Alice Maria Arzuffi, oltre un attimo di fatica

Per Alice Maria Arzuffi sarà stato come tornare a casa, dal fango e dalla terra. Quella che Alice conosce talmente bene da prevederne caratteristiche e qualità. Quella "del Belgio" come dice lei e in quell'appartenenza del fango c'è già tutto: «Quando ti togli i vestiti, quando ti togli le scarpe e le metti da lavare, vedi uscire terriccio e fango mescolati. Fatichi a distinguerli ma li senti fra le mani quando strizzi le magliette. Serve una settimana per purificare completamente gli abiti, servono più lavaggi. La sabbia, perché quella belga è sabbia, filtra ovunque. Non riesci a spiegarti da dove provenga, sembra quasi che si rigeneri tra i tessuti». E sembra di sentire quella particolare sensazione del fango che schizza e ti ricopre la pelle, quasi una crosta in più strati che solidifica secondo dopo secondo per tornare a colare al primo contatto con l'acqua, arriva ovunque, anche in viso e perfino sotto gli occhiali che indossi per proteggerti. Non puoi nemmeno aiutarti con le mani, intanto perché sono ricoperte da guanti di fango e poi perché quei granelli, che trasudano umidità, screpolano la pelle e bruciano a contatto con gli occhi. Devi stare ferma, devi pedalare, serrare la bocca con tutti i muscoli per evitare che la terra finisca pure lì e pensare solo a far scorrere quelle ruote, che ora pesano più che mai, nella terra. La doccia del dopo corsa laverà l'inferno o almeno quello che per molti è inferno. Per Alice no, per Alice quella è fatica, tanta, passione, altrettanta altrimenti non sarebbe lì, volontà di interpretare e inventare ma soprattutto è un ricordo. Un ricordo d'infanzia.

«Sai, quando le mie colleghe mi chiedono stupite come faccia a correre in queste condizioni, tutta sporca, non so cosa rispondere. In realtà io sto bene quando faccio ciclocross. Forse anche per questo nel tempo ci ho pensato, ho pensato all'origine di questa passione. Credo di averla rintracciata in una abitudine che avevo sin da bambina. Dico sempre che mi piaceva "sporcarmi le mani", intendo che mi piacevano tutti i giochi in cui ci fosse da mescolare, da impastare, creare con le mani. Giocavo con la farina, cucinando, con il pongo e anche con le tempere. Ecco, per esempio, mi piaceva colorare con i pennelli ma preferivo colorare direttamente con le mani. Immergevo le mani nel colore e poi lasciavo le impronte sui fogli. Talvolta anche sul muro, sono sincera». Sarà quella fisicità ciò che Arzuffi ritrova nei percorsi del Belgio mentre, là fuori, l'odore delle patatine fritte si mescola a quello della birra e la fuliggine autunnale nasconde i contorni di una natura morente. Forse, poi, in questo periodo di distanze forzate, quella tangibilità sarà ancora più preziosa, sarà come ritornare a sintonizzarsi con tutto quello che c'è attorno. Alice Maria Arzuffi che da bambina danzava e avrebbe voluto imparare ad andare a cavallo. Al ciclismo è arrivata grazie alla cugina, Maria Giulia Confalonieri, che si è iscritta ad una squadra proprio in quei giorni. Così, oggi, Alice e Maria Giulia vivono di sguardi che parlano la stessa lingua e di parlare non hanno nemmeno bisogno. Uno sport che Arzuffi definisce «futurista, come una sorta di opera di Giacomo Balla per dinamismo e vivacità delle sue componenti». Proprio grazie al ciclismo ha imparato a fronteggiare l'altra sua anima, quella estremamente emotiva, quella retta da una mente che non si ferma mai.

«La mia testa è in continua azione, non ho quasi mai un attimo di tregua. Ragiono su quello che è accaduto, progetto quello che accadrà, non senza ansie e nervosismi. Maria Giulia, scherzando, dice che sono sempre arrabbiata. Non sono arrabbiata ma, spesso, sono tesa. Ed è questa ansia, questa tensione, a togliermi serenità e a penalizzarmi in corsa. Per fare bene il proprio lavoro serve tranquillità, serve serenità. Devi avere la mente sgombra per affrontare lucidamente le difficoltà che ti troverai davanti». In quei momenti in gara la sfida è anche una sfida mentale: «Quando facciamo fatica, troppa fatica, tutti ci sentiamo impotenti. Sai perché? Perché, in quei momenti, non riusciamo a vedere il momento in cui la difficoltà finirà, in cui arrivando in vetta torneremo ad alleggerire il rapporto e a distendere i muscoli. Quel momento invece c'è e non te lo porterà via nessuno, a patto di resistere per quell'attimo. Il segreto è superare quell'attimo. Poi ce la fai. Questo non lo penso solo quando sono in salita o in mezzo al fango. Lo penso anche quando devo fronteggiare i sacrifici che la vita da ciclista impone. La fatica è temporanea, ricordiamocelo. il mio primo allenatore, Daniele Fiorin, ce lo diceva quotidianamente. La vita da ciclista non durerà per sempre, non sarà sempre così. Stringete i denti e resistete oggi. Datevi motivazioni per non mollare oggi, vi aiuteranno anche domani».

Foto: Bettini


Adam Hansen e l'ultimo ballo di un formidabile genio

Chissà a cosa pensa Adam Hansen mentre pedala per l'ultima volta nella sua corsa preferita «Il Giro d'Italia, dove la gente a bordo strada ti adora: qui ho trovato i veri tifosi del ciclismo». Fanno ventinove grandi Giri totali disputati con quello che sta correndo: chissà se ci penserà o gli verrà in mente qualcosa di bizzarro, geniale, struggente.

Chissà se penserà a quella volta sullo Zoncolan nella quale pedalava urlando di gioia in una delle salite più dure del mondo, abbracciato a un tifoso italiano che lo riprendeva con una GoPro; o se gli verrà in bocca il sapore di quella birra presa al volo e scambiata con una borraccia sul Monte Grappa o all'improvviso avrà il ricordo di quello scatto sull'Alpe d'Huez nel quale si vede lui, tranquillo, con una birra in mano come se stesse facendo la cosa più naturale del mondo.
Chissà se penserà ai suoi trentanove anni che lo hanno portato a fare una scelta di vita, nemmeno troppo inconsueta per uno così. «Alla fine di questo Giro, mi darò al Triathlon». Avrà la possibilità, Hansen, di staccare il cordone da quel mondo riluttante alle innovazioni. Lui studia, sperimenta, analizza, sceglie, ma l'UCI poi gli mette sempre delle regole che lui, fine ricercatore, cimentandosi nell'Iron Man potrà agilmente superare. «Non essere più vincolati dai paletti della Federazione Ciclistica Internazionale per me è fantastico» racconta a José Been sulle colonne di Cyclingtips. «Sarò come un bambino in un negozio di dolciumi. Potrò sbizzarrirmi con l'aerodinamica; potrò scegliere i miei sponsor, fare tentativi di ogni genere per la posizione in bici e per quella del manubrio».
Perché Hansen, oltre a realizzare scarpe da ciclismo ultraleggere, a stampare mascherine chirurgiche nel periodo del lockdown («C'era carenza, mi pareva una buona idea») in quello che è un vero e proprio laboratorio tecnologico nella sua casa di Frýdlant nad Ostravicí in Repubblica Ceca prova ogni sorta di innovazione perché la sua testa non sa mai stare ferma e viaggia più veloce delle sue gambe.
«Utilizzando il software Leomo testo le diverse posizioni in sella, in particolare per le prove contro il tempo. Se l'UCI non mi faceva fare nulla, con il Triathlon potrò davvero scatenarmi».
È l'uomo dei record, Adam Hansen: venti grandi giri consecutivi corsi e conclusi, uno pure con una frattura alla mano, costruisce lacci elettrici per le scarpe come fosse in Ritorno al Futuro: «Al posto di un sistema a cricchetto, un motore elettronico». Ha vinto una tappa al Giro in quello che sembra un secolo fa, è stato (lo sarà ancora per qualche giorno) un perfetto uomo squadra, pilota per velocisti e involucro umano per gli altri capitani.
Cyclist Magazine lo definisce: «Un programmatore di grande talento» tanto da tenere lezioni alla James Cook University del Queensland e aver sviluppato un software per quella che ancora per poche settimane sarà la sua squadra.

Vegano, d'inverno molla la bici e si dà allo sci di fondo, al trekking, all'escursionismo, gioca in borsa e investe nel settore immobiliare, ha persino raggiunto un campo base sull'Everest a 5.430 d'altezza, e si prepara alle corse mangiando verdura. «Noi ciclisti professionisti in realtà siamo tutti vegani» sostiene. «Durante la gara la nostra principale fonte di energia sono i carboidrati provenienti dai gel o dalle barrette energetiche».
Dice che il suo segreto è quello di pensare poco alle corse. «Gli altri interessi mi aiutano a mantenere l'equilibrio: sarei diventato matto in poco tempo se l'avessi vissuta come un'ossessione». Si definisce versatile e crede che la deriva presa dai suoi colleghi non possa portare a nulla di buono. «Molti corridori dimenticano che esiste una vita oltre alla bicicletta, certi ragazzi mi spaventano un po'. Penso che bisognerebbe inventare un programma per aiutare i ciclisti ad adattarsi al mondo reale». Paradossale.

Fra pochi giorni Adam Hansen smetterà di pedalare in gruppo, ma già ci mancherà. Trovatene un altro così.

Foto: Alessandro Trovati/Pentaphoto


Daniel Felipe Martínez non è una fisarmonica

La vita di Daniel Felipe Martínez non assomiglia all'elogio di una triste fisarmonica. In lui non c'è, come scriveva Gabriel García Márquez a proposito di quello strumento “un’adolescenza dissipata, oscura, fitta di albe turbolente. I suoi migliori anni si sono dipanati nell’angolo anonimo, greve di vapori di una taverna tedesca”. Malinconico come una fisarmonica lo è piuttosto il luogo da cui proviene.

Soacha, dove nasce Dani Martínez ventiquattro anni fa, è diventata nota per il dramma legato alle “Madri di Soacha”. Nel 2008 in un paese a nord della Colombia venne ritrovata una fosse comune con quattordici corpi. Erano ragazzi spariti tempo prima da quella zona povera nei sobborghi di Bogotà, uccisi perché apparentemente coinvolti nella guerra del narcotraffico. Era tutta una messinscena, una copertura portata avanti da diversi anni per far vedere che la lotta al terrorismo funzionava. Erano i “falsos positivos”. Così riporta La Stampa: «I ragazzi venivano sequestrati o reclutati da un intermediario con la falsa promessa di un lavoro. Poi erano portati a settecento chilometri di distanza, vicino alle roccaforti delle Farc, e consegnati ai militari. Lì venivano freddati e fatti passare per guerriglieri. Con montature piene di incongruenze: l’uniforme immacolata non aveva traccia dei fori di proiettile; gli stivali, simbolo dei guerriglieri, erano infilati nei piedi sbagliati; ai cadaveri veniva messa una pistola in mano, sempre nella destra, anche ai mancini. Human Rights Watch stima che i casi di «falsos positivos» siano stati oltre tremila».

Martínez ha dodici anni all'epoca, vuole giocare a calcio e sogna di diventare l'attaccante della sua squadra del cuore, l'Atlético Nacional. «Mamma se vuoi regalarmi qualcosa, regalami un pallone» diceva. Si immagina vestito di biancoverde mentre simula le urla dei suoi tifosi raschiando il fondo della gola; lo stadio Atanasio Girardot è lo scenario e a ogni marcatura parte il grido: “Dani! Dani! Dani!”. Nella sua illusione tutti provavano per un attimo a dimenticare gli orrori che la Colombia viveva in quei decenni.

Perché a Soacha nel 1989 – Martínez non era nemmeno un pensiero – Escobar fece uccidere Luis Carlos Galan, candidato presidente. E poi c'è tutto quello che conosciamo: sequestri, ritorsioni, e ancora omicidi legati a corruzione e narcotraffico. Questo è il contesto.
Dani Martínez è ancora un bambino quando si ammala. Lo ricoverano a causa dei “nacidos” ovvero una sorta di foruncoli causati da batteri che gli si formano in tutto il corpo come una mappa delle stelle. Viene curato con antibiotici che gli fanno perdere moltissimo peso. Sua mamma dirà: “E dove sono finite le sue guance?”, racconta un giornale colombiano.

E Daniel Martínez anche a causa di quel problema si mette a fare sport per recuperare il tono muscolare, mentre a scuola si distingue come studente modello. È il primo della classe e oggi racconta che se non avesse fatto il corridore avrebbe studiato Marketing Internazionale all'Università. Lavora come commesso in un negozio e arrotonda vendendo a scuola i dolci che i genitori gli regalano. Con i pesos guadagnati un po' alla volta, si comprerà l'attrezzatura per correre in bicicletta andando a sostituire la sua vecchia monareta, una sorta di piccola Graziella che gli aveva dato suo fratello maggiore.

Ma prima di salire su una bicicletta l'episodio che cambia la sua vita. Insieme al suo amico di sempre, con il quale combinavano guai da ragazzini e grazie ai quali si riuscivano a tirare fuori dai veri problemi legati alle gang e alla droga, devono presentarsi l'ultimo giorno utile per iscriversi alla scuola calcio di quartiere. Il suo amico, però, manca l'appuntamento. Martínez è talmente deluso che scappa via piangendo. Suo fratello lo porterà a correre in bicicletta quella sera, e da lì, Dani Martínez non smetterà mai più di intonare la sua musica iniziando a trovare conforto e ispirazione proprio da chi, prima di lui, andava in bici. Quel qualcuno era proprio Yeyo, suo fratello. Hanno solo una bici e Yeyo la presta al piccolo Dani il giorno delle gare. Dani abbassa il sellino e poi batte tutti nelle kermesse di quartiere.

La sua prima gara vera e propria, invece, è un disastro. Partecipa a un criterium vicino Bogotà con un mezzo imprestatogli da un autista di autobus appassionato di ciclismo che nei suoi viaggi aveva sentito quel ragazzino blaterare di ciclismo per ore e ore, finendo per diventarne un suo tifoso – e pare lo sia ancora. La sua corsa termina dopo poche centinaia di metri. Cade, Martínez non è abituato a una bici di quel genere: ha persino i cambi!
E da lì prosegue dritto per la sua strada, un cammino che lo porta a vincere ogni settimana un trofeo sempre più importante, e con i soldi guadagnati facendo lavoretti, oltre alla bici si compra una divisa dell'Astana: Alberto Contador è il suo secondo idolo, dopo il fratello maggiore.
Lo chiamano Correcaminos, Dani, l'uccello che noi conosciamo come Roadrunner, “Beep beep”, il nemico di Willy il Coyote. Ed effettivamente è difficile da prendere quando va via. Piccolo, ma non uno scricciolo come tanti altri scalatori colombiani; teso come una corda di violino, ma sempre sorridente, Dani Martínez è uno dei corridori più riconoscibili in gruppo.

Gomiti larghi e appuntiti, schiacciato sulla sua bici, appena arrivato in Europa ha corso per un periodo in Italia con la squadra di Luca Scinto. In sordina rispetto ad altri suoi connazionali giudicati dotati di maggiore talento, Martínez ha sempre avuto la nomea di corridore perfetto per le corse a tappe. E lo dimostra la capacità di vincere sia a cronometro che in salita – proprio come Contador.

Nel 2018, mentre si allena sulle strade italiane a inizio stagione, un'automobile lo butta a terra. Martínez reagisce mandando a quel paese il guidatore che scende dalla macchina e lo massacra di botte: finirà in ospedale con un trauma cranico.

Oggi Dani Martínez è un puzzle quasi completo, porta con sé i diversi episodi della sua vita ed è uno dei più forti corridori in gruppo. Vola in salita e plana a cronometro, ma prima di vincere il Criterium del Delfinato e poi una tappa al Tour poche settimane fa, durante il lockdown ha vissuto un momento drammatico. Stava pedalando per la prima volta fuori di casa dopo due mesi. Non ce la faceva più di rulli, Zwift e tutto il resto: aveva bisogno di ributtarsi in strada, riassaporare l'avventura, l'aria, il vento. Salendo verso l'Alto de Las Palmas, un po' per far fatica un po' per godersi la vista panoramica sopra Meddelin, inizia a stare male. Vertigini, freddo, vedeva tutto nero: stava andando in ipotermia. Pensava di doversi fermare e chiamare sua moglie per farsi venire a prendere e invece resta in sella per altri settanta chilometri e torna a casa. Da lì, di nuovo, non si è mai fermato come quando suo fratello lo portò in bicicletta per la prima volta. «Non puoi pedalare e preoccuparti allo stesso tempo. Non avresti pace e tranquillità per fare ciò che ti piace di più» ama ripetere. Più che nostalgico e malinconico come una fisarmonica, è calmo come una vista su quella sua meravigliosa terra.

Foto: Bettini


Parlate di psicologia, senza paure

Chi comunica, giornalista o meno, deve fare una scelta: raccontare ciò che la gente vuole sentire oppure raccontare ciò che sente e crede giusto, aldilà dei momentanei riscontri del pubblico. Chi fa la prima scelta arriva in anticipo, chi fa la seconda impiega più tempo e spesso non viene compreso. Il punto è: cosa ti interessa? Se ti interessano facili applausi e altrettanto facili riscontri non devi avere dubbi, scegli la strada del consenso ad ogni costo, dì quello che tutti vogliono sentire e ometti ciò che la gente teme o non capisce. Se invece, come auspicabile, prima del consenso e del riscontro delle persone che ti ascoltano o che ti leggono, poni un’idea del circostante, un tuo personale credo o semplicemente una certa onestà intellettuale, in questo caso la via giusta da prendere è la seconda. Quella che si preoccupa di trasmettere qualcosa di proprio e di vero, giusto o sbagliato si vedrà. Qualcosa che, almeno in quel momento, ritieni giusto comunicare perché ci credi, perché credi nella giustezza e nella forza di quel messaggio. Detto questo ognuno compie la scelta che ritiene giusta e se ne assume le responsabilità.

Già, perché ci sono grosse responsabilità. Sia quando dici qualcosa, sia quando lo ometti o vorresti farlo. Per esempio bisognerebbe riflettere quando si dice «non parliamo di psicologia perché alla gente fa paura», come accaduto ieri durante una trasmissione televisiva. Sarebbe grave anche non volerne parlare per un proprio gusto personale (perché bandire certi argomenti?) ma ancor più grave è rifiutarsi di parlarne per i gusti o le idee della gente. L'assunto non è errato. C'è della verità: purtroppo, ancora oggi, le persone hanno paura di parlare di psicologia o psichiatria. Sapete perché? Per quel vizio, deprecabile, di inscatolamento dei fatti e delle persone che purtroppo fatichiamo a perdere. Così le persone devono essere perfette, di successo, vincenti e, possibilmente, sempre felici. Gli uomini devono essere virili, forti, fisicati, senza dubbi o paure. Guai a piangere o ad ammettere qualunque debolezza. Le donne devono avere un fisico perfetto, misure da modelle, mai un capello fuori posto, devono sposarsi entro una certa età, possibilmente con uomo di un certo tipo, e avere figli. E via discorrendo in una lunga serie di assunti che nulla significano se non la chiusura mentale di colui che afferma. Assunti che sono alla base di grosse sofferenze psicologiche da parte di chi non vi si riconosce e spesso, per questo, viene scartato da un certo tipo di società come una caramella cattiva. Ecco, la psicologia prova a risolvere questo problema. Prova ad allungare una mano verso chi sta male "dentro", come la chirurgia fa con il dolore fisico. Il problema è che, per questo incasellamento sociale, andare dallo psicologo significa essere deboli, avere problemi, non avere certezze, non essere realizzati, avere paturnie o fisse. Tutti termini assegnati come condanna a chi soffre. Tanto a giudicare siamo tutti bravi.

Noi vogliamo dirlo forte e chiaro: si parli di psicologia. Se ne parli sempre di più, in ambito sportivo e non. Se ne parli come si parlerebbe di qualunque altro argomento. Chi si rivolge a uno psicologo non è un debole, non è un fallito, non è una persona "problematica". Chi si rivolge a uno psicologo sta soffrendo e ha tutto il diritto di farlo. Chi soffre e lo ammette ha coraggio, coraggio da vendere. Non bisogna avere paura delle proprie debolezze, sono queste a farci belli, a farci uomini e donne. Sono queste da coccolare e da ascoltare. Se chi comunica deve scegliere di omettere qualcosa, per tempo o volontà, scelga di omettere gli stereotipi, le frasi fatte, i modelli sbagliati e un certo modo di rivolgersi al mondo e agli altri, quello della faciloneria e della presunzione, che, per quanto possa riscuotere consensi e applausi, fa paura. Quello fa paura e deve far paura, non la psicologia. Punto e basta.

Foto: Bettini


Michele Scarponi, l'Etna e quel ciclismo infinito

Michele Scarponi voleva che tutto fosse perfetto per quel Giro d'Italia 2011. Per questo, a primavera, scelse insieme ai suoi direttori sportivi, Roberto Damiani e Orlando Maini, e alla sua squadra, la Lampre, di andare ad allenarsi all'Etna. "A Muntagna" come la chiamano lì, quella stessa montagna da cui si vedono le alture ma anche il mare. A dire il vero, qui sopra si vede solo nero, tanto nero: sono le pietre laviche bruciate. Sembra quasi di percepire l'odore acre del fuoco che divora lentamente la sua preda, non potendola consumare con un'unica fiammata. Fuoco che mangia altro fuoco; questo sono i vulcani. Scarponi, però, guardava altrove, a quel lontano 15 maggio che, assegnando la prima tappa con arrivo in salita, avrebbe stravolto la classifica generale. Alberto Contador, il Pistolero, e Vincenzo Nibali, lo Squalo dello Stretto, sarebbero stati lì e lui doveva essere con loro, anzi, davanti a loro. Marco, fratello di Michele, lo spiega molto bene: «Michele voleva vincere. Quando a Natale giocavamo assieme a carte, se non vinceva, ad un certo punto iniziava a scherzare, a ridere, a prenderti in giro. Poi buttava il mazzo sul tavolo e se ne andava. Se giocavamo a ping-pong e perdeva mi tirava la racchetta. Grazie a quella bicicletta, al tempo, alle tante vittorie e alle tante sconfitte, Michele è cambiato, è cresciuto. Diventato padre, Michele ha capito che oltre alla vittoria c'è qualcosa di molto più importante. Lui lo aveva capito e stava cercando di donarlo a tutti». Passano giorni, settimane, mesi ed arriva il Giro d'Italia. Arriva la nona tappa, 169 chilometri: da Messina all'Etna.

Le speranze sono tante, la realtà non è quella desiderata. Quel giorno Scarpa non c'è. L'arrivo è situato a pochissimi metri dall'albergo dove la squadra ha effettuato il ritiro pre-Giro; il luogo peggiore che possa esserci, quello dove i ricordi e le aspettative si mescolano all'amarezza per una situazione che delude tutti. Michele si chiude nel silenzio, non vuole parlare con nessuno e per giorni non sembra nemmeno un lontano parente del ragazzo che tutti conoscono. Roberto Damiani se ne accorge e ne parla con Orlando Maini: «Michele soffriva. Tutti lo raccontano come un ragazzo allegro, simpatico, divertente, se vogliamo. Scarpa era così ma dentro aveva un animo estremamente sensibile, un animo da maneggiare con cura e delicatezza. Decidemmo di aspettare qualche giorno, confidavamo nella cura del tempo per quella delusione». Quando la terza settimana di Giro si avvicina, Michele è ancora con il morale a terra. Quasi rinunciatario. Damiani va in camera da Maini: «Scarponi non può continuare così; fa male a lui ed anche a noi. Deve scrollarsi di dosso questa sofferenza e, se decide di continuare il Giro, deve farlo con la convinzione dei primi giorni. Bisogna parlarci. Tu lo conosci meglio, sai meglio come trattarlo, ci parli tu?». Orlando Maini bussa alla porta di Michele quella stessa sera.

Si siede sul letto accanto a lui, lo guarda negli occhi pensando a come impostare il discorso. Poi decide di andare dritto al punto: «I discorsi preparati non mi sono mai piaciuti, gli dissi ciò che sentivo. Iniziai così: «Michele, cosa succede? Abbiamo fatto tutto quello che abbiamo fatto per arrenderci così? Molliamo tutto, molliamo tutti e andiamo a casa in questo modo? Sei sicuro di volere questo?». Michele era molto critico verso sé stesso quando non raggiungeva il traguardo che si era prefissato. Avevamo un gruppo di lavoro forte e coeso. Michele aveva bisogno di metabolizzare. Quel discorso andò a toccare il suo orgoglio. Servivano semplicità, delicatezza, sensibilità. E lo vedevi che si riaccendeva, che iniziava a farmi domande. Sono tornato in camera in brodo di giuggiole dalla contentezza. Lavorare con Michele è stato un privilegio. Sappiamo tutti come finì quel Giro: davanti a Nibali, un successo importante. Fino a che, con la squalifica di Contador, il Giro d'Italia venne assegnato proprio a Michele».

E, riguardando le immagini della tappa di ieri, noi ripensiamo a ciò che ci disse Marco Scarponi qualche tempo fa: «Il ciclismo è infinito, ricordiamolo sempre».
Foto: Alessandro Trovati/Pentaphoto


Primož Roglič: il mondo in un istante

Nel momento in cui tagliava il traguardo della cronometro de La Planche des Belles Filles al Tour, Primož Roglič aveva una faccia che non poteva generare alcun tipo di malinteso. I suoi pensieri non li potevamo conoscere, ma erano facili da intendere; la faccia non mentiva, mentre saliva a fatica, brutto da vedere sulla sua bici, come non si era mai visto prima, e non serviva essere dentro la sua testa – per altro coperta a fatica da un casco antiestetico che pareva andare da tutte le parti - per cercare di interpretarlo.

Il mondo, quello sportivo, pareva essergli crollato addosso in un istante. Tutto, insieme alle sue certezze e a quelle della sua squadra, sembrava assumere contorni nebulosi. Una scampagnata nei Vosgi trasformata in un martirio. Soccombeva a chi arrivava prima di lui al traguardo; dopo di lui, in una presunta linea temporale di nascita, a pochi chilometri di distanza, se invece tutto ciò vogliamo ridurlo a una storia di provenienza.
Una settimana dopo, Primož Roglič si batteva come poteva: dalla Francia a Imola, avremmo potuto intitolare. Pogačar, quel ragazzo più giovane e descritto sopra in poche righe, gli apriva la strada; lui cercava di tenere il ritmo dei migliori, chiudeva sesto, beffato in corsa e umiliato da fischi e critiche da chi, dal Belgio, ripeteva: «Ma come si è permesso di non aiutare van Aert dopo quello che van Aert ha fatto per lui al Tour?» E niente, forse per qualcuno lo stato delle gambe non contava, ma va beh.

E contavano, invece, gambe e facce, e tutto sembrava uno scritto occulto, ieri, sul traguardo di Liegi. Alaphilippe? Una saetta ubriaca. Scartava da tutte le parti con quel suo modo sempre febbrile di interpretare le corse, quelle sue sceneggiate in bicicletta che sono forza, ma a volte anche limiti. Metteva giù la testa, e quasi in modo metaforico sembrava puntare una bandiera slovena sventolante a bordo strada. A destra, poi a sinistra rischiando di far cadere “tutti”. Sul traguardo alzava le braccia per godersi quel momento e farlo suo, soltanto suo, ingannando se stesso e fotografi, ingannando una corsa che da oltre un secolo bacia la primavera belga – e per una volta fa l'amore con l'autunno.

Alzava le braccia, Alaphilippe, spadaccino infilzato da Primož Roglič che non aveva compreso la portata di quell'istintivo colpo di reni. “Istant Karma”, lo ha definito Tylor Phinney prendendosi gioco di Alaphilippe, pochi minuti dopo il verdetto dei giudici che declassavano il francese al quinto posto.
Dalla Francia al Belgio passando per Imola e dagli sberleffi belgi, quel destino ci ha messo un po' di tempo prima di ingraziarsi nuovamente il talento di Primož Roglič. Uno che faceva altri sport, che faceva l'amatore, che sembrava non avere nulla a che fare con il ciclismo: scambiato per sgraziato oppure per inscalfibile. Per una volta, dopo interminabili settimane, nuovamente cavaliere di ventura e col mondo ai suoi piedi.

Foto: Bettini


Aiutarsi a vivere e magari a vincere

Quando Diego Ulissi è salito sul terzo gradino del podio al Giro dell'Emilia, il 18 agosto, l'amarezza del suo sguardo offuscava parte della soddisfazione per i risultati, comunque soddisfacenti, che il corridore toscano stava ottenendo. Sempre lì, secondo, terzo, quarto, quasi il primo posto fosse maledetto. I ciclisti lo spiegano bene: quando manca sempre meno a raggiungere un risultato e non ci riesci, quella volontà, tendenzialmente, diventa una sorta di ossessione, accresciuta dal fatto che manchi poco. E, quando "un'ossessione" ti tormenta, diventa tutto più difficile, dentro e fuori. Dentro perché tutto ti ricorda che sei lì ma non sei primo, perché inizi a pensare a tutto ciò che avresti potuto fare diversamente (e sai bene quanto è inutile ma la tua testa è fatta così e devi conviverci), perché vorresti un pizzico di quel sollievo che viene dal vincere, magari vorresti dedicarla alle tue figlie quella vittoria, a tua moglie che è a casa ad aspettarti, di certo le tue braccia fremono per la voglia di essere gettate all'aria. Così quando vinci, come ieri, le lanci all'aria con tale forza che ti chiedi come facciano a non farti male. Ma è così, quando sei felice non fa male. Accade anche con gli abbracci. Fuori, invece è più difficile perché la gente non sa, festeggia, ride, ti ferma, ti chiede, ti cerca e tu vorresti stare un attimo da solo, per ripensare a dove hai sbagliato. Non puoi perché sei un uomo conosciuto, perché il ciclismo è una festa, perché loro, le persone, non hanno alcuna colpa dei tuoi malesseri.

Diego Ulissi era sul podio e nella testa, probabilmente, aveva questo quando una giovane mamma con una bambina in braccio lo ha chiamato: «Diego, Diego lanciaci il cappellino». Ulissi si è voltato di scatto, inizialmente serioso, ha guardato la mamma, ha guardato la bimba e ha sorriso: «Non posso, mi spiace». La giovane donna ha capito e: «Non preoccuparti, sarà per un'altra volta». Si è voltato e ha iniziato a scendere gli scalini del podio. Ha sorriso pur non avendone alcuna voglia, ha sorriso per chi lo cercava. Capite l'importanza di questo dettaglio? Creare un sorriso per non deludere, perché sai che gli altri vorrebbero questo da te, perché sai che gli altri possono essere felici anche solo per questo. Perché «quel ciclista, quella ciclista, mi ha sorriso, mi ha salutato». Non è poco. Non è nemmeno scontato. Si tratta di una capacità profonda e difficile da acquisire; la capacità di accantonare il tuo "malessere" per qualcuno che ti cerca e ti vorrebbe felice. Per qualcuno che è nel mezzo di una festa e tu non vuoi rovinare la festa di nessuno. Ti ricordi come facevano i tuoi genitori da ragazzino, quando, negli attimi di gioia, ti omettevano le brutte notizie per permetterti di ridere senza ombre. Un poco ti arrabbiavi perché volevi sincerità ma oggi li ringrazi perché risate del genere non sai quando le farai più. E vorresti tanto qualcuno a coprirti le spalle.

E non conta nulla il fatto che il cappellino non sia stato regalato. Non conta assolutamente nulla. Ci sono delle cose che non possiamo fare e di fronte a queste poche parole possono valere. Alle regole non si sfugge, per dignità personale prima che per timore della punizione. Anche di fronte a queste, però, possiamo scegliere il modo di porci con chi ce le chiede. Per una bambina rinunciare al cappellino del proprio idolo è un sacrificio pesante e i grandi dicano ciò che vogliono ma tengano fede a un dovere. Quello di scivolare sulle vite degli altri lasciando il minor peso possibile perché quelle vite hanno già le loro complessità e le loro pesantezze. Cose che non possiamo sapere, non possiamo nemmeno lontanamente immaginare e per questo non dovremmo giudicare. Una cosa però la sappiamo: per andare avanti gli uomini si aggrappano a tutto, ad ogni segnale impercettibile, anche a quelli a cui dicono di non credere. Ecco, abbiamo il dovere di dare qualche segnale di questi. Sempre. Anche e soprattutto quando non ne avremmo voglia e questo segnale servirebbe a noi. Non c'è altra possibilità per aiutarsi, a vivere e a magari a vincere.

Foto: Alessandro Trovati/Pentaphoto


Tornerai, Miguel

Per Miguel Ángel López è crollato tutto dopo 9'38'' dall'inizio del Giro d'Italia. Lo ha spiegato lui stesso, ieri sera, in albergo, parlando con i suoi compagni: «Mentre appoggiavo le mani sulla protesi, ho sentito la bici scivolarmi via. Era impossibile trattenerla: si è ribaltata sotto di me. Qualcosa di incredibile». Il referto medico ha escluso fratture evidenziando solo una profonda ferita nei pressi dall'arteria iliaca, recupererà nelle prossime settimane, insomma. L'uomo è un impasto più complesso, l'uomo non può fermarsi al dato di fatto degli esami clinici, la sua mente non glielo permette. Come quando la scienza sentenzia: «Lei sta bene. Non ha nulla». E tu non riesci a spiegarti come sia possibile, tanto fa male. Forse il viso di Lopez, appoggiato alla testata del letto, con gli occhi rivolti verso l'alto, vuole dire proprio questo. Cenghialta, suo direttore sportivo, lo ha detto mentre lo attendeva in ospedale: «Ora si è tranquillizzato, ora è più calmo. Dobbiamo solo aspettare». Quel sorriso dissimulato, rivolto ai compagni, sottintendeva questo: «Sono più tranquillo, va tutto bene. Se non c'è niente di rotto va bene, come dire il contrario?». In realtà non va bene niente e, prima di tutto, non va bene aspettare. Aspettare ancora. L’attesa ha senso quando c’è la possibilità di riempirla di significato con ciò che verrà. Quando ti strappano via da ciò che hai atteso, come non fosse ancora il tuo turno, come non fosse lì per te, come tu non fossi la persona giusta, dell’attesa proprio non vuoi sentire parlare.

Non abbiamo mai corso un Giro d’Italia in bicicletta ma lo abbiamo percorso in auto, per raccontarvelo. Sappiamo cosa significhi l'attesa di un evento del genere che è poi simile ad ogni altra attesa cercata, voluta. Abbiamo vissuto l'immaginazione che ti traghetta lì, al tuo primo Giro d'Italia o al ventesimo ma poco cambia o dovrebbe cambiare. Se smetti di aspettare ciò che vuoi vivere che senso dai al tuo essere qui? Quando aspetti ciò che vuoi, le ore che si dilatano sono direttamente proporzionali alle paure che ti assalgono. Vuoi essere parte di questo qualcosa in maniera così forte che vedi tutti gli ostacoli che potrebbero impedirtelo e speri solo non si manifestino. Non è tanto questione di ottimismo e pessimismo, accade quando ci tieni. Come quando hai un appuntamento per una sgambata e dieci minuti prima squilla il telefono, la mente corre: «Dimmi che non rimandiamo». Come quando aspettate la vostra gara per tanto tempo. Accade come è accaduto per i tanti eventi in bilico in questo periodo di norme anticovid. Come è accaduto anche per questo Giro d'Italia, ad ogni risalita dei numeri dei contagi. Per gli appassionati, per noi che lo raccontiamo e gli vogliamo bene, e per tutti gli atleti che, su questo Giro, hanno scommesso mesi. Mesi duri, difficili, senza certezze, chiusi in casa, in un vortice di dubbi. Poi i giorni si avvicinano e il Giro parte. Tu sei lì e te lo dici: «Ci siamo. Ho immaginato bene, sono qui. Ora si va, via». E magari sei come Miguel Ángel López ieri e non lo sai. Non sai che dovrai gustarti quella manciata di chilometri e basta. Perché la "bicicletta ti si ribalterà sotto" e non potrai fare nulla. Ti caricheranno su una barella, ti porteranno in ospedale e, fatti tutti gli esami, ti indicheranno una prognosi. Un numero che ti dirà fino a quando dovrai aspettare per poterci nuovamente sperare.

Ma qui le ore saranno ancora più lunghe, i mesi più difficili, le stagioni interminabili. Sì, perché quando ti strappano via dal tuo momento poi sembra impossibile un ritorno. E se torni e poi succede ancora? Se torni e non accade nulla di quello che desideri? In certi momenti ti dici anche che è inutile tornare, ti chiedi il senso del ritorno. Di lavorare tutti quei mesi e poi chissà. Quanto può essere cattiva la vita? Non serve chiederselo. Serve riprendere in mano quella bici e andare. Tirando qualche pugno sul manubrio, imprecando, magari anche sbattendola contro qualche muro in qualche momento no: ma poi riprendendola in mano e controllando che sia a posto. E, magari, quella stessa vita ti farà trovare sul cammino qualcosa di così inatteso, ma bello questa volta, per cui valga la pena. Più verosimilmente non sarà qualcuno a darti una ragione per aspettare e tenere duro ma sarai tu stesso a doverla cercare. Perché lo sai bene ormai: chi aspetta può essere deluso ma chi smette di aspettare è disilluso. E questo è ben più grave. Un ciclista non può permetterselo, un uomo non può permetterselo. Ricordiamocelo quando aspettare stanca.

Foto: Bettini


Filippo Ganna è straordinario

Permetteteci di dirlo: Filippo Ganna, oggi, è stato semplicemente stupendo. Per quella bicicletta dorata, omaggio alla perfezione del mezzo che sfida il vento (ma "ghe voeren i garùn" come ricordava qualcuno) e per quella maglia iridata che ne scolpisce ogni centimetro di muscoli, ogni proiezione di forza, di potenza. Ancor di più: è stato commovente nella semplicità con cui ha risposto alle domande dei cronisti dopo il traguardo, un profumo di normalità che ben si mescola all'atmosfera di questa Sicilia agli albori dell'autunno, spazzata da un vento caldo che ricorda Luglio. Gianni Mura spiegava che il vento, e lui parlava di quello del Mont Ventoux, è come una mano che ti prende e ti sposta. Un consigliere del timore che sconsiglia azioni di fantasia e ti spinge indietro, di lato, obliquamente, persino a terra, se provi a non ascoltarlo. Quel vento traditore e multiforme che appare e scompare, ingrandendo e ridimensionando aspettative e progetti. Quello che fa sentire gli uomini tanto piccoli e impotenti, che ne quieta la tracotanza, come tutti i fenomeni atmosferici che sovrastano e dominano il mondo.

Gli atleti, almeno nelle prime fasi di gara, sono scostati dal vento, devono mettere nelle braccia altrettanta forza di quella che mettono nelle gambe, per reggere il mezzo. Per segnarne ed indirizzarne il tragitto. Il confine dell'impossibilità che si manifesta, quello dove l'uomo deve rallentare, riflettere e dare il massimo per non arrendersi. Accade nella vita, accade in sella. In certe circostanze, restare in sella è tutto ciò che sia possibile fare. Devi dare tutto ciò che vali, questo conta, poi le condizioni esterne avranno un impatto sulla tua prestazione, ma di quelle non devi farti carico, quelle sono da sopportare, da vivere. Siete capitati nello stesso istante, nello stesso luogo, o scappi o accetti la vertigine.

C'è poi qualcuno che quella vertigine può domarla. Che ha un dono, una dote per cui in quel timore di caduta vede una possibilità. Qualcuno che non nasce oggi, come non nasceva poco più di una settimana fa al Mondiale di Imola o qualche mese fa al Campionato italiano. Giusto per ricordarlo. Qualcuno che a quell'essere saldo, marmoreo, vettore di spazio e tempo, ha lavorato silenziosamente per anni. Sin da ragazzino, sì, perché i talenti puoi possederli ma devi crescerli, coltivarli, curarli. Proprio in segno di gratitudine, verso te stesso e verso la natura che ha scelto te: non era dovuto. Filippo Ganna ha fatto questo per tanti anni e continua a farlo, silenziosamente, con coscienza ed occhio critico. Prima di tutto verso la propria persona. E tutti sappiamo come questo sia merce rara in tempi di giudizi sparsi a pioggia, quasi se li portasse via il vento.

Filippo Ganna che percorre i 15.1 chilometri della cronometro inaugurale del Giro d'Italia numero 103 ad una media di 58.8 chilometri orari. Che percorre un chilometro in meno di un minuto, 51 secondi per la precisione. Che supera i 100 chilometri orari di velocità. Che è campione italiano e campione del mondo della specialità. Che è tanto altro, tutto da scoprire e da raccontare, magari con lo stesso stupore del suo viso di fronte ad ogni nuovo successo. Filippo Ganna, di Vignone, che oggi è maglia rosa, nel primo giorno del Giro. E non abbiamo ancora detto tutto.


Alessandro Tonelli spiega la fuga

Se vi capita di scorgere la lista di partenza di una qualsiasi corsa e di leggere "Alessandro Tonelli" fra gli iscritti, allora già sapete che lui, molto probabilmente, andrà in fuga. Solo di recente è successo alla Milano-Sanremo, ha proseguito poi alla Tirreno-Adriatico come fossero azioni collegate l'una all'altra, ma in realtà accade così tante volte da non riuscire nemmeno ad avere un dato certo. «Ma non è che io vada in fuga tanto per fare» esordisce così Alessandro Tonelli, ventottenne della provincia di Brescia, per la precisione di Bornato, come spiega qualsiasi guida che parla di quella zona e come sottolinea lui, fiero, «Nel cuore della Franciacorta dove si produce il famoso vino».

«Andare in fuga è l'unico modo che ho per vincere» ribadisce. Al Giro d' Italia di due anni fa, l'unico al quale abbia partecipato fino a oggi, il ragazzo della Bardiani-CSF-Faizanè ci provò almeno tre o quattro volte: non è sicuro nemmeno lui del numero preciso, mentre ce lo racconta.
Tuttavia, Alessandro Tonelli è un ragazzo pratico; lo capisci dal primo scambio di parole: per lui le fughe non sono mai un romantico sogno d'evasione, quanto un concreto atto verso la libertà. E quando ci sei dentro non è che hai tempo di pensare ad altro, se non alla corsa. Un gioco macabro con il gruppo che ti insegue, acqua che prova a spegnere il fuoco, una partita a scacchi a dimensione umana e dove i muscoli e le gambe muovono le pedine. «E la testa fa la sua parte. Perché la fuga, se vuoi che arrivi, devi saperla gestire, devi batterti con il gruppo, provare a ingannarlo, ma non tutti ci riescono e soprattutto, il bello o il brutto dipende dal punto di vista, è che la fuga non sempre va all'arrivo». Che sia quello il suo fascino? Che sia quello il motivo che ci spinge a raccontare più spesso e volentieri l'ultimo del gruppo oppure le storie di anarchici fugaioli, piuttosto che cannibali e tiranni? «Io da sempre vado all'attacco: era così da ragazzo, è così adesso. L'unica corsa che ho vinto tra i professionisti, nel 2018, l'ho vinta dopo un fuga».

Puoi metterci tutta la forza che hai, puoi sbizzarrirti con tutta la tattica che vuoi, ma «Il destino di una fuga alla fine lo decide il gruppo. Due anni fa al Giro gli attacchi da lontano non arrivarono quasi mai, lo scorso anno sono arrivati praticamente tutti. Classifica generale e squadre dei leader ne condizionano il buon esito». Lo abbiamo definito macabro, ma appare quasi ingiusto: sembra di avere il proprio destino stretto nelle mani di qualcun altro, ma non c'è solo questo. «Prendere la fuga non è mai semplice. A parte nelle tappe che sai che finiranno in volata e allora va via una fuga all'inizio che verrà ripresa, andare all'attacco diventa questione di gambe. Di colpo d'occhio, di tempismo. In fuga ti ritrovi anche signori corridori. Alla Tirreno-Adriatico ero con van der Poel e Visconti, alla Milano-Sanremo eravamo i bresciani: Cima, Frapporti e io. C'è stata una tappa alla Tirreno dove ci sono voluti settantacinque chilometri per portare via, di forza, la fuga».

E per una volta che non va in fuga Alessandro Tonelli rischia di lasciarci la pelle e non è un modo di dire. Siamo in Cina al Tour of Qinghai Lake. È la sesta tappa. Il gruppo sbanda a causa di una folata di vento «Fa un'onda, come si dice in gergo, e io, che ero all'estremità del plotone, mi trovo sbalzato contro un paletto: da cinquanta chilometri orari a zero nel solo impatto. Svengo, non ricordo più nulla e mi risveglio in ospedale. Dieci costole rotte, la scapola fratturata e uno pneumotorace. Resto in Cina per quarantatré giorni: una quindicina di ospedale a Xining a quasi 2.500 metri di altitudine. Il problema era che non potevo tornare a casa in Italia, senza aver pienamente recuperato. E allora avevo una badante che mi aiutava a cambiarmi e a mangiare, una traduttrice dal cinese all'inglese per riuscire a farmi capire almeno dai dottori, e per fortuna dopo qualche giorno anche mia sorella: la Cina è lontana e avevo bisogno dell'affetto di un familiare» racconta sereno, cosciente che quell'episodio, inevitabile, fa parte oramai del suo bagaglio d'esperienza.

E quanto Alessandro Tonelli sarebbe voluto andare in fuga da lì! «Ma non potevo» afferma con una mezza risata, prima di farsi serio «Dovevo pensare a stare bene fisicamente; semplicemente perché il ciclismo è solo una parentesi della nostra esistenza, mentre il corpo devi mantenerlo tutta la vita e quindi la mia preoccupazione maggiore era quella di non aver subito alcuna conseguenza fisica da portarmi dietro per sempre. E così mi consigliarono, una volta guarito, di scendere verso Pechino per iniziare a recuperare e allora mi sono goduto il resto dei miei giorni in Cina come turista infortunato e quello che ho visto... le differenze tra loro e noi. Ho girato il mondo e non ho mai visto tante contraddizioni. Sono avanti dal punto di vista tecnologico, ma tutte le informazioni che arrivano a loro sono filtrate. Hanno Google e i vari Social bloccati perché il governo decide quali informazioni dare e quali no. Non hanno WhatsApp, usano WeChat e i mendicanti in giro per la strada lo sfruttano per chiedere l'elemosina. Sì, avete capito bene: fanno l'elemosina col telefonino; anche i poveri hanno il conto in banca collegato a WeChat e tramite il QR Code chiedono i soldi» E poi ci racconta del cibo: «Solo pollo e riso» e di come per strada trovi, testualmente «Gente che rutta e scatarra: e per loro è una cosa del tutto normale!». E poi ancora: « Oppure una volta ero al ristorante a fare colazione, la sala vuota, il posto davanti a me libero: un signore si è seduto al mio tavolo come se nulla fosse» racconta divertito.

E se viaggiare diventa «uno dei fattori che più appagano le mie scelte di vita», stare tutto il giorno al vento contribuisce a fargli amare un mestiere che non fa sconti. «Non sono un vincente, non lo sono mai stato e allora mi devo far piacere altre cose, altre situazioni: come amare la fatica oppure pedalare in solitudine sulle montagne intorno alla mia zona. Perdermi a osservare la natura - cosa che faccio anche nel tempo libero facendo trekking con gli amici di sempre». E poi si torna lì: la fuga. «Sono sempre stato un attaccante e quindi non mi disturba stare sempre in fuga, anzi, per certi versi faccio meno fatica davanti che in gruppo. E poi l'ho scelto io, perché amo spostare i miei limiti e provare fino a dove posso arrivare con il mio fisico e con la mia mente». Sognando che prima o poi una fuga con lui dentro possa andare fino all'arrivo, magari al Giro d'Italia. “Le antiche arene sono un cerchio chiuso dal quale nulla può scappare” scriveva Elias Canetti. Diteglielo a uno specialista della fuga come Tonelli, e vediamo.

Foto: Bettini/per gentile concessione dell'Ufficio Stampa Bardiani