Miriam Vece, il mondo dei velodromi, la paura e il coraggio
28 Ottobre 2020RitrattiMiriam Vece,Ciclismo su Pista
Miriam e la paura si sono conosciute bene. Forse, proprio conoscendo la paura, Miriam ha capito che c'è sempre almeno una possibilità di salvarsi o di essere salvati. Spesso, poi, la salvezza dalla paura non viene nemmeno da un eroe coraggioso, da un cavaliere senza macchia e senza paura. Spesso dalla paura ti salva chi ha paura quanto te, chi riesce a sentire la tua paura e a starti sempre più vicino: «Ero alla Sei Giorni di Fiorenzuola, qualche anno fa. A portarmi su nel keirin c’era Davide Arzeni. Io tremavo per l’ansia e per la paura, è normale. Si tratta di una adrenalina molto forte. Anche Davide però tremava mentre mi spingeva. Forse il suo tremore era anche più forte del mio. Io posso raccontarti le mie sensazioni, posso spiegarti il perché, posso narrarti il più piccolo sussulto nel mio stomaco. Questo posso farlo. Non riuscirei mai a spiegarti il suo. Mi ha commosso. Sai perché? Per quanto riusciva a starmi vicino, per quanto riusciva a condividere il mio sentire. Davide era me in quel momento. Senza dire una parola, solo con la forza della vicinanza». Senza parole, certo, perché come tutte le sensazioni e la maggior parte delle condivisioni spiegare non serve a nulla. Quante volte vorremmo essere capiti in un nostro timore o in un nostro volere e per questo cerchiamo di spiegare o di chiedere? Spesso non serve. Sì, perché per capire certe cose devi farti parte dell'altro e provare ad ascoltarle. Ascoltare le sensazioni prima delle parole. Lì capirai come stare vicino a qualcuno, lì capirai cosa desidera veramente la persona a cui sei accanto.
Miriam Vece in pista è arrivata proprio grazie a chi ha saputo ascoltare un istinto, un talento non ancora pienamente palesato. Quel giorno, quel primo giorno, Miriam ha pianto e ha avuto paura. Qualcuno però stava ascoltando oltre. Per fortuna, perché poi il velodromo è diventato il mondo di Miriam: «Nel velodromo c’è una sorta di vita parallela che accomuna tutti coloro che sono all’interno della struttura. Si condivide tutto. Con le compagne, ma non solo. In gara non deve essercene per nessuna, ma finita la gara si esce assieme. A Berlino, l’ultima sera siamo uscite tutte assieme: russe, messicane, olandesi. Tutte assieme. Ti senti meglio quando puoi condividere». Chi ha più anni di te, chi è più grande di te, ha questo dovere: spronarti affinché tu possa seguire la strada in cui credi perché lì e solo lì avrai la felicità che chi ti vuole bene desidera per te: «Ai primi ostacoli mi ero sempre fermata. Come accadeva qualcosa che mi faceva male, che mi faceva soffrire o mi mortificava, cambiavo strada convinta che quella intrapresa non facesse per me. È successo anche con la pista, sai? Cosa si può pretendere, d’altra parte? Tanti allenamenti, sacrifici, notti insonni e pasti saltati perché le prime volte, da junior, divorata dalla tensione, non riuscivo neanche a mangiare i giorni prima della gara. E poi magari ti qualifichi, fai la prima batteria e ti eliminano. Me lo sono chiesta tante volte: siamo sicuri che questo sia il mio futuro?».
Oggi Miriam ha risposto a quella domanda e sa bene cos'è giusto. Anche quando ha paura: «Una volta, in una partenza del keirin, sono incappata in una brutta caduta. Quella abilità, quella di fiutare la partenza giusta, è rimasta nel mio DNA, ma la mente mi riporta sempre a quei momenti e ho paura. Razionalmente non riuscirei a fare ciò che faccio. Si va a sessanta chilometri orari e posso assicurarti che tra i manubri spesso non c’è più di un centimetro. Alcune atlete sono molto brave a buttarsi in tutti gli spazi. Io, ironizzando, le chiamo “assassine”. Sono incredibili. Bello da vedere, ma posso assicurare che quando si è lì si ha paura. E quel ricordo torna sempre». In camera sua ci sono tutte le medaglie che la pista le ha consegnato: «Sono tutte qui, sai? A volte le guardo e penso che ne vorrei di più. Poi guardo meglio, ci penso un attimo e mi dico che per ora possono bastare». Questo è molto bello ma non sono solo quelle ad averle dato la forza di affrontare le paure che le si sono presentate e continueranno a presentarsi alla sua mente. Le paure, Miriam, le ha sconfitte perché non é restata sola a viverle e perché ha capito che lasciare quel mondo per la paura non la avrebbe salvata dalla paura stessa, che si sarebbe ripresentata in altre forme ed in altri mondi, l'avrebbe solo resa infelice: «C’è un rapporto troppo stretto con la bicicletta. Me ne sento parte. Per quante volte nei periodi di crisi abbia pensato di gettarla in qualche angolo e lasciarla lì, non saprei mai vivere senza la bicicletta. È un futuro che non riesco nemmeno a pensare. O forse non voglio proprio pensarci».
Foto: Bettini
Raffaele e l'importanza dei piccoli gesti
«Sai quando sei bambino e ascolti le favole o le fiabe raccontate dai genitori o dai nonni? Credi agli alberi che parlano o si muovono, credi alla magia e agli incantesimi. Succede perché sei immerso nell'ascolto. I racconti dei viaggiatori del BAM mi hanno riportato lì». In realtà, Raffaele Fanini non è riuscito ad ascoltare tutti quei racconti perché, mentre saliva al rifugio, stava mettendo assieme una storia, una di quelle belle, una di quelle da raccontare. Una di quelle storie che iniziano con un uomo che prova a cambiare qualcosa: «Da ragazzino lessi su una rivista di queste "isole di plastica". Non volevo crederci, ho addirittura pensato fosse una notizia falsa. Invece no, tutto vero. La cosa incredibile è che troppo spesso non abbiamo coscienza del problema. Per questo non lo affrontiamo e spesso non vogliamo neanche parlarne. Crediamo che l'inquinamento, il surriscaldamento globale siano qualcosa che non ci toccherà mai direttamente e pensiamo ad altro. In realtà il problema è già qui, tocca noi e tutte le persone a cui vogliamo bene. Se aspettiamo, se non facciamo nulla, quando ci sveglieremo sarà troppo tardi. So bene che il mio gesto non risolverà il problema ma so anche che al mondo siamo in sette miliardi e bastano pochi sciagurati per rovinare tutto. Se, invece, provassimo a metterci d'impegno per cambiare qualcosa? Uno per volta, uno alla volta». Il nostro "c'era una volta" parte da qui, da un ragazzo di trentadue anni in sella a una "Moser" del 1978 con agganciato un carrello per raccogliere i rifiuti trovati lungo la pedalata: «La mia bicicletta è abbastanza vecchia ma funziona e poi ci sono affezionato. Questa è una storia comune, no? Forse la potenza della bicicletta è proprio qui, lei è rimasta intatta nonostante tutto quello che è cambiato negli anni. Ha resistito all'innovazione, al futuro che avanzava a grandi passi e tutti siamo legati alla nostra prima bici. Alle medie trascorrevo interi pomeriggi a vedere VHS di Bmx. La mia prima Bmx, una Atala color argento, con cui saltavo le prime cancellate, è nella cantina dei miei genitori. Qualche tempo fa, papà, mentre era intento a liberare la cantina, mi propose di buttarla. Ma stiamo scherzando? Non serve a nulla ma resta lì».
Le cattive abitudini delle persone si misurano in spazio e tempo e Raffaele rende bene questa idea: «Quando mi chiedono quanta plastica raccolga nei miei viaggi parlo di chilometri e di minuti. Noi percorriamo circa 60 chilometri in un giorno ma stiamo in sella dalle dieci alle dodici ore. Capisci quanto tempo trascorriamo fermi a raccogliere plastica? Io sono convinto che parte della gente che mi segue e mi fa i complimenti sia la stessa che poi, magari, butta il pacchetto di sigarette fuori dal finestrino. Perché? Perché viviamo nell'inconsapevolezza dell'importanza dei piccoli gesti». Uno di questi passa per la scelta della bicicletta: «Sarei scontato se ti dicessi solo che la bicicletta mi regala la libertà. Allora mi spiego meglio: la bicicletta non inquina e ti porta dove vuoi. Non spendi praticamente nulla e puoi arrivare lontano in tempi anche abbastanza brevi. In questo periodo disgraziato lo stiamo scoprendo». Il punto, e Raffaele Fanini lo spiega bene, sono le priorità: «Ognuno ha una propria scala di cose importanti. Alcuni pongono al vertice il benessere economico, altri i divertimenti e così via. L'ambiente? Il pianeta? A che punto sono della scala? Sono la nostra casa esattamente come le mura in cui viviamo. La terra non è nostra, non l'abbiamo avuta in eredità dai nostri genitori. L'abbiamo in prestito dai nostri figli. Questo me lo ha detto mio fratello, lo ha letto in un libro ed è verissimo». Poi c'è il cambiamento, quello a cui dobbiamo contribuire tutti ma in cui le istituzioni hanno un ruolo fondamentale: «Si possono lanciare tanti messaggi e tante campagne di sensibilizzazione ma poi la gente ha a che fare con una realtà che talvolta scoraggia altre scelte. Se i prodotti bio o ecologici costano molto di più, possiamo immaginare che verranno scelti gli altri. Si potrebbero vendere anche più prodotti sfusi, in modo da non avere un sovraccarico di imballaggi. Serve la volontà di farlo e l'appoggio delle aziende».
Alle persone invece servirebbe, ogni tanto, rinunciare all'abitudine e alla comodità del momento. Un passo fondamentale quanto difficile: «Molti dei ragionamenti che sentiamo tutti, quelli della matrice "ma si è sempre fatto così", purtroppo, hanno una visione limitata e una forte resistenza al cambiamento. Io sono sicuro che a tutti piacciono gli spazi aperti immersi nella natura, puliti e spazzati da aria limpida e fresca. Perché stiamo così bene in montagna? Per questo. Pensiamo se riuscissimo a fare in modo che buona parte del pianeta fosse così, pensiamo a quanto staremmo bene. Le cose possono cambiare. Serve fiducia, volontà di cambiamento e anche la più piccola azione è importante». Noi, da parte nostra, siamo certi che servano anche le storie e che anzi le storie, quelle belle, siano parte della fiducia. Ancor di più nei momenti difficili. La fiducia è un esercizio da fare nei momenti complessi, sarebbe troppo facile altrimenti. Fiducia che non vuol dire non vedere i problemi. Fiducia che significa tenere d'occhio la parte salva della realtà e ricominciare a costruire da quella. Magari raccontando una storia. Magari quella di Raffaele.
L'aerodinamica di Top Ganna
27 Ottobre 2020ApprofondimentiFilippo Ganna,Simone Origone
Per commentare la posizione in bicicletta di Filippo Ganna ci siamo rivolti a qualcuno che di aerodinamica se ne intende, Simone Origone. In sintesi? L'uomo più veloce del mondo senza l'ausilio di mezzi meccanici.
Dodici coppe del mondo, sei ori mondiali, un argento. Tre record mondiali consecutivi e un miglior tempo personale che oggi resta la seconda prestazione di sempre. Un tempo realizzato che solo a leggerlo fa strabuzzare gli occhi: 252,987 km/h. Su un paio di sci.
Simone Origone è una leggenda dello sport italiano; nello specifico è una leggenda di uno sport che mi permetto di definire un po' folle – non me ne voglia, ma lo saprà meglio di tutti - e che ti lascia una sorta di strana ebrezza solo a chiudere gli occhi e pensarlo: la velocità sugli sci.
Ma Origone è anche un appassionato di ciclismo. «Solo un semplice appassionato» specifica, quando gli chiedo a fine chiacchierata se darebbe qualche consiglio a Filippo Ganna sulla sua posizione in bicicletta. Filippo Ganna che ancora non è leggenda, ma che da tempo si sta affrettando a scrivere il suo nome nei libri di storia. «Non mi permetterei mai di dargli un consiglio» risponde, accompagnando il tutto con una fragorosa risata.
Gli abbiamo dato una foto di Filippo Ganna in azione a cronometro, in posizione. Origone la guarda, la analizza e ci spiega qualcosa, frutto della sua sensibilità e della sua esperienza.
«Ganna in bici è praticamente perfetto. Oltre a delle doti fisiche pazzesche lui ha una fortuna: quella di avere delle forme fisiche aerodinamiche. È alto, longilineo e come succede nel nostro sport i longilinei sono avvantaggiati. Il fatto di essere alto lo aiuta in qualche modo e quando lo vedi pedalare è sempre composto. Il profilo della schiena è piatto, fermo, la posizione delle mani e quella dei gomiti è perfetta: è il frutto di quello su cui ha studiato e lavorato in questi anni per ottenere il massimo della efficienza. E poi non va messo in secondo piano il fatto di correre in una squadra che non lascia nulla al caso e si vede. E anche lui non lascia nulla al caso: lo capisci da questa ricerca della perfezione che puoi cogliere in tutti i minimi particolari: anche solo nella posizione in cui tiene le mani. C'è talento, ma dietro c'è una maniacale cura del dettaglio» .
Viene naturale chiedere a Origone come si arriva, oltre a doti naturali, ad ottenere questa perfezione, sia nel ciclismo, sia nella sua specialità dove l'attenzione a ogni minimo particolare può fare la differenza, può permetterti di limare quei centesimi che poi risultano decisivi quando si corre contro un cronometro, quando si corre contro il tempo, mai termine più adatto nel caso della velocità sugli sci. E naturalmente il discorso cade sulla galleria del vento. «Lavorare in una galleria del vento è fondamentale. È essenziale sia nel mio sport, sia nel ciclismo. Il mio primo record del mondo senza galleria del vento non lo avrei fatto. Era l'autunno 2005 quando andai da Pininfarina e imparai dettagli sulla posizione che sulla neve non avrei capito. A parità di prestazioni tecniche e fisiche se riesci a migliorare l'aerodinamica migliori l'efficienza. Quando io andavo in una galleria del vento ho trovato spesso parecchi ciclisti: per un corridore al top come Ganna è essenziale curare al meglio la posizione e raggiungere il più possibile la perfezione» Ma un lavoro in galleria del vento non basta, ci dice Origone. «La galleria del vento ti dà la possibilità di fare tuoi dettagli che altrimenti non riusciresti a capire, ma poi la parte più difficile è portare quello che sviluppi in galleria del vento sulla strada nel caso dei ciclisti, sulla pista da sci per noi».
Origone spiega poi come sia fondamentale un passo successivo che non riguarda solo l'efficienza della posizione, ma anche lo studio dei materiali «Una volta che trovi la tua posizione migliore, in galleria del vento inizi a lavorare anche sui materiali, soprattutto sui body». Infine, gli pongo la domanda fatidica: ma questa benedetta posizione perfetta, esiste? «Si dice che la forma aerodinamica perfetta sia la forma a goccia, io posso dire che quello che ognuno può fare è adattare la posizione alle proprie forme fisiche». Tra Ganna e Origone, il risultato sembra ben riuscito.
Foto Ganna: Gabriele Facciotti/Pentaphoto
Foto in galleria del vento: Andrea Gallo
Un racconto di fango e pietre oppure una stagione senza Roubaix
25 Ottobre 2020ApprofondimentiParigi-Roubaix
Che strazio: un anno senza Parigi-Roubaix. Che paura guardare Arenberg vuota, ferma e silenziosa come una vecchia fotografia invernale. Non ci può essere più scherzo bislacco di una Roubaix bagnata, con freddo e vento e che non si può disputare.
Immaginatevi: una nebbiolina avvolge la foresta e una mandria di corridori imbizzarriti ci si lancia dentro, dove a sfidarsi in prima fila ci sono i Diòscuri del ciclismo, van Aert e van der Poel. E invece è l'horror vacui. Come quando il re dei sogni scende all'Inferno e lo trova svuotato da tutte le anime dannate.
Immaginatevi. Chiudete gli occhi e fate volare il pensiero verso Arenberg, l'infame. Quel pavimento lastricato che compone il suo settore: veleno per le gambe dei corridori. Immaginatevi le pietre che lo ricoprono, ricche di insidie e di aneddoti. Pietre che hanno visto cavalieri ritornare a casa dopo lunghe battaglie e soldati feriti marciare; carri trasportare carbone o mezzi agricoli dissestarne la pavimentazione. Sassi tagliati in modo ingiusto e che ridono malignamente quando le ruote fanno loro il solletico e si sentono colpevoli quando durante la Parigi-Roubaix qualcuno finisce a terra e si fa male. E oggi? Oggi i corridori vivranno stati d'animo schizofrenici: ci sarebbe potuti essere e avrebbero rischiato, si sarebbero fatti male, avrebbero sofferto. Invece non ci sono ma sognano di esserci.
Immaginatevi quel tratto: un sentiero oscuro chiamato anche Drève des Boules d'Hérin, dove boules sta per bocce, oppure qualcosa di simile a bouleaux, betulle, come quelle che circondano i duemila e quattrocento metri di strada fino all'uscita.
Durante l'anno, da quelle parti, tutto sembra immobile e appartenente a un'altra epoca - un po' come accadrà oggi. L'area è protetta, in letargo. C'è una sbarra: il transito è vietato alle automobili. Sopravvissuta alla legge dell'asfalto, dal 1992 è monumento nazionale. Sul sito dell'associazione "Les Amis de Paris-Roubaix", uno slogan recita: "Senza pavé non c'è la corsa", loro, come guardiani di questo tempo perduto, hanno il compito di scovare nuovi tratti in pavé, restaurarli e salvaguardarli, in barba a contadini, agricoltori e amministrazioni; tra febbraio e marzo si piegano sulle gambe per sistemare le pietre sconnesse. Angeli a guardia dell'inferno. Quest'anno resta il pavé, ma non la corsa.
Allora quella possiamo solo continuare a immaginarla, a studiarla, a ricamarla. Possiamo sentirla: come l'aria di quelle parti tutta intrisa di carbone, o raccontarla. Come Emile Zola che scrisse di Étienne Lantier, il quale, dopo aver preso a schiaffi il suo datore di lavoro, fu licenziato e si trasferì a lavorare nelle miniere della vicina Anzin. Frustrato dalle condizioni di lavoro organizzò diversi scioperi e rimase bloccato in una delle gallerie a seguito di un'esplosione organizzata dall'anarchico Souvarine.
Le miniere tutte intorno producevano carbon fossile collante adatto alla produzione di metalli, e il terreno grigiastro e polveroso che sfila lungo il pavé a schiena d'asino ne è la prova. Jean Stablewski, diventato poi Stablinski, ne è testimone; cresciuto a Wallers, da dove passa la corsa e da dove nasce e muore Trouée d'Arenberg, fu lui a rivelare agli organizzatori dell'epoca l'esistenza di questo tratto; su questo ciottolato ci passava in bicicletta nelle ore libere dal lavoro, prima di fuggire da quelle miniere e rifugiarsi nel ciclismo. «Sono l'unico uomo al mondo che è passato sotto le gallerie che tagliano la Foresta e che poi c'ha pedalato sopra». Ora una stele all'entrata lo ricorda.
Qui è difficile costruire un successo, mancano troppi chilometri alla conclusione, se cadi o fori hai tempo per recuperare, ma al termine del suo segmento l'acido lattico ti arriva fino alle orecchie. Qui Johan Museeuw rischiò di porre fine alla sua carriera. Cadde, si frantumò il ginocchio che si infettò a causa di merda di cavallo e rischiò l'amputazione. Redento, ritornò e la vinse altre due volte. Lo scorso anno van Aert cadde e provò una rimonta malriuscita: quest'anno sarebbe andata diversamente, ci potremmo giurare.
Questo posto ha tanti nomi, come uno spauracchio, come un demone. Pierre Chany fu il primo a chiamarlo Tranchée d'Arenberg, perché la sua cupezza ricordava i condotti tagliati dalle trincee durante la prima guerra mondiale. È Trouee d'Arenberg, è la Foresta di Arenberg, o semplicemente Arenberg, l'infame. Per i corridori è solo l'inizio dell'incubo e la fine dei sogni che da qui in poi si tramutano in brusco risveglio, per la Parigi-Roubaix è un segno identificativo.
Le azioni decisive qui sono state fatte di rado, perché ha più senso, in una corsa che non ne ha, attaccare sul settore di Mons-en-Pévèle quando mancano una cinquantina di chilometri all'arrivo e la strada è tutta polvere e buche. Ci provò Štybar senza successo un paio di anni fa, zigzagando tra le canalette e respirando sabbia a pieni polmoni; Boonen, per la sua quarta vittoria alla Roubaix, staccò Terpstra, suo compagno di squadra, a Auchy-lez-Orchies, quando mancavano più di cinquanta chilometri a Roubaix. Sul settore di Templeuve attaccò Ballerini nel 1995 e al traguardo ne mancavano poco più di trenta. Sagan si differenzia sempre e per vincere nel 2018 sceglie un anonimo tratto d'asfalto per salutare la compagnia. Qualcuno opta per il Carrefour de l'Arbre (Cancellara per la sua prima Roubaix dopo aver selezionato il gruppo già dalla Foresta) o dintorni: per la sua prima volta Boonen nel 2005 sceglie Gruson.
Inserito nel finale e dove la gara si può ancora decidere o rimescolare, il Carrefour de l'Arbre è un tratto con curve malefiche, tifosi che rischiano di invadere la strada, terreno dissestato tra sassi e lastre d'asfalto che creano vere e proprie buche; qui Vanmarcke nel 2016 provò l'azione risolutiva, ma fu ripreso e poi Hayman beffò Boonen nel velodromo di Roubaix. Dove prima o poi, per fortuna o purtroppo, si arriva e tutto finisce.
Immaginatevi, infine, cosa sarebbe potuto essere nel 2020, a ottobre, con van der Poel e van Aert, con la pioggia, il vento e il freddo con Arenberg gotica e il suo abito spettrale e con tutti gli altri settori dai denti aguzzi pronti a lacerare la carne; non lo sarà, ma forse lo rivedremo tra pochi mesi. Arenberg l'infame, la Roubaix e ancora altre storie da raccontare.
Foto: ASO / Pauline Ballet
Stelvioman: il custode del Passo
23 Ottobre 2020StorieGiro d'Italia,Stelvio
Non sappiamo ancora se la gloria sia passata dai venticinque chilometri della salita che da Prato porta ai 2758 metri del Passo dello Stelvio. Sappiamo solo che questa ascesa rimane leggenda, un serpente di asfalto che si inerpica fra foreste e alpeggi levandoti il respiro, un trampolino lunare che per i corridori è un giudizio universale. Dal versante altoatesino, come nel Giro 2020, da quello lombardo o da quello svizzero. Proprio per tutti i gusti.
Questa salita ha il suo guardiano, il suo cappellano che macina chilometri a ripetizione su queste rampe e conosce ogni cambio di pendenza, riconosce ogni crepa sulla strada, sa dove poter rifiatare, rilanciare, attaccare. È Daniele Schena, per tutti Stelvioman, come indicano i suoi profili Social. È salito ai quasi 3000 metri del Passo un centinaio di volte da Prato, circa trecento invece da Bormio dove risiede. Se hai provato a scalare lo Stelvio al suo fianco ti insegna, ti consola, ti scuote. È come uno sherpa, una guida che ti scorta verso questo paesaggio lunare fatto di morene e circondato da pareti di neve perenne. Lo Stelvio, da Prato, per Stelvioman ha emesso diverse sentenze. «Davano per spacciati gli Ineos? Hanno fatto loro il ritmo, hanno fatto loro un capolavoro con Dennis e Geoghegan Hart. Non si recita mai il de profundis prima di salire in cima allo Stelvio».
E Stelvioman sul ritmo impresso, racconta «Lo hanno talmente temuto che lo hanno affrontato forse inconsapevolmente con spavalderia e facendo selezione fin da subito con un ritmo elevatissimo. Non hanno aspettato Cancano per spaccare il gruppo di testa. Che spettacolo!».
Del resto lo Stelvio è così. Talmente magico che è imprevedibile in ogni suo aspetto. Dalla tattica con cui lo affronti, dall’incognita di una crisi dietro un tornante, alle condizioni meteo a volte davvero proibitive. «Per essere ottobre inoltrato il meteo è stato clemente. Il freddo si sentiva solo nella picchiata verso Bormio, ma a quell'altitudine è inevitabile. Keldemann ha pagato il fatto di non essersi allacciato il giubbino e così ha perso un po’ di forza quando doveva spingere in direzione della salita di Cancano». Un profeta, come quando ricorda che «Da maggio a ottobre un giorno puoi trovare una temperatura gradevole, altre volte condizioni invernali. Devi avere con te i giusti cambi, le protezioni adeguate, accorgimenti che possono salvarti da spiacevoli sorprese. E occhio alla discesa: non bisogna emulare i professionisti. I tornanti sono stretti e impervi, bisogna prestare la massima attenzione e rimanere concentrati. Spesso attacchi la discesa e sei ancora poco lucido, annebbiato dalle fatiche della salita».
Questa tappa è stata la sua tappa. Lui che ha accompagnato come un angelo custode migliaia di turisti. E sì, perché Stelvioman è stato il primo a lanciare il turismo della bicicletta a Bormio sdoganando il fatto di essere solo meta per gli sport e il turismo invernale. Di turismo e di accoglienza ne sa e ci vede lungo. «Un aspetto positivo la vittoria di Hindley, un australiano. Così lo Stelvio sarà ancora più internazionale, come quando vinse De Gent e l’estate successiva arrivarono parecchi belgi». Natura e watt certo, ma lo Stelvio è anche storia. «Ogni volta che lo scalo mi emoziona sempre questo lavoro di ingegneria stradale. Un capolavoro costruito nel lontano 1815». Stelvio, antologia e storia. Ma qual è il versante per antonomasia? «Mitici tutti certamente, ma quello che sento più mio è quello di Bormio».
Di Gabriele Pezzaglia
Foto: Pentaphoto
Sua Maestà Stelvio
22 Ottobre 2020StorieGiro d'Italia,Stelvio
Lo Stelvio ha risvegliato un Giro d'Italia che sembrava essersi addormentato, abbandonato ad un letargo autunnale. Lo ha fatto nell'unico modo possibile, impassibile di fronte a ciascuna delle storie dei ciclisti che lo scalavano. Giudice ferreo di responsabilità inevitabili. Non c'è pietà fra i monti in mezzo a cui si inerpica una strada serpentina che sibila paure. Chissà cosa avrà pensato Almeida quando ha iniziato a perdere posizioni, quando ha capito che quelle ruote si allontanavano sempre più, quando ha pensato a tutti i suoi sogni, con quella maglia rosa addosso, e ha temuto di non poterne concretizzare alcuno. In fondo il difficile è proprio rinunciare alla felicità immaginata, a quella possibile fino a qualche secondo prima. Lassù faticano tutti ma i pensieri cambiano forma alla fatica. Wilco Kelderman per qualche chilometro alleggerisce la pedalata proprio grazie al pensiero, grazie a quel punto rosa che si allontana e gli fa credere che oggi è possibile, che Almeida, ora, è alla frutta. Tutto cambia, si ribalta, con una velocità che qui puoi solo immaginare.
Tao Geoghegan Hart è più tranquillo perché non è solo e lì davanti la sua squadra sta davvero facendo tutto il possibile. Tutto il possibile o anche di più lo ha fatto Rohan Dennis, davvero commovente oggi. Dennis aiuta con l'anima di chi vuole aiutare e lo fa sino all'ultimo respiro. E noi immaginiamo il suo pensiero: «Dai, ancora una pedalata e poi mi sposto. Arrivo a quel sasso, a quell'albero, a quel tifoso e poi mi sposto. Cambio rapporto, un'ultima spinta e mi sposto». Ha rimandato tanto Rohan Dennis, così tanto che quando si è spostato non ne aveva davvero più, quasi si fermava. Ha dato tutto, Dennis. Geoghegan Hart, in quel momento, avrà pensato alla responsabilità che aveva sulle gambe, perché quando qualcuno si sfinisce per te, per aumentare le tue possibilità di farcela tu ti senti in dovere di fare qualcosa. Qualcosa di speciale, magari vincere, magari indossare la maglia rosa. E chissà cosa avrà pensato quando non ci è riuscito. Cosa ha pensato Jai Hindley, invece, lo sappiamo. Lo ha detto più volte dopo il traguardo: «Incredibile, è incredibile». Dopo il traguardo, quando in maglia rosa c'è già Kelderman, per pochi secondi. In gara, mentre saliva ai Laghi di Cancano e parlava con Geoghegan Hart, avrà rivisto i suoi genitori e quel giorno in cui lo misero in bici a soli sei anni.
Avrà pensato che oggi sarebbe stato proprio un bel giorno per dimostrare che mamma e papà ci hanno sempre visto lungo. Magari per farlo in maglia rosa. E intanto la voce dalla radiolina, la voce di Kelderman che è lì e da chilometri e chilometri è maglia rosa virtuale. Chissà se uno dei due ragazzi Sunweb avrà pensato anche a questo? A cosa avrebbe ottenuto l'altro a fine tappa. Chissà se c'è un pizzico di rivalità fra Kelderman e Hindley? Chissà se, anche solo per qualche istante, avranno pensato: “La maglia rosa la voglio io, la devo avere io”. Perché certe cose sono umane ed è anche giusto dirle. Dei tanti chissà non sa cosa farsene la classifica generale che pone Kelderman in prima posizione e Hindley in seconda. Anche Geoghegan Hart ha altro da pensare perché stasera non ha solo due rivali ma ha due rivali che sono alleati o almeno dovrebbero esserlo. Lui, forse, può sperare. Può sperare che qualcosa fra i due vada storto, può sperare di essere lì per approfittarne. Ma questa è un’altra storia e ve la racconteremo molto presto.
Foto: Pentaphoto
Essere Mathieu van der Poel
18 Ottobre 2020StorieGiro delle Fiandre,Mathieu van der Poel
Spesso c'è tutto in un grido. Il grido di Julian Alaphilippe che a trentacinque chilometri dal traguardo frana rovinosamente a terra dopo che col gomito sbatte violentemente contro la moto della giuria. C'è la disperazione nel viso di quest'uomo, nel suo corpo che, senza l'appoggio delle braccia, non riesce a girarsi, a mettersi supino e si dibatte in un'impossibilità atroce. Nessuno riesce a capire, almeno in un primo momento: lo sguardo vaga cercando una risposta a quel dolore. Il motociclista della giuria si avvicina, quasi a chiedere scusa, quasi a voler porre rimedio. Non è più possibile ormai. Quando errore c'è, bisogna pensarci prima, dopo è tardi, è inutile. In realtà prima bisogna pensarci anche quando non c'è errore perché basta poco, pochissimo, per cambiare sorte alle cose e alle persone. Cade Julian, cade e con lui frana tutto. Si è rialzato molte volte e tornerà a rialzarsi ma oggi no e a lui serviva essere in sella oggi. Del resto possiamo discutere noi, del resto parleranno le corse. Resta quell'immagine al suolo, come un castigo degli Dei alla fantasia e a quella forza del continuo provare, del continuo inventare, che tanto piace agli uomini. Wout van Aert e Mathieu van der Poel si voltano di scatto appena sentono il rumore della caduta, le grida del francese. Si guardano, proseguono, non possono fare altro: devono proseguire. E la gente, i tifosi, vivono un contrasto di sensazioni, come il viandante su un mare di nebbia di Caspar David Friedrich. Vorrebbero essere lì, vorrebbero essere su quelle strade ma non possono. L'immedesimazione è l'unica via per essere proiettati, almeno per qualche istante, nella realtà sensoriale di una gara che sta diventando un duello di spada e fioretto. I pochi tifosi che si affacciano dai cancelli gridano forte, più forte che possono e, chiudendo gli occhi e ascoltando, per qualche secondo ci si può pure inventare che le cose non siano cambiate così tanto.
Svanisce tutto, come quel silenzio ritorna e non si può fingere di non sentirlo. Il silenzio è attorno, non nel gruppo che d'improvviso si risveglia e accende un folle inseguimento, non nella testa di van der Poel e van Aert che pullula di pensieri. Alberto Bettiol, ieri, ha raccontato di essere bravo a giocare a scacchi e ha ricordato come il Fiandre assomigli a una partita a scacchi. Negli scacchi prevale l'attendismo, le partite possono proseguire per ore e le mosse possono essere così sottili da sembrare ininfluenti. Probabilmente sono già passati tanti chilometri, troppi, quando Bettiol si mette in testa al plotone e forza l'andatura stringendo i denti. In molti fanno così, come se quel ghigno potesse sfogare una rabbia repressa, un dolore ancestrale che è l'unica spinta per cercare di arrivare al traguardo, per non cedere a quella voce che tutti abbiamo dentro e che ci suggerisce la via più facile. Non la migliore, la più semplice. Davanti quei due, van der Poel e van Aert, trovano l'accordo e vanno via che è una meraviglia. Loro, i due rivali, i più attesi, quelli che tutti stamattina hanno guardato con una peculiare attenzione. Come a dire: "Vi teniamo d'occhio". E quando si è tenuti d'occhio è tutto più difficile ma i campioni sono chiamati anche a questo, oneri ed onori. Loro lo sanno e si prendono la responsabilità della gara come giganti che reggono sulle spalle un pianeta parallelo. Qualcuno teme qualche tatticismo di troppo, teme che sprechino quel vantaggio gettandolo al vento d'ottobre che spazza le pietre e la natura che inizia a sonnecchiare nell'inferno del nord.
Qui il fuoco e le fiamme sono di freddo e brina. Qualcosa che sembra rallentare il circostante, quasi a lasciarlo immutato, come in una fotografia. Come all'ultimo chilometro di una qualunque gara, ma questa non è una gara qualunque, in cui la velocità, le spallate ed i cambi di direzione al millimetro sono preceduti da una calma ansiosa. Quell'attesa che mischia euforia e timore per poi gettarseli alle spalle in una frazione di secondo. L'attimo in cui decidi che il tuo tempo è giunto e ti scordi di ogni pensiero antecedente. Così è l'ultimo chilometro di van der Poel e van Aert: una sensazione di infinito che si sprigiona dall'arco e dura fino alla linea finale ed anche oltre. Prima uno a tirare davanti e uno a inseguire dietro, poi uno sulla destra e uno sulla sinistra, entrambi prima seduti e poi sui pedali, entrambi con la testa che sembra assecondare quella volontà di supremazia. Un "sì" riaffermato continuamente. Una certezza che non c'è ma pretende di avverarsi. Sulla linea, van der Poel e van Aert, arrivano assieme e si lanciano in un colpo di reni che tende e affina ogni linea del loro corpo di atleti. L'incertezza è un respiro strozzato, un calcio alle illusioni, un ricordo e un augurio. Sono quei secondi, una manciata, che pesano più delle ore a tremare su quella sella, quei secondi in cui anche i campioni perdono quella invulnerabilità che solo apparentemente li caratterizza e tornano uomini che guardano lo staff nella speranza di un assenso, che ascoltano le voci sul traguardo immaginando di sentire il loro nome. Vince Mathieu van der Poel: è il grido, l'altro grido, in cui c'è tutto. Per l'ennesima volta, tutto uguale e diverso. Come uguali e diverse sono quelle lacrime che non hanno il tempo di cadere a terra, trattenute dalle sue mani che chiudono gli occhi. Quegli stessi occhi che, ora, non hanno bisogno di vedere, che forse non hanno neanche voglia di vedere, che vogliono stare così fra quelle mani. A liberare un sentimento straripante, sciolto e trattenuto lì, vicino. Quello di Mathieu van der Poel che oggi, a venticinque anni, ha vinto il Giro delle Fiandre.
Foto: Bettini
Chi ha paura di João Almeida?
18 Ottobre 2020CorseGiro d'Italia,João Almeida
Fatevi avanti coraggiosi, oggi, sulle non-troppo-ripide rampe che portano verso Piancavallo. Salita nervosa, irregolare a tratti, trampolino per impavidi, appiglio per timorosi, ma che tra freddo e vento in faccia potrà provocare dolore.
Fatevi avanti se volete ribaltare la corsa, perché fino a oggi avete avuto paura di un ragazzo che di anni ne ha ventidue, come Pogačar o Hirschi: quest'anno pare che non ne abbiamo ancora avuto abbastanza.
Quando un corridore indossa la maglia rosa, la narrazione, scritta o parlata, dà fondo a quello che è il sunto della retorica. La maglia rosa fortifica, quadruplica le forze, è un segno di eleganza e chi la indossa appare più bello e distinto di quello che è in realtà. Ti fa correre più forte, è una medicina, allevia la fatica, dà soddisfazione, alleggerisce nel suo essere un fardello, è come lo slogan su un giornalino degli anni '70: indossami - sarai soddisfatto. La squadra che ti scorta all'improvviso diventa una fratellanza, i ragazzi con i quali condividi ogni istante si tramutano in fedeli che si alimentano dall'energia che irradia il colore che porti addosso.
Il 2020 anche nel ciclismo è un anno che più strano e complicato non si poteva e immaginatevi la faccia di João Almeida che inizialmente non doveva nemmeno essere al Giro. Quando è passato sembrava già aver visto il meglio alle sue spalle, spremuto da una febbrile attività giovanile. Non ha mai vinto una corsa, non ha mai disputato un Grande Giro, l'unica Monumento non l'ha nemmeno portata a termine, e invece, a suon di costanza, scalava le gerarchie. Doveva esserci solo per dare conforto a Evenepoel, e poi eccolo lì.
Visto quanto va forte sul passo, e visto lo spunto veloce, dopo il terzo giorno è in maglia rosa e lo è ancora alla vigilia della quindicesima tappa. Per trovarne altri con più di dieci giorni in maglia rosa a meno di ventitré anni, bisognerebbe scomodare nomi di enormi talenti precoci e che per bontà lasciamo negli appunti.
Non vi fa paura uno così? Ne diciamo un'altra: quattordici tappe al Giro d'Italia 2020, mai fuori dai venticinque; quattro volte sul podio di tappa. Certo, di "salite vere" - corsi e ricorsi retorici - non ne abbiamo ancora viste e oggi, lo diciamo fuori dai denti, la possibilità di perdere la maglia rosa c'è ed è concreta - Kelderman, gettonatissimo.
In Portogallo si dice "Barriga cheia cara alegre" - pancia piena volto allegro - a noi, ammiratori di facce, il viso di Almeida sembra sempre attento e in tensione, la maglia rosa fa paura e cura la tristezza.
Un giorno, sul petto di un uomo alla deriva, e descritto alto e biondo come una birra, fu trovato scritto un messaggio: "Sono nato per rivoluzionare l'Inferno". Almeida forse (ancora) non osa così tanto, ma agli altri sembra far davvero paura.
Foto: Gabriele Facciotti/Pentaphoto
Un senso di Fiandre
17 Ottobre 2020CorseGiro delle Fiandre
Nelle Fiandre capisci cos'è l'empatia, quella fra cielo e terra. In questo nulla di strade disseminate fra brulle colline, aspre come un taglio nella pelle, addolcite malinconicamente solo da un pallido sole che fugge e rifugge e da quella luce, fredda, che ricorda un bagliore d'autunno anche agli albori della primavera. Qual è la luce delle Fiandre? Quella foschia che lascia solo sognare le distese azzurre del mare del nord. Un oltre che pare irraggiungibile, mentre tutto è avvolto dalla foschia. C'è il vento che spazza così forte quelle terre che ti chiedi come faccia a non spezzarsi nulla, dentro e fuori. Come facciano le cattedrali, maestà nel vuoto, a restare lì impassibili: quanto freddo c'è fra le loro vetrate? Quanto cielo è rimasto fra le guglie ed i pennacchi? Già, perché qui il cielo si abbassa e ti resta addosso. Sarà per quelle nuvole sbattute dal vento che perdono in un attimo il loro cupo grigiore per riscoprirsi bianche, candide. Sarà per quella bruma che seppellisce tutto. Cardarelli diceva che il mare odora quando è sepolto dalla bruma. Non solo il mare, tutta la natura ed anche queste vie ortogonali a disperdersi chissà dove. Se hai il coraggio di respirare a pieni polmoni, quell'aria, a tratti gelida, ti porta dentro ciò che vedi. A dir la verità, qualcosa ti resta appiccicato lo stesso, anche bardato: è nelle ossa che la bruma fa il nido. Lì cade senza far rumore e viene assorbita. L'empatia, nelle Fiandre, è questo: un richiamo continuo.
L'empatia nelle Fiandre è ciò che prova un milione di persone che si riversa nelle strade, in queste strade, per vedere il passaggio della Ronde van Vlaanderen. Questi uomini e queste donne «dai desideri limitati, dall'esistenza modesta; calmi, misurati, freddi, flemmatici, in una parola "fiamminghi", come se ne incontrano a volte tra la Schelda e il Mare del Nord», diceva Jules Verne. Loro, per natura, rispecchiano ciò che c'è e, forse, soprattutto ciò che non c'è. I luoghi che viviamo ci plasmano, ci afferranno o ci respingono. Forse per questo chi arriva nelle Fiandre, chi arriva al Giro delle Fiandre, vuole toccare quella terra, quelle pietre, e ci mette le mani, ci si sdraia sopra, qualcuno ci appoggia anche le orecchie. Perché chi non vive qui, non riesce a capacitarsi di quello che accade e cerca una risposta, la cerca ovunque, aspetta una rivelazione. Questa umanità sente qualcosa e brulica, si accende e vive di una vita in festa in quei giorni. C'è la birra, in quelle bottiglie dalle marche variegate e in quei bicchieri di plastica, appoggiati a terra, accanto alle transenne dove lo sguardo sceglie la sua regia. Ci sono musica e voci che non si seguono in scia, ma si rimpallano ed in alcuni momenti sembra il caos. In alcuni istanti non senti nemmeno la tua voce e ti chiedi dove sia, se, per caso, a forza di gridare e di incitare chiunque, sia finita, si sia addormentata come accade a qualche bambino di pochi mesi che riesce a dormire anche in questo "inferno". Si incita davvero chiunque, dal professionista all'amatore, all'anziano signore che su una vecchia bici non percorre più di cento metri fra quelle pietre sgangherate, ma lo fa qui e questo basta. Li si incita urlando il nome, il numero, un colore che li caratterizza od un soprannome che si inventa al momento e che ricorda una loro caratteristica. Che insomma li fa sentire al centro per qualche secondo, accolti. Perché il mistero delle Fiandre è anche in questa loro accoglienza che diviene urgenza di farvi ritorno.
Quelle pietre sono diverse. Non sono piane ma hanno forme strane, strambe. Una caratteristica è comune: una sorta di bombatura sul dorso. Le linee che si arrotondano dovrebbero suggerire pacatezza, tranquillità, come una discesa, come qualcuno che accompagna. Invece no. Quelle pietre a "cappello di prete" sono le spine dell'inferno. Devi trovare l'equilibrio e mantenerlo perché basta una minima sbandata per cadere o per essere costretti a mettere il piede a terra. Quelle pietre conservano il dolore di una processione triste. Fanno male quanto la terra che si alza ovunque e si confonde con la foschia. Vedi solo qualche bandiera con i leoni rampanti, gialla e nera, e preghi che la cantilena dei muri dai nomi multiformi, finisca presto perché senti male ovunque. Ti accorgi di ogni minima parte di te in questo inferno. Se pensi a Karel Van Wijnendale, il giornalista che a questa corsa pensò per primo, ti sembra un uomo nato per far soffrire altri uomini, quelli che lui definiva Flandrien per questo spirito votato al martirio. Perché non ne puoi più e non trovi una buona ragione per essere ridotto come sei ridotto in questo momento. Le ragioni, però, nella vita arrivano sempre dopo e certe volte è anche meglio evitare di cercarle. Non devono per forza esserci, non tutto deve avere un senso. E questo forse un senso non lo ha ma esiste ed è così spietato, reale, brutale da essere bello.
Foto: Bettini
Sono Jhonatan Narvaez e arrivo dal freddo
16 Ottobre 2020StorieGiro d'Italia,Jhonatan Narvaez
Scruto negli occhi i miei avversari e vedo visi solcati dalla fatica, facce intrise di paura, agonismo e agonia. La pioggia picchia sulle nostre teste, passa attraverso un rigagnolo creatosi tra occhio e naso, e va a formare una valle di lacrime. Cambi regolari. Spengo la radiolina e poi la riaccendo come un tic nervoso. La strada è pericolosa e riflette un cielo diventato nero. Ho le mani fredde ma pedalo come se nulla fosse. Mi sposto per far passare un avversario, chiudo il buco, si sale e si scende: quale sporca abitudine. L'acqua si infila dappertutto, ci prende a schiaffi e ci fa soffrire.
Mi chiamo Jhonatan Narvaez. Ho la pelle scurissima tanto che mi hanno sempre scambiato per colombiano. In effetti sono nato al confine con quella terra e per diventare seriamente ciclista spesso mi sono spostato di là. Chi mi ha scoperto è andato in giro per l'Europa a dire che sono forte, addirittura fortissimo, che assorbo facilmente quello che mi viene spiegato, ma non vorrei che si sapesse troppo che imparare l'inglese per me è stato più difficile che andare in salita.
Sono forte sul passo, ho vinto titoli in pista e a cronometro. Ho spunto veloce. La prima volta che sono venuto in Europa mi hanno sottoposto a dei test fisici dai risultati, a sentir loro, sbalorditivi. Io sono sempre “andato”, senza preoccuparmene. Salita, discesa, pianura, volata, pista: insomma davvero forte ovunque.
Salita. Per arrivare a casa mia ho percorso migliaia di volte un “puerto”, come diciamo noi in spagnolo, di cinque chilometri. Mi allenavo in montagna e quindi le salite al Giro non mi fanno troppa paura. Leggo dappertutto scritte che richiamano al Pirata Pantani. Lui davvero andava forte in salita, davvero non aveva paura in bicicletta. Quando vinceva il Giro, io avevo un anno, e dalle nostre parti non si faceva che parlare di quella volta che c'è stato il Mondiale in Colombia e lui arrivò sul podio.
Pista. Ho fatto il record mondiale di inseguimento giovanile sui tremila metri. Non sono Ganna, è vero, ma nemmeno uno sprovveduto.
Tra questi compagni di sventura in fuga non sono molto conosciuto non fosse per la squadra in cui corro. Non ho la verve di Pellaud, quello attaccherebbe anche nelle tappe di riposo; non parlo con l'accento toscano come Clarke, non sono a caccia di un contratto come Rosskopf e Campenaerts, non sono amato da tutti come Benedetti: lui si mette davanti al gruppo e non si sposterebbe per nessun motivo. Però vado forte nelle giornate come quelle di oggi e gli altri forse non lo sanno.
In Ecuador scrivono di me che vengo dal cielo perché sono nato e ho vissuto a tremila metri di altitudine dove la temperatura media è di dieci gradi e fa sempre freddo. E piove. Cosa volete che sia un'atmosfera così per uno come me? Pensate: oggi mi sembra di stare nei Paesi Baschi, non in Romagna, un posto che adoro perché piove sempre e fa freddo. Almeno quando vado in bicicletta.
Mi chiamano “avioneta”, l'aeroplano. E quindi attacco, plano dopo l'ultima salita con un ucraino che parla in bergamasco. Lui fora. Che sport di merda il ciclismo, vero? Me ne vado, pennello le discese, un po' presuntuoso mi paragono ad un'artista. In alcuni tratti appaio indeciso perché tiro il freno e prendo meno rischi possibili: se sentiste quello che mi stanno urlando nella radiolina rallentereste anche voi. Dicono che sia timido, ma con una volontà di ferro. Conoscete ciclisti senza carattere?
Ho peccato di superbia: tre anni fa Carapaz, Caicedo ed io abbiamo fatto baldoria. Abbiamo bevuto un po' troppo durante il ritiro della nostra nazionale prima dei Giochi Bolivariani, ci hanno beccati e cacciati. Fu una leggerezza. Ci hanno espulsi ma siamo tornati. Caicedo ha vinto una tappa pochi giorni fa, Carapaz ha vinto il Giro lo scorso anno, e la storia che a casa ha un grosso tacchino che fa da guardia al Trofeo Senza Fine non so se sia vera, ma è incredibilmente affascinante.
Pianura. Guardo dritto in posizione da cronometro, faccio il mio passo, mi frullano per la testa mille pensieri. Portal, quello che so del ciclismo lo devo tutto a lui; la mia terra, Playón de San Francisco, quello che sono lo devo all'Ecuador. Mio fratello, la scuola di Medicina che mi avrebbe accolto se non mi trovassi dove sono oggi, le corse in Francia dove mi sembravano tutti matti, ma se ho imparato a correre è perché lì si fa sul serio. Vedo il mare, ci sono delle giostre chiuse che sembrano carcasse di mostri giganti. Poco più in là il traguardo. La pioggia: anche in una giornata come oggi è benedetta, mi è amica. Quanto mi piace la pioggia? Quello che per gli altri sono schiaffi per me sono carezze. E un clima così? Non potrei volere altro. D'altronde sono Jhonatan Narvaez e arrivo dal freddo.
Foto: Gabriele Facciotti/Pentaphoto