Non avere paura

Certe volte le parole filtrano dagli occhi; lì dentro si può vedere tutto. Ieri pomeriggio, gli occhi di Vittoria Bussi riflettevano le strade di Imola, il tempo e alcune delle parole che ci siamo detti quando era ancora inverno. Così, negli intervalli di quelle lancette a scandire i secondi, mi sembrava di risentire la sua voce quando le chiesi se non la spaventasse l'idea della solitudine: ''Sai, tutti abbiamo paura di restare soli. Per questo la cronometro spaventa: perchè sei solo. Io ho imparato a convivere con la solitudine nelle notti trascorse in ospedale ad assistere papà quando lui non poteva parlare, non poteva dire niente. Notti lunghissime, l'alba non arrivava mai. In un silenzio che silenzio non è, perchè il silenzio dell'ospedale è intriso dei rumori tipici dell'ospedale. Su una sedia, con i miei fogli, a rivedere appunti di matematica. Notti di angoscia. In quel momento ho dovuto imparare a restare sola, per quanto mi facesse paura. Per questo oggi la solitudine non mi spaventa più. Per questo oggi so affrontare la solitudine. Ho imparato, pur non volendo ho dovuto imparare. Le cronometro sono solo pezzi di vita in cui sei solo. In tanti pezzi di vita si resta soli. Non bisogna averne paura''. Ci fu un giorno in cui Vittoria Bussi morì di paura: era il 2009 e lei era in Inghilterra per motivi di studio, Vittoria ha studiato matematica all'università. Le arrivò una telefonata, una di quelle che nessuno vorrebbe mai ricevere: ''Papà è ricoverato in terapia intensiva, ha avuto un'emorragia celebrale. Fatti coraggio!''

Vittoria è tornata in Italia per papà. È stata al suo fianco fino al 2012 con tutto quello che aveva e oggi continua a vivere per lui: ''Mi reputo atea, non credo, ma sono convinta che la tragica vicenda di papà mi abbia lasciato uno degli insegnamenti più importanti che un padre può lasciare a una figlia. Mi ha fatto capire quanto è importante la vita. Lui amava follemente la vita e la malattia non gli ha dato la possibilità di vivere. Io, da quel giorno, è come se vivessi per due, anche per lui. Ho abbandonato le scelte a lungo termine, ho scelto di fare ciò che avrei voluto fare da sempre, senza rimpianti o rimorsi. Io voglio godermi la vita. Ho un'energia diversa, come se avessi due persone dentro di me. Io vivo per due''. E non importavano nulla le parole della gente, anche di coloro che le volevano bene: Vittoria aveva deciso, Vittoria voleva vivere più forte che mai, voleva essere più viva che mai. ''Mia madre mi adora, ma allora non capì subito. Tu pensa a una donna già distrutta dalla perdita del compagno di una vita che si ritrova la figlia che impazzisce e butta alle ortiche una carriera accademica. Come poteva capirmi?''Così è arrivata al ciclismo e lo ha fatto con la chiarezza e la schiettezza che la contraddistingue: «Purtroppo, almeno all’inizio, ho trovato poca comprensione per le persone ancor prima che per gli atleti. Per questo ho deciso di fare una mia squadra. Ma sono sempre stata chiara, non ho litigato con nessuno: ho detto chiaramente ciò che mi piaceva e ciò che non mi piaceva. Bisogna essere espliciti, senza sotterfugi. Credo sia un dovere di ogni essere umano».

Il suo ciclismo è quello dei volti che le hanno fatto del bene e di una condivisione viscerale. In primis con il suo compagno, Rocco. Quell’ora, quel Record dell’Ora, è una cosa loro: «Lui non mi ha mai abbandonato. Anche quando ho stravolto la mia vita brancolando nel nulla, ha affrontato tutti i sacrifici con me, rinunciando a tante cose in prima persona. Certe volte spingendomi lui stesso a fare le scelte che volevo. Il Record dell’Ora non è solo mio, è nostro. Quel giorno lui ha veramente pedalato con me: non avevo alcun contatto con l’esterno, lui era in pista. Non lo vedevo ma sentivo la sua voce. Mi tenevo a galla con quel suono. Quelle corde vocali erano il mio tutto». Vittoria mi ha raccontato che, quando la chiamò Dino Salvoldi per convocarla al mondiale dello scorso anno, era in cucina: «Avevo già gli occhi pieni di lacrime ma non si piange al telefono. Ero felice, di una felicità rara. Aspettavo solo che si concludesse quella chiamata per piangere, per piangere a dirotto. Piangere di gioia». Non sappiamo, ma ce lo faremo raccontare, cosa è accaduto quest’anno quando Salvoldi l’ha chiamata. Sappiamo però cosa è accaduto ieri: Vittoria Bussi è fra le prime dieci al mondo. E abbiamo tutti meno paura.

Foto: Bettini


Raccontami del Ballero

Questa storia trova casa ai Mondiali di ciclismo di Varese 2008. Proprio in quella prova in linea vinta da Alessandro Ballan, domenica 28 settembre. L’ultima volta in cui la maglia iridata in linea è stata vestita da un italiano. Questa storia, però, non parla di quel giorno. Fa un salto indietro, ai giorni prima. Vorremmo dire che questa storia parla di visioni e capacità di trasmetterle. Di tutto ciò che ha a che vedere con la probabilità che, quando si comunica agli altri, diventa possibilità. Diciamo che questa storia parla di Franco, di Franco Ballerini, il “Ballero”. Ed è una storia ambientata in un aeroporto nelle Fiandre, nella primavera di qualche anno fa. Con un sottofondo di voci e rumori che, miracolosamente, non ci hanno fatto perdere un briciolo di senso del nostro chiacchierare. Questa storia racconta di quella volta che contattammo Alessandro Ballan per parlare di “Giro delle Fiandre” e finimmo a ricordare Franco, il commissario tecnico.
«Ti racconto questo, per dire di chi era Franco Ballerini. Pensa te, raccontare Franco...»

Alessandro Ballan riprende così il discorso che si era interrotto, a causa della partenza di un aereo, mentre parlavamo di pietre e io gli chiedevo: «Parlami del Ballero». Ballan non sa da dove iniziare o, forse, lo sa anche sin troppo bene ma tentenna qualche secondo. Raccontare Franco sembra impossibile perché Franco poteva essere qui e, chi era Franco, avremmo tutti preferito sentirlo dalle sue parole. Ma, certe volte, siamo vicari delle storie di altri e ci tocca raccontarle anche se fanno male. E fanno male perché ci è rimasta la storia ma manca tutto il resto. Così Alessandro torna a parlare, abbassando la voce, quasi per custodire quel ricordo.

«Al Mondiale di Varese era tutto pensato per Paolo Bettini. Sarebbe stato il suo terzo mondiale consecutivo, dopo Salisburgo 2006 e Stoccarda 2007. Franco era eccezionale nel fare gruppo. Creava un’amalgama tale per cui avresti fatto di tutto per quella squadra e non importava nulla il tuo ruolo. Avresti messo l’anima perché sapevi di essere parte del tutto, di essere una parte importante del tutto, fondamentale. Ognuno di noi si sentiva fondamentale. Ti assicuro che non è facile restituire questa sensazione ai propri collaboratori. In pochi ci riescono, Franco era uno di quelli. Mancavano pochi giorni alla domenica e avevamo già visionato il percorso. Mi sentii chiamare: «Ale, vieni qui!» Era Franco Ballerini.

Mi prese da parte come un padre: «Ascolta Ale, vi sto guardando bene. Ho una convinzione e voglio dirtela. Sai la parte finale del percorso? Quella che tocca il centro di Varese. Io sono sicuro sia adatta a te. Ti dico di più: se parti lì, se piazzi uno scatto secco lì, vinci. Vinci tu, Ale. Credimi». Questa cosa me la ha ripetuta fino al sabato prima. Sappiamo tutti come è andata. L’ho ascoltato e sono partito proprio lì dove mi aveva detto lui. Poi mi chiedi di raccontarti Franco. Come faccio a raccontartelo?»

Alessandro Ballan ha vinto il Mondiale di Varese 2008, per capacità, per caparbietà, per forma fisica invidiabile, per una tattica studiata in maniera certosina e aggiungete voi tutto il resto. Ma Alessandro Ballan, secondo noi, ha vinto il Mondiale di Varese anche per quella visione comunicata. Per quella probabilità fatta possibilità. Franco Ballerini avrebbe potuto tenersi stretta quella visione e comunicarla solo in corsa, dando l’input a Ballan nei chilometri finali. Come C.T. sarebbe stato ugualmente impeccabile. Non lo ha fatto. Lo ha cercato, gli ha parlato, gli ha detto prima quanto credesse in lui. Quanta certezza avesse che quella possibilità fosse simile alla realtà. Lo ha fatto perché sapeva. Sapeva che Ballan aveva tutte le carte per vincere, anche agevolmente, ma sapeva ancora meglio che in un Mondiale può succedere di tutto e, se hai chi crede in te, scatti pure senza un briciolo di forza. Glielo devi. A chi crede in te, devi questo e tanto altro.

Foto: Bettini


Landismo o del vagare senza meta

Abbiamo percorso gli oltre dieci chilometri della Sella Chianzutan. Salita non troppo ripida, né lunga, non così dura se la fai con una bici di adesso. A piedi, invece, non è il massimo, soprattutto quando hai scarso feeling con questo esercizio. Oltre due ore di camminata con scarpe poco adatte, lo zaino che oltre a pesare ti lascia chiazze di sudore sulla schiena che provocano brividi ogni volta che ti infili sotto l'ombra, ma hai almeno qualche birra sul groppone, trangugiata in un paese lungo la strada, e che fa sempre il suo effetto. Euforia che prova a farti dimenticare le vesciche che vengono a formarsi man mano che si sale. E poi il gran caldo, quello non te lo levi mai. Passano le prime macchine, ma non sono quelle della carovana e infatti hanno un rombo particolare.

L'indomani si correrà la tradizionale Verzegnis-Sella Chianzutan, corsa in montagna per auto di ogni genere e anno e quelle che vediamo stanno testando il percorso e studiando le frenate. Passa un ragazzo a torso nudo e con la maglia avvolta sulla testa, pedala su una graziella grigia, ci supera e si ferma lungo un tornante in attesa del passaggio dei ciclisti. La corsa vera e propria, o per meglio dire quella che ci interessa, è il Giro d'Italia 2017, ma è ancora lontana. È partita da poco da San Candido anche se, tra Passo Monte Croce Comelico e Sappada, leggo sul telefono che qualcuno ha provato ad attaccare, ma la squadra di Dumoulin, che vincerà quel Giro, ha gli occhi vigili e chiude in discesa. Dopo Tolmezzo, per noi, e più tardi anche per loro, si sale verso questa salita che è meta succulenta per gli amatori locali. Non troppo dura abbiamo detto, una bella strada ampia, qualche tornante che ti permette di rifiatare sia a salire che a scendere. Arriviamo in cima, si pranza e iniziano ad arrivare le auto delle squadre con i massaggiatori che attendono il gruppo per distribuire bevande e panini e i tifosi sempre più numerosi. Se la maggior parte è lì per Nibali, c'è anche chi aspetta - parola chiave - un altro corridore.

Mikel Landa ha spesso gli occhi nascosti da un paio di lenti riflettenti. Mai capito se lo fa per vezzo, marketing, comodità, fatto sta che nasconde due palle rotonde leggermente solcate da un accenno di rughe che gli danno uno sguardo perennemente in sospeso. Quello è lo sguardo del Landismo.
Lo avevamo lasciato due stagioni prima scattare sul Colle delle Finestre: oggi sembra un'epoca mica un lustro. Mikel Landa non aveva ancora conosciuto la pressione né tantomeno la delusione. Il Landismo era ancora in divenire e assomigliava più a un nietzschiano slancio vitale.

Mani basse sul manubrio, schiena perfettamente arcuata, il corridore basco provava da subito a fecondare l'idea che un ciclismo nuovo sarebbe arrivato: niente più attendismo, andiamo allo sbaraglio.
Ritorniamo sulla Sella Chianzutan. Mi avvicino a un massaggiatore dell'Astana e gli domando: «Chi vince oggi?».
«Quello che aspettiamo sempre, mi pare ovvio». Ci penso un attimo. «Mikel Landa?» gli faccio. «Chi sennò?» mi risponde. «Ma non corre più con voi!» ribatto. «Sì ma noi gli vogliamo tutti bene». La tappa quel giorno, con arrivo a Piancavallo e un vento in faccia che pareva il Palio degli schiaffi, la vincerà Landa – e sarà anche la sua ultima in un grande giro.

In pochi anni la storia di Landa si trasforma in mito. Il Landismo diverrà un cul-de-sac ciclistico. Lo aspetti e lui si ritira per un virus gastrointestinale dopo essersi fatto fotografare nel giorno di riposo davanti a una grigliata organizzata dalla sua squadra.
Arriva quarto al Tour facendosi battere per un secondo da Bardet (che lo passa nella cronometro) dopo aver infiammato la salita, ma con moderazione, correndo sempre con un filo di gas, come si direbbe, per non dar troppo fastidio al capitano Froome. Arriva quarto al Giro dopo essersi fatto scavalcare nella cronometro finale da Roglič. Arriva di nuovo quarto al Tour pochi giorni fa, dopo aver dato un saggio completo del Landismo. Fa tirare i suoi tutto il giorno e poi si stacca nel momento clou come uno qualunque – quale non è - con gli occhi che non sono più in sospeso come un ciclista in difficoltà, ma sgranati come dopo aver letto una cattiva notizia. Il giorno successivo uno scatto con il rapporto duro, le mani basse, eccetera... un vantaggio che mai si dilaterà venendo risucchiato vilmente dal gruppo mentre chissà quali pensieri torbidi gli saranno passati per la mente. L'ennesimo piazzamento al di fuori del podio: si diceva che avrebbe dovuto avere la squadra per sé, che uno così era sprecato per fare il gregario. Il risultato non cambia, è Landismo.

Il Landismo diventa così il vagare senza meta di Andreas Kartak per Parigi, i suoi piazzamenti sono un dono, il talento è un po' sprecato. Il Landismo si tramuta nell'attesa sul Col de la Loze e quando gli altri scattano lui si stacca. Il Landismo è vederlo arrivare di nuovo quarto dopo aver guadagnato una posizione in classifica a cronometro più per demeriti altrui che per meriti propri. Il Landismo è, come ci spiega bene Remo Gandolfi, «esempio inequivocabile di cosa rappresenta il ciclismo rispetto ad altri sport. È emozione che spesso non coincide con vittoria. Il Landismo è dove nella sconfitta questo sentimento si rafforza, si auto alimenta e rinasce con vigore nella tappa successiva. Nel ciclismo è facile innamorarsi di chi perde, perché è cuore, prima che cervello. È passione prima che calcolo. Landa è tutto questo: è attesa dell'emozione che diventa illusione o persino delusione. Ma allo stesso tempo è talento: perché sai che può arrivare. Ad ogni tappa, a ogni salita, al prossimo tornante».

Il Landismo è fregarsene che poi in carriera non abbia mai vinto un Giro, un Tour o una Vuelta (e probabilmente mai ci riuscirà) perché tanto a lui sta bene così. Ci basta vederlo ancora scattare mani basse sul manubrio, schiena arcuata, perfetto stile e farci aspettare, aspettare, aspettare e poi dire: eccolo lì, quello è il Landismo. E non c'è modo di spiegarlo se non leggendolo nei suoi occhi.

Foto: Bettini


Tim Merlier: il ritratto della tranquillità

Tim Merlier cresce all'ombra di van der Poel e di van Aert. Non ha il talento del primo, né la tenacia del secondo, eppure, che sia strada oppure cross, da un po' di tempo il suo nome inizia a farsi sentire sempre più forte. Era un sibilo inizialmente. Un discorso da bar tra appassionati di ciclismo, qualche messaggio scambiato sui forum, poi arrivano i primi piazzamenti, le prime vittorie pesanti, come il tricolore belga del 2019 che da quelle parti ha un fascino a volte difficile da comprendere.

Pochi giorni fa il successo in una irriconoscibile Bruxelles che con tutta quella pioggia sembrava un villaggio di gnomi fatto di cera e sciolto nel fondo di una bottiglia. Passa qualche giorno e vince a Senigallia, alla Tirreno-Adriatico, città altrettanto interessante, e di sicuro più luminosa, e Merlier, che arriva dal solito monotono paesello delle Fiandre orientali tutto grano e pavé, si guarda indietro continuamente sparato a settanta chilometri orari, sgrana gli occhi, e lascia il segno. Come abbiamo sgranato gli occhi noi per quanto bella è stata la sua progressione in volata.

Tim Merlier viene dal fango. Probabilmente preferisce mettersi una bici sulle spalle saltando barriere, ma il mestiere su strada lo sa fare egregiamente – e quanto volte glielo ha ripetuto Mario De Clercq, suo compaesano e leggenda del ciclocross. Merlier darebbe la vita per gli altri e si sente frustrato quando un capitano non vince: tempo fa raccontava dell'imbarazzo vissuto nel cross serale di Diegem quando van Aert gli cadde davanti e lui non riuscì ad evitarlo. Lo aspettò per aiutarlo: «Mai avuto un compagno di squadra così in gamba» disse van Aert.

A inizio carriera correvano assieme: i due hanno subito legato. «Sì posso dire che siamo migliori amici» sosteneva tempo fa van Aert, eppure, vittima dell'assurdo, Merlier indossa oggi la stessa maglia di club di van der Poel – si fa per dire la stessa maglia, l'olandese veste quella da campione nazionale, ma queste sono sottigliezze - il più grande dei rivali del suo amico. Forse qualcosa più di rivali: lo yin e lo yang del ciclismo contemporaneo, guerra e pace, uomo e donna. Agli antipodi, ma assolutamente necessari. Due che se potessero farebbero a meno anche di incrociare gli sguardi.

E lui sta in mezzo a prendere qualcosa dell'uno e dell'altro come un fedele rampollo, anche se poi è van Aert a invidiare una caratteristica fondamentale del carattere dell'amico: «La tranquillità che irradia. Sembra che se ne freghi, ma invece è semplicemente fatto così. È sempre in ritardo, ma è la sua forza: non subisce la pressione. A maggio del 2019 si allenava con una maglia nera perché era senza squadra. Pensate che la cosa lo abbia scalfito in qualche maniera? Un mese dopo ha vinto il campionato belga!».

E poi c'è quella sua capacità di stupirsi, che ha qualcosa di fiabesco. Dopo essersi laureato campione belga (su strada), due mesi dopo ancora non se ne rendeva conto. Tirava fuori la maglia dalla lavatrice e sorrideva. La stendeva e pensava non fosse nemmeno la sua. Usciva per l'allenamento: casco, occhiali, maglia tricolore e si ritrovava a guardare il suo riflesso nella finestra per capire se era vero quello che gli stava succedendo. «Semplicemente non ci si abitua, questo è ciò che lo rende così divertente. Io campione del Belgio: immagina. Per anni ho pensato che un giorno avrei potuto diventarlo nel ciclocross. Ma questo... questo batte davvero tutto».

Tim Merlier è un figlio del fango, non un Golem, forse un sassolino, un pezzo di terra che rotola, e in breve tempo diventa strada. Da anni gli dicono «faresti meglio a fare ciclismo su strada, sei più tagliato per quello» e lui risponde: «Io ho due biciclette. Una per il cross e una per la strada. Mi piacciono entrambe, mi diverto: non vedo perché dovrei cambiarle». E chi siamo noi per convincerlo del contrario?

Da un po' di tempo Merlier divide la sua vita con Cameron, la figlia di Frank Vandenbroucke, troppo talentuoso, troppo veloce ad andarsene. «Grazie a lei ho imparato a puntare la sveglia presto la mattina». Quando invece torna a casa, Tim Merlier aiuta sua madre nel bar di famiglia a Wortegem-Petegem, nella piazza vicino la chiesa, a un tiro dal traguardo di Oudenaarde che caratterizza il Giro delle Fiandre. Serve caffè e frittelle nonostante lo status di corridore che da quelle parti equivale a essere una star. «Quando ho vinto il campionato belga hanno iniziato a chiedermi interviste, a dedicarmi prime pagine sulle gazzette, ma io sono rimasto sempre quel ragazzo tranquillo che ama versare il caffè nel bar di sua madre». Quella madre alla quale, poco dopo il lockdown, chiese di organizzare una corsa nel suo paese: «Ho corso così poco con questa maglia che mi sembrava una buona idea» racconta placido a una televisione belga. Se van der Poel è genio e van Aert carisma, Tim Merlier è il ritratto della tranquillità.

Foto: Bettini


La gentilezza è un atto rivoluzionario

Piccolo antefatto: ieri mattina, scendendo da una scala, a Castelnuovo della Daunia, sono caduto. Niente di particolare, solo una brutta storta alla caviglia. All’inizio, a dire il vero, neanche particolarmente dolorosa. Ma le botte, i colpi, si sa, fanno più male con il passare del tempo. E non parlo solo delle problematiche fisiche. Vale lo stesso anche per quelle dell’anima. All’inizio non hai quasi mai la percezione di ciò che ti accade o che ti è accaduto. Stai lì frastornato. Non senti male. Sei spaesato, il male arriva dopo. Arriva quando passano le ore, i giorni, i mesi e capisci che quel qualcosa ti è successo veramente. A quella storia del tempo che cancella il dolore non ho mai creduto. Se fosse così, dopo ogni grande sofferenza torneremmo come prima. Non succede così, mai. Te lo dicono tutti perché se non lo facessero dovrebbero prendersi la briga di fare qualcosa per quel dolore e, diciamocelo, spesso non ne hanno alcuna intenzione. Forse ci sono anche persone che fanno del menefreghismo per cattiveria. Più spesso, però, le persone sono menefreghiste perché già stanche dei loro problemi, perché già piene di problemi, senza voglia e quindi senza tempo. Ti affidano al tempo che loro non hanno e non considerano nemmeno per un secondo che quando soffri la cosa peggiore che ti si possa parare davanti è il tempo. Certe volte un lungo tempo. Ma ritorniamo alla mia caviglia.
Tutto questo per dire che nel corso della giornata il male alla caviglia è cresciuto e come sono tornato in hotel e mi sono steso sul letto ha toccato l’apice. Niente da fare, la soluzione è un antidolorifico. La farmacia, devo andare in farmacia. Scendo le scale, zoppicando, e chiedo alla reception dove sia la farmacia. Sono fortunato, è nel parcheggio. Sto proprio salutando l’addetto dell’hotel quando mi ferma un attimo e mi chiede: «Sai cosa? Perché oggi che hai finito prima di lavorare non ne approfitti per un giro in città? Lucera è molto carina». Ho risposto «sì, molto volentieri», solo per chiudere prima la conversazione e andare a prendere l’antidolorifico. Meglio ancora: «Vado subito».
«Ti accompagno io»
«Ma si figuri, mi ha detto che sono 400 metri, giusto? Vado a piedi»
«Non se ne parla, ho finito qui. Le chiavi della macchina? Ah eccole. Andiamo»
Diamine. Non ho preso l’antidolorifico, la caviglia fa male e non so neppure quando tornerò in hotel. Approfittando di un attimo di quiete dal male, dato dalla posizione in auto, cerco di fare conversazione. La mia domanda è semplice, sin troppo forse: «Dove andiamo?» La risposta no, la risposta vale la gita: «Ti racconto una storia. Lavoro in hotel ma per me è un passatempo, in realtà sono operaio in una ditta di Lucera. Quando arriva qualcuno in hotel chiedo sempre dove sta andando e perché. Non sono curioso, non nel senso comune del termine. A me interessano le persone che passano dalla reception dell’hotel in cui lavoro. Per questo faccio domande, per questo quando mi dicono che non conoscono la mia città le consiglio. Magari le accompagno per le vie del centro. Mi fa piacere. È una specie di piccola missione. Alla fine mi sembra che le persone siano contente. Magari tornano in albergo a distanza di qualche anno o segnalano l’hotel a parenti perché «Lucera è bella». È una piccola cosa: accompagno solo qualcuno per le vie della città e mostro qualche monumento. Mezz’ora, certe volte anche meno, ma mi sembra un modo di restituire un qualcosa. Credo che quando ci succede qualcosa di bello abbiamo il dovere di trasmetterlo, di lasciarlo per gli altri, di fare in modo che anche gli altri possano provare quella sensazione come noi. Io ricordo che, nei miei viaggi in camper, quando qualcuno mi accompagnava in posti nuovi provavo una sensazione fantastica. Cerco solo di restituire ciò che è capitato a me e se gli altri sono felici lo sono anche io».
E come potrei raccontarvi qualcosa in più, qualcosa di meglio? Come potrei aggiungere un qualcosa che non sia assolutamente inutile. In quella risposta c’è tutto. Vi dico solo che con Gianni, così si chiama questo signore, abbiamo girato Lucera per circa quaranta minuti e siamo tornati in hotel che erano quasi le sette di sera. Che ho trovato la farmacia in chiusura ed è solo grazie alla gentilezza della proprietaria se ho recuperato il mio antidolorifico. Che, in fondo, anche avessi trovato la farmacia già chiusa sarebbe andata bene lo stesso. Sì perché un modo per sentire meno male c’è ed è a portata di mano di chiunque. Il segreto è restare una porta spalancata sul mondo anche quando sembra inutile. Non sempre riuscirete a restare così, di quella porta, talvolta, il mondo lascerà solo una piccola fessura aperta. Non prendetevela troppo, avvicinate gli occhi e guardate. Guardate attraverso quella minuscola fessura e vedrete che un millimetro di bellezza passerà. Dovete solo guardare.


Una maglia rosa per un anziano capitano

Quando arrivi in sala stampa e hai dei comunicati da preparare, non vorresti altro che silenzio. Così, quando ieri, nella sala stampa di Terracina, è arrivato l’ex capitano della Guardia di Finanza a salutare i giornalisti presenti, per qualche momento ho sperato fosse solo un saluto fugace. Ho ben presto capito che non sarebbe stato così. Parliamo di un signore di ottant’anni spaccati, elegantemente vestito in divisa, con voce bassa e capelli bianchi, sotto il cappello della divisa. Un signore con tanta voglia di raccontare, uno di quelli legati ad ogni singolo oggetto della propria esistenza, ai propri nipoti, di cui tiene i disegni in ufficio e alle piccole abitudine “il caffè dopo pranzo ci vuole”. E il caffè te lo porta dalla sua moka, con tanto di biscotto. Uno di quei signori che sanno di tempi andati e che ti fanno pensare ai tuoi nonni, quelli che magari non hai più la fortuna di avere qui. Quelli che ti fanno ricordare un divano fiorato e le braccia del bisnonno che ti stringevano durante il Giro d’Italia. Le carezze sulle guance, tutto il resto e il momento in cui ti sei reso conto di averli persi per sempre. Uno di quei signori che, appena ti vedono con lo sguardo perso nel vuoto, si avvicinano e «hai bisogno di qualcosa?». Magari sì, magari no, ma è bello che qualcuno ci pensi. E poi, in fondo, abbiamo sempre bisogno di qualcosa, siamo sempre monchi e una sola domanda può salvarci. Sì, perché anche un’unica persona che si interessa a te, diventa il motivo per andare avanti. Ma deve essere un interesse vero, uno di quelli che sanno delle mani calde dei nonni sul viso, quando torni da scuola in inverno e fuori fa freddo.
Già, adesso dico così. Ieri lo ho ascoltato per una buona mezz’ora. Io vivo grazie alla condivisione delle storie, delle parole, del sentire delle persone che incrocio. Ho scelto questo lavoro per questo. Avessi fatto altro, con il carattere che mi ritrovo, troppo timido, introverso, sarei rimasto in un angolo, da solo. Avrei dato il massimo ma non avrebbe avuto senso. Con questo lavoro ho liberato quella parte di me che premeva da dentro e faceva male. Ho potuto fare tutto ciò che avrei sempre voluto fare e di questo conservo una felicità bambina. Attimi, frazioni di secondo, in cui mi dico che, sí, è tutto così bello. Fuori non si capisce nulla ma dentro sì, dentro sono felice. Questo non lo cancello, non potrei mai. Ma la fretta è cattiva consigliera di parole e gesti, così nella mia mente, per qualche istante, si è affacciato il nervosismo. Sulla punta della lingua avevo uno «scusi, può lasciarmi lavorare un attimo in silenzio?». Adesso mi si rivolta lo stomaco solo a pensarlo ma ieri stavo per dirlo. Ed è grave, contraddice buona parte di ciò che racconto a tutti quelli che mi chiedono il motivo della scelta di questo lavoro. Per l'ascolto, dico. Non ho detto nulla perché so cosa significa essere zittiti, anche se elegantemente, anche se con correttezza. Le parole ti si bloccano da qualche parte nelle viscere e poi smetti di parlare. Stai in silenzio anche quando non vorresti, temendo che qualcuno ti ributti ancora giù tutta la voglia di parlare. E di parlare abbiamo tutti una gran voglia. Ho pensato che se quel signore era arrivato a ottanta anni così affamato di racconto, non avrei dovuto essere io a spegnergliela per una stupida fretta. Così è passata un'ora.
A fine tappa gli abbiamo consegnato una maglia rosa in ricordo di quel giorno. Probabilmente nei prossimi giorni la farà vedere a tutte le persone che passeranno dal suo studio e racconterà di questa giornata e di altri ricordi sciolti dentro. Ha chiesto una foto e poi ha guardato meglio la maglia. Si è commosso, gli sono venuti gli occhi lucidi, ha appoggiato la maglia sul tavolo e, indicandola: ''Troppo bello, troppo bello''. Piangeva il capitano della Guardia di Finanza. Così forte che una ragazza dell'organizzazione, vedendolo, è scoppiata in lacrime. E piangeva più forte ancora. Questo era davvero bello, troppo bello. Loro sono bellissimi. Io così sciocco che, per la fretta di finire un pezzo, non ho avuto il tempo di alzarmi e avvicinarmi a loro. Magari solo per una carezza sulla spalla, come faccio sempre quando vorrei abbracciare ma non oso. Forse dovrei essere ancora lì ad ascoltarlo quel signore. Forse un giorno ci tornerò e lontano da ogni fretta gli dirò quello che penso. Che senza uomini così non avrebbe senso.

Foto: Tornanti.cc


E pensare che gli avevano detto di smettere

Aveva 16 anni Umberto Poli. Aveva sete, fame di cibo dolce e una gola continua di bevande zuccherate. Era pieno di dolori e si sentiva sempre stanco. «Passavo la notte a fare la pipì e non capivo, anche perché all'epoca ero un ragazzino e non avevo mai sentito parlare di questa malattia» ci racconta con pragmatica naturalezza.

Un giorno cambiò tutto. «Categoria Allievi. Ultima gara della stagione: il 7 ottobre del 2012». Manda a memoria quella data. Erano settimane che sentiva che c'era qualcosa che non andava, in allenamento si staccava dai suoi compagni, si sentiva svuotato di ogni energia e si doveva continuamente fermare: dava la colpa al fatto di essere a fine stagione. «Devo staccare e ripartire, ripetevo tra me» e invece. «Vado in fuga, come sempre, e succede una cosa strana che non dovrebbe mai accadere: mi stacco e mi ritiro quasi subito».

Svuotato da tutte le energie, Umberto, a fine gara, è intento ad ascoltare il suo allenatore. «Guarda che non è mica normale sta cosa, devi andare a farti vedere». Torna a casa, mangia, inizia a sentire forti dolori alla schiena, allo stomaco e decide di farsi portare in ospedale da sua madre. «Mi misurano la glicemia: la macchinetta sembrava rotta. In realtà non misurava oltre cinquecento come valore massimo e decidono di farmi un prelievo. Codice rosso, ricoverato d'urgenza e trasportato dall'ospedale di Bovolone a quello di Legnago. “Hai il diabete di tipo 1” mi dicono. Realizzo un po' alla volta che dovrò farmi iniezioni di insulina per tutta la vita».

Scoraggiarsi non fa parte del bagaglio tecnico di chi ogni giorno dopo scuola si allenava in bicicletta. «Ho iniziato a correre in bici a 6 anni con la GS Look Bovolone, poi ho smesso e ho ripreso qualche anno dopo» e poi c'era quella strada da inseguire: l'anno dopo sarebbe passato nella categoria junior – un salto importante verso il sogno di diventare un corridore professionista.
«Immaginatevi il ritornello dei dottori: “non se ne parla nemmeno, non puoi mica pensare di fare il corridore”. Un muro da affrontare, ma a volte quei muri vanno superati. Bisogna trovare il giusto equilibrio e io l'ho fatto. Oppure immaginatevi la difficoltà nel trovare una squadra disposta a prendersi la responsabilità di avere un corridore diabetico tra le proprie fila». Missione impossibile, una parete verticale da scalare o dalla quale calarsi. Usate l'immagine che preferite.

Umberto Poli, tuttavia, la stagione successiva va a correre con la FDB. «Sono stato fortunato» una parola che ricorre spesso nell'intervista, perché Poli coglie al volo l'attimo, trasforma un problema in un'occasione, una ferita in uno spunto per emergere. Prende la malattia e ne ribalta il suo significato. «Ero preoccupato: mi sono ritrovato dall'essere un qualsiasi spensierato adolescente che ha l'unico problema nel come divertirsi, a vivere questa situazione. La squadra di Remo Cordioli, però, mi ha aspettato, ha atteso che mi dessero il permesso di correre. E dopo un po' che avevo ripreso l'attività ecco che mi contatta Vassili Davidenko, il mio attuale Direttore Sportivo alla Novo Nordisk per andare a fare uno stage con loro negli Stati Uniti».

La proposta è allettante, anche se Umberto vive un paradosso: nonostante il diabete, viene chiamato a fare sul serio dall'altra parte del mondo. Confuso, ma deciso, accetta. «Ovviamente ho detto sì. All'inizio ero contento, ma la realtà fu ben diversa». Gli Stati Uniti non si rivelano come l'America narrata, cercata e poi trovata, ben descritta spesso nella letteratura. «Vivevo in una casetta, come quelle dei dilettanti in Italia. Ma mi sembrava che si facessero le cose in maniera meno seria che da noi. Si correvano Criterium, una sorta di circuiti dentro le città, gare da un paio di ore. Ero un po' deluso. Poi tornai a casa e seguendo vari consigli, trai i quali quelli di Elia Viviani, cambiai il mio atteggiamento. La mentalità fa tutto in questo sport e me ne sono accorto subito: ho svoltato, mi sono presentato più propositivo, con un altro modo di intendere la realtà che mi circondava e infatti riuscì ad affermarmi e a firmare un contratto con la Novo Nordisk che mi porta a essere qui, ancora oggi, con loro».

E la sua scelta di continuare con il ciclismo è come un motore che lo spinge a salire velocemente in vetta, una propulsione che lo fa maturare. «Quando sei ragazzo e fai corse di cinquanta, sessanta chilometri, sai che devi mangiare, ma non è che stai proprio attento a quando e come. Se hai fame, mangi: finisce lì. Perché sei ancora giovane e devi fare esperienza. Io invece col diabete ho dovuto bruciare le tappe: ho dovuto subito capire come gestire l'alimentazione. Questo mi ha dato una mano prima degli altri miei compagni. Grazie a questa malattia ho imparato a conoscere meglio il mio corpo. I primi periodi erano un po' al buio perché fai delle prove con quello che assumi, provi una barretta, ne provi un'altra. E poi lentamente ogni anno capisci sempre meglio di cosa ha bisogno il tuo corpo. Con la squadra (la Novo Nordisk ha al suo interno solo corridori diabetici N.d.A.) abbiamo studiato sempre di più come va alimentato il nostro corpo, come il diabete risponde alle assunzioni di zucchero, agli sbalzi della temperatura, persino alle emozioni. Perché anche quelle influiscono. Prendi l'adrenalina: ti alza la glicemia e quindi devi imparare a gestirti mentalmente, devi imparare a gestire la tensione prima di una gara».

E avere il diabete facendo il ciclista di mestiere per Umberto Poli è un connubio che va avanti in modo naturale. «L'unica cosa che mi pesa della mia malattia è la siringa di insulina prima di mangiare, perché per il resto in bici non dà nessun handicap. Anzi sono convinto sia un vantaggio: perché ciò che impariamo noi lo applichiamo in più e in meglio rispetto ad altri corridori. Perché sono conoscenze del proprio corpo che loro non hanno. Questo stato lo definirei: la conoscenza totale del proprio corpo. Come reagisci a ogni cosa che buttiamo dentro, come reagisce a livello di zuccheri nel sangue: non è una cosa da sottovalutare quando lavori tutto il giorno con il tuo corpo».

Il ciclismo che retoricamente è scuola di vita. Anzi ancora di più: per Umberto Poli prende una forma allegorica. Ci racconta di come debba tutto a lui. “al Ciclismo”. Di come gli abbia insegnato a diventare più grande più in fretta, rispetto a quelli della sua età. Ci dice di aver fatto tanti sbagli che lo hanno fatto crescere, di come grazie a lui ha visto il mondo con gli occhi privilegiati di un corridore, ha conosciuto persone di ogni genere e affrontato culture diverse. «E questo è il massimo dell'insegnamento che posso ritrovare nella vita che ho condotto fino a oggi. È un valore aggiunto. Mi ha fatto distinguere le persone: approfittatori e coerenti, egoisti e altruisti. Mi ha insegnato a non mollare mai, a lavorare più degli altri per arrivare al risultato. A diventare tenace, mi ha abituato al sacrificio, a non avere vacanze a Natale, a pedalare sotto il sole, sotto la neve, con il caldo e con il freddo. A crederci, a fare doppi allenamenti. A soffrire, soffrire e soffrire». E lo fa, Umberto Poli, mica perché è matto – forse un po' lo è, come tutti i ciclisti. Lo fa perché gli piace, lo fa perché gli insegna ad affrontare le situazioni più controverse.

«Gli sportivi sono testardi. Quando ci impuntiamo su una cosa noi andiamo dritti per la nostra strada e portiamo avanti il risultato che vogliamo ottenere». Tenacia, resistenza. Alzare l'asticella della soglia del dolore, del proprio livello mentale. «Lo sport è una questione di testa ancora più che fisica. Mi ha rinforzato come uomo e ogni giorno, a ogni allenamento, ha qualcosa da insegnarmi». Ha 24 anni, oggi, Umberto Poli. E pensare che gli avevano detto di smettere.


Di passi incontro

Alla fine, quasi tutto il tuo valore personale, quello che resta di te oltre tutto ciò che la vita ti mette addosso, si riduce a ben poche cose. Una di queste crediamo, fondamentalmente, abbia qualcosa a che vedere con i passi che muoviamo per andare incontro a ciò che sta sotto il nostro stesso cielo. I passi degli umani sono così simili e così diversi. Muovere un passo lascia sempre un segno, devi solo decidere molto bene che senso vuoi abbiano i tuoi passi, il tuo potere. Prendere una direzione è un potere enorme. Puoi scegliere di andare incontro solo strettamente al tuo bene e quindi risparmiare ogni passo in più che non sia a quello finalizzato. Ti stancherai molto meno e arriverai prima dove vuoi arrivare, questo è certo.
Diversamente scegli di usare alcuni dei tuoi passi, che sono solo tuoi, che ti appartengono, per qualcuno o qualcosa che non avrà un riflesso diretto sulla tua vita. Lo avrà sulla vita di qualcun altro e in questo caso devi solo augurarti che sia un buon riflesso. Che non sia qualcosa di troppo pesante o di invasivo. Devi essere capace di avere tatto, di mantenere la giusta distanza anche quando non vorresti, anche quando quel tuo passo è talmente dedicato ad altri che vorresti sentirli vicini, ancora più vicini. In questo caso soffrirai, verrai deluso e rifiutato. Se avrai una meta dovrai sapere che il tempo per raggiungerla sarà molto più lungo. Ma, se deciderai di muovere i tuoi passi verso gli altri, non dovrai avere timori. Dovrai continuare a farlo. Solo allora la tua scelta avrà veramente senso. Solo allora l'avrai davvero sentita.
Se scegli questa via ti troverai a camminare quando non ne avrai voglia, quando sarebbe sconsigliato farlo, quando tu potresti stare al tuo posto e sostanzialmente non cambierebbe nulla, almeno apparentemente. In realtà qualcosa cambia sempre, certe volte talmente dentro da non vedersi neppure. Magari rotto in mille pezzi. Se sei una ciclista professionista, una campionessa del mondo in carica, in maglia rosa, sul podio del Giro Rosa dopo una tappa immersa in una canicola estiva d'altri tempi, fare un passo verso gli altri vuol dire scendere dal podio e andare verso il pubblico. Vuol dire fare attenzione a tutte le norme anticovid ma non rinunciare ad andare dove si sono posati gli occhi. Fare un passo incontro a qualcuno vuol dire averlo visto, avere interiorizzato qualcosa di suo, condividere parte del suo destino pur non conoscendolo. Così ha fatto Annemiek Van Vleuten, ieri, quando ha visto una signora fissare il suo mazzo di fiori, sul podio. L’ha guardata, ha guardato tutte le persone riunite in piazza e poi è scesa dal palco. La cercava l’addetto stampa della squadra, gli ha fatto cenno di aspettare. Si è avvicinata alle transenne, restando a un metro e mezzo di distanza e ha allungato la mano porgendo i fiori. Vedi una signora prendere i fiori e ringraziare con un filo di voce. Vedi la stessa signora sorridere continuando a ringraziare e vedi Annemiek Van Vleuten fare cenno “basta” con la mano. E ancora “basta”. Come a dire che quel ringraziamento non serve, che non vuole essere ringraziata, che quei passi in più fatti li ha scelti senza dubbio alcuno. E non li cambierebbe con nessun altro passo al mondo, nemmeno col più vantaggioso. Cosa cambiano quei passi per Annemiek Van Vleuten? Poco o niente. La domanda è: cosa cambiano quei passi per quella signora. La ragione di quei passi è lì. La grandezza di quei passi è nello sguardo che li ha suscitati e nella volontà che li ha compiuti, sapendo che con così poco sarebbe cambiato così tanto. Succede così, quando si sceglie di andare incontro agli altri, diventa una missione. Senza se e senza ma. E noi ci immaginiamo quella signora con quel mazzo di fiori nel salotto di casa e sentiamo fresco anche se oggi, a Terracina, fa ancora più caldo di ieri.

Foto: comunicato stampa Mitchelton Scott


Lachlan, ora ti aspettiamo al Giro

Lontano da gialli riflettori, Lachlan Morton sceglie sfide alternative al Tour de France, proprio come fece lo scorso anno. Nel 2019 era GBDuro, pochi giorni fa Badlands, a Girona, nel sud della Spagna: 700 chilometri percorsi, 15 mila metri di dislivello. 1 giorno, 19 ore e 30 minuti il suo tempo di percorrenza.
«È stato fantastico. Non avevo alcun piano da seguire, solo voglia di mettermi alla prova» racconta l'estroverso corridore australiano sulle pagine del sito ufficiale della sua squadra, la EF Pro Cycling di Jonathan Vaughters.

Il suo mentore, Vaughters, lo ha rivoluto lo scorso anno in squadra. Anni fa scommise su di lui dopo averlo visto stracciare tutti in salita negli Stati Uniti, lo portò a correre in Europa e, dopo essersi fatto sedurre da quel corridore che “aveva valori atletici da vincitore di un Grande Giro”, successivamente lo abbandonò.

«Il mio obiettivo era mettermi alla prova, testarmi, conoscere. E questo lo capisci solo vedendo per quanto tempo sei capace di stare in bicicletta. È stato un percorso impegnativo perché ti ritrovi nel deserto con quaranta gradi e poi in mezzo a valichi alpini con il freddo. Io mi sono semplicemente goduto il viaggio. È stato difficile, ma mi sentivo mentalmente pronto per affrontare una prova di questo tipo ed è proprio la forza mentale ad aver reso il tutto un'esperienza piacevole. Mi sentivo in equilibrio, nonostante abbia vissuto tutto lo spettro delle emozioni: è stato diverso questa volta rispetto al passato. Dopo dodici ore anche il telefono aveva smesso di funzionare: non avevo più musica né alcuna connessione. Ero solo io insieme ai miei pensieri. Cerco la parola giusta per descriverlo: bello suona banale, ma è stato così. Il piacere di avere tutto quel tempo solo per me e per i miei pensieri.
Ho pensato alla mia vita in generale, a quanto sono fortunato a fare quello che mi piace. Forse perché mi sono ritrovato in situazioni estreme e complicate, che ti mettono alla prova e ti costringono a riflettere. Ho pensato solo a quello che ho. Ho pensato a casa mia e all'importanza di godermi ogni momento e ogni piccolo particolare. E proprio per questo non vedevo l'ora di tornare a casa.
Queste sono prove in cui ti misuri con te stesso e con il tempo. Il tempo che ti ci impieghi rispetto a qualcun altro, ma la realtà è che la tua corsa e quella degli altri non si influenzano in alcun modo. Perché alla fine contano solo i tuoi limiti. È stato bello perché non potevo vedere dove si trovavano gli altri; per tutto il tempo ho pensato di non avere un grande margine. E poi dopo un po' ho finito per non pensarci più: andare avanti e concludere la gara è stato l'unico motivo che mi ha ispirato. Ho pensato “sarebbe ancora più speciale se tutto questo lo facessi solo per me stesso”.
Ho avuto un momento di difficoltà durante l'ultima salita, la seconda notte. Non avevo ancora dormito e il mio cervello ha iniziato a giocarmi strani scherzi. Il tempo sembrava scorrere lentamente. È stata la cosa più bizzarra che mi sia mai accaduta, era come se fossi bloccato. Mi ripetevo: “Ok, sei solo, sei lontano da qualsiasi cosa, sei su un sentiero escursionistico lontano da ogni luogo. Sei a tremila metri e non hai altra scelta. Devi affrontarlo”. È una lezione importante che mi porterò appresso.
Il primo pomeriggio di corsa ho avuto un incidente, ma l'ho gestito bene. Problemi meccanici non ne ho avuti il che è un po' una sorpresa visto il tipo di percorso che abbiamo affrontato. Poi all'improvviso mi sono ritrovato davanti agli occhi picchi montani che sembravano spuntati dietro le vette la notte prima. Il tutto mentre stavo pensando solo a come scollinare per arrivare a Granada, un puntino che vedi laggiù. Per chi non ha vissuto questo tipo di esperienze può sembrare strano, ma in quel preciso momento ho capito che ce l'avrei fatta, che sarei arrivato fino alla fine. Sono momenti che ti regalano delle sensazioni uniche.
Lungo tutto il percorso non sono riuscito a dormire. Sono solo andato avanti. Mi sono fermato tre volte in cerca di cibo, mentre riempivo acqua ogni volta che potevo. Ho usato un po' di gel, che mi sono stati davvero preziosi.
Mi sono allenato su strada prima di questa corsa perché avevo bisogno di ritrovare l'entusiasmo per gettarmi nei sentieri. Stamattina quando mi sono svegliato avevo talmente tanto dolore che mi sono detto: “Io andrò al Giro? Non se ne parla proprio!”. Poi sono uscito in bici e dopo dieci minuti ho ritrovato entusiasmo. Non vedo l'ora di fare il Giro perché sarò sempre in movimento, sarà interessante anche solo prepararmi per quello e ribaltare tutto ciò che ho fatto sinora. Sarà una sfida entusiasmante.

Avventure di questo genere richiedono solo una cosa: impegno. Ma se è qualcosa che inizi ad affrontare regolarmente, poi si tratta solo di rendere normali le situazioni difficili. Mi sono reso conto durante il mio viaggio che pedalare, pedalare e ancora pedalare non era altro che la mia normalità. È diventato un po' come stare sul divano. La discesa diventava: “Oh, questo è davvero meglio che non fare nulla”. E la salita: “Beh sì, è un po' fastidiosa ma presto finirà”. Si tratta di cacciarsi in situazioni difficili così spesso da renderle normale routine. Prima di questo viaggio sono uscito per fare tre giorni con la mia bici a pieno carico e ho cercato di perdermi tra i Pirenei: mi ci ci sono volute due ore prima di venir fuori da una montagna. L'ho fatto per mettermi alla prova, per frustrarmi in una situazione complicata. Per venirne fuori devi assicurarti che tutti quei segnali mentali che arrivano siano lì per calmarti. Per riportarti alla normalità e per farti dire: “Va tutto bene”. Perché alla fine ciò che ti limita è il modo in cui affronti le difficoltà. A me devo dire che è riuscito bene».

Intervista tratta dal sito ufficiale della EF Pro Cycling
Foto:  Transiberica Ultracycling/Facebook


Pantani, il poligono e la storia di un'amicizia

Sono tutti sul Peyresourde per vedere passare Alaphilippe. «Non lo avevamo mai visto salire in montagna, solo in pianura e quindi ne abbiamo approfittato» racconta una tifosa a un giornalista de L'Equipe. D'altra parte Alaphilippe smuove la passione, riempe le cronache, colora i racconti, e il ciclismo colpisce in maniera viscerale da quelle parti. A maggior ragione in una tappa di salita al Tour c'è sempre una festa enorme – pure di questi tempi.
Le notizie arrivano in fretta in cima alla montagna, grazie a tablet e telefonini. Non c'è bisogno di affidarsi alla radio o alla fantasia o nemmeno di fermare gendarmi o molestare ammiraglie e massaggiatori: nessuna strana fuga di notizie o resoconti frammentari e lasciati a metà. Lungo le astiose rampe della vetta pirenaica a passare per primo è Nans Peters e lo si può vedere con i propri occhi. Nel gruppo dietro, invece, Alaphilippe arranca. Si era messo in testa di riprendersi la maglia gialla finisce per guardare in faccia la dura realtà che al momento è un sussurro che lo porta lontano dalla classifica.
E così l'interesse è un abbaglio per chi in gruppo è chiamato “il pinguino”. Nans, come “Nans le Berger”, Nans il pastore, una serie televisiva francese in voga negli anni '70. Pinguino si diceva, ma non c'entra nulla con il personaggio dei fumetti, bizzarro antagonista di Batman, ma piuttosto è per quel viso tagliato, gli occhi grandi e il naso aquilino. In bici forse non è il più bello da vedere, nella storia del ciclismo non sarà mai il più vincente, ma da casa – non solo sulle vette alpine – vale la pena tifarlo, magari indossando persino la divisa dell'AG2R.

Emilien Jacquelin è quel tifoso in divisa. Più di un tifoso, è amico di Nans Peters e i loro destini si tendono a incrociare di continuo. Si conoscono sin da bambini quando i due correvano assieme in bicicletta, amici e rivali, al tempo dei cadetti. «Io sono sempre stato più veloce» racconta Peters dopo essere andato a tifare per Jacquelin a Le Grand-Bornand, Coppa del Mondo di biathlon, «Ma ora stiamo progredendo assieme».
Oggi, mentre Peters corre ancora in bici, Jacquelin è biathleta di successo. In Francia raccoglie la pesante eredità di uno dei più grandi di sempre: Martin Fourcade. Jacquelin lo scorso inverno ad Anterselva conquistò la medaglia d'oro nell'inseguimento davanti a Johannes Boe (quando si parla dei più grandi di quello sport...) nello stesso stadio dove Nans Peters, nel mese di maggio, conquistava una tappa del Giro d'Italia staccando di ruota gente come Formolo e Jungels. Peters in inverno pratica sci di fondo – il suo primo sport – e lo fa con risultati nemmeno da buttare via partecipando anche ad alcune competizioni: un cerchio tra due ruote e sport invernali che è in continuo movimento.

Emilien Jacquelin da ragazzo pedalava, andava forte e lo faceva per infatuazione. «Conosce a memoria il Tour del 1998, quella VHS l'ha consumata a furia di vederla e rivederla», racconta suo fratello. E Jacquelin, difatti, quando scatta in salita con gli sci stretti ai piedi – dove sennò! - racconta di ispirarsi al volo di Pantani sulle strade di quel Tour de France. «Quando sono in salita penso a Pantani, alle sue fughe, ai suoi attacchi». Voleva essere come lui, e diventare un ciclista professionista, come ci provò prima di lui suo nonno, senza fortuna, che a sua volta ereditò la passione da suo padre, pistard. Jacquelin sostiene, però, come fosse proprio la bicicletta a non volere lui. «Ogni volta che mi selezionavano per una corsa o per un club, mi ammalavo».
E mentre Peters tagliava con aria infida l'ombra della folla accalcata lungo la salita, tenendo a bada il tartaro Zakarin - dopo averlo visto persino “scendere come una capra lungo la discesa”, Jacquelin si ricordava di quando sul Peyresourde “montagna povera e rattoppata di verde“, Pantani attaccò. Fu una tappa in cui si cadeva e ci si ritirava, e disputata con una trentina di gradi in meno rispetto ai giorni precedenti. Fu solo un primo colpo al grande bersaglio – Ulrich e la maglia gialla - che lo scalatore romagnolo avrebbe inflitto in quelle settimane.

Adora Pinot, Jacquelin, e spesso in corsa un po' lo rassomiglia: raffinato a volte forse un po' bizzoso come lo definisce Vincent Vittoz, ex stella del fondo francese e ora tecnico della squadra nazionale di biathlon. Estroverso come tutti gli artisti, Jacquelin è capace di picchi altissimi e discese vorticose e forse per questo mentalmente non potrà mai essere Martin Fourcade, ma più vicino a Marco Pantani – mica poco.
E invece che un poligono, potrebbe esserci una salita in bicicletta lungo il cammino, oppure viceversa, dipende da che lato volete leggere questa storia, se dal punto di vista del biathleta o da quello del corridore. E intanto lui, fiero di indossare la maglia della squadra del suo amico, ridacchia vedendolo esultante e incredulo al traguardo, e quando può gli resta vicino.

Foto: Bettini