Dov'è la casa di Ceylin

Ceylin del Carmen Alvarado ha imparato a sentirsi a casa. Rafael, suo padre, viaggiò ben presto dalla Repubblica Dominicana verso l’Olanda ed il resto della sua famiglia lo raggiunse quando Ceylin aveva appena cinque anni. A quell’età, i ricordi sono ancora nebulose, semmai restano i colori e i profumi, e puoi “fare casa” qualunque luogo ti cresca. Però, se è vero che buona parte della personalità si forma nei primi anni di vita, le esperienze di quel tempo ti consegnano qualcosa che resta inciso in quello che sei. Papà è un ciclista e vuole che la ragazza impari a pedalare seriamente sin da giovanissima. «Lo sport che pratico non sarebbe stata la scelta più logica per il luogo in cui sono cresciuta. Io vengo da Rotterdam» – racconta a CyclingTips – «quante atlete professioniste provengono da lì? Credo solo io e Lucinda Brand». Cabrera è così distante, di lei nella fredda Olanda resta quasi solo la lingua; Alvarado parla ancora spagnolo fra le mura di casa. Ma a Ceylin non manca nulla o almeno così sembra. Fra le vie di Rotterdam come nella terra fangosa in qualche città al centro dell’inverno.

«Sono cresciuta in fretta. Quando sono arrivata io, atlete come Helen Wyman, Nikki Harris e Marianne Vos, avevano lasciato e questo mi ha aiutato, senza dubbio. Soprattutto, però, mi ha guidato la capacità innata che ho in me. Riesco a far mio qualunque tipo di percorso e quando questo accade mi viene naturale fare la mia gara. C’è una natura estremamente fisica in questo sport. Mi spiego?». Circostanze e possibilità, come terra e bicicletta. Perché per saper pedalare nel fango devi saperlo accarezzare, certo, devi saper scegliere la traiettoria migliore, caricarti la bicicletta in spalla e coprirti gli occhi dagli schizzi: in breve devi saperne accettare il potere e la forza. Altrimenti rischi di essere un Don Chisciotte alle prese con i mulini a vento. Ma devi anche essere capace di imporre la tua legge, di spingere quelle ruote più forte che puoi, di strapparle delle scie sbagliate come salveresti qualcuno dalle sabbie mobili. Se non ci riesci, torni a essere Don Chisciotte. Circostanze e possibilità come vita e tempo. «Ho le mie giornate nere e a volte sto male. Dall’esterno sembra mi riesca tutto facile, lo so. Lo faccio sembrare facile, ma non è facile. Da junior ho avuto molti problemi al ginocchio, febbri ghiandolari e polmonite». Quel sorriso, bellissimo, nascosto sotto quei ricci neri che la fanno tutta capelli non è circostanza, è volontà e resta anche quando la luce si spegne.

Alvarado, “facendosi casa ovunque”, ha imparato il valore della sincerità. La vita dei ciclisti è vita del mondo e al mondo che ti accoglie devi la verità di ciò che pensi. Diversamente non sono il mondo, la città, la terra o il fango, a non accoglierti, sei tu a non accogliere te stessa e non potrai sentirti a casa nemmeno per un attimo: «Mathieu van der Poel è pagato per correre o per dare spettacolo? Io sono pagata per correre o per far divertire? Io credo di essere pagata per fare la mia corsa ma so che, se faccio la mia corsa, il pubblico si diverte». Dritta al punto tanto da non sembrare una ragazza di ventidue anni: «Certo che il tema dell’uguaglianza e della non discriminazione sono questioni importanti. Come potrei dire di no? Personalmente, però, non ho avuto alcuna esperienza negativa, forse per questo non sento la necessità di parlarne ogni volta. Solo quello. Oggi il tema si sente in maniera particolare perché il ciclismo sta crescendo sempre più». Alvarado ricorda la sua prima bicicletta: «Non provengo da una famiglia benestante. La mia prima squadra noleggiava le nostre biciclette, così ho potuto iniziare a gareggiare. Ma, prima o poi, i genitori devono comprare una bicicletta per i loro figli e non tutti possono permetterselo: comprare una bicicletta costa molto di più rispetto a comprare un paio di scarpe da calcio. Il ciclismo è uno sport costoso e diventerà sempre più costoso. Le federazioni devono iniziare un lavoro dalla base».

Nel 2020 Ceylin del Carmen Alvarado ha vinto sia il Campionato Mondiale a Dubendorf che il Campionato Europeo a ‘s-Hertogenbosch e di questo bisognerebbe parlarne, questo rende bene l’idea di chi sia. Oppure no? Forse l’idea di chi è davvero Ceylin è racchiusa altrove e lì andiamo a prenderla. «Probabilmente chi fa ciclocross ha un alone meno professionistico rispetto a chi fa strada. Però io qui ho mio padre, meccanico, mia madre, soigneur, e mio fratello, al primo anno da under23. Loro sono i miei appoggi». Già, perché chi viaggia, alla fine, lo capisce. Casa può essere il luogo da cui parti ma più spesso casa è il luogo in cui vuoi tornare. Un luogo da lasciare lì, con ancora qualcosa da sistemare, per avere una buona scusa per farci ritorno. E, se non possiamo sempre scegliere da dove partire, abbiamo il dovere di scegliere dove tornare.

Foto: Twitter/Trofeo Sven Nys


Il vento di Taylor Phinney

Parola di Haruki Murakami: «Quando la tempesta sarà finita, probabilmente non saprai neanche tu come hai fatto ad attraversarla e a uscirne vivo. Anzi, non sarai neanche sicuro se sia finita per davvero. Ma su un punto non c’è dubbio. Ed è che tu, uscito da quel vento, non sarai lo stesso che vi è entrato». Per Taylor Phinney quel vento è dietro una curva della discesa di Lookout Mountain, all’altezza del chilometro quarantacinque di corsa dei campionati nazionali statunitensi in linea. Dietro una curva qualunque, di un qualunque giorno di maggio, di un qualunque lunedì, in una discesa come tante altre, a Chattanooga, in Tennessee. Forse Phinney, quel 26 maggio 2014, aveva sentito dire da Murakami che, in fondo, scendere è sempre più difficile che salire. E probabilmente ci aveva anche creduto, astrattamente, non in quel momento. Perché la discesa ti inganna con la velocità, col respiro che è quieto, con le ruote che scorrono veloci e i copertoni che inghiottono la strada. La discesa ti inganna raccontandoti che manca sempre meno e con la sua follia mancherà sempre meno. La discesa ti fa sentire più vicino all’arrivo. A ciò che vuoi.

Basta un attimo, un secondo nato storto e, disteso a terra come sacco abbandonato, là, accanto a un guard rail, non riesci a immaginarti più nemmeno l’idea del movimento. La gamba è distrutta, la tua gamba sinistra è in frantumi. Più giù non puoi andare, non riusciresti nemmeno a rotolarti a valle con la forza della disperazione, più su non riesci nemmeno a guardare. Senti solo la scia delle altre biciclette che passano e ti sfiorano mentre i soccorsi provano a metterti in sicurezza prima di portarti via. Chiudi gli occhi perché quando hai dolore, hai la sensazione di sentire con ogni parte del corpo e tenerli chiusi ti illude di stordire il male. Per lo stesso motivo stringi i denti, serri le mani, magari le batti sull’asfalto. Sembra non passare più. Vorresti solo ti levassero quel male e potresti sopportare tutto. Forse lo chiedi anche: «Toglietemi il male, non mi interessa più di niente».

Il male, poi, si attenua. Perone e tibia sono polvere di ossa, il tendine della rotula è reciso: la chirurgia mette una pezza. Te lo ricorderai sempre quel taglio. Lo sentirai passandoci le dita, lo vedrai perché sarà sempre più chiaro della pelle circostante, la stanchezza si infiltrerà in quel pugno di muscoli e ti ricorderà che è tutta apparenza, una parte di te l’hai già buttata via.

I medici lo dicono chiaro e tondo a Phinney: «Riprenderai in mano la tua vita e sarà una vita normale. Dovrai cercare un altro lavoro, però: non potrai più fare il ciclista». È la seconda botta, inflitta mentre la prima fa ancora male. TI dicono che devi lottare per la normalità ma la tua normalità non c’è più. Te l’hanno tolta senza chiederti il permesso, senza una prova o una sentenza. Te l’hanno tolta dicendoti che “non è più possibile”.

La mamma di Taylor Phinney, Connie Carpenter, dice ancora oggi a Kasia Niewiadoma, fidanzata di Taylor, che quando si va in fuga bisogna guardare solo davanti, che del gruppo che insegue non deve importare nulla. Papà Davis ha lottato contro il Parkinson e ha capito una cosa: la ricerca è importante, fondamentale, ma il passo decisivo può venire dalle parole. Da ciò che si dice e si trasmette. Per esempio dal sapere, perché te lo hanno detto o perché lo hai letto, che vivere bene col Parkinson è comunque possibile. Phinney riparte prima di ripartire. Forse è l’unica possibilità per non impazzire: inizia a leggere, a studiare, conosce l’arte, sperimenta la pittura. Si rialza in quel momento Taylor e quando tutti lo vedono in piedi lui è già oltre, è già diversi passi avanti.

Da atleta era abituato a governare il suo corpo, a forzarlo, a fargli fare ciò che voleva, quando voleva. Ora deve scendere a patti con la propria carne. Non può fare nulla senza che il corpo non sia pronto, non può imporre tempi e ritmi. Deve ascoltare un tempo che non è più suo pur essendo fin troppo dentro di lui, nelle sue cellule. Quando riprende a pedalare lo fa assieme a Lachlan Morton e Cameron Wurf, lo fa per dirsi che è ancora capace, che ci riesce ancora. Non pensa a nulla di quello che di lì a breve accadrà. Taylor Phinney tornerà a correre fra i professionisti e sarà nuovamente quello di prima. Quello che una discesa aveva ribaltato ma non fermato. Quello che mamma e papà avrebbero sempre voluto.

Così simile a loro, così capace di declinare la vita a proprio modo, portandosi appresso il peso dei ricordi che diventa bagaglio per stare sempre meglio o per saper vivere anche stando male. C’è l’eco di Murakami qui. Sceglierà Education Drapac perché nell’educazione, nello studio, nella cultura, c’è il suo impegno e la sua promessa: quella di tornare sui banchi, questa volta per davvero, dismessa l’attività professionistica. Perché una parte della sua salvezza è lì ed è giusto tornare a trovarla. In fondo, il legame con ciò che ti salva è come il legame con chi ti tira una volata, ti accompagna in una fuga senza senso, o trasporta la tua barella in qualche corsia di ospedale. E Phinney, che oggi è un altro uomo, lo sa bene: «Può darsi che non sarai mai felice. Perciò non ti resta che danzare così bene da lasciare tutti a bocca aperta». Parola di Murakami, parola di Taylor Phinney.

Foto: Pentaphoto


Atlas Mountain Race

testo / Federico Damiani
interpretazione / Claudio Ruatti
Editing e montaggio / Brand & Soda

 

Pane, incertezze e biscotti marocchini, ovvero 1000 chilometri
 per sentirsi vivi.

Ci sono tanti motivi diversi per cui ciascuno di noi pedala e altrettanti bisogni che la bicicletta ci aiuta a soddisfare. Per me, dopo attenta riflessione, quelli decisivi sono due. Il primo: guardare in faccia e affrontare con i mezzi che hai situazioni incerte
che possono avere un esito inaspettato. Diciamolo pure, negativo. Esplorare un territorio sconosciuto, dentro o fuori di me, il secondo. Probabilmente sono due facce della stessa medaglia, ma tant’è. 

Il giro in bici della domenica, quello di cui sai anche a occhi chiusi che lì c’è una buca da schivare, a me proprio non esalta. Stessa cosa per le granfondo: non ho le gambe per vincerle, ma so che in un modo o nell’altro, al traguardo, si arriva sempre. 

Oh, se fai qualche cappella lì sei veramente fottuto. Chissà cosa succede se provi a farlo? Se penso a questo tipo di cose allora sì che si mette in moto tutto e che la testa inizia a frullare, perché il più delle volte è quella, più delle gambe, a fare la differenza. E non è una questione di eroismo: l’incerto lo puoi trovare ovunque, anche in un giro da 50 chilometri. Esagero, anche su Zwift. Basta guardarsi in giro e trovare un evento che ti provochi qualche sorta di disagio cognitivo e il gioco è fatto. 

Se non lo trovi, basta inventarlo.Dopo invenzioni passate di diverso genere e specie,il 2020, tre le tante cose negative che ha portato in dote fino ad ora, mi ha consegnato un evento perfetto, senza bisogno di mettere in campo la fantasia. Niente poteva essere migliore della prima edizione della Pedaled Atlas Mountain Race. Inventore Nelson Trees, lo stesso organizzatore della Silk Road Mountain Race in Kirghizistan. Uno che si è fatto una fama per i percorsi non proprio ovvi e scontati. Un maestro dell’incertezza, diciamo. 

Le informazioni che hai all’iscrizione sono queste.
 Una gara di 1.145 chilometri e circa 20.000 metri di dislivello in completa autonomia, con partenza da Marrakesh e arrivo a Sidi Rabat, sul mare, dopo aver attraversato le montagne dell’Atlante e dell’Anti Atlante su strade coloniali e sentieri sterrati. Una traccia su Komoot e una descrizione di alto livello con qualche indicazione comunque piuttosto generica. 

L’incerto: il terreno, il tipo di bici da utilizzare, il set-up corretto, la preparazione per arrivare pronti il 15 febbraio. Il territorio sconosciuto, almeno per me: il Marocco e una gara di più giorni. C’è materiale, penso. Aggiungo alla seconda lista un compagno di avventura per gareggiare come coppia, altra cosa che non ho mai fatto, e ci siamo. Si va: io e Andrea, il 13 ottobre siamo iscritti alla AMR. 

Mancano quattro mesi. Un po’ mi sento stupido, mala cosa che mi esalta è che, dopo aver cercato a lungoun modo per introdurre complessità e incertezza nel sistema, arriva il momento di lavorare per minimizzarle. Capire e analizzare il problema pezzo per pezzo, con pa- zienza, per presentarsi alla partenza con tutto quello che serve per affrontare il mostro nella miglior condizione e con i migliori strumenti possibili per infilarlo nel sacco. 

Decidiamo di aggiungere anche Mattia alla nostra spe- dizione. Più menti e più confronto pensiamo possano essere utili. Noi correremo in coppia, lui da solo, ma sceglieremo materiale e preparazione insieme. Siamo di fronte a grandi scelte: quale bici usare, che abbigliamento portare, quali borse montare, come attrezzarsi per dormire, per dirne giusto alcune. Scegliamo anche un tema, giusto per complicare un po’ le cose. Con quello ci personalizziamo le bici e le maglie. Optiamo per la bici gravel. Come le maglie, che disegniamo e realizziamo insieme ad artisti e designer. Non sappiamo se sopravviveremo, ma saremo elegantissimi. 

Incastrare tutto è un’impresa titanica. La preparazione fisica non presenta molte variabili, si pianifica e basta. Tutto il resto è una catena infinita di prodotti in arrivo, decisioni da prendere, ipotesi da fare. Preparare una gara così, scopro, è un’esperienza totalizzante: ti risucchia ogni energia e minuto libero dal lavoro e per quanto tu possa iniziare per tempo, ti troverai ad aspettare un corriere in arrivo a Mestre con un componente elettronico a 12 ore dalla partenza. Storia vera. Ma alla 

fine le borse si chiudono, quel che c’è, c’è. Quel che non c’è, se ne fa a meno. Ci si vede a Marrakesh.Uscire dall’aeroporto e controllare che le bici siano intere è il check point zero. Le bici non vanno d’accordo con gli aerei, le duecento batterie che abbiamo in borsa, invece, con le dogane. Ma tutto bene: è tempodi briefing. Nelson spiega un po’ di cose, ci si mette in fila per il cappellino con il numero che indosseremo con orgoglio e con disprezzo di ogni regola igienica nei prossimi giorni. Tutti, nel frattempo, guardano sospetti i setup delle bici parcheggiate fuori dall’hotel. C’è un buon mix tra gravel e mountain bike, diverse idee di carico, qualche soluzione creativa. Tutti si chiedono chi avrà fatto le scelte giuste. Ci si promette di rivedersi e parlarne all’arrivo. 

L’ambiente è bellissimo, la gente dell’ultracycling meglio ancora. Un misto di personalità eterogenee.Dal vecio-randonnee, definizione di Andrea, al super hipster tatuato. In mezzo ci siamo anche noi, che andiamo a fare la spesa e prepariamo panini per un esercito. Carichiamo le bici e infiliamo cibo in ogni fessura rimanente delle nostre Miss Grape: riesco anche a infilare un tubo di biscotti tra il reggisella e la borsa sopra il telaio. Sembra fatto apposta. Ultimo controllo e si va a dormire presto. Sarà l’ultimo letto che vedremo per giorni, meglio sfruttarlo al meglio. 

15 febbraio. A colazione Andrea dice che si è sveglia-to alle quattro e ha ribaltato le borse perché non era convinto e ha cambiato tutto. Non benissimo, ma si parte. Ad aspettare il via, vicino a noi, c’è Sofiane Sehili. A colpo d’occhio parte leggerino e decisamente punk; non ha la front bag, quella in cui si tiene il necessario per dormire. Infatti lo rivedremo all’arrivo, dopo che avrà vinto la corsa in 3 giorni, 21 ore e 50 minuti. E avrà dormito 3 ore complessive. 

Si parte per davvero ed è una liberazione. Mesi di preparazione sono lì sotto il culo e nelle borse che ti porti in giro. Da qui in avanti le giornate saranno il sogno di ogni ciclista. Portato all’estremo, ma un sogno. Svegliarsi, prendere la bici, guardare l’alba in corsa, pedalare, fermarsi a mangiare, pedalare, guardare il tra- monto, pedalare, dormire. Zero pensieri, se non quelli che servono per gestire l’immediato e il futuro molto prossimo. Nessuna energia sprecata per altro, se non per arrivare a quel maledetto albergo in riva al mare dopo 1.145 chilometri.Dopo i primi 40 chilometri di asfalto arriva lo sterrato, i villaggi diventano più piccoli e il dislivello segnato sul display inizia a crescere. Mattia ha un altro ritmo e va per la sua strada, io e Andrea comunque non vogliamo perdere tempo. Sappiamo che il passo più alto della gara, 2.500 metri, è dopo 100 chilometri e la discesa successiva è da camminare. Vogliamo farla con la luce e arrivare al check point 1 prima di sera. 

Ci riusciamo e al CP1 ci rendiamo conto di esserela prima delle coppie a timbrare la brevet card. È il momento che segna il nostro approccio all’intera gara. Non eravamo partiti con la minima idea di correre per vincere. Ma mi conosco e so che non sono mai riuscito a giocare nemmeno a calcio balilla all’oratorio senza metterci un po’ di agonismo. Abbiamo un po’ di imbarazzo a dircelo, ma entrambi ormai stiamo pensando perché non provarci, già che ci siamo. 

Spingere, in una gara di ultracycling, non vuol dire andare forte. Vuol dire essere efficienti, fermarsi poco e farlo quando si ha bene in testa cosa bisogna fare una volta giù dalla sella. Molti sostengono che ci si debba fermare solo quando ci sono almeno tre cose da fare. Mangiare, caricare il telefono e vestirsi. Riempire le borracce, controllare la traccia, sistemare le borse. Vuol dire accettare qualche compromesso in termini di ore di sonno e comfort lungo la strada. Ognuno trova il suo equilibrio, a seconda di dove posiziona la soglia di sopportabilità.Siamo solo all’inizio e la prima notte pedaliamo e camminiamo. Abbiamo idea di essere in un posto bellissimo, un deserto probabilmente, ma è buio e proviamo ad immaginarcelo. Sappiamo solo che ci sono un milione di fiumi secchi da attraversare. Scendere nei letti e risalire dall’altra parte, a volte su muri alti quattro o cinque metri, è estenuante. Alle 5 finalmente vediamo il fondo e decidiamo di dormire un paio d’ore vicino ad una pianta. Ci sveglieremo con entrambi i materassini bucati. La pianta aveva le spine: evviva. 

Il menu del secondo giorno ci consegna una colazione con omelette da un benzinaio, un guado e un altopiano infinito. 100 chilometri, molti dei quali da camminare. Le valli di fronte a noi sono bellissime, conformazioni di rocce a strati di colori diversi a perdita d’occhio. Riesco a godermele meglio riguardando le foto: probabilmente questo è il momento più duro della nostra Atlas Mountain Race. 

Dieci ore, senza rifornimenti. L’acqua finisce molto presto e arriviamo al paesino successivo esausti e quasi disidratati. Ci troviamo Mattia, con un manubrio spez- zato a metà, riparato con del nastro isolante e un pollice aperto, riparato con dell’Attack. Non riesce a chiudersii vestiti e le cerniere con la mano: non può più essere autosufficiente, la regola base per entrare nella classifica di questo tipo di eventi. Con una forza di volontà incre- dibile decide di continuare e, d’accordo con Nelson, si aggrega a noi perché possiamo fornirgli assistenza. Pedaliamo fino a dopo il tramonto e dormiamo in cima ad una salita. Il terreno è di ghiaia sottile, l’inclinazione è perfetta, è riparato dal vento. Nei cinque secondi prima addormentarmi, esausto, guardo un cielo stellato che non posso descrivere dalla rete del mio bivy. Il mondo è bellissimo. Basta tornare all’essenziale e farselo bastare.Il giorno 3 è business as usual da Atlas Mountain Race. Salite, discese, gravel, un po’ più gravel, omelette, persone ospitali, qualche tratto da camminare, paesaggi incredibili. Ripetere, dalle 5 di mattina alle 2 di notte. Fossero tutti così, nella vita, i business as usual… 

L’indomani si punta ad arrivare in mattinata a CP2, finalmente. Partiamo già provati da una notte di cani ululanti e rumori molesti. Il falsopiano di 14 chilometri dritto, sterrato, mi svuota completamente mentreil sole sorge. Il Garmin non segna mai una velocità superiore a 9-10 all’ora. Fate voi i conti di quanto possa essere durata questa agonia. 

Ma CP2 arriva dopo che scolliniamo e una strada sterrata ci porta in mezzo a un’oasi bellissima. Con lui la possibilità di fare una doccia, riposare qualche minuto e mangiare un pasto intero: omelette, tajine di polloe insalata. Un paradiso con biglietto d’ingresso decisamente alto: il conto del pranzo è soggetto a un’inflazione che neanche la Germania a fine prima guerra mondiale. Ci restano pochi Dirham in tasca e il primo bancomat è 150 chilometri fuori traccia: da qui in avanti c’è da arrangiarsi con tonno e sgombro in scatola, pane e biscotti marocchini. Pasto completo con 15 Dirham, 1,36 € al cambio attuale. 

In ogni caso c’è da pedalare, tra paesaggi surreali e ospitalità dei Berberi. Beviamo il tè con donne che stanno tessendo un tappeto, ceniamo in un paesino in cui l’unico negozio ha finito il pane. Tempo due minuti un amico porta quello che aveva in cucina e il problema è risolto. 

Ci aspetta molto asfalto. Vedere sul Garmin asfalto tra 10 km mentre rimbalzi da tutto il giorno è una liberazione. Ma è come quando ti chiama la tua ex per chiederti di vedersi per un caffè. Sembra una bellissima idea, ma due minuti dopo ti ricordi perché vi eravate lasciati. L’asfalto, in Marocco, vuol dire drittoni infiniti di 10, 20 km che ti spaccano il cervello e lo spirito. 

Quando torna lo sterrato siamo su una strada coloniale costruita a mano. È molto smosso, si va pianissimo esi fa fatica, di testa e di gambe. Ma è il contrappassoper il paesaggio che attraversiamo, lontani dalla civiltà. Che in Marocco non vuol dire essere da soli, perché ovunque, lontano da qualunque forma di villaggio, puoi trovare una persona seduta su un sasso che ti guarda passare. In cima c’è un berbero solitario; non resisto a dargli la bici per una foto. 

E fu sera e fu mattina. Quinto giorno. Arriviamo a CP3 a tarda sera, hanno finito il cibo. Ci sono solo pasta e riso, dice il proprietario, a cui rispondiamo di portare tutto. Si presenta con un piatto in cui ha condito la pasta con il riso. O il riso con la pasta. Tutto in bianco. Va bene tutto, per quanta fame abbiamo. Siamo ancora primi, con un paio d’ore sulla seconda coppia e decidiamo di dormire due ore e ripartire alle 4. Mancano solo 190 chilometri, speriamo di arrivare con la luce, una birretta in mano e un tramonto sul mare. 

Nelson, invece, la pensa diversamente. La traccia ci catapulta da luoghi che a tratti sembrano la Sicilia, a tratti la Toscana, per poi tornare nel deserto prima di scendere sulla costa. Una bella salita di 3 chilometri a piedi e qualche altro passaggio ci portano a vedereil tramonto quando ne mancano 40 all’arrivo, prima dell’ultima discesa.Da qualche ora il mio ginocchio destro sta esplodendo, le piante dei piedi bruciano talmente tanto che in discesa stringo la sella tra le cosce per non appoggiarle. Sono al di là di ogni mio precedente livello di sofferenza patito in sella a una bici. In questo stato, di fronte al tramonto, piango dietro le lenti dei miei occhiali mentre scendiamo verso il mare. Ci sono voluti 1.100 chilometri e tanta sofferenza, ma momenti come questo sono quelli per cui vale la pena essere vivi. 

Gli ultimi 5 chilometri si cammina nella sabbia, chiedendoci perché Nelson abbia voluto mettere ulteriormente alla prova la nostra pazienza. Ma poco importa, l’arrivo e la grande famiglia dell’Atlas Mountain Race ci aspettano per l’ultimo timbro sul brevetto, un giro di birre e, finalmente, una doccia. Poco importa che siamo riusciti a mantenere la nostra posizione, la festa è per tutti quelli che arrivano. La classifica non conta. 

Poco importano anche i momenti di difficoltà, il terreno sconnesso, le paure e i dubbi, le crisi di nervi, le 14 ore di sonno in quattro notti. Il giorno dopo svanisce tutto e rimangono i momenti belli, i luoghi e le persone. Rimane solo un’avventura talmente forte da segnarti per sempre, perché ti ha fatto scoprire, ancora una volta, che l’incerto si può affrontare e che c’era un posto, soprattutto dentro di te, ancora tutto da esplorare.

 

LE 10 REGOLE PER AFFRONTARE UNA ULTRACYCLING.
PRIMA REGOLA, NON IMPROVVISARE

Ovvero i dieci consigli per preparare una ultracycling scritti da chi ha dovuto sbatterci il naso per la prima volta in occasione dell’Atlas Mountain Race

Non sostituisce una dieta sana ed equilibrata, c’è scritto su tutti gli integratori. Anche sull’etichetta di quanto segue c’è un disclaimer bello grosso, che recita così: non sostituisce una sana ed equilibrata pianificazione e una contestualizzazione delle informazioni in esso contenute. Ognuno ha le sue preferenze, le condizioni cambiano e una valutazione personale è sempre necessaria. Anche per lo stesso evento, Mattia, Andrea e io abbiamo fatto scelte diverse e, a posteriori, le abbiamo valutate con diverse opinioni. Non esiste quindi una scienza esatta, ovviamente. Qualche regola generale, però, si può dare. Come per il Fight Club.

01 La prima regola dell’ultracycling non è non parlare dell’ultracycling. La prima regola è non improvvisare. Qualunque scelta facciate, se possibile, fatelacon anticipo e pedalateci sopra. Soprattutto la sella, provatela con anticipo, specie se cambiate stile. Ad esempio, se passate a una sella corta, come noi abbiamo fatto con la Fizik Argo, datevi tempo per abituarvi. 

02 La seconda regola è trovate tutte le informazioni che potete per scegliere bici, rapporti, ruote e copertoni. Alcuni setup saranno quelli ideali, ma molto dipende anche dalle vostre preferenze e dal vostro stile. Non rinunciate se non potete avere il setup ottimale: spesso la bici migliore è quella che avete in garage. Sul setup, per qualunque occasione, c’è solo una certezza assoluta: tubeless tutta la vita. 

03 La terza regola è fatevi mettere in bici da qualcuno bravo. Non importa se sono anni che pedalate con quella posizione e non avete mai avuto problemi. Stare in bici 20 ore al giorno, per più giorni, porta a galla tutti i minimi errori di postura e li esaspera. Noi abbiamo fatto la nostra posizione con il sistema Retul insieme ad Andrea Fusaz, a Udine. Nessun sabato pomeriggio fu meglio speso. 

04 La quarta regola è la bici è solo l’inizio. Vi sembrerà di essere a metà del lavoro, ma è da qui in avanti che viene il bello. A partire dalle borse. La borsa davanti con tutto quello che serve per dormire: meno l’apri- te, meglio è. La borsa sottosella con vestiti e cose che servono poco: non esagerate con la capienza. Se non vi bastano 15 litri, state portando cose inutili. La frame bag con tutto quello che serve a disposizione: manicotti, gambali, documenti, attrezzi vari. È la borsa fondamentale, può valer la pena investire per un custom adatto alla propria bici, come abbiamo fatto con le nostre Miss Grape. 

05 La quinta regola è abbigliamento e sleeping system si valutano su tre fattori, in quest’ordine: performance, comprimibilità, peso. La prendo in prestitoda James Hayden, che ne sa più dime. Valutate per prima cosa clima e scenari possibili per decidere cosa vi serve. Da lì partite con la scelta degli elementi, tenendo a mente che ilpeso è l’ultima cosa da considerare. Quanto e cosa portare dipende davoi, ma finirete per portare più del necessario: guardate la bici due ore prima di partire e sforzatevi di togliere almeno uno o due capi. Ciò che non può mancare: giacca antipioggia, guanti, gambali, manicotti, piumino leggero. In generale, quando mancano le forze (o le calorie), si percepisce più freddo: tenetene conto. Per dormire la grande scelta è tra il bivy bag o la tenda. Dipende da voi, dal clima, dal vostro spirito: noi abbiamo optato per il bivy. Per l’abbigliamento, il nostro kit personalizzato Sportful. 

06 La sesta regola è sapere dove andaree vederci chiaro. Studiate il percorso, mettetelo su un dispositivo di navigazione e accertatevi che funzioni per tempo. Se disponibili, caricate le mappe, non solo la traccia. Per sicurezza tenete la traccia su un disposiivo di backup e sul cellulare, in una app come Komoot o Garmin Connect. Le luci sono fondamentali. Se potete, investite in un buon prodotto. Per luci e navigazione, assicuratevi di avere abbastanza batterie o una dynamo che vi consenta di ricaricarle. Soprattutto per il fuoristrada, viste le velocità più basse, preferisco le batterie alla dynamo. Ricordatevi di caricarle tutte le volte che è possibile, anche quando vi sembra che non ce ne sia bisogno. 

07 La settima regola è mettersi nelle condizioni di riparare tutto. Più che una regola, è la legge di Murphy applicata al ciclismo: se dimentichi un pezzo di ricambio o un attrezzo, sarà esattamente quello di cui avrai bisogno. Da avere sempre: camere d’aria, valvola tubeless di scorta, multi-tool, tacchette e pastiglie freni, false maglie, pompa, toppe. Cose che non pensavi di dover portare: nastro isolante e nastro americano (ci si riparano anche i manubri), Attack (ci si riparano anche le ferite), accendino, coltello. Ah, l’olio della catena non è mai abbastanza. 

08 L’ottava regola è l’igiene va bene, ma deve occupare poco posto. Spazzolino, dentifricio, crema solare, crema soprasella, sapone e salviettine umidificate sono il set base. Tutto il resto, se ci sta e ne sentite il bisogno. La carta igienica è il primo lusso che ci si può concedere, un asciugamano e il deodorante fanno meno differen- za. Sempre con voi un piccolo kit di emergenza con disinfettante, bende e qualche cerotto. 

09 La nona regola è il cibo non è mai troppo. Riempite ogni angolo delle borse, le tasche della maglia, le tasche dei pantaloncini di cibo. Vi sembrerà troppo. Aggiungetene ancora; e poi ancora. Barrette ma anche e soprattutto cibo normale. Fate anche bene i conti per l’acqua. 

10 La decima regola è non fatevi troppe paranoie. Più si avvicinerà l’evento, più sarete assaliti dai dubbi. Ma se vi siete preparati bene non avrete problemi. Partite, in qualche modo poi ci si arrangia sempre. La parte difficile è fatta: ora basta pedalare. 


Il talento di Biniam Girmay Hailu

La vita di Biniam Girmay Hailu è così breve che di lui si conosce ancora così poco. Sappiamo che è nato nel 2000, in Eritrea, e che in quanto a talento sembra ne abbia in abbondanza. Di Ghirmai non sappiamo nemmeno con certezza come si scrive il suo nome: Ghirmai Binyam, Binyam Ghirmay, Biniam Girmai; con la ipsilon o con la i, con l’h o senza: lo abbiamo trovato scritto in diversi modi, ma quello che è certo è che in bici sa andare davvero forte.

Sappiamo per certo anche di quella volta in cui aveva compiuto diciotto anni da poche settimane e sconfisse Remco Evenepoel: è stato il primo segno del suo talento. Era una corsa in Belgio, restarono in due davanti e il ragazzo eritreo anticipò in una volata a due il ragazzo belga. Che forse quel giorno capì che per vincere sarebbe dovuto arrivare da solo, più o meno, sempre e comunque – mentre quanto possa fare la storia è un’altra storia.

Correva con la maglia del World Cycling Center di Aigle, Biniam, il centro di formazione dell’UCI che mette a disposizione degli atleti di nazioni considerate minori, strutture, allenatori, con la possibilità di misurarsi in Europa per provare a riscattarsi, a correre di fianco a corridori che dalla vita hanno avuto praticamente tutto, e poi un giorno diventare professionisti.

Oggi, invece, Biniam corre con una squadra francese, la DELKO One Provence, che lo ha messo sotto contratto fino al 2024 – nonostante le difficoltà legate alle sue origini. «Ci sono alcune squadre che hanno atleti africani, è vero – racconta a Cyclingnews.com Robbie Hunter, primo corridore sudafricano a vincere una tappa al tour e oggi procuratore di diversi corridori – ma quello che trovo folle è che se ho un ragazzo di diciannove anni come Biniam che va più forte dei suoi coetanei europei, lui non riesce a trovare un contratto, altri corridori invece sì. Quando vinse contro Evenepoel tra gli junior nessuno voleva saperne di lui».

Quel che si sa della sua vita, Biniam lo ha messo in fila in poche parole. Dice che arriva da una terra dove il ciclismo non è solo passione, ma roba di tutti i giorni, è cercare riscatto, e dice che i suoi genitori, tutta la sua famiglia, vivono il ciclismo come una religione. In Eritrea il ciclismo è vivo in effetti, e pulsa nelle arterie delle sue città: è persino un modo per combattere il traffico automobilistico.

Quasi ogni fine settimana, racconta un funzionario della federazione ciclistica eritrea, le strada di Asmara sono bloccate per un evento in bicicletta. «Se capita un week end dove non ci sono corse, la gente si stupisce: qui la bici non è solo segno di un’attività sportiva, fa parte della vita cittadina» sosteneva tempo fa. Sempre secondo Biniam Ghirmay, ogni anno in Eritrea ci sono circa un centinaio di corse in bici.

Biniam Girmay Hailu nel 2020 (Foto: DELKO One Provence)

Il ciclismo in Eritrea arrivò ancora prima delle gare organizzate dagli italiani per le strade di Asmara negli anni ’30. La bici fu introdotta sempre dai nostri connazionali a fine ‘800, precisamente nel 1898 a Massaua: fondamentale fu il suo inserimento per lo scambio della corrispondenza. La federazione ciclistica esiste dal 1936, nel 1937 fu organizzata la prima corsa – nessun eritreo prese parte: non potevano nemmeno circolare per il centro cittadino, figuriamoci partecipare a una corsa. E oltretutto «La chiesa copta non vedeva di buon occhio tale mezzo chiamandolo addirittura “carro del diavolo” e quindi lo ostacolava» scrive Aman Abraha.

Nel 1939 c’è il dietrofront dal regime fascista: avrebbero potuto partecipare tutti a quelle corse, anche i colonizzati, per dimostrare quanto l’Italia fosse superiore a tutti. Anche in bicicletta. Vinse un certo Ghebremariam Ghebru: quella vittoria «infranse il mito dei coloni italiani sull’inferiorità eritrea» sostiene lo studioso Fikrejesus Amahazion. Nel giro di pochi anni la bicicletta diventa il mezzo prediletto dagli eritrei; nel 1946 nasce la prima grande corsa a tappe africana: il Giro dell’Eritrea e il ciclismo diventa sport nazionale tanto da avere un seguito maggiore di qualsiasi altro sport, pure ai giorni nostri.

In Eritrea la bicicletta si chiama proprio “bicicletta” nella lingua locale, il tigrino, e in giro è pieno di ciclofficine. Il governo ha promosso negli anni un lungo progetto sulla sostenibilità ambientale che ha previsto anche la distribuzione di biciclette importate dall’estero. La gente preferisce spostarsi in bici che in pullman o automobile. “Chi si affida ai mezzi pubblici deve sopportare lunghe attese prima di saltare su un autobus estremamente affollato. «Gli autobus sono così vecchi e così pochi», dice Salam, un laureato di 30 anni. «Avere una bicicletta salva la vita qui»” – riportava la BBC tempo fa.

Il fatto poi che la parte abitata della regione si estenda fino a quasi 2500 metri di altitudine e a temperature ideali non ha fatto che spingere maggiormente la pratica di questo sport e oltre a un fattore culturale diventa anche un fattore genetico: ad allenarsi a queste altitudini per forza di cose i talenti sarebbero emersi. Daniel Teklehaimanot e Merhawi Kudus sono stati i primi corridori di questo paese di quattro milioni di abitanti a disputare il Tour France: era il 2015. Mentre proprio Teklehaimanot è stato il primo africano a vestire la maglia a pois proprio in quell’edizione. Lo fece mica andando in fuga in montagna, ma mandando giù chilometri su chilometri nella prima settimana della corsa francese, racimolando un punto qui e uno lì su quelle piccole pendenze che costellano la mappa di ogni tradizionale inizio di Grande Boucle. In poche settimane la gente di Asmara e dintorni impazzì totalmente: si è raccontato di gente arrivata fino in Francia per seguirlo mentre su internet non si sono persi un minuto di corsa.

E così, in mezzo ad altri che già si muovono da diverse stagioni tra i professionisti, prima o poi un talento forte, ma davvero forte, doveva spuntare e quello sembra proprio Biniam Ghirmay. Biniam pochi giorni fa è stato premiato come “corridore africano del 2020”: è il quarto eritreo a vincere questo premio da quando è stato istituito nel 2012. Bernard Hinault dice che di lui ne sentiremo parlare come di un possibile grande corridore in futuro: «Ha già battuto Greipel allo sprint e cresce molto rapidamente». Biniam nel 2019 è stato il primo ragazzo nato nel 2000 a vincere una corsa tra i professionisti: prima ancora di un certo Remco Evenepoel, mentre nel 2020 si è messo in luce in gare in Francia e in Italia.

Una delle prime parole che ha imparato a dire in francese è anche la sua preferita ed è quella che forse meglio lo identifica: “Tranquillo” – lo ripete sempre. Quando lui si racconta dice che vorrebbe vincere la Parigi-Roubaix e il Tour de France. Va forte in salita e va forte allo sprint, ma soprattutto: «La cosa che fa paura di lui è che non sente la pressione, non ha paura di nulla. Deve solo vincere una gara dall’interesse mediatico e continuare a crescere» dice Philippe Le Gars giornalista dell’Equipe. Dall’Eritrea alla Francia in bicicletta, il talento di Biniam Ghirmai è un affare serio per un popolo intero, matto per quella che anche loro chiamano “la bicicletta”.

Foto: Tropicale Amissa Bongo


Luca Scinto e il prezzo dell'essere veri

«Ho provato a mentire alle mie figlie per lavoro. Magari, il sabato, mi chiedevano di accompagnarle da qualche parte dopo la scuola e io rispondevo che non potevo in quanto dovevo andare in ufficio a lavorare. Non era vero, andavo ad allenare qualche ragazzo in vespa. Mi è accaduto con Visconti, con Tortomasi e con tanti altri: ero disponibile con chiunque me lo chiedesse. Non sarebbe stato mio dovere ma per come vivo il ciclismo non avrei mai potuto dire no. A me piace allenare i ragazzi».

Luca Scinto vive il ciclismo in maniera totale e come lo vive lo racconta. Non ci sono parole trattenute o nascoste, Scinto deve dire ciò che pensa e non importa il pensiero comune, lui, da buon toscano verace, dice la sua. «A volte i ragazzi non ringraziano nemmeno, come fosse scontato. Sto ore sullo scooter e non sono pagato per farlo. Lo faccio volentieri e non saprei fare altrimenti, mi chiedo solo se questo spirito venga capito. Al Giro d’Italia, arrivo a fine giornata sfinito. Perché? Perché vivo la corsa, soffro in corsa, partecipo ad ogni circostanza. Potrei fare come alcuni colleghi che arrivano in hotel e sono tranquilli perché hanno fatto il loro lavoro e poi “vada come vada”. Invece no».

Questo è un pregio ma, come dice Luca Scinto, potrebbe anche essere visto come un difetto. «Non ho mai trascurato la mia famiglia, sia chiaro. Grazie al lavoro, anzi, sono riuscito ad affrontare meglio difficoltà extra-lavoro. Sono riuscito a isolarle. Credo sia per il mio darmi completamente a quello che faccio. Ho tanti difetti e pochi pregi. Questo modo di operare spesso non viene compreso fino in fondo». Qui Scinto pensa alle delusioni avute in questi anni. «Cinque anni fa ho scelto di prendermi un periodo di pausa e dedicarmi ai più giovani. Angelo Citracca non avrebbe voluto, mi chiedeva di aspettare. Non potevo aspettare, si era rotto qualcosa con i ragazzi e non riuscivo più a continuare facendo finta di niente. Non mi fidavo più, ero stato deluso, ero stato tradito. Quando un corridore fa uso di doping, ti mente, finge di sentirti ma prende altre strade. Chi fa uso di doping imbroglia, ruba agli altri. Non è mai stato accettabile, oggi ancora meno. Sono tornato perché sapevo di avere la coscienza pulita, perché ero certo di non avere alcuna responsabilità ma è servito tempo. Ho sempre messo la faccia per i miei ragazzi. Citracca continuava a dirmelo: “Luca, guarda che non sei lo stesso. Sei cambiato, Luca. Torna come prima”. Ci ho messo tre anni per tornare come prima. Alla fine ti lecchi le ferite e vai avanti ma resta l’amaro in bocca. Capisci che, nella vita, ci sono degli irresponsabili e accetti questa verità».

Luca Scinto durante il Giro d’Italia 2020. Foto: Vini Zabù-Brado-KTM/Facebook

In quell’anno Luca Scinto ha riflettuto. «Mi sono guardato intorno e ho capito chi erano i veri amici. Citracca era un amico, uno di quelli veri. Con lui condivido un’amicizia di quasi trentacinque anni, un’amicizia in cui si condivide tutto, anche fuori dal ciclismo. Tanti altri no. Ma le delusioni non sono solo queste. Sono delusioni anche tutti quei rapporti che cerchi di costruire con i ragazzi e che si disfano sotto il peso di questioni meramente economiche. Succede così. Certi rapporti puoi costruirli fino a quando gli atleti sono giovani poi diventa impossibile. Si tratta di un dato di fatto».

La gratitudine ha un peso notevole nella coscienza del direttore sportivo della Vini Zabù Ktm. «Sai, è importante dire i tuoi grazie, ogni tanto. Penso a mia mamma che non c’è più. Lei e i miei nonni mi hanno da subito supportato in questa scelta e posso assicurarti che per loro, per quei tempi, si trattava di un sacrificio notevole. Tutto quello che ho fatto, lo devo a loro. Penso a Maximilian Sciandri che mi ha voluto con lui al passaggio al professionismo. A tutti gli insegnamenti di Giancarlo Ferretti e agli anni condivisi con Michele Bartoli. Soprattutto penso ad Angelo Citracca».

Citracca e Scinto hanno corso assieme, sia da compagni di squadra che da avversari. Quando Luca Scinto stava per smettere, Angelo Citracca gli ha telefonato: «Mi chiese di andare con lui, c’era l’idea di costruire una squadra di dilettanti. Quando smisi, gli proposi di trovarci al bar per parlarne: ci fu una stretta di mano da amici quali eravamo e iniziammo tutto. Angelo è come un fratello per me, sono diciotto anni che lavoriamo assieme e, lo dico sinceramente, fino a quando Citracca resterà nel ciclismo io sarò con lui. Diversamente ci penserò, magari cambierò lavoro. Si discute, certo. Chi ti dice sempre sì, chi non dialoga ed accetta ogni cosa, non è un amico. Bisogna ricordarselo. Sembra strano da dire ma Angelo caratterialmente è più forte di me». Scinto sorride e ammette: «Sono salito in auto e ho provato a fare il direttore sportivo».

Giovanni Visconto al Giro 2020 in maglia azzurra. Foto: Vini Zabù-Brado-KTM/Facebook

Nel tempo tante soddisfazioni: la più grande, a giudizio di Scinto, è la vittoria di Oscar Gatto a Tropea al Giro, davanti a Contador. Come non ricordare il secondo posto di Pozzato al Fiandre, «una scommessa di una piccola squadra che sarebbe potuta valere una grande classica», e i titoli italiani conquistati da Giovanni Visconti. «Sembrerà esagerato ma non lo è. In fondo, un direttore sportivo deve fare con i propri atleti quello che un genitore fa con i propri figli. Deve rassicurarli, tranquillizzarli, metterli a proprio agio. Bandire il panico. Questo comporta un forte rapporto con i corridori, bisogna sentirsi spesso, bisogna parlarsi molto».

Sull’abbrivio di queste considerazioni, Luca Scinto continua: «Non può esistere campione che non si conosca, che non conosca il proprio fisico. Ho avuto un grande preparatore come Luigi Cecchini ed il Centro Mapei mi ha aiutato molto ma certe cose devi capirle da solo. Un corridore deve sapere quando è il suo picco di forma stagionale. Deve sapere se va meglio con il caldo o con il freddo. Puoi avere tutti i migliori preparatori dell’ambiente ma se non ti conosci non vai lontano. Si sono fatti tanti passi avanti ed oggi anche i materiali sono parte integrante delle prestazioni, questo, però, viene a monte. A me non piace la programmazione esasperata. Sono atleti, non robot. Alcuni ragazzi hanno paura a restare un giorno senza bicicletta, sono terrorizzati. Il riposo è importante quanto l’allenamento, se lavori bene puoi restare anche due, tre giorni senza bicicletta. Ci sono tanti altri esercizi da fare. Molto sta all’intelligenza tecnico-tattica dell’atleta. Un discorso simile lo ho fatto ai ragazzi questa primavera rispetto all’uso dei rulli: va bene usarli ma non bisogna abusarne, non bisogna fare fuori giri. Quei momenti sono, invece, i migliori per lavorare su tutti quei dettagli su cui di solito non si lavora. Dettagli che fanno la differenza».

Luca Scinto qualche stagione fa. Foto: Claudio Bergamaschi

Scinto non ha dubbi. «Se un figlio mi chiedesse di correre in bicicletta, acconsentirei immediatamente. Il problema del ciclismo di oggi non è il doping, è la sicurezza stradale. Su quella bisogna lavorare». Del ciclismo, quest’anno, a Scinto è mancato il pubblico. «Dobbiamo ringraziare il fatto che ci è stata data la possibilità di correre, di lavorare. Il ciclismo ha superato un esame davvero difficile e questo deve darci fiducia. Ma andare alle partenze e vedere quei piazzali deserti è davvero triste. Mi sono mancate le persone, la loro richiesta di foto, di autografi, le loro grida ed i loro applausi quando attraversi un passo alpino, i giornalisti con le loro domande e le loro interviste. Il ciclismo è anche tutto questo. Io, lontano dal pubblico, sto male».

Quest’anno Luca Scinto ha detto addio a Giovanni Visconti, passato alla Bardiani. «Non rinnego nulla. A Giovanni voglio bene, per me è una persona importante. Mi ha regalato moltissime emozioni e quelle restano e resteranno sempre. Lui lo sa, abbiamo idee diverse. Io al suo posto avrei agito diversamente ma ognuno fa le proprie scelte e se ne assume le responsabilità. Mi sarebbe piaciuto vederlo concludere la carriera con noi e magari, chissà, con un ruolo in squadra anche successivo. Le cifre che ci chiedeva questa estate, per noi, erano importanti, è andata così. Forse è anche un bene. Ultimamente Giovanni non era più contento qui. Come dice quel detto? Le minestre riscaldate non vanno mai bene e probabilmente sarebbe stato meglio se non fosse tornato dopo la prima esperienza con noi. Gli auguro tutto il bene. Sono certo che vincerà ancora diverse gare».

Riunione prima del Trofeo Matteotti 2020 con Angelo Citracca, Maurizio Formichetti, Luca Scinto e Valentino Sciotti. Foto: Vini Zabù-Brado-KTM/Facebook

Se Scinto dovesse parlare di un proprio difetto, parlerebbe del suo essere permaloso. «Questo non vuol dire che non mi piaccia scherzare. Anzi. Amo scherzare: bisogna essere capaci di sdrammatizzare e di alleggerire l’atmosfera alla vigilia di appuntamenti importanti. Però quando si scherza, si scherza. Quando c’è da lavorare seriamente, sono molto esigente. A me manca l’istruzione, non ho studiato e non so le lingue. Ma credo di fare molto bene il mio lavoro: date ad altri direttori sportivi il budget ed i corridori che ho io e date a me il loro, poi vediamo. Non tollero chi non è sincero. Si può dire tutto ma lo si dice in faccia. Sono un istintivo. Sono focoso, ora già meno dei primi tempi. Se parli male di me, se mi parli alle spalle, non venire a stringermi la mano perché non so far finta di nulla. Non sono capace di sorridere come se nulla fosse».

Il pensiero torna ad un amico e ad un maestro. «Franco Ballerini mi diceva di continuare a mostrarmi cortese anche con chi non mi stimava. Diceva che la cortesia non va mai negata a nessuno, nemmeno alle persone che non ci piacciono o a cui non piacciamo. Lui aveva sempre una parola buona per tutti. Mi insegnava bene, sono io che non ho imparato». Parlare di Franco Ballerini significa parlare di tante cose: del rapporto rimasto con la moglie, di tanti momenti vissuti assieme, delle gare e di pomeriggi indimenticabili. «Mi chiamava al cellulare e mi diceva: “Vengo a prenderti e si va da Alfredone”. Alfredone era Alfredo Martini. Si parlava di vita e di ciclismo. Con Franco si era amici prima che colleghi. Ci volevamo bene ma non mi ha mai regalato nulla. Pensa che quando eravamo in nazionale e per rispetto della professionalità ero più freddo, Ballerini lo diceva a sua moglie: “Scinto non mi ha neppure salutato, oggi. Eppure l’altra sera ridevamo e scherzavamo come niente”. Per me era una questione di serietà sul lavoro. Una volta me lo disse: “Luca, mi serve un uomo per il mondiale. Vorrei portarti perché so che su Scinto posso sempre contare, so quello che può darmi Scinto. Ma te lo devi guadagnare”. Lavorai duro e mi convocò. Questo era Franco. Certe volte penso che, fosse stato ancora qui, molte cose sarebbero state diverse. Penso che avremmo costruito una grande squadra. Assieme».

Foto: Vini Zabù-Brado-KTM


Daniel Martin ha scelto la leggerezza

Daniel Martin lo dice chiaro e tondo: «In fondo, è solo una corsa di biciclette». Che non vuol dire sminuire un lavoro, che è poi il suo lavoro, ma significa semplicemente portarlo alla dimensione che realmente occupa nella sua vita, per scelta consapevole e, grazie a questo ridimensionamento, forse, dargli ancora di più. Non tanto a livello quantitativo, quanto a livello qualitativo perché ciò che si mette in quel lavoro, a quel punto e solo a quel punto, è sgombro da inutili timori e da futili pretese, è più leggero e più leggeri si pedala meglio. «In certe occasioni resto davvero senza parole: per esempio, quando c’è una fuga in corso e tutti in gruppo si muovono. Per riprendere la fuga? No, neanche per sogno. Per difendere un piazzamento. Stiamo correndo in bicicletta, cosa abbiamo da perdere? Proviamo a vincerle queste gare invece di accontentarci di non perderle troppo vistosamente».

In fondo, Daniel Martin è ”umano, troppo umano”, come avrebbe detto Friedrich Nietzsche, e già questo potrebbe non essere scontato tra le varie circostanze di vita che, piano piano, risucchiano quell’umanità. Ancor meno scontata è la forza che Daniel Martin profonde per difendere quel suo istinto di umanità, per aggrapparvisi come ad un ramo affacciato su un precipizio. Tante piccole scelte, tutte importanti in questo senso. Scelte che hanno a che fare, in primis, con le distanze, impossibili da misurare o da contare per un ciclista. Ma, se è vero, che alcune distanze sono imposte dal lavoro, è altrettanto vero che, per altre, si può scegliere. Un esempio calzante sono i ritiri: se può restare a casa ad allenarsi Daniel Martin è più sereno, il tempo con la compagna e le due figlie, gemelle, lo fa stare bene. Allora si chiede: perché rinunciarci?

Martin non trova un perché che abbia davvero un senso e a quel tempo non intende rinunciare. Come non ha voluto rinunciare a vedere nascere le due gemelline, nonostante fosse in corsa, alla Vuelta. Avrà pensato: «Ma scherziamo? Quante volte potrà mai ripetersi questo momento nella vita di un uomo? Al diavolo la corsa. Torno a casa». Un aereo e via. Non c’è niente da fare, Daniel Martin è così. Si potrebbe ricercare il seme di questa essenza nei primi anni di vita, in quella bicicletta regalata a Natale e rinchiusa in uno sgabuzzino solo qualche giorno dopo, nonostante in famiglia il ciclismo fosse cosa importante: Neil Martin, suo papà, è un ex professionista ma c’è di più. E non poco di più, perché lo zio di Daniel Martin è Stephen Roche vincitore del Giro d’Italia, del Tour de France e del Campionato Mondiale su strada nel 1987. Può voler dire tanto ma può anche non significare nulla: molte volte è proprio quello che respiri in famiglia che vuoi fuggire. Non la sostanza, magari, ma il modo di approcciarsi a quella scelta di vita. Forse Daniel, vedendo gli allenamenti dello zio, dapprima ha pensato che quella scelta non faceva per lui, poi si è ricreduto e ha capito che non era la scelta il problema ma il modo di affrontarla. Forse a lui di essere un altro Stephen Roche non interessava neppure. O magari, più semplicemente e senza troppi ragionamenti, Daniel Martin è sempre stato così e nel ciclismo non ha portato altro se non il suo modo di vedere il mondo. Lo dicevamo prima, la leggerezza salva. Da cosa? Ad esempio dal doping.

Già, perché poi, si dica quel che si vuole, molte volte l’atleta che fa uso di doping, pratica scorretta e da condannare senza se e senza ma, ci mancherebbe, non è il mostro ritratto dai giornali e sbattuto in prima pagina, giusto per qualche copia venduta in più, soprattutto se il nome è importante e fa più gola ai lettori. Certe volte chi casca nel gorgo del doping è qualcuno di troppo fragile per resistere alle pressioni o alla paura del fallimento. Qualcuno troppo fragile per «stare bene lo stesso». Daniel Martin ha le idee chiare: «Non ho problemi a parlare di certe sostanze e ho ancora meno problemi a dire con chiarezza che non le assumerò mai. Per un motivo molto semplice: non ho bisogno di vincere per stare bene, io sto comunque bene». Parla di se stesso e dei colleghi e sgombra il campo da dubbi e polemiche: «Se pensi che il tuo avversario non sia onesto, è inutile che corri. Non è un ragionamento da fare».

Martin, nato a Birmingham il 20 agosto del 1986, corre a trentaquattro anni come correva per gioco da ragazzino. Se il ciclismo diventasse qualcosa di diverso da quello che per lui è, non gli piacerebbe più e lo manderebbe a quel paese senza troppi scrupoli, come quella volta in Spagna. Questo lo rende più vero, come tutto quello che piace a lui e come tutte le sue scelte che possono chiamarsi così proprio perché prese a briglie sciolte, ascoltando una coscienza ancestrale. Questo significa trovare molto e perdere altrettanto. Significa vincere un Giro di Lombardia, una Liegi Bastogne Liegi, due tappe alla Vuelta a Espana e due tappe al Tour de France. Ma vuol dire anche franare a terra e vedersi sfuggire ciò che con la pura razionalità, forse, avresti da tempo nel tuo palmares. Sarebbe bastato fare diversamente. Fare diversamente, però, avrebbe anche voluto dire avere qualche fardello in più da portare sulle spalle e qualche sacrificio a cui rispondere sì meno volentieri. Perché solo ciò che afferri con leggerezza può essere pesante e non pesare. Spesso non è il peso dell’oggetto ma il tuo mentre lo sollevi, a essere un problema. Per questo la leggerezza, al modo di chi «plana sulle cose e non ha macigni sul cuore», di Daniel Martin è la sua più grande bellezza.

Foto: Claudio Bergamaschi


Felice come Michael Matthews

Bling è Michael Matthews. Ma non è possibile spiegare pienamente cosa significa Bling, e di conseguenza raccontare Michael Matthews, senza andare con la mente ad una circostanza abbastanza frequente. Spesso è ciò che non ti aspetti a traghettarti in quella che poi sarà la tua dimensione. Nella vita questa è esperienza comune, lo si scopre ben presto. La scoperta, però, non finisce qui. Succede infatti che, proprio quando ti imbatti in quello che non ti aspettavi e percepisci che, in fondo, tu appartieni da sempre a questo qualcosa, ti volti indietro e, con un pizzico di lungimiranza o se volete di interpretazione, capisci che molte delle cose, che per il buon senso comune o per la logica della società in cui vivi sono da rimediare o da aggiustare, sono le uniche ad averti portato lì, dove sei felice. Bastava incanalarle, bastava indirizzarle. Michael Matthews lo ha dichiarato più volte: «Sono felice, davvero. Per questo sorrido sempre. La mia ricetta consiste nel godermi la vita. A più non posso». Tutto facile, no? No, per niente, perché per essere felici serve capire, senza comprensione non può esserci felicità. Senza comprensione può esserci solo inconsapevolezza. Ci si può sentire leggeri nella felicità, come nell’inconsapevolezza, ma non si tratta dello stesso sentimento.

«A Canberra, da ragazzino, ero considerato un “diverso”. Il mio soprannome viene da lì, Bling significa sgargiante, vistoso, appariscente». Si sa, i ragazzi, soprattutto nel periodo dell’adolescenza subiscono una forte spinta verso l’omologazione, necessaria per sentirsi parte di un gruppo o per conformarsi ad un modello. Si tratta di un modo come un altro per crescere sentendosi sicuri. Alcuni ragazzi condividono realmente l’approccio della maggior parte dei loro coetanei, altri no, ma si adeguano per non rimanere esclusi. La variante è rappresentata da coloro che non hanno alcuna paura di restare esclusi, anzi, non si riconoscono in alcuni aspetti della società in cui vivono e agiscono di conseguenza, per reale disapprovazione o per un istinto di protesta verso il sistema, più che mai sviluppato a quell’età: Matthews è stato uno di questi. «Un esempio? Tutti frequentavano scuole private, io frequentavo una scuola pubblica. Ma anche per l’atteggiamento o il modo di vestire non somigliavo agli altri ragazzi». Bling è un ribelle, frequenta quelle che si potrebbero definire cattive compagnie, finché un giorno la sua insegnante legge in aula un appello su un giornale: «Se nelle vostre classi sono presenti ragazzi di particolare talento in qualche disciplina sportiva, vi segnaliamo questo programma nazionale». Matthews è uno di quei ragazzi con uno spiccato talento, proprio lui che da bambino praticava motocross e che in città girava sempre in bmx.

Bling inizia così a correre, non senza qualche difficoltà. Si dice che all’inizio non avesse rivelato a nessuno dei suoi amici questa sua nuova passione. Probabilmente temeva il giudizio, la disapprovazione da parte della sua compagnia di amici un po’ ribelli. Ma Michael è sicuro delle proprie capacità, ora come allora ma in quel momento essere sicuri non era così facile: «La verità? Molti erano più forti di me. Ho faticato molto all’inizio». La sua è una famiglia umile, ma molto unita: Alan, suo papà, è macellaio, Dona, sua mamma, ha un negozio da parrucchiera. Poi ci sono Claire, la sorella maggiore, e Ben, il fratello minore. Michael proviene da un mondo che ha poco a che fare con lo sport, quella bicicletta, però, lo sta facendo “diventare”. Un verbo che fa paura diventare, Daniel Pennac lo diceva. Fa paura perché si svolge nel futuro, fa ancora più paura in certe situazioni, quando il tuo “diventare” sembra così a rischio perché il tuo presente è un poco sgangherato. Quanti di noi da ragazzi si sono proiettati avanti col pensiero e, magari, si sono chiesti: «Riuscirò a essere quello che voglio essere? Potrò esserlo?». E per qualcuno l’ostacolo era la lontananza, per altri il carattere, per altri la paura e via così. Per Matthews l’ostacolo poteva essere proprio quel suo modo di essere e di fare.

Per questo la felicità di oggi di Michael Matthews è una felicità che ha basi solide. Non è una felicità superficiale, non è una felicità inconsapevole. Bling ha capito: «In fondo, di quei ragazzi sono stato l’unico a passare professionista». Matthews che si è ribellato alla normalità, Matthews che si è ribellato anche allo stesso istinto di ribellione ed è “diventato”. Ha vinto tappe al Giro, al Tour, alla Vuelta, e un titolo iridato da Under 23. Ma soprattutto ha scelto la propria strada e, ciò che voleva gridare al mondo, lo ha gridato così. Perché basta dare un senso alle cose e la maggior parte delle cose ha un senso, da trovare magari sgomitando, trovando varchi e traiettorie insondabili, come in volata, in quello sferragliare di pedali. Si può essere appariscenti, si può essere diversi, si deve, forse, essere diversi: spesso è solo qualcosa che sta spingendo dentro per indicarti la rotta verso casa tua. Qualcosa da ascoltare e da guidare. Ben, suo fratello minore, se lo sarà sentito dire da Michael. Già, Bling qualche anno fa lo ha detto, in un’intervista: «Ben è molto bravo in qualsiasi sport scelga di praticare. Deve solo trovare la sua strada ma la troverà presto». Sì, perché, alla fine, quando hai capito dove cercarla, la felicità è solo questione di tempo.

Foto: Claudio Bergamaschi


Un tandem per due

«Daniele, perché non proviamo a correre il Giro delle Fiandre? Quello vero, intendo». Graziano Gallusi si è rivolto così a Daniele Riccardo al termine della Varese Van Vlaanderen, randonnée che si svolge su e giù per le strade di Varese. Daniele è rimasto stupito: «Il Giro delle Fiandre? Ma sai cosa significa correre il Fiandre?». Graziano sapeva bene cos’è il Fiandre ma di questo vi parliamo fra poco. Prima vogliamo raccontarvi di due ragazzi che si incontrano a una gara di tandem, in Veneto, e per caso si mettono a parlare. Quei due ragazzi sono proprio Daniele Riccardo e Graziano Gallusi. «Te lo confesso: all’inizio non avevo nemmeno capito che Graziano fosse non vedente. Ci siamo messi a parlare, per caso. In quell’occasione gareggiavamo con due compagni diversi». La sintonia fra i due è chiara da subito e proprio da lì nasce quella promessa: «Magari un domani ci incontreremo e faremo qualcosa assieme. Nella vita non si sa mai, no?». Sì, quelle cose che spesso si dicono così per dire. Non fosse che Daniele, ogni tanto, va a trovare Graziano a Parma ed entrambi vanno sul lago di Garda: «Era una scusa buona per allenarsi con una temperatura mite. In realtà avevo provato più volte a lanciare l’idea di correre qualche gara ma Graziano non voleva proprio saperne. La Varese Van Vlaanderen è stata quasi un caso». Daniele dice a Graziano che ogni tanto bisogna buttarsi, che se non si prova a fare qualcosa non si potrà mai sapere se si è effettivamente capaci oppure no, che, per una volta, sarebbe il caso di provare. Graziano accetta e quella mattina sono entrambi a Varese, alla partenza della gara.

A Varese piove, anzi, diluvia. Serpeggia il malumore, molti non vorrebbero partire. «Ho guardato Graziano poi ho guardato tutti i partecipanti che mi erano vicini: ”Ragazzi, lo vedete? Lui non vi vede ma è qui per correre. Lui vuole correre, ha aspettato tanto questo giorno e non gliene frega nulla della pioggia, poca o tanta. Vuole partire. Io parto, voi fate come credete». C’è un profondo senso di responsabilità in ogni parola che Daniele dedica a Graziano, un senso di responsabilità declinato nel segno della normalità. «Io e Graziano ci prendiamo in giro, ridiamo molto e, nonostante la distanza, riusciamo a vivere la condivisione. Credo il segreto sia proprio quella normalità: bisogna essere capaci di alleggerire determinate circostanze dell’esistenza. Non cambierà comunque la sostanza ma cambierà il nostro modo di approcciarci ad essa». Daniele Riccardo è fiero: «Potrei anche correre da solo, certo, ma non sarebbe lo stesso. Quando finisci una Milano-Sanremo sei contentissimo, pensa a quando finisci una Milano-Sanremo e voltandoti guardi il tuo compagno di tandem e lo vedi contento. Lui, senza qualcuno che lo aiutasse, non avrebbe potuto essere lì. Non avrebbe potuto essere così felice. Sei stato tu a portarlo lì, è anche grazie a te se quel ragazzo può essere così contento. Ci si porta assieme da Milano a Sanremo. A me fa già venire la pelle d’oca dirlo. Devi provare, poi potrai capire cosa si sente». Graziano è determinato: «Lui è pienamente autosufficiente. Se tu gli dai un appuntamento da qualche parte, lontano da casa, stai certo che te lo ritrovi al luogo dell’appuntamento nel giorno fissato. Puoi giurarci».

Dicevamo del Fiandre, già, perché Daniele e Graziano vogliono correre il Fiandre nella categoria amatori, la prossima stagione. Daniele, la domenica del Fiandre, accende la televisione ovunque si trovi. «Sono stato a vederlo di persona in uno degli anni in cui ha vinto Tom Boonen: ho i brividi a ripensarci».
Anche Graziano quella domenica ha la televisione accesa, non può vederla ma sente tutto e, quando parla con Daniele, propone la sua idea tattica della corsa. L’altra idea, quella del Fiandre, invece ha iniziato a concretizzarsi un paio di anni fa: «Dopo la proposta di Graziano, quel giorno a Varese, ci ho pensato bene. Ho trovato dei ragazzi che organizzavano e si muovevano assieme in pullman, per il viaggio. Qualcosa che si collega molto bene all’idea di amicizia che mi piace sentire nel ciclismo. Quest’anno non se ne è fatto nulla a causa della pandemia, ci è spiaciuto ma frastornati dagli eventi, forse, non ce ne siamo nemmeno resi pienamente conto. L’anno prossimo vogliamo esserci. Ce lo immaginiamo tutti i giorni quel momento. Ne parliamo sempre. La nostra fantasia va oltre: vorremmo correre tutte e cinque le classiche monumento. Io dico che ce la faremo». Daniele Riccardo viene dal mondo della pista e, fino al 2007, non aveva nemmeno idea di come si manovrasse un tandem. «Mi hanno visto gareggiare e mi hanno proposto di provare. Su queste cose vado molto di istinto. Per me guidare il tandem è stato subito come guidare una bicicletta classica. Pensa che ho iniziato a far bene e a vincere nelle gare in Italia in maniera abbastanza improvvisata. Io scattavo in faccia agli spagnoli, agli olandesi, ai campioni della disciplina. Non li conoscevo e questo mi aiutava perché non avevo alcun timore reverenziale. Rivedo come fosse ora la mia partecipazione alle gare in Belgio: là hanno una vera e propria cultura del tandem. Che fatica in quei giorni».

Daniele e Graziano assieme perché il tandem macina metro su metro grazie alla forza propulsiva di due persone. Ma soprattutto grazie alla fiducia di due persone: «Ci fidiamo l’uno dell’altro, diversamente sarebbe impossibile. Graziano non può vedere, io sono il suo sguardo. Gli segnalo le rotonde, gli ostacoli, i tratti in cui ci si può rilassare e i punti in cui bisogna spingere più forte. Lui si fida, non ha bisogno nemmeno dell’orologio: sente la mia voce e conta i secondi. Io so che lui non sbaglierà e mi fido. Abbiamo migliorato il mezzo meccanico bicicletta in vista del Fiandre. Quando corriamo, dobbiamo essere concentrati solo sulla corsa, gli inconvenienti possono capitare ma devono essere ridotti al minimo. Sulla fiducia non è servito lavorare, ci viene naturale».
Già, perché, diciamocelo, pedalare assieme è davvero una delle cose più belle che possano capitare.

Foto: Daniele Riccardo 


The Slovenian Affair

La prima puntata del nostro podcast è dedicata al ciclismo sloveno. In realtà è un’analisi ad ampio raggio per capire come sia possibile che da una nazione di due milioni di abitanti, con relativa tradizione sulle due ruote, possano essere usciti nel 2020 il corridore numero uno e due nella classifica mondiale.
Di seguito il testo completo di ‘The Slovenian affair’.

Testo: Alessandro Autieri
Con il prezioso contributo di Sergio Tavcar.

Si dice che il boato che accompagna una giocata di Luka Dončić all’interno dell’American Airlines Center di Dallas si possa sentire lungo le pareti del Triglav. Come una scossa di terremoto che smuove le passioni, scende dal Monte Tricorno, passa per i laghi di Bled e Bohinj, specchi d’acqua misteriosi e incontaminati, per arrivare fino alle vie di Lubiana.

La Ljubljanica è il fiume che bagna la capitale slovena, e l’eco che arriva dai palazzetti dell’NBA si amplifica lungo il suo cammino, vibra, arrivando fino a quelle botteghe artigiane sempre in fermento, tra le bancherelle del mercato centrale, nelle splendide strade cittadine che fioriscono in mezzo all’architettura classica ma allo stesso tempo all’avanguardia creata da Jože Plečnik, artista capace di dare un tocco di genio visionario a un capoluogo con tratti più mitteleuropei che balcanici.

Lubiana, oggi, è una città aperta, più viva che mai, ricca di influenze ma dalla forte identità e che trasuda l’operosità e l’eleganza slovena e la sua voglia di farsi conoscere nel mondo.

Un numero fatto col pallone a spicchi da Goran Dragić, in maglia Miami Heat, echeggia negli occhi di un ragazzo appollaiato davanti alla televisione.
Quello stesso ragazzo che sogna nel campetto sotto casa, mentre imita i movimenti dei suoi idoli, asciugandosi il sudore che scende dalla fronte e bagna la canotta da basket della nazionale slovena, squadra tutt’ora campione europea in carica dopo il titolo conquistato in Turchia nel 2017.
Sempre quel ragazzo, o forse uno qualsiasi dei suoi coetanei, si esalta facendo pratica con i tiri da tre in quel centro polifunzionale all’avanguardia sia dal punto di vista architettonico che delle sue funzionalità e che sorge subito fuori Lubiana.

Un luogo che permette di unire l’estro slavo alla disciplina e al duro lavoro che caratterizza da secoli il DNA di questo popolo. Completato nel 2010, l’impianto è una delle tante tessere di un puzzle di segreti, mosse indovinate, semplice divenire delle cose, che rendono grande la Slovenia sportiva.

Pare che una giocata di Ilicic, stavolta con il pallone tra i piedi, provochi godimento. Estasi. Quella palla te la nasconde, lui, figlio di una tradizione slava che col pallone ha sempre mostrato di avere una marcia in più.

Slavi, uomini che hanno preferito dilettarsi nei giochi di squadra e in particolare con sfere di ogni peso e dimensione: calcio, pallacanestro, pallavolo, pallamano e pallanuoto.
Dentro di loro, si fa strada una linfa definita nadmudriti, un atteggiamento all’apparenza denigratorio che letteralmente significa irridere l’avversario, come scriveva Sergio Tavčar nel suo libro sul basket jugoslavo.
E così Ilicic prova a scacciare i pensieri negativi con quel suo sinistro che pare irreale, con una veronica, una punizione intrisa di magico realismo che si infila nel sette. A volte c’è riuscito, altre è piombato nel male oscuro della depressione che lui ha provato a mandare via attraverso lo sport – c’è riuscito, almeno in parte, o almeno così vogliono le maledette apparenze.

Eccoli i pensieri negativi!
Come quelli che girano nella testa di un ragazzo che guarda ammirato l’imponente struttura di Planizza che ospiterà nel 2023 i mondiali di sci nordico.

Quel ragazzo si prepara, sci ai piedi, a lanciarsi da un trampolino che solo a misurarlo vengono le vertigini. È un trampolino e quindi un’opportunità. E lì non puoi avere pensieri negativi, né vertigini. Perché se guardi giù, da quella striscia in pendenza ricoperta dal ghiaccio, puoi solo avere la convinzione di essere il migliore. Magari non il migliore tra tutti gli uomini, o per meglio dire, tra tutti i ragazzi, ma il migliore contro la natura, come quando la carne sfida il vento che fende schiaffi.
Ti batti contro di lei prima ancora che contro te stesso. Ora puoi solo fidarti, farti cullare e ipnotizzare dal senso delle lamine che impongono forza e attrito su quella neve mista ghiaccio che fa un rumore che sembra polistirolo sgranocchiato.

Primož Roglič è quel ragazzo o forse è solo emblema di una generazione di sportivi che arrivano dalla Slovenia per dominare il mondo nei rispettivi sport.
Primož Roglič i pensieri negativi li ha scacciati e li ha schiacciati.
Non come un cestista di tradizione slava, ma come uno sciatore di tradizione slovena che sfrutta l’impeto e lo slancio della multidisciplinarietà, per diventare, nel giro di qualche anno, il ciclista numero uno al mondo.
Multidisciplinarietà: un’altra chiave del successo, un’altra tessera del puzzle – tenetelo a mente.
Primož Roglič ha mandato via le nubi nere che si addensavano davanti ai suoi occhi e che provavano a tempestare il suo cammino. Lo ha fatto più di una volta quando sciava. O meglio, quando balzava in alto, apparentemente nel vuoto, con gli sci.
Ha iniziato così. Ha fatto pratica così. Come fanno tutti da quelle parti.

Perché se lo sci ha la sua importanza vitale, il Salto con gli Sci è una specie di rito di iniziazione.

Tra le Alpi Giulie ogni impianto ha il suo trampolino. Ogni ragazzo parte così. È una sfida, quasi un modo di essere. È radicato, diventa la base di ogni sport.
In passato, quando esisteva la Jugoslavia, nelle scuole era d’obbligo partecipare alla settimana bianca. Ora le abitudini sono cambiate, è vero, recentemente, alcuni test fisici e attitudinali che hanno fatto sui ragazzi sloveni a scuola, dimostrano come i giovani non sanno più arrampicarsi, non hanno sviluppato il sistema muscolare delle spalle e della schiena.
Cresce lo standard, la gente si imborghesisce: d’altra parte con la fine della Jugoslavia la nazione è emersa in fretta, più delle sue ex sorellastre e hanno iniziato a girare soldi e affari: ci sono aspetti negativi figli di quest’epoca e che spesso vanno di pari passo con quelli positivi.
Ma nonostante qualche cenno avverso, questo è il momento dello sport sloveno in cima al mondo.
Gira denaro e lo si sfrutta bene, e lo sport è spesso cartina tornasole dello stato di salute di una nazione: in Friuli tra i primi dieci migliori clienti nel settore turismo, quattro sono sci club sloveni.

A Portorose, paese sul mare di quasi tremila abitanti: gran parte di loro è iscritta a uno sci club.
Nello sloveno scorre ghiaccio nelle vene. Piste da sci si fanno spazio tra le arterie; paletti, trampolini, anelli, poligoni sono cellule e atomi. È una lunga tradizione che li accompagna.

«State zitti, voi, che siete un popolo di sciatori».
Per decenni gli sloveni venivano derisi così dagli altri popoli della ex Jugoslavia.

E così, Primož Roglič inizia, come fan tutti.
Arriva da un piccolo borgo vicino a Kisovec, tra Troblje e Krastnik, zona di miniere di carbone, e nel suo sangue scorre l’etica del lavoro.
Ha tredici anni. Non c’è alcuna derisione per quello che fa, né lui accampa mai scuse né alibi che diverranno tratti distintivi che lo porteranno al vertice del ciclismo mondiale.
In questo momento della storia ha solo un paio di sci larghi e piatti ai piedi. Una tuta che richiede una ricerca spasmodica dell’aerodinamica. Ci sono investimenti importanti, test nelle gallerie del vento come fossero automobili.
È sempre l’uomo contro il vento anche se viene soffiato da macchine costruite per l’occasione.

Roglič con gli sci ai piedi sapeva vincere! Poi un giorno cadde. Ed eccoli i cattivi pensieri.
Siamo a Planìzza, si diceva. Test di allenamento per le gare di volo con gli sci che dovete immaginarvela come una versione ancora più estrema di uno sport già estremo di suo.

Siamo in mezzo alle Alpi Giulie al confine con l’Italia, in una terra verde, ma così verde che quel colore è anche simbolo nazionale e si calcola come circa il sessanta percento dell’intero territorio sloveno sia ricoperto di boschi. Lubiana stessa è stata insignita nel 2016 del titolo di “capitale verde d’Europa”.

Quasi metà del territorio sloveno è considerato protetto, sono circa quindicimila i siti con lo status di luogo di interesse naturalistico e il centro storico di Lubiana è interamente pedonale. Un posto verde dove ovunque ti giri trovi parchi, montagne a delimitarne la cornice, fiumi, laghi.
Una varietà di territorio che sorprende e colpisce considerando una superficie grande più o meno come una regione italiana e la bandiera che sventola non mente: in mezzo al tricolore sloveno c’è disegnato il Triglav.
Anche così gli sloveni fanno conoscere il loro rispetto per la natura, e si preparano tutti i giorni per essere al vertice dello sport. Qualunque sia!

E le tute degli appartenenti alle nazionali dei vari sport?
Fateci caso: sono verdi, come questa terra, e bianche, come la neve. E proprio su quella neve Primož Roglič finisce per sbatterci sopra con violenza. È un salto andato male, capita purtroppo.
Capita che nel momento esatto in cui ti lasci alle spalle il trampolino, puoi sbagliare il timing nella fase di stacco, puoi prendere una folata e ti scomponi in volo, quei gesti ripetuti a memoria vanno a farsi benedire, ti sbilanci e finisci a terra.
Capita che mentre sei in alto puoi ritrovarti ancora a vedere la città sullo sfondo, l’orizzonte, un tramonto di settembre con i suoi colori sfumati dal blu al rosso, poi chiudi gli occhi e ti ritrovi a terra.
È un attimo. Sbatte la testa, Roglič, sviene e viene trasportato d’urgenza in ospedale: contusioni multiple ma nessuna frattura. Riprenderà a saltare, vincerà persino un titolo mondiale tra gli juniores e crescerà fino a gareggiare in Coppa del Mondo.

Ma Roglič ha il fuoco dentro.
Non vuole essere uno dei tanti, è arguto, vuole essere il migliore, e capisce che nel salto con gli sci non ci riuscirà.

In Slovenia, la scuola pone un accento fondamentale all’educazione sportiva. Questo è un richiamo di quello che è sempre stato alla base in Yugoslavia dove lo sport vive al centro di tutto.
Si gioca a palla principalmente, “uno sport logico per gente intelligente” scrive sempre Tavčar nel suo libro. Ma quando ci si sposta dal mare e ci si avvicina alle montagne, lasciandosi dietro l’eco di un pallone che rimbalza tra palestre e campi sportivi, oltre allo sci si scopre la bicicletta.

La bici in Slovenia ha sempre avuto una certa funzione sia dal punto di vista agonistico che sociale.
Per dire: le proteste contro il governo in Slovenia le facevano, fino all’avvento del maledetto Covid, ogni venerdì, con una grande parata ciclistica in centro città.

Se giri per Lubiana trovi di continuo persone in bicicletta: la capitale slovena è attraversata da un anello verde di ben trentaquattro chilometri da percorrere in bici: il “Sentiero della rimembranza e della fratellanza”, lungo il quale sorgono più di settemila alberi.

E Il ciclismo? Come tutti gli sport di fatica è radicato nel “Na sončni strani Alp”, ovvero il “versante soleggiato delle Alpi” come recitava lo slogan di promozione turistica della Slovenia.
Il ciclismo, sport di fatica, di polmoni, di muscoli tirati fino a mettere continuamente sotto stress ogni fibra, si addice a una società che è sempre stata sotto il dominio altrui.
Il ciclismo è costante nella pratica quotidiana e questo si riflette poi nello sport. In Slovenia si è sempre pedalato. Certo, prima c’era la cortina di ferro e non era possibile esportare talenti, ma basti pensare ai pionieri come Agustin Prosenik, nato a Obrezje, un tempo parte dell’impero austro-ungarico, oggi Slovenia.
Prosenik vinse la primissima edizione della Course de la Paix, gara che fino agli anni 2000 è stata un punto di riferimento per il mondo dilettantistico e vinta nella sua penultima edizione da Michele Scarponi.
Eravamo negli anni in mezzo ai due conflitti mondiali e Prosenik aveva un grande rivale: Janez Peternel. Quest’ultimo proveniva dalla Alta Carniola –  zona di montagna da dove arrivano molti dei corridori sloveni conosciuti oggi. Peternel era considerato il più forte ciclista jugoslavo della sua epoca, ma la sua carriera fu pesantemente condizionata dal conflitto mondiale.

Durante la seconda guerra mondiale, Peternel combatterà di fianco ai partigiani, ma fu catturato, deportato e imprigionato nel campo di concentramento di Gonars, in provincia di Udine, un posto dove si andavano a infrangere i sogni, la vita, le speranze e realizzato nel 1941 dal regime fascista.
Al suo interno venivano internati tutti i civili rastrellati nei territori occupati dall’esercito italiano in Jugoslavia. Peternel riuscì a scappare ma lo aspettavano i fucili che gli vomitarono la morte addosso.
Aveva solo 30 anni.

Da Prosenik a Peternel, passando per Valjavec, Hauptmann, Hvastija, Murn, Stàngelj e Klemencic, fino a Roglič e Pogačar. Da una corsa per dilettanti, passando per buoni risultati al Giro e al Tour fino alla cima del mondo del ciclismo. Primož Roglič non trova il ciclismo per caso, forse più per un incidente di percorso.

Dopo quella caduta scopre che andare in bici gli piace. Qualche anno più tardi inizia a pedalare come cicloamatore. Partecipa a diverse Gran Fondo, ma mentre lui arrivava al traguardo, gli altri erano ancora a metà percorso, ci racconta Sergio Tavcar.
L’Adria Mobil, storica squadra Professional di Novo Mesto, venne a conoscenza dei prodigi di questo ragazzo che non era nemmeno dilettante. Lo chiamano per farlo correre per loro e gli fanno fare tutti i vari test; rapporto peso potenza, capacità polmonare: tutto il necessario per capire la struttura e le risposte fisiche del ragazzo. Dopo quei test contattano Martin Hvastija il commissario tecnico della nazionale slovena di ciclismo su strada. «Tu cerchi qualcuno per la nazionale. Vero? Ti mandiamo un cicloamatore». Sembra uno scherzo telefonico. «Mi state prendendo in giro?” Risponde il ct. «Un cicloamatore per correre con la nazionale?» Una volta visti i risultati dei test, cambia repentinamente idea. «Una roba simile noi non l’abbiamo mai vista», afferma sgranando gli occhi e a bocca spalancata.

Non c’è un vero segreto perché la Slovenia sia in cima al mondo, quanto un insieme di tasselli al posto giusto nel momento giusto. È disciplina, è fame di vittoria e senso del dovere, è tradizione, sono soldi ben investiti, è cultura sportiva e del lavoro: ma trovarsi con due fuoriclasse come Roglič e Pogačar, nati a nove anni di distanza l’uno dall’altro, è anche fortuna. Perché i corridori buoni ci sono sempre stati e sempre ci saranno: ma i campioni non si possono programmare.

Sono congiunzioni astrali, non è solo frutto di quello che si impara a scuola, o dell’importanza che viene data allo sport e alle ore di educazione fisica. Fino a qualche anno fa nelle scuole slovene c’erano cinque ore obbligatorie a settimana di educazione fisica, ora sono diventate tre. Uno dei vantaggi della struttura scolastica slovena è quella di avere il corso delle scuole primarie frequentata da ragazzi che vanno dai sette ai quindici anni di età. Questo significa meno scuole, ma strutture di qualità. Sono scuole dotate tutte di una palestra polifunzionale nelle quali si pratica sport nel vero senso della parola.

Molti paesi, in Slovenia, all’interno della propria palestra scolastica, vedono giocare le proprie squadre anche di livello professionistico: pallamano, pallavolo, basket. Lo standard è alto. Ci sono tribune, c’è una preparazione altissima: il sistema delle infrastrutture è radicato sin dai tempi della Jugoslavia e ha trovato nella crescita slovena un terreno florido nel quale affondare le mani ed estrarre talento e successo. Lo sport fa parte della loro cultura, del loro DNA. E i professori di ginnastica sono qualificati e fanno svolgere attività fisica vera e propria che sta alla base di tutti i successi sportivi che gli sloveni hanno ottenuto fino a oggi. Non basta? Lo sloveno è popolo di contadini, di minatori, di grandi lavoratori, si è sempre spaccato la schiena: la sofferenza è scritta nei geni e quando loro praticano lo sport non hanno problemi a soffrire.

Un segnale per capire quello che è lo sloveno è il fatto stesso che oltre agli sport più conosciuti, in Slovenia c’è una grande tradizione di ultra maratoneti che si dilettano a fare gare da costa a costa in America, o gare a piedi che durano ventiquattro ore. In Slovenia tutti vanno matti per il Triathlon, per l’Iron Man: c’è sempre stata questa tendenza a soffrire quando si fa sport.
Lo sloveno soffre e ama soffrire. E Pogačar soffre in bicicletta e fa soffrire gli avversari.

A ventidue anni vince il Tour, secondo corridore più giovane della storia a conquistare uno degli eventi sportivi più importanti e conosciuti del pianeta. Lo fa ribaltando quel suo fratello maggiore in gruppo, Primož Roglič, lasciandolo affondare tra i fantasmi, lungo le rampe che portavano i corridori a La Planches de Belles Filles, il penultimo giorno del Tour. Ed è una storia di fratelli quella che caratterizza Pogačar.
Arriva da una famiglia numerosa tutta casa e chiesa in un posto vicino Kranj, chiamato Komenda.
Un villaggio di poco più di cinquemila abitanti.

Dovete sapere come in Slovenia, in tutte le scuole, le varie società dei più svariati sport fanno dei test per vedere se qualcuno degli studenti potrebbe intraprendere la loro disciplina.

Un giorno andarono nella scuola frequentata da (Pogàciar) Pogačar, a Lubiana, gli emissari della Rog-Lubliana, l’altra storica squadra di club di livello internazionale e dove Rog non è altro che il marchio delle biciclette in voga già ai tempi della Jugoslavia. Trovarono questo ragazzo molto dotato, ma non era Tadej, era Tilen Pogačiar. Il fratello grande – “Ta vel’ki Poghi”. «Ci sembri adatto al ciclismo, vuoi venire?». «Certo, però guardate. Io vi darei un consiglio, se prendete me, prendete anche il mio fratellino. Mi batte sempre quando corriamo in bicicletta». Si unì anche “il piccolo Tadej” – “Ta Mau Poghi”, come lo chiamano tutti ancora oggi tanto che è pure il suo hashtag nei profili Social.
Vuol dire “il piccolo” e quel piccolo iniziò a gareggiare, a bruciare le tappe: bastano pochi anni per vincere il Tour de France. Pogačiar è stato anche campione sloveno di ciclocross e d’inverno pratica sci di fondo: cosa abbiamo detto? Multidisciplianerietà, un termine che a qualcuno spesso ancora non va giù. Sergio Tavcar definisce Pogačar “l’ultimo prototipo dello sloveno 3.0. Quelli che da eterni piagnoni perdenti sono diventati vincenti nati”.

La Slovenia ha poco più di due milioni di abitanti, ma negli anni è stata, e continua a essere, fucina di grandi interpreti dello sport mondiale: Maze, StuheZ e KranjeZ nello Sci Alpino, Lampich nel Fondo, Prevc nel Salto con gli Sci, Dragic e Doncic nel basket, Ilicic, Handanovic e Oblak nel calcio.
Nella pallamano sono stati bronzo mondiale nel 2017, nella pallavolo due volte consecutivamente vice campioni d’Europa nelle ultime due edizioni. Hanno preso parte alle ultime due olimpiadi nell’Hockey su Ghiaccio, Ianja Garnbret a 17 anni ha iniziato a dominare la Coppa del Mondo di arrampicata sportiva, vanno forti nel kayak e nella canoa. Nel 2016, 2019 e nel 2020 conquistano i titoli mondiali nella classe regina del motocross con Tim Gajser, fenomeno della specialità, uno che ha inchiodato Tony Cairoli, impedendogli di vincere il tanto agognato decimo titolo. Gajser è un eroe che emerge da un’incredibile tragedia familiare. Suo padre Bogomir correva nel motocross e si portava in giro alle manifestazioni suo figlio Zan. Il padre correva e quel figlio scorrazzava spesso a bordo pista. Non era incoscienza era attrattiva, era sangue, è sempre quel DNA che torna e fa capolino nelle storie di sport, di arte e mestiere e che si tramanda di generazione in generazione. Bogomir spicca il volo con la sua Honda e quando atterra, atterra addosso al suo ragazzo che si era gettato in pista. Il bambino muore. «Sono tornato a correre nel motocross poco dopo. Mi dicevano che ero un mostro, un pazzo. Ma cosa avrei dovuto fare? Arrendermi? Uccidermi? Ubriacarmi? Quando ho iniziato a fare questo sport non avevo soldi. Mia madre vendeva uova e latte. Vidi una gara di motocross e iniziai a sognare motociclette». Oggi Bogomir è manager, allenatore, psicologo dell’altro figlio, Tim, che esalta la Slovenia in motocross. Salta con la moto, invece che con gli sci, ma l’adrenalina e la velocità è simile solo che al posto dell’odore della neve c’è la puzza di benzina. «Prima di salire in moto ho fatto judo e e altri sport. E tutto quello che ho imparato lo trasmetto a mio figlio in modo che sia sempre preparato fisicamente».

Nel 2019 la Slovenia ha vinto la Vuelta con Roglič, terzo è arrivato Pogačiar al suo esordio assoluto in un Grande Giro. Nel 2020 Roglič e Pogačar chiudono il ranking mondiale individuale al primo e secondo posto e la Slovenia si piazza alle spalle della sola Francia in quello per nazioni.
In due hanno vinto Tour, Vuelta e Liegi Bastogne Liegi.

L’ultima volta che all’Italia successe una cosa simile era il 1998 con la doppietta Giro-Tour di Pantani e la vittoria alla Liegi di Bartoli.

Nella classica belga, sul rettilineo finale, dietro una transenna sventola profeticamente una bandiera slovena e tra i cinque a giocarsi il successo ci sono proprio tre sloveni. Vince Roglič, terzo Pogačar, quarto è Mohoric. Mohoric è stato il primo e fin’ora unico corridore nella storia del ciclismo a conquistare il titolo mondiale juniores su strada e l’anno dopo quello tra gli Under 23. Ma Mohoric oltre a essere una speranza luminosa del ciclismo sloveno è anche uno studente modello. Al liceo, un anno, è stato tra i cento migliori allievi di tutta la Slovenia venendo anche premiato dalle massime autorità statali. Forte in bici, bravo a scuola: sloveno modello. Ha 26 anni, solo quattro più di Pogačar, sembrava l’astro nascente del suo paese e al momento viene oscurato – ma senza quei due verrebbe considerato ugualmente un autentico campione. Quale forse diventerà.

La Slovenia in questa stagione ha conquistato anche una tappa al Giro d’Italia con Ian Tratnik. Siamo a San Daniele del Friuli, città del prosciutto, è vero, ma circondata anche da meravigliose colline e da tanto di quel verde da avere affinità con la Slovenia. Tratnik arriva da Idrija, a un centinaio di chilometri da San Daniele. Idrija è un paesino di montagna dell’Alta Carniola dove ha sede la seconda miniera di mercurio più grande del mondo, ma ormai chiusa da tempo. Non solo la miniera, ma caratteristici del luogo sono anche i meravigliosi lavori ad uncinetto, e gli “žlikrofi”, cappelletti dal ripieno speciale ottimi sia con il ragù di selvaggina che in brodo. Sergio Tavcar ci racconta anche che, secondo vulgata popolare, l’acqua del fiume Idrijca, contaminata nei secoli dal mercurio, ha reso tutti i suoi abitanti notevolmente pazzerelloni, per non dire un po’ “fuori”. In campo sportivo esistono solo due sport, il basket e il ciclismo dopo che si è persa la grande tradizione sciistica che c’era prima della seconda guerra mondiale – quando Idria faceva parte dell’Italia. Idrija in Slovenia è sinonimo di manicomio, in quanto il massimo centro di cure mentali in Slovenia è proprio lì. “È bello pronto per Idrija” si dice. Tratnik, che prima di andare in bici ha iniziato col basket, è in fuga quel giorno, vuole lasciare il segno distintivo da sloveno in questo 2020, avrà pensato anche lui di unirsi a questa incredibile baraonda. Attacca a inizio tappa, prima con una ventina di corridori, poi da solo. Successivamente, nell’ombrosa quanto ripida salita che porta in cima al Monte di Ragogna, viene ripreso dall’australiano O’Connor che lo stacca. «Ho trovato la forza per vincere quando ho visto la mia ragazza che mi incitava sull’ultima salita» racconterà a fine tappa. Tratnik, in Slovenia, è detto “il fratello dell’ubriacatore di Nachbar” e la sua storia è emblematica per capire come sono fatti gli slavi. Arriva da una famiglia di sportivi, è noto per essere un burlone, un tipo scherzoso sempre pronto alla battuta. Suo fratello Igor gioca a basket a buon livello, in passato ha militato anche nella Olimpia Lubiana. Quando era giovane, durante un camp di selezione dei migliori talenti sloveni del basket, Igor viene chiamato, insieme ad altri, a sfidare nell’uno contro uno Bostjan Nachbar, stella slovena dell’NBA, con un passato tra Houston Rockets, New Jersey Nets e New Orleans Pelicans. Igor lo canzona, a tratti lo umilia con il pallone tra le mani. Da lì diventerà per tutti “l’ubriacatore di Nachbar”.”

Ora si sente di nuovo un’eco che arriva dalla strada. Si diffonde tra Pirenei e Alpi e diventa poesia.
Si fonde con il sibilo silenzioso di una catena, con quell’ impercettibile clic del cambio, con l’odore di vino e cevapcici e si confonde tra le bandiere bianco, rosso e blu dei centinaia di tifosi che hanno sfidato la pandemia e si sono riversati sulle strade del Tour e della Vuelta, nonostante tutto. Sarà magari solo un momento di passaggio, lo vedremo, ma se conta ancora quello che succede oggi, beh, la Slovenia è in cima al mondo e per qualche anno ha intenzione di restarci saldamente.


Il viaggio di Cala Cimenti

 

Gabriel Garcia Màrquez lo aveva scritto: il colonello Aureliano Buendìa si sarebbe sempre ricordato di quel lontano giorno in cui il padre lo accompagnò a scoprire il ghiaccio. “Cent’anni di solitudine” inizia proprio così, con questo ricordo. Non è un romanzo, non c’è un paese di poco più di venti case di argilla e canna selvatica come Macondo, ormai tutte le cose hanno un nome e indicare con le dita è un privilegio dei bambini, ma il nostro reale conserva retaggi di qualcosa che Màrquez sapeva bene. Cose semplici e genuine, come fare il pane, andare in bicicletta, accarezzare le foglie per sentirne la consistenza, parlare con gli animali e percorrere un sentiero di montagna sulle spalle dei giganti, che altro non sono che gli adulti. «Il valore dei viaggi – racconta Cala Cimenti – me lo ha insegnato papà, da lui ho imparato la bellezza dell’esplorazione, il significato della scoperta». Cala è un alpinista e quel nome, che in realtà sta per Carlo Alberto, è un po’ un ossimoro: la montagna attira verso l’alto, qualcosa che “cala” è qualcosa che scende. «Nel tempo questa è diventata la mia vita. C’è qualcosa di vitale nella possibilità di scoprire e poi raccontare, qualcosa che ti risveglia. Come la coscienza dei limiti e la possibilità di oltrepassarli. La nostra vita si svolge per la maggior parte del tempo in luoghi protetti, al riparo dai rischi. L’alpinismo ti porta fuori da questa dimensione: lì devi essere tu ad avere cura di te stesso, devi essere tu a valutare le condizioni esterne e ad interagire con esse. Non puoi barare. Se solo pensi di barare, corri un rischio enorme: il rischio di non tornare più. L’alpinismo è un gioco, un gioco complesso».

Ora l’alpinismo è il suo lavoro, ma da ragazzino Cimenti aveva una forte passione per il ciclismo: «I miei pomeriggi li trascorrevo sempre in bicicletta, a girare per il paese. Sono passato attraverso la disciplina della mountain bike per arrivare alla strada. Ho smesso solo perché andando avanti e diventando juniores, il ciclismo avrebbe assorbito tutto il mio tempo e non avrei più potuto studiare; però il ciclismo non ha mai smesso di piacermi». Nella vita, però, ci sono ricordi che restano lì, depositati da qualche parte ai bordi dell’anima e non importa se per molto tempo non hai nemmeno una bicicletta da corsa in casa, non importa se le circostanze ti hanno portato altrove, qualcosa resta instillato e, chissà quando, tornerà fuori. Un giorno Cala Cimenti ha un infortunio, una lacerazione di sei centimetri del polpaccio. «Un brutto infortunio, seguito da uno stop e da un periodo di recupero di più di due mesi. Parte della riabilitazione consisteva proprio nell’andare in bicicletta» .

La bicicletta è tornata, non importa come ma è tornata, tutto nasce così. La pandemia farà il resto. «Molti dei progetti che avevo sono saltati proprio a causa della pandemia, io stesso ho avuto il Covid. A casa pensavo e ripensavo. Sentivo di voler fare qualcosa, dovevo solo capire cosa». La bicicletta diventa per Cala quello che, per lui, non era mai stata: «Per me è stata la prima vera esperienza di cicloturismo. Spesso sottovalutiamo la possibilità di viaggiare con altri mezzi, mezzi diversi da quelli abituali. Pedalare ti permette di attraversare fisicamente colori, odori, suoni, natura, paesi e strade. Cambia tutto: in quei momenti vivi il contesto, ti immergi nel contesto. Non solo. Se interpreti il viaggio come l’ho interpretato io, conosci persone, usanze e modi di vivere. Conosci il senso più vero dell’ospitalità quando vieni accolto in una casa per riscaldarti o riposarti».

Cala Cimenti parte da Cuneo intorno alla metà di ottobre, il progetto è quello di attraversare l’Italia in bicicletta, tutte le ventuno regioni, fermandosi in diversi paesi e approfittandone per una attività da svolgere all’aria aperta: arrampicata, parapendio o anche una semplice camminata in montagna. C’è un carrello di quaranta chili con lui, lì dentro si trova tutta l’attrezzattura necessaria. In realtà le problematiche legate al Covid-19 obbligheranno Cala a tornare a casa prima del tempo, dopo che dalla Liguria, era transitato per l’Emilia e la Toscana, proprio mentre stava per dirigersi nel Lazio. Sono trascorsi ventiquattro giorni dalla sua partenza. Nel tragitto percorso, però, c’è già tutto. «Sono sincero, mi immaginavo un viaggio diverso, forse più tranquillo. I primi giorni, percorrendo la via del Sale, sono stati davvero tosti. Dalla fatica ho davvero pensato di mollare tutto e tornare a casa».

Ma il Cala tiene duro, forse più grazie alla testa che ai muscoli indolenziti. I momenti difficili non sono finiti ma, adesso assumono, un’altra sfumatura: «Nei tre giorni in Liguria sono incappato in una bufera d’acqua e vento forte, che ha causato una frana sul percorso. Vorrei saper raccontare la goduria di quella doccia calda in un bed and breakfast di Spotorno: impagabile dopo giorni a dormire al freddo. Poi ho dovuto aspettare che arrivassero le condizioni climatiche ideali per lanciarmi col parapendio. In Emilia-Romagna ho trascorso tre giorni in un bed and breakfast connesso ad una fattoria dove si produce parmigiano. Ho dormito in alta montagna, con una tenda a bordo strada. Ho dovuto pensare a procurarmi il cibo. Arrivato a Pisa ho incontrato vecchi amici e ho ”volato” con loro. In meno di un mese ho cambiato tre volte le pastiglie dei freni della bici, ho dovuto far fronte all’usura del cambio, all’usura della bicicletta. Non è forse una scoperta anche questa?».

Non c’è viaggio che non racchiuda un significato, voluto o meno, palese o nascosto, raccontato o lasciato all’interpretazione di chi, in altre faccende affaccendato, sfiori qualche rotta percorsa dalle tue ruote. Ed il viaggio di Cala Cimenti è stata una celebrazione: «Volevo celebrare la libertà ritrovata. Il mio era un inno alla libertà, che è come l’aria, e come tutte le cose che scopriamo quando ci mancano. Per questo volevo spostarmi in tutte le regioni d’Italia, volevo portare in giro questa libertà e fermandomi mostrarla nelle sue vesti migliori, quelle delle attività che si fanno all’aria aperta. Purtroppo non mi è stato possibile finire questo viaggio, la libertà si è nascosta un’altra volta. Ma tornerà, sono certo che tornerà. Coltiviamo questa speranza. Proviamo a immaginarla, facciamo questo sforzo. Immaginiamo il giorno in cui farà ritorno. Non sentite che bello?».

Foto: Cala Cimenti