in Europa, i bike messenger entrarono in contatto con questo sport nuovo e particolare e cercarono di replicarlo da noi, con i mezzi che avevano a disposizione. Inizialmente usavano bici a scatto fisso, le stesse che utilizzavano ogni giorno per lavorare, con lo stesso rapporto scelto per fare consegne, sfruttando come campi alcune tranquille piazzette della città, come ad esempio Piazza San Fedele, proprio dietro Palazzo Marino, in pieno centro. La location non era proprio ideale, ma funzionava perché era equidistante dai vari quartieri milanesi ed era raggiungibile abbastanza in fretta dai primi appassionati, che provenivano anche da Bergamo o dalla remota periferia.

Iniziando a frequentare i tornei in giro per l’Europa, i primi rappresentanti di Milano Bike Polo si resero conto della necessità di un campo con sponde idonee a non perdere la pallina ad ogni tiro mancato, vere porte per segnare e di una dimensione delimitata del campo, identico a quello da street hockey.

L’inventiva portò i ragazzi a costruirsi le mazze con vecchi bastoncini da sci, giocare con palline e coni da street hockey come porte, ma l’impossibilità di disputare delle vere e proprie partite iniziava a diventare un problema per la crescita delle abilità e del livello tecnico della squadra.

Possiamo dire che galeotto fu il BFF. Infatti, in occasione del Bicycle Film Festival del 2010, tenutosi presso lo Spazio Pubblico Autogestito Leoncavallo, i ragazzi di Milano Bike Polo vennero accolti al suo interno. Non trovando altri posti adatti, organizzarono il primo torneo indoor come evento parallelo alle proiezioni.

La collaborazione risultò interessante per tutti e i volontari del Leoncavallo si offrirono di ospitare in maniera continuativa le squadre del bike polo, facendo utilizzare ai giocatori gli spazi del grande salone concerti, dando così il via al cosiddetto Mercoledì da Leon… Cavallo.
L’appuntamento settimanale per gli allenamenti venne spostato poi al giovedì, giornata in cui venivano organizzate anche proiezioni cinematografiche al bar del Leo, accompagnate da un’ottima cena preparata dalla Cucina Pop (confermo di averci mangiato più volte e il menù è sempre vario, prezzi competitivi e attenzione alle esigenze alimentari di tutti).

Dopo anni passati a giocare un po’ in giro, finalmente i ragazzi di Milano Bike Polo avevano una casa e questo consentì di dare il via ai primi tornei ufficiali, con risonanza internazionale. Inverni umidi passati giocando al freddo e al gelo erano solo un lontano ricordo: da quel momento MBP aveva un campo regolamentare, con sponde, porte e finalmente liscio (forse fin troppo, al punto che per renderlo più grippante si adottarono le soluzioni più diverse – girano voci che durante i tornei europei si sia diffusa la tecnica Milano Style che consiste nell’agitare una bottiglia di soda gassata e spruzzarla sul pavimento per evitare scivolate inaspettate).

Avere un vero campo di gioco per migliorare sempre più la tecnica è stato il motore per investire anche sulle biciclette utilizzate per giocare: non ci si doveva più accontentare di quello che si aveva, ma ci si poteva finalmente creare la propria vera bici da bike polo.
Per giocare serve infatti una bici veloce, scattante, con un rapporto agile, un telaio con una geometria compatta e delle ruote di un diametro leggermente più piccolo (per molto tempo si è giocato con ruote del 26”, anche se adesso lo sport è in continua evoluzione a livello di tecnica e tipologia di mezzi) e solamente il freno anteriore montato sulla ruota libera, mentre la ruota posteriore è senza freno per permettere dei funzionali pivot.

Nonostante il bike polo sia uno sport molto fisico, il fair-play è l’elemento principale in tutte le partite, da quelle tra amici più informali in allenamento, ai momenti ufficiali dei tornei. Esiste anche un regolamento internazionale ben dettagliato, che rende il gioco fluido e vieta le azioni violente e scorrette, con tanto di arbitro e che stabilisce i vincitori su una differenza di 5 punti rispetto alla squadra avversaria.

L’ospitalità del Leoncavallo è preziosa per i ragazzi di Milano Bike Polo: avere un campo indoor è un privilegio non solo in città, ma per tutta la scena europea, anche se sarebbe bello vedere altri spazi pubblici in giro per la città adibiti a questo sport, in modo da poter avvicinare sempre più persone ad una disciplina altamente tecnica, educativa e allenante. Alla fine servono dei semplici campetti o aree come quelle dedicate al pattinaggio, perfette anche per giocare a street hockey, roller derby e chi più ne ha, più ne metta. È strano che Milano sia quasi priva di spazi simili, dato che sarebbe un ottimo propulsore sociale e di integrazione.

«Spesso in preda alla disperazione, vado ad allenarmi da solo sotto casa al Parco Ravizza – racconta Pietro, giovanissimo e preparatissimo presidente di Milano Bike Polo – mi prendo un pezzo di passaggio asfaltato al centro, piazzo due coni utilizzati per formare una rudimentale porta e provo i vari trick di equilibrio, il controllo palla e i tiri. Vengo fermato spesso da curiosi: ogni tanto qualcuno capisce cosa sto facendo e scambiamo quattro chiacchiere in semplicità. Il mio obiettivo, oltre al puro allenamento, è quello di far vedere che esistiamo, diffondere e mostrare come funziona questo gioco. Parlando con passanti curiosi, un giorno è saltata fuori l’esigenza di una mamma che non sapeva dove portare la figlia ad allenarsi con i pattini, aveva provato in qualche posto in città, ma senza un campo adibito con sponde, alla fine ha lasciato perdere… e pensare che aveva comprato i pattini anche lei per imparare con la figlia. Insomma, le nostre esigenze non sono distanti da quelle di altri sportivi e anche di tante famiglie».

L’inclusività è un tratto distintivo di questa disciplina che solo apparentemente è difficile e di nicchia: il bike polo ha le carte in regola per diventare un gioco diffuso e praticato da persone di tutte le età.

Se pensate di non avere la bici o le skills adatte, nessun problema, andate un giovedì sera al Leoncavallo, cercate Pietro, Bozo, Ricky o chiunque si stia allenando e troverete un gruppo di ragazzi e ragazze sorridenti e disposti a spiegarvi tutte le regole e anche, ovviamente, a prestarvi una bicicletta adatta a provare!

Foto: Tytenko Dmytro


Intervista a Paolo e Pinar Pinzuti

Abbiamo parlato con Paolo Pinzuti CEO di Bikenomist e con Pinar Pinzuti di Fancy Women Bike Ride.

Ciao Paolo, qual è la tua storia?
Laureato in Scienze Internazionali e Diplomatiche, Master in Scienze del Lavoro, nel 2007 mi sono sposato con Pinar. Nel 2011 partiamo per un viaggio di quattro mesi in bicicletta in Sud America e apro un blog per raccontare la nostra esperienza. Nel 2012 a partire da quel blog lancio la campagna #salvaiciclisti. Nel 2013 il blog diventa Bikeitalia.it e nel 2015 Bikeitalia.it diventa un’azienda, Bikenomist, che eroga corsi di formazione e consulenze a pubbliche amministrazioni in materia di ciclabilità. Nel 2020 lanciamo la prima fiera del cicloturismo, ma veniamo stoppati dalla pandemia.

Com’è nata questa passione e impegno diventato poi un lavoro? 
Dopo l’università sono andato a vivere in Germania dove ho scoperto che era possibile muoversi in modo sicuro e veloce in città, ma anche di fare turismo usando la bicicletta. E mi sono chiesto: “perché in Italia non è possibile?”. Ho studiato le riviste tedesche che parlavano del tema e ho cercato di replicarle in Italiano.

Secondo te com’è cambiato il modo di vedere il ciclismo e di praticarlo da parte dell’utente medio nato e cresciuto in città? 
Difficile dirlo. Sicuramente ci si è resi conto che la bicicletta non è più una cosa da poveri, ma anzi è uno strumento per chi non ha tempo da perdere, per chi dà un valore altissimo al proprio tempo. I giornali di tutto il mondo scrivono da tempo che “cycling is the new golf” perché ha abbandonato la propria immagine di sport delle classi popolari.

Paolo Pinzuti di Bikeitalia

In che modo Bikeitalia si impegna nella creazione di una community – motore pulsante dell’attività ciclistica come collante sociale e motore di autostima e aggregazione per numerose persone, spesso timide o sole o che non sanno bene come iniziare ad approcciarsi al mondo delle due ruote?
Con Bikeitalia cerchiamo ogni giorno di alzare l’asticella su quelle che sono le conoscenze in materia di mobilità urbana e anche sul cicloturismo. Nel corso degli anni abbiamo condotto diverse campagne per la realizzazione di infrastrutture e l’allocazione di denari pubblici. Nel 2013 dicevamo che c’era bisogno di piste ciclabili e zone 30km/h. Poi abbiamo iniziato a parlare di corsie ciclabili. Adesso stiamo parlando di riqualificazione dello spazio attraverso la bicicletta e chiediamo pubblicamente delle superciclabili. Durante il lockdown abbiamo pubblicato un Piano Emergenziale della Mobilità Urbana post covid che è stato ampiamente adottato da diverse città. Il nostro compito è mettere in sella più persone possibile e offrire loro argomenti per trasformare i propri desideri in richieste puntuali.

Qual è stata la reazione dei milanesi ad un progetto più ampio di ciclabilità urbana?
Quando abbiamo proposto MIMO, la Greenway Milano-Monza le reazioni sono state di entusiastiche, poi è arrivato il COVID che ha fermato tutto quanto e oggi, alla ripresa delle attività, la nostra proposta è stata sposata da diverse aziende che l’hanno trasformata in una richiesta formale al comune. La percezione dei Milanesi sulla bicicletta sta cambiando molto, anche a causa dello spopolamento della città a seguito del COVID.

Pensi che Milano abbia le carte per mettersi in gioco in un progetto più ampio e ambizioso di mobilità ciclistica a tutto tondo?  
Milano è una città piatta e dalle dimensioni contenute. Non ha nulla da invidiare ad Amsterdam. Anzi, iniziando dopo, ha la possibilità di fare meglio evitando molti errori commessi dagli olandesi. L’occasione di rivedere gli spazi per favorire l’uso della bicicletta deve essere anche l’occasione per ripensare la città in chiave di resilienza ai cambiamenti climatici: togliendo asfalto per aumentare la permeabilità del terreno e riducendo le isole di calore, piantando alberi e offrendo spazi per la cittadinanza.

Pinar Pinzuti

Pinar: in che modo Fancy Women Bike Ride – e la bicicletta in senso più ampio – potranno aiutare e coinvolgere i più diversi strati sociali modificando completamente il modo di vivere le città?
La bicicletta è il mezzo più veloce per muoversi in città, ma poche persone ne sono a conoscenza perché viene percepita come un mezzo di trasporto lento. Una volta che le persone scoprono la sua velocità in ambito urbano difficilmente tornano indietro. La Fancy Women Bike Ride, così come gli eventi dedicati alla ciclabilità, servono proprio a quello: a far provare l’esperienza per la prima volta e a vincere i pregiudizi.
Utilizzare la bicicletta per muoversi significa risparmiare denaro e liberare reddito, che poi è quello che serve maggiormente agli strati sociali più in difficoltà.

Cosa vorresti dire a quelle donne (ma anche uomini) che non osano o hanno paura di avvicinarsi alla bici o di usarla con maggiore costanza nel quotidiano?
Che non hanno fatto bene i conti e non sanno quanti soldi si risparmiano a usare la bicicletta. Noi non possediamo l’automobile e coi soldi che risparmiamo ci possiamo permettere ogni anno delle vacanze spettacolari.

Possiamo dire che bike italia + the bikenomist siano anche un progetto di riqualificazione e promozione di Milano e del suo pedalare?
In un certo senso sì: il claim di Bikeitalia è “trasformiamo l’Italia in un Paese ciclabile”. Essendo Milano la nostra città è proprio da qui che partiamo, ma la nostra attività si concentra anche su altre città con le quali lavoriamo direttamente.

Fancy Woman Bike Ride 2019

Che itinerari potreste consigliare ad un ciclista urbano e ad un appassionato invece dei luoghi segreti, magici, o semplicemente speciali che Milano o i suoi dintorni possano offrire?
Milano è la città che non invecchia e in cui architetture antiche si giustappongono a esperimenti più contemporanei. Andare alla scoperta di queste contrapposizioni è particolarmente piacevole. Ma in particolare se devo consigliare qualcosa è di andare a visitare il Cimitero Monumentale che, essendo fuori dal centro, viene troppo spesso trascurato dai turisti ma che invece offre emozioni uniche. Da lì poi bastano poche pedalate per arrivare al Parco Nord e starsene un po’ in mezzo alla natura che in una città come Milano non è cosa banale.

Cosa pensi dell’evento di AbbraciaMi e Milano Bike City?
Che tutto ciò che parla o fa parlare di bici e che mette più persone in bicicletta è benvenuto.

E l’influenza della critical mass a Milano?
La critical mass in ogni città ha avuto il grande ruolo di mettere in discussione la distribuzione dello spazio pubblico. Anche a Milano, come altrove assolve a questo compito, ovvero dire che anche le biciclette sono il traffico. Milano ha però l’unicità di avere una critical mass che si tiene al giovedì sera invece che al venerdì nel tardo pomeriggio e questo ha rischiato di fargli avere una deriva più ricreativa e meno politica, ma questo ha il grande merito di mettere più persone in bicicletta e quindi W la critical mass di Milano!

Foto in evidenza: Paolo Pinzuti


City Bike / Milano: il manifesto di questo dossier

Mi hanno chiesto di raccontare Milano e la sua relazione con la bici. Di mettere insieme una sorta di guida, un vademecum, un piccolo libretto di istruzioni e camera dei segreti della vita ciclistica milanese. L’occasione di narrare la strada a pedali di Milano mi è sembrata più che in sintonia con questo periodo di grandi avvenimenti.

Abbandonata e ripresa più volte la relazione con la città natale può essere spesso controversa. Così è stata la mia.
Continuo a tornare a Milano perché è la mia città, dove vivono i miei affetti, i miei amici, la mia famiglia. È la città che amo, nonostante abbia molti difetti che a tratti me la fanno odiare, ma continuo a pensare che siamo sulla strada giusta per renderla migliore.

SuperMi100 una pedalata di 100 km attorno a Milano nell’ambito di “Super – il Festival delle Periferie a Milano” Foto: Francesco Rachello / Tornanti.cc

Col tempo, e grazie ad una formazione in filosofia e ricerca sul paesaggio, ho imparato che anche i luoghi portano con sé un’innata capacità di creare contatti, generare idee, seminare progetti e insediarsi in maniera indissolubile nel cuore delle persone che li vivono. Ripensandoci riusciamo a rigustare quel gelato in sala giochi o le uova ripiene della nonna – quelle della mia, vi assicuro, erano fantastiche: saranno le galline di campagna o i chilometri in bici su e giù per le colline marchigiane, ma quelle sensazioni non le possiamo dimenticare.

I luoghi e la bici. Due componenti fondamentali nel cammino di quel viaggio lungo e accidentato, fatto di saliscendi, pause e avventure.
La bici è sempre stata parte di me fin da quando ero piccola.
Lavorare, esplorare e comunicare alle persone attorno a me la bellezza dell’andare in bicicletta, della sensazione di libertà e condivisione è il motore che mi ha spinto su ogni salita, sentiero e difficoltà.

SuperMi100 una pedalata di 100 km attorno a Milano nell’ambito di “Super -il Festival delle Periferie a Milano” Foto: Francesco Rachello / Tornanti.cc

Crescere nomade in giro per Europa e Stati Uniti mi ha fatto capire come la bicicletta potesse davvero diventare il mezzo per cambiare radicalmente l’approccio alla gestione urbana e alla condivisione degli spazi e tempi dell’abitare la città nella sua routine quotidiana, facendoci dimenticare lo stress di traffico, mezzi pubblici, scioperi e costi dell’automobile – economici e sociali.
Avrei voluto vedere tutto questo realizzarsi anche a Milano, ma faticavo a percepire il concretizzarsi di questo cambiamento. Qualcosa ancora mancava nell’approccio ad un nuovo modo di vivere il quotidiano generato dall’azione sinergica di iniziative dal basso e gesta ufficiali dall’alto.
Se vogliamo vedere realizzato il cambiamento non possiamo aspettarci che sia solo l’una o l’altra parte a muoversi: dobbiamo attivare quell’unione per vedere realizzarsi la trasformazione.

Le città hanno il potere di cambiare ed evolvere: leggendone i cambiamenti possiamo muoverci costruttivamente verso il futuro. Se ripensiamo, infatti, alle città del passato costruite a misura d’uomo, capiamo benissimo che non c’era posto per auto o veicoli ingombranti e rumorosi.

Milano è carica di storia, i suoi resti romani, il pavé sconnesso e bastioni condividono il suolo urbano con grattaceli e costruzioni futuristiche: passato e innovazione che convivono. Non a caso Milano è il luogo in cui si concentrano le nuove tendenze in fatto di moda, design e industria provenienti dall’estero, digerite e poi restituite al resto dell’italia.

Vivere la città in bici

Foto: Francesco Rachello/Tornanti.cc

Spostarsi in bici a Milano è possibile essendo non particolarmente grande e decisamente pianeggiante, anche se la presenza di strade sconnesse – pavimentate con grossi ciottoli squadrati particolarmente insidiosi per le biciclette – traffico e rotaie del tram ovunque, non la rendono di primo acchito una meta ambita dai ciclisti.

Per anni le amministrazioni comunali si sono interessate poco o nulla alla questione. Dopo periodi in cui i cambiamenti climatici hanno fatto da padrone, nuovi piani urbanistici e una maggiore attenzione alla qualità della vita, le persone hanno iniziato a rivalutare l’andare in bici, comprenderne i valori ecologici, economici, sociali e sportivi.

E la bicicletta è diventata di moda. Abbiamo visto le nostre strade venire occupate da mezzi sempre più di tendenza, customizzati, colorati, veloci e leggeri, ma il loro numero potrebbe aumentare ulteriormente se la città fosse dotata di una rete organica di percorsi ciclabili che rendessero più sicuro l’utilizzo della bicicletta da parte di una più ampia fetta di popolazione.

SuperMi100 una pedalata di 100 km attorno a Milano nell’ambito di “Super – il Festival delle Periferie a Milano” Foto: Francesco Rachello / Tornanti.cc

In molti hanno recentemente scelto, per i loro spostamenti, i leggeri e veloci monopattini elettrici, a noleggio o di proprietà. La rivoluzione elettrica sembra non fermarsi davanti a nulla, contaminando ogni forma di trasporto possibile. Numerosi cittadini, prima scettici hanno optato per questi veicoli a due ruote, all’apparenza traballanti, ma funzionali e più facilmente trasportabili su treni, metropolitane e autobus rispetto ad una bici pieghevole. Dobbiamo però ricordarci che il sistema frenante non è così intuitivo come quello di una bicicletta e il guidatore deve bilanciare il peso per evitare di inchiodare. Con un po’ di dimestichezza e praticità tutto si impara, ma sicuramente i monopattini non potranno sostituire del tutto la bicicletta anche se sono mezzi divertenti e sulle brevi distanze vanno benissimo.

Negli ultimi dieci anni la situazione in città è migliorata grazie ad alcuni investimenti mirati delle amministrazioni: attualmente sono disponibili circa duecentoventi chilometri di tracciati ciclabili, quasi il triplo di quindici anni fa e numerose rastrelliere pubbliche sono comparse negli ultimi anni. Il problema è che non esiste continuità fra le piste di quartiere e ai ciclisti capita spesso di procedere a zigzag fra tratti riservati, strade e marciapiedi. Molti si rassegnano così a utilizzare i viali a scorrimento veloce, le circonvallazioni, che però hanno pochissimi tratti della carreggiata riservate ai ciclisti.

SuperMi100 una pedalata di 100 km attorno a Milano nell’ambito di “Super – il Festival delle Periferie a Milano” Foto: Francesco Rachello / Tornanti.cc

Forse occorre fare una rapida distinzione tra percorsi ciclabili e piste ciclabili: i primi sono delle direttrici in cui l’utilizzo della bicicletta può avvenire in modo sicuro, costituiti da strade con limiti di velocità fissati a 30km/h, marciapiedi larghi dove biciclette e pedoni possano convivere. Le piste ciclabili sono invece tratti di strada esclusivamente dedicati al passaggio delle biciclette.

I percorsi ciclabili non sono necessariamente e interamente costituiti su piste ciclabili protette, spesso alcuni tratti sono realizzati in carreggiate separate o in altri casi i percorsi ciclabili coprono strade in cui ci sono anche automobili e/o pedoni.

A Milano non esiste al momento un piano organico ufficiale né di percorsi ciclabili, né di piste ciclabili: queste ultime infatti sono presenti a tratti, in modo non organizzato e spesso incomplete o terminano improvvisamente su parcheggi, marciapiedi, strisce pedonali o cordoli della strada, creando rischi per i ciclisti e non solo.
A volte le piste verniciate per terra sono scolorite, poco evidenti o incastrate fra ostacoli e auto in sosta. In altri casi in corrispondenza di incroci è necessario aspettare a lungo prima di poter attraversare e quindi quasi nessun ciclista aspetta tutto questo tempo. Idealmente, una buona rete di percorsi ciclabili non sarebbe troppo diversa dal classico schema che conosciamo di una rete metropolitana tenendo conto sia delle esigenze dei ciclisti che dei pedoni.

Come si può vedere dalla mappa attualmente esistono solo alcune piste ciclabili protette che permettono di raggiungere il centro (Gioia – San Marco – Brera e Sempione – Castello – Dante).

Come suggerisce Luca Svaluto di Milano città stato, il primo passo dovrebbe essere il disegno dei percorsi ciclabili fino ad arrivare alla zona del Duomo, intesa come il centro della città e come abbiamo visto i percorsi ciclabili non devono necessariamente essere separati dai pedoni o dalle automobili, ma si potrebbero definire delle strade in cui le auto possono procedere solo a 30km/h.

Il secondo passo potrebbe essere quello di inserire una segnaletica orizzontale, per terra, con figure adesive sulla superficie della strada risultando così meno invasiva rispetto al tipico cartello verticale e potrebbe essere applicata in modo che sia i pedoni che gli automobilisti la possano vedere, evitando così comportamenti pericolosi da parte di tutti gli attori coinvolti: ciclisti, pedoni, automobilisti.

Come ultima azione si potrebbe pensare alla creazione di piste ciclabili dedicate nelle aree più critiche, canalizzando il flusso delle biciclette nei percorsi ciclabili, riducendo le criticità di una condivisione di spazi in percorsi altamente trafficati o pericolosi.

«Attualmente il Comune di Milano realizza le piste ciclabili non in funzione di un effettivo bisogno, ma in seguito di interventi di riqualificazione urbanistica. In questo modo spesso vengono utilizzate delle risorse pubbliche per la costruzione di piste ciclabili che nella pratica non sono molto utilizzate. Questo determina la frustrazione sia degli automobilisti che vedono ridotto lo spazio a loro dedicato, sia dei ciclisti che vedono risorse impiegate in zone dove non necessariamente ce n’è bisogno».

In periodo pre-covid, solitamente ogni giorno salivano in metropolitana circa 1,4 milioni di passeggeri, cifra che nella fase due è stata ridotta di almeno tre quarti. Evitando di congestionare le strade con un milione di auto in più ogni giorno in circolazione, il Comune ha deciso di puntare tutto o quasi sulle due ruote: «ci vuole creatività» ha detto il sindaco Beppe Sala. Se andare in bici significa essere creativi, ben venga la vena artistica. La situazione attuale ci spinge a recuperare la socialità dell’esterno e desiderare una presenza più capillare del verde urbano come rifugio sicuro. Le piazze, le strade, i parchi diventeranno sempre di più estensione delle ristrette residenze private e degli spazi omologati del lavoro, nonché luoghi privilegiati per lo svolgimento, per quanto ridimensionato, di una vita culturale e sociale pubblica. L’esigenza di vivere la città garantendo la salute dei cittadini e il modello di vivibilità a cui faticosamente ci stavamo avvicinando nell’era della digitalizzazione, ci spinge a rivalutare soluzioni per questa transizione epocale.

SuperMi100 una pedalata di 100 km attorno a Milano nell’ambito di “Super – il Festival delle Periferie a Milano” Foto: Francesco Rachello / Tornanti.cc

Mi piace il modo in cui l’architetto e paesaggista Andreas Kipar ha raccontato l’evoluzione della città negli ultimi anni: «Milano era pronta, aveva i valori, un nuovo asset, aveva cominciato a respirare con una nuova anima, ma nessuno lo sapeva ancora, tant’è che ancora all’inaugurazione di Expo i milanesi erano scettici. Arrivano gli stranieri e trovano tutto bello. Gli stranieri erano sorpresi da Expo, ma soprattutto dalla scoperta della città di Milano. Prima non c’era ragione di venire a Milano, se non per business. A un certo punto è iniziato un flusso inarrestabile di cittadini internazionali che diffondono all’estero questo messaggio della bellezza straordinaria e inaspettata della città».
Anche se si sa, continua Kipar, il milanese è storicamente complessato sul tema bellezza, rispetto alla grande bellezza codificata romana, fiorentina o veneziana, tant’è che fuggiva dalla città appena possibile. A forza di sentir dire che tutto era bello a un certo punto i milanesi hanno cominciato a dire: “ok allora siamo davvero belli” e hanno sviluppato una nuova anima. Non più l’anima dell’operaio che doveva correre veloce perché c’era l’industrializzazione, ma l’anima della città mitteleuropea che poteva offrire charme, bellezza, creatività mediterranea e nello stesso tempo operatività, concretezza ed efficienza mitteleuropea.

Oggi Milano è questo mix. E ci piace proprio per questo.

Una Milano sempre più cycling-green, soprattutto se ripensiamo alla città meneghina che sta ripartendo: dopo le novità riguardanti i mezzi pubblici, si spera arrivino anche quelle collegate alle piste ciclabili e alla creazione delle cosiddette “case avanzate”. Le case avanzate sono degli spazi riservati alle biciclette posti davanti alle linee di arresto dei veicoli a motore che permetterebbero ai ciclisti di aspettare lo scattare del verde al semaforo in una posizione più visibile e di poter svoltare per primi. Una modifica ottenuta grazie al via libera del ministero, consentirà alle biciclette punti di arresto differenziati in prossimità degli incroci, non correndo il rischio di venire investite dalle auto che svoltano a destra. La casa avanzata va nella direzione di garantire maggior sicurezza ai ciclisti che percorrono il tratto di ciclabile in Corso Buenos Aires:. «Ormai sono più di 5.000 i ciclisti che usano ogni giorno la nuova ciclabile», ha affermato Marco Granelli, l’Assessore alla Mobilità milanese. La democrazia della strada avanza con la casa avanzata – sostiene soddisfatta l’associazione FIAB Ciclobby che spera di vedere Milano assieme alle città europee della bicicletta come Basilea, Vienna, Copenaghen e Londra.

SuperMi100 una pedalata di 100 km attorno a Milano nell’ambito di “Super – il Festival delle Periferie a Milano” Foto: Francesco Rachello / Tornanti.cc

Per permettere a cittadini e turisti di conoscere tutte le piste ciclabili della città sono disponibili gratuitamente due diverse mappe appena realizzate per il Comune di Milano. Le due cartine sono distribuite presso i punti informativi del Comune di Milano, i musei comunali, le sedi di Confcommercio e Assolombarda, i consigli di zona, le principali ciclofficine, i rivenditori di bici e le associazioni di ciclisti urbani. Milano è una città piccola e densamente abitata, quindici chilometri da un capo all’altro con 1.4 milioni di abitanti, il 55% dei quali utilizza i mezzi pubblici per recarsi al lavoro. Il tragitto medio è inferiore a quattro chilometri, rendendo il passaggio dalle auto alle modalità di viaggio attive possibile per molti residenti.

Il capoluogo lombardo sta quindi lavorando a un piano che incentivi l’uso della bicicletta e dei bike-sharing in seguito alle necessità di evitare assembramenti sui mezzi pubblici come la creazione di nuove infrastrutture che ne agevolino l’uso.
A partire da fine aprile 2020 erano cominciati i lavori, conclusi entro fine estate, per l’apertura della nuova pista ciclabile che da Piazza San Babila portasse direttamente a Sesto Marelli seguendo la direttrice di una grande via di comunicazione quale Corso Buenos Aires, sei chilometri in entrambi i sensi di marcia. Nonostante sia un’incredibile innovazione per il piano urbanistico della città, non sono stati pochi gli oppositori.
Due associazioni di commercianti si sono mostrate subito preoccupate che un minor passaggio di auto che a loro avviso si sarebbe tradotto in una riduzione dei guadagni.
Una posizione non condivisa dall’architetto della mobilità Valerio Montieri, consigliere della FIAB e residente in zona: «In questo modo si aumenta la possibilità di fruizione in sicurezza della strada e dobbiamo sfatare il mito del ciclista che non spende. La bici è amica del commercio. Basta pensare che un parcheggio auto può ospitare dieci biciclette e dunque dieci possibili clienti».

SuperMi100 una pedalata di 100 km attorno a Milano nell’ambito di “Super – il Festival delle Periferie a Milano” Foto: Francesco Rachello / Tornanti.cc

Potremmo spiegare con dati alla mano che le zone pedonali ciclabili, oltre a migliorare la vivibilità urbana, aiutano i vari negozianti a beneficiare di un passaggio a ritmo più rallentato con una maggiore possibilità che le persone entrino nel loro esercizio commerciale. E se i numeri non dovessero essere maggiori, sarebbero comunque più predisposte all’acquisto e meno stressate da vigili o multe per la macchina parcheggiata in seconda fila.

«La bicicletta, può contribuire a cambiare l’immagine delle città. Il futuro è nella mobilità ecologica» dice convinta Giovanna Rossignoli, figlia d’arte e anima dell’omonimo negozio di biciclette in Corso Garibaldi che da anni muove l’anima ciclistica milanese. «Chi viene a fare shopping in centro si sposta già oggi soprattutto in metropolitana, monopattini, bike sharing. Uno sviluppo green può avere un valore anche in termini di marketing, dobbiamo gestire meglio il corso e tenere conto di cosa chiedono i clienti. I posti auto lungo Corso Garibaldi, diciamolo pure, sono usati più da commessi e residenti che dai clienti».

Vediamo quindi che Milano ha ancora molta strada da fare nonostante si vedano sempre più mezzi a due ruote: dalle colorate bici a scatto fisso o da corsa, cargo-bike, cancelli semi-arrugginiti recuperate dai garage di famiglia usate per raggiungere stazioni di treni e metropolitana. All’estero la bici è ampiamente riconosciuta come mezzo efficiente ed efficace nei tragitti medio/brevi, sia come mezzo per scoprire il territorio ed è tutelata senza distinzioni politiche: basta la sua efficienza a renderla riconosciuta e apprezzata da tutti, ora dobbiamo farlo capire anche ai nostri concittadini.

Oggi, nella delicata fase di convivenza con il Coronavirus, la bici è un importante strumento di distanziamento sociale durante gli spostamenti, permette di alleggerire il carico sui mezzi pubblici, previene il traffico e l’inquinamento dovuti a un uso eccessivo dell’auto e, secondo le raccomandazioni delle varie organizzazioni sanitarie, aiuta a restare in forma mantenendo un sistema immunitario sano.
Più bici, meno virus.

Milano è una città dal potenziale ciclistico nascosto che si trascina una lunga storia d’amore fatta di umili lavoratori, cortei, industrie, artigiani, gloriosi marchi e grandi atleti. In futuro capiremo forse meglio tutto ciò e ovvieremo alla totale dedizione per l’automobile. Quel giorno la bicicletta, di proprietà o condivisa, verrà a tutti gli effetti sdoganata dalla sua unica concezione agonistica e diventerà protagonista attiva dei nostri spostamenti quotidiani.

Foto in evidenza: SuperMi100 una pedalata di 100 km attorno a Milano nell’ambito di “Super – il Festival delle Periferie a Milano” Foto: Francesco Rachello / Tornanti.cc

Ecco tutte le puntate del nostro dossier Milano Urban Cycling:


Café de Colombia

Words: Alessandro Autieri
Voice: Luca Mich
Sound design: Brand&Soda

Chiudete gli occhi. Quello che stiamo per raccontarvi richiede una buona dose di immaginazione, non perché ci siano cose inventate sia chiaro, ma perché molto di quello che ascolterete arriva da lontano nel tempo e nello spazio. Vi invito a pensare a questa storia come ad una serie di fotografie. Le prime di un color seppia sbiadito dal tempo, che rende difficile distinguerne i contorni, intrisi come sono di realtà e leggenda; altre di un nitido bianco e nero, che ci permette di delineare meglio il contesto. Fino alle immagini dei giorni nostri, dove i colori diventano la forma, mentre la sostanza si nasconde dietro cocenti delusioni, a volte risulta effimera come un talento sprecato, altre, come vedremo poi, raggiunge quello che sarà il massimo splendore nelle vicende del ciclismo colombiano.

Dobbiamo immaginarci l’inizio di questa storia come un esercizio di fatica in sella a bici pesanti come cancelli, che percorrono strade impolverate: è il ciclismo dei pionieri andini. 

Sono visi scavati quelli dei protagonisti della nostra storia. Tutti zigomi e mento. Espressioni tagliate dalle rughe e arse dal sole, povertà, pesanti maglie di lana e corse disputate con divise e scarpe da calcio.

Ci sono secchiate di acqua prese in faccia dai tifosi che incitano, o bastonate date da quelli che urlano contro. Lunghi allenamenti in bicicletta passati fumando decine di sigarette seduti in sella, fughe notturne in mezzo a strade così rappezzate che persino le bestie da soma si rifiutano di attraversare. Serate concluse a raccogliere le energie bevendo brandy o tequila. 

Sono racconti di tubolari appesi al collo, foglie di verza messe sotto il berretto per difendersi dal caldo, polvere che ti soffoca i polmoni e brucia palpebre sottili come unghie. E i protagonisti sono personaggi di una povertà tale che quando scendono dal loro paese per recarsi in una città più grande, e vedono per la prima volta una bicicletta, pensano si tratti di parti smontate di un’automobile. Spesso sono ragazzi poco più che analfabeti, ma che diventano, nell’immaginario collettivo della cultura popolare colombiana, così simili agli Dei da costruirci attorno storie intrise di un alone di mistero e anche di un tocco di magia.

Le prime apparizioni in Europa sono quelle di corridori scambiati per oggetti del mistero e del folclore. Le bici diventano via via più moderne: ma non i visi. Tratti inequivocabili di discendenze andine, di sangue chibcha, di stregua riluttanza alle più svariate avversità della vita. Di campi seminati a mais e coltivazioni di platani, di vette silenziose, altipiani che formano il carattere e donano resistenza ad altitudini impossibili per i rivali europei. “Buffi topolini scuri”, venivano chiamati così inizialmente quando ancora non erano presenza costante in gruppo. Snobbati, guardati dall’alto in basso da occhi petulanti come si fa quando in una locanda di un piccolo paese di provincia entra uno straniero mai visto, spaesato dalle fatiche di un lungo viaggio.

Nei decenni successivi arrivano in Europa, proprio a compimento di lunghi viaggi, corridori che hanno sempre addosso quello stampo che sa di antico. Volti scuri, a volte di statura piccolissima, altre volte enormi con mani da gigante, ma spesso poco avvezzi al dispotismo del grande ciclismo europeo. Perlopiù scalatori, con gambe autentiche e febbrili, muscoli intagliati da quei continui su e giù nelle province più disparate della regione dei Cafeteros tra Bogotà e Medellin. Capaci di sfoderare potenti attacchi in salita e di smarrire la bussola non appena la strada smette di salire e si lancia in discesa. «Sono sempre stato nervoso all’idea di cadere» raccontava Ramon Hoyos Vallejo, ma dobbiamo immaginarcelo come un pensiero comune allo scalatore colombiano. Una specie di legge che appare nelle loro sacre scritture. «Ho sempre temuto di uccidermi in una curva in discesa ed è per questo che cercavo sempre di prendere più vantaggio possibile in salita».

Si arriva così ai giorni nostri, a quelle foto colorate, accese, a quella generazione che sogna, oggi come allora, di vincere il Tour de France. Di ragazzi che ora riescono a frequentare con più regolarità la scuola mentre i genitori lavorano nei campi o nelle fattorie. Sognano un riscatto per la propria famiglia e corrono su bici più che decenti, se paragonate a quelle del passato. Nel giro di poco tempo si ritrovano a pedalare per il mondo arrivando giovanissimi in Europa e cavalcando bolidi che fino a un momento prima avevano visto solo in televisione – chi la possedeva – o nelle fotografie, oppure descritte in radio dai giornalisti colombiani. 

In Europa iniziano ad andarci a vivere attratti da contratti sostanziosi, dalla possibilità di diventare veri atleti sulla falsariga dei grandi campioni. Diventano veri atleti con la mentalità giusta e vanno a correre nelle squadre più importanti, imparando le abitudini del corridore europeo, pur mantenendo vive le radici dalla loro terra. Sono corridori che più moderni non si potrebbe e con una caratteristica prettamente colombiana: la capacità innata, grazie alla statura e alla struttura fisica e biologica, di andare forte in salita. 

Ma torniamo al principio. A quelle immagini prima color seppia e poi in bianco e nero. Partiamo dagli anni Cinquanta per raccontare il lungo viaggio di evoluzione della specie ciclistica colombiana. Iniziamo da Efraín Forero: “El indomable Zipa”. Zipa, perché arrivava da Zipaquirá, a una manciata di chilometri da Bogotà. Dove, oltre mezzo secolo dopo, nascerà un certo Egan Bernal. Ecco da dove tutto comincia, da dove parte la grande epopea del ciclismo colombiano che ha come obiettivo, come sogno di un popolo intero mosso dalla passione per il ciclismo, di vincere, un giorno, il Tour de France. Anche se, almeno inizialmente, è già un grande traguardo poterlo correre. Si parte da Efrain Forero, si diceva, capace di mettere assieme un atto eroico ancora più che sportivo e che ancora oggi lui stesso ha la forza di rievocare, nonostante i novant’anni suonati.

Efraín Forero aveva vent’anni nel 1950, uno in più quando vinse la prima edizione della Vuelta a Colombia. Una corsa nata per permettere la propagazione di quel lungo suono che proveniva dall’Europa e dove Giro d’Italia e Tour de France riempivano le pagine dei giornali. E come in Italia e in Francia anche in Colombia sarà un giornale a organizzare l’evento. Non vi è nulla di più calzante alla narrazione di uno sport come il ciclismo e anche i direttori dei quotidiani d’oltreoceano lo comprendono, cogliendo al volo il momento e ne facendone la loro fortuna. 

Naso appuntito, occhi chiari, sopracciglia folte, Efraín Forero nel 1950 voleva dimostrare che sì, anche nella povera Colombia, così lontana dal centro nevralgico del ciclismo conosciuto, era possibile organizzare una corsa a tappe; voleva mostrare come qualsiasi cosa fosse possibile in bicicletta. Anche in Colombia. Il tutto mentre in Europa Bartali, Coppi, Kübler, Koblet e pochi anni dopo Bobet, Gaul e Anquetil sarebbero diventati leggende dello sport. 

Forero salì sul Parámo de Letras: ottantatré brutali chilometri di ascesa a 3.760 metri di altitudine. Alcune cronache narrano di chi, prima di lui, morì nel tentativo.

«Salendo verso il Parámo de Letras lo scenario cambiò velocemente. A un certo punto mi imbattei in villaggi bruciati: era la guerriglia? mi domandai. Andai avanti lo stesso. Mi fermai un po’ dopo quando trovai un luogo dove poter bere aguapanela e prima di scollinare trovai un lago così limpido da avere sfumature cristalline. Mi fermai nuovamente e feci il bagno». Dopodiché si gettò in picchiata e quando Efrain raggiunse il centro abitato di Manizales era notte fonda. Ma non c’era il canto dei grilli o lo stridere delle cicale a fare da contorno. C’era solo un cielo buio con disegnata una mappa di puntini bianchi. C’era una schiera di gente che lo attendeva come di solito si fa con gli eroi. La prova, giudicata impossibile dai più, era stata superata. Gli scettici si convinsero: l’anno dopo toccava alla Vuelta. 

Forero vinse sette delle dieci tappe organizzate, compresa proprio quella che prevedeva l’arrivo a Manizales con la scalata del Parámo de Letras. Si avviò con quel suo attrezzo a due ruote per un viaggio di quasi 1.200 chilometri. Partirono in 35 quasi tutti colombiani e secondo le cronache del tempo, arrivarono in 30, anche se c’è che chi dice che furono in 33 a finire quella corsa. 

Dimostrarono che era possibile percorrere quelle strade, superare il Parámo de Letras, l’Alto de la Linea, scavallare la cresta della Cordigliera attraversando, bici in spalla, torrenti che con la pioggia si tramutavano in fiumi indomabili, strade piene di buche e polvere, che mutavano forma in impraticabili campi di fango. Temperature che oscillavano da oltre trenta gradi a vicino lo zero: scenari da romanzo. 

La corsa maturò grande interesse nella popolazione, nonostante fossero gli anni de “La Violencia” in Colombia, in cui morirono circa duecentomila persone. Era uno scontro tra chi apparteneva a due diversi schieramenti politici, che seminarono il terrore per tutta la nazione. Omicidi, rappresaglie, sparizioni, interi villaggi bruciati. Il dramma di quegli anni si incrociò con la strada della Vuelta a Colombia. 

Efraín Forero lasciò il ciclismo a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Doveva lavorare per coprire le spese dei numerosi viaggi a cui lo costringeva questo sport. «Sono stanco di dover andare in giro a cercare sponsor e farmi dire che sono un vagabondo» fu il suo commiato. Erano altri tempi. 

Prima di abbandonare, Forero incrociò la strada di Ramón Hojos Vallejo. Gelataio prima, macellaio poi, persino muratore. Divenne in breve tempo “Don Ramón de Marinilla”, il primo degli Escarabajos, dei coleotteri o scarabei diremmo noi, più o meno, il nome con cui ancora oggi vengono chiamati gli scalatori colombiani. Idolo nazionale, cinque volte vincitore della Vuelta a Colombia: fu accolto in aeroporto, al rientro a casa al termine di una corsa, da duecentomila persone, tanto per darne la misura della grandezza.

Imparò ad andare forte in bicicletta facendo il fattorino. «Dopo essere caduto il primo giorno di lavoro divenni esperto nel gestire le regole della strada e del mezzo, ma le consegne avrei preferito farle correndo a piedi». Una volta lo credettero morto. «Una notte ci fu una rapina in macelleria. Uno degli apprendisti che dormiva nel negozio fu pugnalato a morte. Lo chiusero nel congelatore e lo trovarono due giorni dopo a faccia in giù, disteso sul pavimento, i suoi vestiti intrisi di sangue nero. Rattrappito e indurito dal ghiaccio. Quando rinvenirono il corpo io ero via a fare una commissione: al mio rientro cercai di farmi spazio nella confusione della folla, davanti alla porta della macelleria. Chiesi a uno sconosciuto cosa stesse succedendo. Mi rispose: ma niente, è che hanno ucciso Ramon Hoyos».

Fu raccontato da Márquez e poi dipinto da Botero che lo conobbe quando ancora faceva il fattorino e consegnava carne a casa dell’artista: quel dipinto si chiama La Apoteosis de Ramón Hoyos ed è una delle opere più importanti nella collezione del grande pittore. «Non mi assomiglia per niente» disse un giorno Ramon Hoyos, a un incontro con la stampa, riferendosi al soggetto del dipinto. «Mi ricorda più “El Pajarito” Buitrago» – uno dei suoi più grandi rivali.

In compenso il nostro sconfisse Coppi e Koblet, in Colombia in una gara di esibizione. Era il 1958, e quell’evento, nonostante fossimo nella fase calante della carriera dei due corridori, divenne in poco tempo il più importante della storia sportiva del paese sudamericano. Il Campionissimo, l’ex vincitore del Tour de France ed ex detentore del record dell’ora che vola in Colombia per partecipare a una corsa di esibizione contro il grande campione antioqueno . Salendo i quarantadue chilometri de l’Alto de Minas, Coppi e Koblet svennero per il caldo, si racconta. La leggenda si mescola ai fatti chiaramente, dopo oltre mezzo secolo. Si dice addirittura che alla vigilia di quella tappa, Ramon Hoyos offrì a Coppi e agli altri avversari europei chorizos ed empanadas ripiene di patate e carne: tutto pur di metterli in difficoltà, e com’è come non è, funzionò.

E se inizialmente furono i campioni del Tour a recarsi in Colombia, bisogna aspettare ancora qualche anno prima che accada il contrario. Succede a metà anni ‘70, Quando Martin Emilio Rodriguez, detto “Cochise” per la sua grande passione per i film western andò a correre nel vecchio continente. siamo a metà degli anni ’70 e in Colombia era stato già eletto come “personaggio sportivo dell’anno”. «Ti hanno votato dieci milioni di colombiani: perché l’anno prossimo non ti candidi alle elezioni presidenziali?» – gli chiese un giorno Gonzalo Arango un noto poeta e scrittore colombiano, fondatore del movimento di controcultura artistica chiamato Nada-ismo. 

Il suo soprannome, Cochise, è perché andava pazzo per i film western con gli indiani: pare che dopo aver visto un film sulla vita del grande capo Apache non smettesse mai di parlare di lui. 

Il sogno di questo ragazzo era gareggiare in Europa – in Italia e Francia. Discriminato, arrivò tardi nel professionismo e divenne fedele gregario e amico di Felice Gimondi con il quale conquistò un trofeo Baracchi. Vinse due tappe al Giro d’Italia e disputò il Tour de France: fu il primo colombiano a raggiungere traguardi di questo tipo. Era uno sui generis: portava caratteristici basettoni e possedeva uno sguardo intelligente e malinconico. Era una locomotiva in pianura tanto da conquistare, tra i dilettanti, un controverso record dell’ora e il titolo mondiale dell’inseguimento individuale. Quando si parla di lui si afferma con convinzione: “se fosse arrivato più giovane in Europa, forse Eddy Merckx non avrebbe conquistato cinque volte il Tour de France”. 

Intanto con Cochise quei “buffi topolini scuri che non sanno cosa sono le Alpi”, come scrisse un giornalista italiano, fanno un altro passo in avanti. Patrocinio Jimenez mette in croce gli europei e attacca sul Tourmalet. È il Tour del 1983 e il belga Lucien van Impe, uno dei più forti scalatori di quegli anni, non riesce a tenere la sua ruota. Jimenez passerà primo sulla salita più alta di quell’edizione della Grande Boucle, conquistò la maglia a pois quel giorno, ma non riuscì a vincere la tappa buttando via la possibilità anche di vincere la classifica finale dei gran premi della montagna, perché si sosteneva, probabilmente a ragione, di come i colombiani ancora non sapessero correre in maniera tatticamente accorta. 

Qualche anno dopo arriva il tempo di Lucho Herrera, detto “El Jardinerito de Fugasugà” per il lavoro che faceva per mantenersi e aiutare la famiglia; Lucho, che da ragazzino, per sfuggire ai suoi genitori, si nascondeva tra gli alberi come il protagonista di un romanzo di Calvino. È il primo colombiano a vincere una tappa al Tour. In breve tempo diventerà lo sportivo più conosciuto del suo Paese tanto da finire, nel 2000, vittima di un’imboscata e di un rapimento da parte dei narcos. Vincerà la Vuelta nel 1987: il primo grande Giro conquistato da un colombiano. 

Ma è forse quello del 1984 l’aneddoto più interessante che riguarda Herrera, quando conquista l’Alpe d’Huez davanti a Laurent Fignon, il suo più grande rivale per via di vicende di corsa non sempre limpidissime… «Fignon era un ragazzo complicato. Odiava i colombiani: prima di morire scrisse un libro in cui ci accusava di aver corrotto lui e la sua squadra per corse che nemmeno avevamo vinto. Non ci rispettava, diceva che eravamo inferiori a loro e cercava sempre di farci del male: ci attaccava quando stavamo facendo i nostri bisogni o nelle fasi di rifornimento» racconta Herrera in un’intervista di qualche anno fa. 

E resta celebre quello che scrisse Laurent Fignon nel suo libro a proposito di una corsa che il francese disputò quell’anno in Colombia, il Clasico RCN: «All’epoca quelle gare erano sponsorizzate dalle mafie locali. Giravano soldi, pistole e cocaina. Ricordo un suiveur che nel bagagliaio della sua macchina metteva a disposizione di tutti chili e chili di polvere bianca». E una notte la provò anche lui quella polvere: aspirò un grammo in un colpo solo. «Stavo volando, avevo perso completamente conoscenza. Avevo l’impressione che le idee venissero spinte più velocemente di quanto la mia mente potesse analizzarle». Dopo una notte sveglio a far festa Fignon vinse pure l’ultima tappa, pensò di essersi rovinato la carriera, ma all’antidoping risultò pulito. Volava, letteralmente.

E così i colombiani iniziano a contare sulla scena mondiale: passo dopo passo, sembrava avvicinarsi addirittura la possibilità di vincere il Tour de France. E nel 1988 arriva infatti il primo podio nella corsa francese: il merito è di Fabio Parra, “El Condor de los Andes” che finirà terzo in classifica generale. 

Dopo alcuni anni di ribalta però, i ciclisti colombiani tornano ad essere solamente corridori capaci di grandi cose in salita, ma che poi nel momento decisivo finiscono sempre per essere deficitari in qualcosa. Mejia e Rincon nei primi anni ’90 per esempio, sono corridori d’alta classifica, ma non vinceranno mai un grande giro, leggeri, abilissimi in salita, ma spesso inadatti a correre in gruppo. 

Si arriva così nei primi anni 2000 a Santiago Botero. Così diverso da molti suoi predecessori: forte a cronometro, è biondo, dalla pelle chiara e gli occhi di ghiaccio. Di lui, però non resteranno che promesse non mantenute, qualche buon piazzamento e uno splendido profilo tracciato sempre dal grande giornalista milanese: “A Medellin abita non lontano dalla casa di Pablo Escobar, dice, ma dell’argomento non vuole assolutamente parlare. Anche i suiveurs hanno un cuore e non gli fanno più domande in merito. Risulta che gli abbiano già tirato un paio di bombe in casa e che quando sta in Colombia si alleni con un poliziotto in moto davanti, uno dietro e una jeep di tifosi armati e pronti a tutto”. 

In Colombia, nel frattempo il ciclismo acquista importanza, anche a livello sociale. Vengono fatti importanti investimenti, il centro di Bogotà diventa pedalabile grazie a una ciclovia introdotta nel 1976 e che andrà via via sviluppandosi. Oggi quella strada si chiama Ciclorrutas de Bogotá, è lunga oltre trecento chilometri (è la più grande del Sudamerica e una delle più estese al mondo) e forma una rete che unisce la capitale colombiana alle aree vicine più popolose. I colombiani cambiano così il loro modo di spostarsi, la bicicletta vive un momento florido sotto molti aspetti, vengono organizzati giri turistici e veri e propri festival culturali per visitare la città e i dintorni, rigorosamente su due ruote. Il ciclismo diventa così uno degli sport più praticati, la bicicletta un mezzo di trasporto irrinunciabile e dall’epoca dei pionieri a quella dei grandi corridori che lasceranno il segno nel ciclismo, il passo è breve.

Ma noi vogliamo credere che, lontani dal razionalismo della nostra epoca, dalle nozioni sui grandi mutamenti socio culturali, ci sia qualcosa di magico, che davvero influenzi il cammino di un corridore proveniente da quei luoghi. Ai tempi di Hoyos si scriveva che, dopo di lui, dalla regione di Antioquia sarebbero usciti altri campioni capaci di rinverdire i fasti dei grandi di quell’epoca. 

Ed è così che si arriva ai giorni nostri. A Rigoberto Uran, nato proprio nel Dipartimento di Antioquia, idolo colombiano, emigrato giovane in Europa, accompagnato da titoli di giornali, che lo definivano come colui che avrebbe finalmente assicurato alla Colombia la prima vittoria in un Tour de France.

Uran va forte ovunque, ma non vince praticamente mai. Ma è proprio con lui che avverrà un cambiamento epocale nel modo di comunicare: Uran è uno che si presenta sempre sorridente nelle interviste, parla un italiano fluido, è aperto, simpatico: diventa il pioniere della nuova generazione; l’anello di congiunzione tra il colombiano di ieri e quello di oggi. Dopo di lui arriveranno Chaves e Lopez, Martinez e Higuita: tutti corridori ormai veri e propri professionisti inquadrati e consolidati, ma anche loro, almeno fino a oggi, incapaci di lasciare per davvero il segno. E a vincere quella maglia gialla non ci riuscirà nemmeno Nairo Quintana. Quando partecipa al suo primo Tour de France, Quintana ha appena 23 anni; conquista la maglia bianca di miglior giovane, quella a pois dei Gran Premi della Montagna, vince in salita l’arrivo di Annecy e finisce secondo in classifica generale alle spalle di Chris Froome. Negli anni vincerà un Giro d’Italia – sarà il primo colombiano – una Vuelta, e al Tour si batterà, ma arrivando solo vicino a conquistarlo. Già, scartiamo anche il suo di nome, perché non sarà lui il primo (e sinora unico) andino a portarsi a casa la vittoria del Tour de France. Nonostante, a una lettura più attenta, dovremmo considerarlo come il più forte colombiano di sempre e di sicuro come uno degli scalatori più vincenti degli ultimi vent’anni. 

All’inizio di questa storia vi avevamo chiesto di chiudere gli occhi e immaginarvi facce dure, imprese tra leggenda e realtà. Siamo partiti da Zipaquirà, vi abbiamo raccontato di come tra i pionieri ed i corridori dei giorni nostri, nessuno avesse mai vinto il Tour de France, e di come nonostante ciò, alcuni di loro siano considerati eroi assoluti, capaci persino di far dimenticare il dramma sociale ed economico che la Colombia vive da decenni. 

Vi chiediamo allora un ultimo sforzo, chiudete nuovamente gli occhi e tornate a Zipaquirà dove sorge la Catedral del Sal, considerata la prima delle sette meraviglie dello stato colombiano. Dentro quel luogo i colori si sprecano, le sfumature si consolidano, tra viola e blu elettrico, statue di sale e di marmo. La cattedrale è un luogo sacro all’interno delle miniere di sale. Il suo custode si chiama Germàn Bernal. Sua moglie, Flor Gomez, seleziona e raccoglie garofani in un’azienda agricola, è un giorno come tanti mentre è a lavoro e inizia a sentirsi male. Vertigini, nausea, dolore allo stomaco. Pensa si tratti di un’intossicazione alimentare. Si reca dal medico di famiglia, il quale, laconico, dopo una breve visita afferma: «Sei incinta!» per poi aggiungere «Dammi la possibilità di scegliere il suo nome: chiamiamolo Egan, è un nome greco, mi pare voglia dire qualcosa come campione». Egan Bernal nasce così poco dopo la mezzanotte del 13 gennaio del 1997. 13 gennaio, come Marco Pantani guarda caso. La sua sarà un’infanzia difficile: mingherlino e fragile viene ricoverato fin da piccolissimo per una polmonite e di certo non sembra possedere i geni del campione.

E invece la sua è un’ascesa rapida, ripida, repentina. Una parete verticale che Bernal inizia a scalare giovanissimo in mountain bike, dove finirà per conquistare diverse medaglie mondiali tra gli juniores. Ma lui sogna la strada, mentre suo padre si oppone fermamente: «Il ciclismo su strada è troppo faticoso, figlio mio, richiede troppi sacrifici e non paga bene». Ma Gianni Savio, team manager dell’Androni, lo nota. O meglio: gli segnalano questo ragazzino che non ha praticamente mai corso su strada ma con valori fisici stupefacenti.

Lo porterà a vivere in Italia, in Piemonte, nella zona del Canavese dove oggi sorge un suo fan club, dove hanno persino dato il suo nome a dei biscotti, e dove lui andrà a formarsi correndo insieme ai dilettanti del posto. Va talmente forte in salita che «sembra salire come se avesse una sigaretta in bocca» dice di lui Franco Pelizzotti, dopo uno dei primi allenamenti. Ma non è solo il valore fisico, c’è dell’altro che colpisce in Bernal. «È un ragazzo serio, deciso, intelligente. Quando l’ho preso in squadra aveva 19 anni e sembrava ne avesse 30» – gli fa eco Gianni Savio. Cercava un colombiano per continuare con la tradizione che da anni lo legava al Sudamerica, e si è ritrovato in casa uno scalatore d’eccellenza, che si difende a cronometro, sa correre con intelligenza in mezzo al gruppo, districandosi tra i ventagli come un belga, e che a nemmeno vent’anni già faceva paura ai grandi del ciclismo. 

Vincerà il Tour de l’Avenir nel 2017 e dopo aver corso nella corazzata Team Sky, poi Team Ineos, passati due anni vincerà quel tanto agoniato Tour de France. È il più giovane vincitore in epoca moderna, almeno fino a quel momento, della corsa francese; il primo colombiano, finalmente, persino il primo latino americano. 

Dai fasti di Efrain Forero e Don Ramon, passando per i vagiti di Cochise, Herrera e Parra, le apparenti delusioni di Uran e Quintana, la Colombia ha fatto così tanta strada chiudendo il cerchio con Egan Bernal. E oggi, in Colombia tutti vorrebbero essere come lui. 

Geraint Thomas, suo compagno di squadra, parlò così alla fine del Tour de France vinto dal ragazzo colombiano. «Egan è il presente, ma sarà anche il futuro. Quando io avrò quarantacinque anni e sarò vecchio e grasso e seduto al pub ad osservarlo vincere il suo decimo Tour de France, potrò dire: Ehi, a quel ragazzo lì ho insegnato tutto quello che so».

Se è vero ciò che dici Thomas, la Colombia ti ringrazia.