10 nomi da seguire al Giro delle Fiandre
Sarà una di quelle giornate in cui varrà la pena seguire la corsa dalle prime pedalate fino alle ultime. È vero che il canovaccio iniziale prevede un centinaio di chilometri piatti, ma poi, dal secondo muro in avanti, diciamo più o meno dal primo dei tre passaggi sul Vecchio Kwaremont non c'è più spazio per sbadigli. Tutto d'un fiato.
Come da tradizione vi daremo 10 nomi da seguire, come per la Milano-Sanremo di quest'anno la corsa sarà valida anche per il Trofeo Monumento di Fantacycling e tra parentesi accanto al nome di ogni corridore, infatti, trovate la loro quotazione in crediti.
Però abbiamo deciso di fare così: inutile fare i nomi dei tre, dei big three come tocca chiamarli, van der Poel, van Aert e Pogačar (che su Fantacycling costano rispettivamente 52, 71 e 73 crediti), ma ne proponiamo altri, 'ché poi nel ciclismo non si sa mai cosa può accadere.
DIECI NOMI DA SEGUIRE AL GIRO DELLE FIANDRE
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GLI OUTSIDER
1. Cristophe Laporte (35 crediti) - Che poi metterlo tra gli outsider dopo che ha vinto Gent-Wevelgem, per concessione, e Dwars door Vlaanderen di forza, sembra un insulto, lui oltretutto con questa corsa ha sempre avuto un discreto feeling.
2. Matej Mohorič (28)- Invece per lui il rapporto con questa corsa è un po' nebuloso, ma un piazzamento nei 10 è alla portata visto lo storico stagionale, anche se tra botta alla Gent-Wevelgem e testa alla Roubaix, potremmo non vedere il miglior Mohorič 2023.
3. Stefan Küng (29) - Se cercate uno dei migliori interpreti in assoluto di queste corse guardate in casa dello svizzero che sulla scrivania in ufficio ha la bozza di un manuale che sta scrivendo e dal titolo: "il perfetto corridore da Fiandre". Il suo limite è che non vince (quasi) mai, mentre da considerare come il primo risultato importante al Fiandre lo abbia ottenuto solo l'anno scorso dopo una serie infinita di sfortune.
4 Valentin Madouas (23) - In poco tempo è diventato una garanzia assoluta su ogni terreno ed è stato proprio il Fiandre 2022 a sbloccarlo. Si ripeterà?
LE SCOMMESSE
5. Neilson Powless -(28) Alla DDV lo aspettavamo; all'esordio da professionista sulle pietre non ha deluso e ha dimostrato di starci benissimo in quel gruppo di corridori completi capaci di primeggiare nelle corse a tappe (per il momento brevi), e nelle corse di un giorno di ogni tipo. Con spiccate doti da fondista il Fiandre può essere la sua gara.
6. John Degenkolb (6) - No, non siamo pazzi, né abbiamo tirato indietro l'orologio di un lustro: il baffetto che vedevate in queste gare spuntare in testa sui muri è proprio il suo, e vista età e incidenti avuti, merita una menzione e qualche occhio di riguardo. Sia al Fiandre che poi eventualmente alla Roubaix.
7. Nils Politt (11) - Uno dei corridori più riconoscibili in gruppo, un attaccante nato che finalmente, risolti i problemi fisici, sembra aver ritrovato quello smalto perduto. Può anticipare e piazzarsi in alto, ma può anche chiudere con i primi una volata a ranghi ristretti. Come non pensare a lui per le corse della Settimana Santa?
LE SORPRESE
8. Mikkel Bjerg (4) - Come Trentin dovrà lavorare duramente per il suo capitano, ma non ci stupiremmo se a fine corsa lo trovassimo nei primi dieci o a ridosso. Al momento gli diamo il premio come miglior gregario di questo inizio di stagione e che se lo faccia bastare!
9. Krists Neilands (2) - Visto che si parla di sorprese lo facciamo con il lettone, ma il corridore della Israel PremierTech nelle ultime due gare è sempre stato nel vivo della corsa chiudendo con un 12° e un 21° posto tra Harelbeke e Waregem. Niente male.
10. Davide Ballerini (15) - Ballerini a rappresentare una QS in difficoltà al Nord, ma non lui che arriva al Fiandre con piazzamenti interessanti: 6° alla OHN, 7° alla DDV, 11° a De Panne e 12° a Sanremo. Il suo problema è sempre stata l'affidabilità sopra un certo numero di ore di gara, ma visto che ci pare il miglior Ballerini visto al Nord finora (anche superiore a quello vittorioso alla OHN 2021) non gli resta che smentirci con un bel risultato al Fiandre, che aiuterebbe anche il ciclismo di casa nostra a smuovere questa sorta di depressione italica.
E naturalmente non ci siamo dimenticati dei vari Pidcock, Pedersen, Stuyven, Vanmarcke, Turner, Narvaez, Wright, Kristoff, Dewulf eccetera eccetera, ma 10 nomi sono 10 nomi... Buon Fiandre!
Foto: Sprint Cycling Agency
Diario dall'Alaska: il rispetto del freddo, la comprensione della paura
26 Marzo 2023UltracyclingAlaska,Mulonia
C'è un essere vivente impietoso che stringe, come in una morsa, chiunque stia percorrendo l’Iditarod Trail, in Alaska. Pesa sulla schiena, mentre, in ginocchio, si tornano a gonfiare gli pneumatici che hanno perso pressione proprio sotto l'agguato di questo animale: è il freddo. Willy Mulonia ricorda il suo professore universitario, si chiama Chechu (Ceciu), e quella volta in cui gli chiese se il freddo potesse essere un'emozione: fu proprio Chechu a dirgli di sì, mentre i suoi colleghi gli spiegavano che, al massimo, poteva essere una sensazione.
«Il freddo è un'emozione - ci spiega Willy- perché diventa l'elaborazione di tutte le cose che senti e che, così trasformate, riconoscerai al prossimo incontro e saprai come affrontarle». Il freddo che non è da temere, ma da rispettare, anche quando si presenta col buio, nel buio, ed è davvero spaventoso: fatichi a vedere a causa del ghiaccio che penzola dalle ciglia, però distingui nettamente le impronte dei lupi sulla strada e il cervello rischia di andare in tilt. Perché il freddo induce al delirio, prima, ed al congelamento, poi.
Ti fa fare cose che non faresti mai, così ti blocca, inibisce ogni possibilità di reazione. «Quando senti freddo è troppo tardi, come quando senti fame in una tappa dolomitica. Col freddo si mangia come lupi, gli stessi di cui vedi le orme. Devi fare attenzione a non rompere niente, perché le basse temperature rendono tutto più fragile, sottoposto alla rottura. Tranne la neve che si ammassa, si fa più dura e apparentemente sembra più facile da percorrere, se non fosse per la pressione delle gomme che, proprio il freddo abbassa di colpo». L'unica possibilità è prevenire, in questo sta il rispetto.
Sul manubrio di Willy, Tiziano e Roberto c'è un termometro analogico, acquistato da Willy in Finlandia. Gli altri concorrenti non capiscono a cosa serva, perché sia lì. Willy Mulonia lo ha ben chiaro: basta abbassare lo sguardo per prendere coscienza della temperatura e coprirsi prima che sia troppo tardi. Sì, coprirsi ma non troppo perché, se si inizia a sudare, è la fine. Un altro nemico, ostico, fra i tanti dell'Alaska. Ogni tanto lo sguardo va verso il cielo: «Giove e Venere sono vicinissimi. Me lo ha detto Roberto, giusto qualche giorno fa, così, quando lo noto, penso che lui è davanti a me, rifletto su quanto davanti e, poi, continuo a pedalare». In diciassette ore, Willy, Tiziano e Roberto hanno fatto un tratto che normalmente si fa in due giorni, “un'impresa eroica nell'impresa stessa" come direbbe Giancarlo Brocci, e Nikolaj è sempre più vicina. Ci sono le impronte del fratello Tiziano davanti a Willy e lui prova a capire di che impronte si tratti: «Se è la camminata di qualcuno che è stanco, sfinito, oppure affamato o se sta camminando perché vuole scaldarsi i piedi. Il problema è che quando fa così freddo non ci si può permettere di pensare agli altri. E ora, proprio ora, il termometro segna meno quaranta». Di rispetto e di non paura è il rapporto col freddo, ma la paura è parte di ogni viaggio, soprattutto da queste parti.
Nei primi tempi, Willy Mulonia temeva l'acqua, poi ha capito come affrontarla, come difendersi dai suoi pericoli e questo non è scontato perché la paura allerta il cervello e rischia di causare una reazione che non serve, spropositata, che è un inganno della nostra mente. Si tratta di un'emozione primaria che, certamente, ha anche dei lati positivi: «Serviva per stare all'erta, per fronteggiare la bestia selvaggia, fuori dalla grotta. Un eredità che trasciniamo ancora oggi nel nostro quotidiano da allora. Il nostro cervello è portato a focalizzarsi sul negativo». La paura è umana, non può esisterne l'assenza, esiste piuttosto la convivenza con questa emozione. Quando si parla di essere valorosi, significa riuscire a fare questo, evitare il "sequestro amigdalino", come lo chiamano le neuroscienze: «Confondi un uomo con una tigre, tutto diventa più grande, smisurato, impossibile da affrontare. Noi esseri umani, tra l'altro, siamo abituati a giudicarci di continuo. Non valutiamo gli errori, li giudichiamo e, con quelli, giudichiamo noi stessi».
Il valore sta nel riuscire ad aprire lo stesso quella porta e a muovere il primo passo verso ciò che ci spaventa, perché, solo dopo quell'esperienza, si riesce a conoscere un'altra parte di noi, più completa o, sicuramente, mai incontrata prima. «Si può farlo in Alaska od ovunque nel mondo ed in qualsiasi ambito, a patto di lavorare sulla fede in noi stessi. Sulla fiducia che abbiamo delle nostre capacità. Non si raggiunge solo ciò che si vuole, si raggiunge ciò che si necessita, di cui si ha bisogno». Qui Willy torna a San Tommaso e Sant'Agostino: il primo con il suo "se non vedo, non credo" e l'altro con un capovolto "se non credo, non vedo".
«Concordo con Sant'Agostino. Penso sia indispensabile credere fortemente al proprio obbiettivo a ciò che si vuole raggiungere per poi vederlo effettivamente». Prima di tutto, però, c'è la conoscenza della propria persona che è la base, la regola incisa su una pietra all’ingresso del Tempio di Apollo: "Conosci te stesso". Soprattutto perché questa conoscenza permette di ridimensionare la paura del resto: «Si tratta comunque di qualcosa di occulto, ma, in questo modo, è possibile aprire la porta ed affrontarlo, scoprirlo e, quindi conoscerlo». C'è l'essere, ovvero il conosci te stesso, il saper essere, quindi la capacità di relazionarsi con gli altri, e, infine, il saper fare che è il virtuosismo di ciascuno, qualcosa che si fa per noi stessi e per gli altri. «La paura si affronta come l'Alaska, essendo umili, non arroganti, ma coraggiosi. C'è un libro intitolato "Il cammino dell'eroe": da quelle righe capisci che l'eroe è una persona semplice, genuina, che ha sofferto, che ha imparato. E quando sei solo, a spingere la tua bici, ci pensi e ti fai coraggio».
Willy sorride, pensa alla strada che ha fatto, a quanto l'Alaska, ancora una volta, l'ha cambiato, poi torna a parlare: «Platone diceva: “Ognuno può essere eroe per amore". Siamo chiamati a questo».
Proprio così, nulla da aggiungere.
Vado in Bianchi e torno... Forse!
Ciò che oggi vedi sulle navicelle spaziali, lo troverai tra dieci anni sul tuo telefonino, lo diceva il mio professore di fisica delle superiori. Quando sono andato a recuperare la nuova Oltre per il nostro test, ho sentito risuonare quelle parole nelle mie orecchie. Bianchi questo concetto l’ha sempre avuto nel DNA: erano addirittura i primi anni ‘50 quando creò Reparto Corse, il laboratorio dove vengono sviluppati prodotti all’avanguardia con e per i campioni, che dopo poco diventano fruibili a chiunque. Un concetto semplice, ma che spesso viene dimenticato. Questo non succede però in casa Bianchi, che addirittura ha scelto di fare di Reparto Corse un brand nel brand.
Ma Reparto Corse è anche una scelta di controllo su tutta la filiera: solo creando in prima persona la componentistica da montare sulla bici c’è la sicurezza che i prodotti seguano perfettamente le necessità qualitative. Metaforicamente pensate a un ristoratore che produce gli spaghetti, il pomodoro e il parmigiano: avete presente che pasta ne verrà fuori?
Ruote, selle, attacchi manubrio, di tutto di più insomma, sempre col fine ultimo della miglior performance. Arrivare al punto in cui la macchina è perfetta e, paradossalmente, è l’uomo con i suoi difetti a limitarne la prestazione. Che detta così fa strano, ma in realtà è molto semplice: è il ciclista, con le sue imperfezioni di pedalata, fisiche, di struttura, a ostacolare ciò che il mezzo può offrire.
Dal momento in cui hanno comunicato i lavori sulla nuova sede, dove il Reparto Corse lavorerà a stretto contatto con l’Ufficio Stile per assorbirne contaminazione e idee provenienti anche da altri mondi, era a tutti apparso ben chiaro che in Bianchi non mancasse la visione del futuro.
Un futuro dove anche l’abbigliamento avrà un ruolo molto importante (spoiler alert!).
Insomma, sono andato in Bianchi semplicemente per recuperare la Oltre e scambiare le classiche due parole da PR, alla fine ne sono uscito dopo un pomeriggio intero di chiacchiere. Perché io sarò anche curioso, ma loro di cose da dire ne hanno, eccome.
Dal Poggio puoi vedere
Che idea bislacca per un mondo che pare non abbia un futuro (ahia, iniziamo bene… direte voi) pensare di osservare da una montagnetta che arriva al massimo a trecentotrenta metri di altitudine ciò che potrà essere. O forse è proprio questo il paradosso o il punto, chissà.
Però dal Poggio (di Sanremo) puoi vedere tante cose, magari non la Tour Eiffel come riesce a Vinz e Said ne “l’Odio’’ da un palazzo del centro di Parigi, e nemmeno spegnere il mondo per un attimo con lo schioccare delle dita, ma mentre osservi ti fai ugualmente un po’ di domande e iniziamo da Pogačar: hanno fatto tutto bene lui e la sua squadra (almeno sino a lì)? Non è che magari poteva rispondere all’attacco di Mathieu van der Poel? Il problema è la caduta o l’atterraggio?
L’impressione è che lui e l’UAE abbiano svolto il compito (quasi) alla perfezione - qualcuno direbbe che peggio dello scorso anno era difficile - in una corsa dove è impossibile lanciarsi in chissà quali svolazzi studiati a tavolino: i punti dove fare la selezione sono quelli; i punti dove scattare si conoscono a memoria. Avviene una prima selezione sulla Cipressa, ma non devastante come dodici mesi prima, scelta fatta proprio per tenersi di fianco i suoi uomini e sgranare il gruppo nella breve ascesa successiva. Sul Poggio, infatti, sono perfetti nel lanciarlo, l’azione di Wellens, che cambia ritmo rispetto a quello più stabile tenuto dalla Bahrain, è una progressione che dimezza il gruppo e abbatte le speranze di quelle ruote velocissime che fino a poche centinaia di metri prima parevano muoversi più che bene (vedi Ewan, Ballerini o Cort Nielsen: più passavano i metri e più prendevano la forma degli spauracchi).
Prima che il belga, facendosi da parte, possa dare il via libera all'attacco del suo capitano, Trentin, manovra perfetta anche la sua, in nona ruota si sposta e fa il buco, Cosnefroy e un altro corridore della Alpecin - un Philipsen d’annata: finalmente sta sbocciando quel corridore che aspettiamo da cinque anni anche nelle corse di un giorno? vedremo… - non chiudono e davanti restano nell’ordine: Wellens, Pogačar , van der Poel, Pedersen, Ganna, Kragh Andersen, Mohorič, van Aert. Poi il belga dell’UAE dalla testa si leva di torno, parte Pogačar e restano in quattro, ma quello che pare l’affondo decisivo - ma non risolutivo - risulta essere il là, poco dopo, fondamentale per l’azione di van der Poel che sale a bocca chiusa mentre gli altri sono a tutta e che quando scatta pone fine alle ambizioni dello sloveno, dell’italiano e del belga.
E per rispondere dunque al primo quesito: Pogačar ha fatto tutto bene? Certo. E pareva il miglior Pogačar possibile - d’altra parte da febbraio fino a poche centinaia di metri dalla cabina telefonica che segna l’inizio della fine della salita del Poggio, aveva ammaliato per l’efficacia delle sue azioni. Ma il miglior Pogačar possibile per vincere la Milano-Sanremo: 1) deve arrivare da solo e staccare gente di questo calibro sulle dolci pendenze sopra Sanremo non è facile; 2) se arriva in un gruppetto deve sperare che in quel gruppetto non ci sia gente come van der Poel o van Aert (o come l’incredibile Ganna visto sabato, ma ci ritorneremo). Tertium non datur, e va bene così, a fine gara lo sloveno, protagonista di una Sanremo che non dimenticheremo, sorride soddisfatto della sua gara e rilancia per l’anno prossimo. Magari cambiando nuovamente spartito lui, visto che il percorso rimarrà verosimilmente sempre questo.
VAN DER POEL LOGORA CHI NON CE L’HA
Dopo le domande è il tempo delle affermazioni: sulla forza di van der Poel e su quel qualcosa che sembra ogni volta mancare a Wout van Aert sul Poggio.
Van der Poel, in nemmeno troppe poche parole: dal suo incredibile filotto nelle corse cosiddette Monumento, fino a un un palmarès nelle gare di un giorno che appare così ricco, sontuoso, che a fine carriera - speriamo che questa arrivi più tardi possibile, ma tant’è - lo metterà tra i più grandi interpreti di sempre delle grandi classiche. Top ten in tutte e cinque le Monumento; una Milano-Sanremo, una Strade Bianche, una Amstel Gold Race, due Fiandre, un podio alla Roubaix, e ancora in un Fiandre e in una Milano-Sanremo. Tutto molto bello direbbe Pizzul, noi aggiungiamo esaltante al posto di bello: dai risultati statistici, al solito parallelismo con nonno Poulidor che francamente non stanca mai, e lo dice chi fa del cinismo un cavallo di battaglia, ma poi in realtà si scioglie davanti a certe situazioni.
E poi quell’azione che gli vale anche il record di sempre sul Poggio (5’40'' con un margine di errore di 2") con una delle manovre più incredibili a memoria di chi scrive e si presume anche di chi legge, azioni indimenticabili che con van der Poel iniziano pure a essere diverse, grazie alla sua capacità di esprimere potenza superiore a chiunque altro, sia che si parta da fermi - le famose volate a due dove risulta spesso imbattibile (con eccezioni) - alcune volate prese da lontanissimo, sforzi su pendenze a doppia cifra (Santa Caterina a Siena), o su pendenze dolci ma affrontate a tutta velocità come a Sanremo.
E dal Poggio osserviamo, guardando l’orizzonte, e vediamo il lavoro incredibile che stanno facendo nella sua testa papa Adri, la squadra, chi gli sta vicino e chiaramente quanto lui ci stia mettendo del suo. Tatticamente è diventato quasi perfetto in corsa, è vero a volte si concede qualcosa - per fortuna - basti pensare al Giro 2022 tutto all’attacco per la nostra gioia che lo abbiamo amato ancora di più, ma vi ricordate quando era così naïf che al Fiandre solo quattro stagioni fa rischiava di compromettere la sua salute per saltare i marciapiedi in bicicletta?
Oppure quando inizialmente stava al vento, troppo sicuro di sé, a cercare il posto giusto in gruppo, a defilarsi e risalire sprecando energie, o ancora: avete memoria di quell’azione - straripante, leggendaria è vero, ma… - alla Tirreno-Adriatico di due anni fa? Quell’azione gli tolse le energie necessarie per essere competitivo alla Milano-Sanremo. Quest’anno alla Tirreno si è allenato, ha fatto dei test, come sospettavamo si è nascosto. Questo, viene anche da pensare, può essere dato dai noti problemi fisici (schiena, ginocchio) che si porta dietro da tempo e che lui è riuscito a trasformare in occasione da sfruttare. Non si corre più per la gloria estemporanea, per vincere o piazzarsi ovunque, ma solo pochi obiettivi mirati. Possibilmente grossi.
Tutto questo lo porta a essere dominante sul Poggio, il numero uno al mondo nelle corse di un giorno, con buona pace del suo eterno rivale van Aert e dell’all-rounder per eccellenza, quel fuoriclasse di nome Tadej Pogačar.
VAN AERT SE POTESSE DIREBBE: «ABOLITE IL POGGIO»
E veniamo a van Aert: la sua squadra ha condotto la prima parte di gara, un uomo a testa per tutte le squadre che avevano un favorito alla vittoria finale, poi le cadute hanno coinvolto Tratnik (ben due volte, gli altri si sono visti pochissimo), facendogli mancare una pedina fondamentale nel finale e nel momento del dunque è rimasto solo - addirittura troppo indietro nel momento dell'accelerazione di Wellens, prima, Pogačar poi, e quelle energie sprecate per rimontare posizioni in gruppo gli sono costate care (qui torna quel concetto espresso che alla Milano-Sanremo non bisogna sprecare un goccio di energia); ed è qui che si è ancora una volta scontrato con la dura legge del Poggio, una salita che non digerisce pienamente. Quando vinse, nel 2020, fu l’unico a resistere ad Alaphilippe, è vero, ma si salvò per il rotto della cuffia, evidentemente certe sgasate massime su suolo italiano non le regge. Attenzione però, chiariamo il concetto: parliamo di “non digerisce il Poggio” magari rispetto a uno, due, tre corridori, con gli altri centocinquanta e passa già saltati!
Sabato scorso sulla salita sopra Sanremo è stato accucciato prima a ruota di sei/sette corridori, poi quando restavano in quattro, degli altri tre; è andato in affanno sull’accelerazione di Pogačar, ma ha chiuso lui il buco, caduto nella trappola di van der Poel (quando attaccano Pogačar e Ganna, è van Aert che ricuce), ha sprecato quelle energie utili per salvarsi dal devastante attacco dell’olandese poco dopo. Infine proprio per caratteristiche è evidente come al belga serviva arrivare in quattro per sperare di vincere. Ma ci sarà tempo per le rivincite già dalle prossime ore.
E INFINE GANNA, MA PER NOI È SOLO L’INIZIO
A 27 anni è arrivato il momento della sua massima maturità anche su strada. Poi che la sua disponibilità nell’essere sempre a disposizione del capitano di turno - cosa buona e giusta - non gli ha fatto crescere dentro quell’istinto necessario a muoversi nel momento opportuno è un dato di fatto e lo dice anche lui. Parole sue: «Non ho seguito van der Poel perché non sono abituato a giocarmi i finali di queste corse con certi corridori». Poi ha stupito; stupito così tanto che inizialmente ci si domandava: ma è Ganna quello a ruota di Pogačar o, e qui citiamo Bene (con la b maiuscola): “è forse il caso di una ubriacatura collettiva sdrucciolata sull’asse metonimico?”. Invece era realtà. Che poi in molti abbiano approfittato del pomeriggio davanti alla classicissima per darci dentro con birra o vino, buon per loro.
E infine ci dà speranza, in un momento in cui, possiamo dirlo senza timori di smentita, il ciclismo italiano affronta diverse difficoltà, abbiamo trovato un grande corridore che pensavamo fosse così iperspecializzato da non poter competere al livello che abbiamo visto sul Poggio, con tre dei quattro più forti corridori al mondo. E Ganna c’era, di diritto, per gambe, forma e palmarès, e con un bel messaggio: «Ora punto tutto sulla Roubaix». E allora fai una cosa: prendi il nostro cuore, Ganna, straccialo, calpestalo, fanne ciò che vuoi, tanto poi ci rivediamo dentro il velodromo francese, il tuo habitat naturale, la tua corsa.
In bici per Copenaghen
Ho provato una sensazione nuova, girando in bicicletta per Copenaghen. Una sensazione che difficilmente dimenticherò. Dovrebbe essere la normalità, ma l’ho provata solo lì, di tutte le città (città grandi, città trafficate, piene di persone) in cui ho pedalato: in nessun posto come tra le strade Copenaghen, mi è capitato di sentirmi al sicuro. Sicuro in tutto e per tutto, sui pedali senza timore alcuno; spensierato e felice avrei continuato a pedalare fino alla mattina seguente, se solo ne avessi avuto le possibilità.
Non c’è una circostanza particolare, un episodio che svetti sugli altri che mi abbia fatto pensare di essere davvero protetto, al riparo, in un ecosistema che si prende cura dei ciclisti: è stata una sensazione diffusa, valida per tutto il tempo (quasi cinque ore) che mi sono ritrovato a pedalare. E così dovrebbe essere, la normalità. Non ero solo, in realtà: un’amica che vive e lavora a Roskilde (poco fuori Copenaghen, sede di partenza della seconda tappa del Tour de France 2022) ha portato me e diversi altri amici non ciclisti in giro per la città. Alcuni di loro non toccavano una qualsiasi bicicletta da mesi e hanno accolto con grande sorpresa la notizia – comunicata loro dopo aver controllato su Komoot la registrazione dell’attività, che quasi avevo dimenticato di aver avviato – di aver già completato oltre 35 chilometri.
Solo muovendosi in città – per il brunch nel quartiere di Nørrebro, nella zona della Sirenetta e del Kastellet e davanti al castello di Rosenborg o alla tomba di Kierkegaard – avevamo pedalato 35 chilometri senza rendercene conto. Le piste ciclabili, a Copenaghen, sono dappertutto: sui ponti principali, a lato delle strade più trafficate, su e giù per i diversi parchi verdi che si susseguono in una città pensata per il trasporto su bici. Non sono riuscito a contare il numero di cargo bike che, guidate e messe in movimento soprattutto da donne, portavano bambini a scuola: esatto, due o tre bambini dentro il cassone della cargo bike. E via. Prima di tanti semafori una sbarra verde permette ai ciclisti di appoggiarsi per non smontare dalla bici: è un incentivo alla velocità, perché se vai in bici non per forza ci metti più tempo che prendendo la macchina, anzi.
L’ostello in cui abbiamo noleggiato le bici ne aveva circa 200 disponibili. Le piste ciclabili, oltre a portarti ovunque, sono vere piste ciclabili: separate dalla carreggiata, larghe diversi metri, asfaltate bene, sulle quali non si trovano macchine in sosta a ogni pedalata. Proprio mentre decidiamo di andare a vedere quella famosa pista da sci costruita sull’inceneritore nella zona del porto, inizia a piovere. Forte, come piove in Danimarca. E le persone come hanno reagito? Continuando ad andare in bicicletta. Verso il tardo pomeriggio chi pedalava con me ha preferito tornare in ostello. C’era ancora un’ora e mezzo di luce, i ciclo-cafè di Rapha e Pas Normal (il primo molto in centro, il secondo – addirittura un flagship store, qualunque cosa significhi – nella ricca zona nord) erano già chiusi e di chiudermi a mia volta in una piscina (non hanno un museo degno di nota ma gli ostelli con piscina sì, a Copenaghen!) non avevo voglia. Per cui, bicicletta e si punta verso nord. Avevo sentito parlare delle ciclabili che portano fino a un terzo ciclo-cafè, Cranks&Coffee, ben fuori dalla città. All’orario del mio arrivo in zona non sarebbe stato aperto neppure quello, ma l’importante per me era pedalare.
Anche uscendo dalla città, le piste ciclabili sono ugualmente curate e ben tenute. Quando l’arteria principale si affaccia sullo stretto di Øresund, che separa Danimarca e Svezia, la pista ciclabile non perde spazio, anzi ne acquista: tre o quattro metri di corsie sono riservati ai pedoni, altrettanti ai chi pattina a rotelle, altrettanti ai ciclisti. Piuttosto esterrefatto e ammirato, mentre mi godevo i riflessi del tramonto oltre le case del porto, pensavo che in Italia non sarebbero morte in media 217 persone ogni anno dal 2018 al 2021 in incidenti in bicicletta se esistessero più città di questo tipo. Ma perché più città, tutte le città dovrebbero essere così. «Eh ma [*inserire città a piacimento*] non è Amsterdam» non è più una scusa, come scrive Elena Colli su Valigia Blu. A proposito di Amsterdam, città che, come Copenaghen, è famosa per il suo andirivieni di biciclette: era intasata dalle macchine, fino a non troppi anni fa.
Non voglio lanciarmi nella proposta di soluzioni veloci: non esistono bacchette magiche. È una questione culturale, infrastrutturale, urbanistica, che riguarda abitudini e modi di vivere e molte altre cose ancora. È una questione politica, in ultima istanza.
Cito, in conclusione, un dato di fatto: in Italia le piste ciclabili sono molto poche. Una delle conseguenze è il fatto che a Milano, nel momento in cui scrivo, la concentrazione di PM2.5 (ovvero, in sostanza, le polveri sottili) è quindici volte (15!) superiore aI valore di guardia dell’Organizzazione mondiale della sanità. Mentre mi chiedo se uscire a pedalare oggi faccia bene ai miei polmoni o meno, io, e penso tante persone che leggono, ricorderò per sempre la prima volta che ho vissuto come le cose possano andare in un modo diverso.
I motivi che muovono il Binda
Sul lago, a Maccagno, nel primo mattino, alla partenza del Trofeo Binda, ci si rende proprio conto di come ciascuno sia qui per un motivo diverso. Sì, ognuno, perché questa considerazione non riguarda solo le atlete, ma proprio ogni persona arrivata qui. Pensate che qualcuno non conosce nemmeno questa corsa, ma il traffico bloccato non gli ha dato altro scampo che fermarsi e allora: «Ho fatto di necessità virtù. Invece che lamentarmi, ho deciso di guardare a quello che c'è. Per ora, non ci capisco molto, ma chissà, dicono che le gare di ciclismo siano molto lunghe, forse ora della fine...». E, se il ragazzo che ci dice questo è capitato qui per caso, anche chi è venuto appositamente per la gara di motivi ne ha a bizzeffe e tutti diversi. C'è chi sa gustarsi l'attesa e chi, invece, non vede l'ora che la corsa parta, o meglio, che arrivi, perché vuole vedere il finale, vuole sapere come andrà. Lo si capisce dalla postura; c'è chi è appoggiato comodamente alle transenne e chi non sta fermo un attimo, dallo sguardo alle mani, alle gambe. Lo si capisce da come corre alla macchina chi non vede l'ora dello scatenarsi della bagarre: telefono alla mano, mappa, per capire dove andare a vedere il passaggio. In questi casi, la parola d'ordine è "schiscetta", ovvero merenda o pranzo, portato in un contenitore: «Prendetevi la schiscetta» dice una madre. Poi via, si va.
E se questo vale per il pubblico, a maggior ragione vale per le atlete. Prendete Sofia Barbieri che corre questa gara con una mascherina per le allergie che si sviluppano in questa stagione, suscitando la curiosità di chi la vede transitare: «I medicinali non sempre bastano, però, con la fatica, ogni tanto tocca abbassarla, scegliere il male minore. Se l'abbasso, vuol dire che la lucina rossa sta per accendersi». Quale può essere il motivo, quando sei certo che, comunque vada, soffrirai? Esserci, in molti casi, solo esserci, provare. Anche Marta Cavalli è a Maccagno, con un'idea diversa dal solito: non è ancora il momento del ritorno in corsa, le serve una pausa, ma correrà. Perché è in Italia e molti la aspettano e perché, in fondo, la voglia di mettersi alla prova c'è sempre, la voglia di ricercare la stessa sensazione e di vedere come cambia di giorno in giorno. Arriva, si ferma in macchina, parla con il proprio direttore sportivo, poi scende e va incontro al padre. Già, per molti oggi il motivo è anche questo: vedere le figlie correre o vedere i genitori dopo settimane lontani da casa. Anche i genitori delle atlete hanno una mappa: quella delle trasferte fattibili e dei giorni in cui possono stare lontano dal lavoro per seguire le figlie, anche in camper, anche con andata e ritorno in giornata e chilometri e chilometri.
Poi ci sono le motivazioni attinenti alla gara: si legge la tensione negli occhi di chi la gara proverà a farla, a dominarla, a vincerla. Si legge negli occhi appena si scende dal pullman, poi, come si incrocia lo sguardo dei tifosi, lascia spazio a qualche parola, al sorriso: quasi una maschera per comunicare la spensieratezza che i tifosi si aspettano, quasi fosse un gioco di teatro. Vale per Niewiadoma, Arlenis Sierra, Mavi Garcia, ma vale in generale per chi vuole fare bene. Elisa Balsamo e Soraya Paladin scendono prima dal pulmann: lì fuori c'è la loro famiglia. «Oggi sono qui per mia sorella» ci dice Asja Paladin mentre, con i genitori, va al pullman a salutare Soraya. Non «per vedere mia sorella correre» ma proprio per lei: quasi il tifo di una sorella possa essere un sostegno fisico, un appoggio vero e proprio, non solo di voce e mani che battono.
Tra i motivi c'è anche il sostegno alla squadra, l'essere utili, in ogni modo. Shirin van Anrooij ha ed ha sempre avuto questo motivo. L’ha detto nel dopo gara: «Volevo lavorare per Elisa Balsamo, poi ho sentito di avere le gambe e ho tirato dritto». Sì, “aveva proprio le gambe” a giudicare dal numero che ha fatto. Una ciclista che ieri non ha partecipato alla gara, vedendola, ci ha detto: «Non mi è mai capitato di essere davanti a una corsa e di giocarmela così. Però la sensazione che si prova, quando il gruppo ti insegue a pochi secondi, la conosco. La simulo in allenamento: fingo di essere al Giro d'Italia, all'attacco. Conosco quell'acido lattico che monta». Ed anche questo è un motivo, è cercare un motivo, per fare fatica, per andare alle corse. Lo pensano spesso le atlete che vanno i fuga in corse in cui si sa che la fuga non arriverà. Per sprintare per un secondo posto, come ha fatto Elisa Balsamo, e gioire come fosse il primo, perché c'è una compagna che ha vinto, ma adesso sai che quella volata avresti potuto vincerla anche tu e questo è motivo di fiducia.
Vogliamo dire che i motivi, le motivazioni, alla fine, in questa domenica, sono state tutto quello che contava: per esserci, per non esserci, per vincere o per arrivare al traguardo. Per il modo in cui permettono di leggere ciò che accade e di venire sul lago per una gara dura, anche se si sa o si teme di non essere pronte per quel che si vorrebbe. I motivi muovono, come le biciclette. Per questo era giusto parlarne.
Quella prima volta in Belgio
23 Marzo 2023Storie,ApprofondimentiGent Wevelgem,Buratti,Cycling team Friuli,Olivo,Bruttomesso,Mattiussi
Il Cycling Team Friuli si affaccia nel mondo del ciclismo dal 2005 e negli anni ha scalato le gerarchie di quello che una volta avremmo definito dilettantismo - mentre oggi quel tipo di definizione lascia il tempo che trova: tra Continental, squadre Under 23, team di sviluppo, appare quasi obsoleto parlare ancora di dilettanti come categoria che prepara al salto tra i professionisti, ma questo è un altro discorso. Il Cycling Team Friuli, col tempo, è diventato un punto di riferimento in Italia di quella categoria trait d'union con il professionismo, quella categoria fondamentale per insegnare ai ragazzi quello che verrà.
Ha scaldato i motori qualche stagione fa lanciando al piano superiore uno dei nostri corridori preferiti - e più alvento di tutti - ovvero Alessandro De Marchi, vero simbolo della CTF della prima ora e ha proseguito nelle stagioni successive con i fratelli Bais (Davide e Mattia), Alessandro Pessot (oggi parte dello staff della squadra), Nicola Venchiarutti, Matteo Fabbro, Giovanni Aleotti, Andrea Pietrobon, Jonathan Milan, Fran Miholjevic e nel 2024 farà salire nella categoria maggiore Nicolò Buratti e Alberto Bruttomesso, per la verità quest'ultimo arrivato solo pochi mesi fa con l'obiettivo di prepararsi al meglio per il grande salto con il Team Bahrain Victorious, squadra di cui il CTF da un paio di stagioni è a tutti gli effetti il team di sviluppo.
Negli anni, i ragazzi guidati da Roberto Bressan e Renzo Boscolo, e in ammiraglia da Alessio Mattiussi e Fabio Baronti, si sono sempre distinti per far crescere gradualmente i propri atleti preparandoli al professionismo facendogli maturare esperienza all'estero, soprattutto nell'est Europa, ma dal 2023 qualcosa è leggermente cambiato. Attività al di fuori dell'Italia, sì, ma un po' più su di quella che ormai è la consolidata tradizione degli ex bianconeri friulani.
Abbiamo ascoltato uno dei tecnici della squadra, Alessio Mattiussi, fresco proprio della trasferta in Belgio alla Youngster Coast Challenge, e in procinto di ritornare lassù al Nord per disputare una della gare più attese del calendario Under 23: la Gent-Wevelgem che si correrà in una giornata piena zeppa di ciclismo da quelle parti, una sorta di mini-mondiale: quel giorno infatti, domenica 26 marzo, su quelle strade correranno anche gli juniores e ovviamente le due massime categorie rappresentate da donne e uomini élite.
Quest’anno un passo importante: per voi è la prima volta in Belgio.
Come Cycling team Friuli sì: lo scorso anno invece Buratti andò a correre proprio la Gent-Wevelgem con la maglia della Nazionale. Per questo 2023 abbiamo deciso di cambiare: noi di solito andiamo a disputare le corse nell’est Europa ma abbiamo sempre avuto il pallino di andare in Belgio, ma organizzare quel tipo di trasferte non è per nulla facile. Ci siamo riusciti grazie anche al supporto del Team Bahrain, e così abbiamo corso Youngster Coast Challenge e poi correremo la Gent.
Uno dei miei cavalli di battaglia, che porto avanti da sempre, è: per essere davvero competitivi tra i professionisti, nelle categorie giovanili bisogna andare al nord e quindi in Francia, Olanda e Belgio e scontrarsi contro le squadre che fanno abitualmente quel calendario e misurarsi su quel tipo di percorsi. Questo tipo di esperienza in che modo può servire ai ragazzi per essere poi pronti al piano di sopra?
Lo abbiamo visto sin dalla recon della Gent: un approccio diverso al modo di correre, percorsi vari e ricchi di ostacoli, l'imbocco dei muri è totalmente differente da un inizio salita in Italia. E poi ti trovi il pavé in mezzo ai paesi o all'improvviso nelle strade di campagna e ciò ti costringe ad alzare la soglia dell’attenzione: capitano imprevisti, cadute e forature. Questo porta a un interpretazione della corsa differente: ti tiene sempre sull’attenti, ti sollecita, un modo di correre più nervoso: dall'ammiraglia tutti chiedono di prendere davanti i muri o quei tratti particolari dal punto di vista tecnico, e il risultato è che il gruppo si allunga e si alza in maniera decisa il ritmo della corsa.
E senza dimenticare il vento.
In Italia, Slovenia, Croazia, dove corriamo spesso noi, puoi capitare la giornata di pioggia e vento, ma lì è all’ordine del giorno e infatti alla Youngster - dove per altro siamo stati fortunati con il meteo, niente pioggia e vento solo a tratti - in un momento in cui tirava un po’ di vento, le squadre development, Lotto e Uno-X su tutte, hanno provato ad attaccare aprendo i ventagli. È questa la chiave: o stai davanti e impari a correre in quella maniera, oppure se fuori dalla corsa.
Cosa ha dato ai tuoi ragazzi questa prima esperienza in Belgio?
Per loro è stato importante andare su qualche giorno prima. Di solito per far fronte al budget si va sempre a ridosso della corsa, mentre noi grazie al supporto della Bahrain siamo rimasti su per una settimana da lunedì a venerdì, abbiamo provato i percorsi e abbiamo vissuto quasi come un team World Tour: cinque giorni di trasferta, ricognizione di tutta la Gent e questo ti porta a capire già cosa vuol dire imboccare davanti un punto cruciale come il Kemmelberg ad esempio. Abbiamo provato il vero pavè belga e lo abbiamo fatto in bici, anche per capire i vari setup da usare: le ruote più adatte all’occasione, che rapporto utilizzare sui muri, perché la scelta è vasta, ma ti devi chiedere: qual è il più efficace? Anche per evitare cadute di catena e altri imprevisti. E poi è stato fondamentale fare la Youngster Coast Challenge prima della Gent-Wevelgem per farci un'idea di quello che troveremo domenica sia a livello di avversari che di percorso.
E qualche loro impressione?
Che si sgomita tanto per le posizioni.
Anche a livello di staff avete fatto un’esperienza tutta nuova. Vi siete avvalsi del supporto di qualcuno?
Lo staff era composto da me, Fabio Baronti e Alessandro Pessot, ma con noi c’era Borut Božič che ha corso molti anni anche in Belgio e ha portato la sua esperienza in questo tipo di percorsi, ci ha aiutato nell’analisi della gara, spiegandoci soprattutto quali sono i punti caldi di corse di questo genere.
Come si vive dall’ammiraglia una corsa così?
Da una parte con tranquillità, perché il meteo venerdì è stato clemente: non ha piovuto e ci sono stati pochi tratti battuti dal vento. Dall’altra tensione. Bruttomesso ha forato proprio su un ventaglio e quindi c’è stata un po' di concitazione: quello è stato il momento più critico, forse. Poi però dai muri in poi è stato molto emozionante: se generalmente le “nostre” corse si accendono nel finale e l’adrenalina sale nei chilometri che portano all’arrivo, qui la gara si anima da metà corsa con l'imbocco dei primi muri.
Ho visto un video del Kemmelberg dove i vostri ragazzi erano davanti, tutti nelle prime posizioni, c'era Olivo, Buratti… poi cos’è successo, troppo forti Segaert e Vangelhuwe?
I ragazzi hanno messo in pratica ciò che ci siamo detti e sul Kemmelberg, punto cruciale della corsa, erano davanti, nelle prime posizioni del gruppo, poi a causa di una caduta un paio dei nostri hanno messo il piede a terra e così ci siamo ritrovati a inseguire. A fine Kemmelberg il gruppo era allungatissimo prima del Roderberg, che si affronta praticamente subito dopo, e i Lotto hanno fatto un'azione di squadra, di forza, e da lì sono usciti Vangheluwe e Segaert (che poi si giocheranno il successo: vincerà Vangheluwe della Soudal Quick Step Devo, NdA), mentre a noi è mancato veramente pochissimo per agganciarli e mettere dentro uno dei nostri in quella che poi si rivelerà la fuga decisiva.
Il livello poi era molto alto.
Con nove squadre Development alla partenza, direi proprio sì. È stata un'esperienza importante, una gara riferimento.
E si torna al discorso fatto prima: per diventare un professionista a tutti gli effetti devi passare da qui, banalmente si dice: è una scuola.
Il nostro obiettivo infatti è quello di dare la possibilità ai ragazzi di misurarsi in queste gare e di affacciarsi poi al World Tour con delle basi solide da cui partire. Come team sviluppo della Bahrain dobbiamo riuscire a presentare loro corridori pronti e per farlo devono misurarsi su terreni di diverso genere. Più corse a tappe possibili, più esperienze al Nord possibili e, passami il termine, dobbiamo essere in grado di fornirgli un “prodotto completo”.
Anche perché il tempo "della scuola" finisce proprio in questa categoria, poi diventa un mestiere.
E nel World Tour il tempo per imparare è poco. Se arrivi che ti mancano le basi ti trovi a inseguire, e le squadre non aspettano.
Alla Gent-Wevelgem si alzerà l’asticella, sia come livello, che come obiettivi per voi, dopo l'esperienza alla Youngster Coast Challenge.
Le squadre saranno quelle viste alla Youngster Coast Challenge quindi il livello è il medesimo: molto alto. Se l'altro giorno si arrivava in volata come prevedibile, la Gent è più dura e verrà fuori anche più selettiva dell’anno scorso, perché hanno messo la doppia scalata al Kemmelberg con meno chilometri di distanza l'uno dall'altro e a una ventina dal traguardo. Aspettando anche di capire il meteo, noi non nascondiamo che saremmo agguerriti, ma soprattutto che andiamo lì per fare qualcosa di buono.
Per chiudere: da friulano ti chiedo di due miei corregionali che seguo con particolare attenzione: Bryan Olivo e Nicolò Buratti. Stagioni e profili diversi: Buratti doveva passare, non è passato, ma ha in mano un contratto per il 2024. Olivo ha qualità importanti e lo si attende a un passo successivo dal punto di vista del rendimento. Che obiettivi hanno in stagione?
Buratti dovrà principalmente fare esperienze importanti e formative come queste in Belgio ad esempio, in vista del salto con la Bahrain nel 2024, ma soprattutto dovrà riconfermarsi, che è la cosa più difficile, perché hai addosso gli occhi di tutti e ci sono le normali pressioni. Ma dalle poche gare sin qui disputate ha dimostrato di esserci. Alla Youngster era davanti per giocarsela e lo sarà anche domenica alla Gent.
Olivo lo scorso anno ha avuto un problema al ginocchio che lo ha tenuto fermo per tre mesi. Io ora lo vedo molto cresciuto e maturato, e come hai fatto notare bene tu all’imbocco del Kemmelberg era davanti. Se vogliamo dirla così, queste gare lo motivano un sacco, un po' anche perché lo riportano ai tempi di quando correva nel ciclocross e sono un tipo di corse in cui può dire la sua. Lui deve soprattutto riuscire a sbloccarsi: è forte su pista, va bene a crono, ma ora deve trovare il suo giusto spazio anche per capire come vincere su strada.
Top&Flop - alvento weekly #3
TOP
ALPECIN-DECEUNINK
Dillier per la costruzione da dietro, Hermans e Sbaragli a gestire palla, Vermeeersch per difendere (il capitano), Philipsen la seconda punta che fa le finte, Kragh Andersen stoppa e serve gli assist e poi Mathieu van der Poel a finalizzare. Che squadrone la Alpecin vista a Sanremo! E come se non bastasse nei giorni successivi Philipsen vince una Brugge-De Panne bagnata e massacrante, Groves in volata al Catalunya. Che squadrone la Alpecin ovunque!
UAE TEAM EMIRATES
Si può essere tra i top pur senza essere vincenti? Certo, perché alla squadra di Pogačar gliene si dice sempre di ogni e invece alla Sanremo hanno fatto tutto quello che si doveva fare. Se poi di fronte hai un van der Poel di quel genere non ti resta che guardare e difenderti con i denti.
TREK SEGAFREDO
Al Trofeo Binda, bottino pieno: prima Shirin van Anrooij, seconda Elisa Balsamo. C'è la concretizzazione di un'azione solitaria da equilibristi e un lavoro di squadra che permette all'equilibrista di inventare ogni peripezia. Il riassunto? Dalle parole di Gaia Realini all'arrivo: "Che bella specorata". E poi quel Ciccone mai visto con questa continuità ad alti livelli.
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FLOP
WOUT VAN AERT
E non ce ne voglia Attila Valter che diceva: "Criticano e prendono in giro van Aert per i suoi piazzamenti”, ma a Sanremo van Aert era il favorito e invece arriva “solo” terzo… comunque di gare in cui rifarsi ce ne sono, altrimenti poi ci tocca pure dare ragione a Boonen e Museeuw.
ARNAUD DE LIE
Pensavamo che, entrando nella cabina telefonica, il giovane Arnaud si fosse trasformato in Superman e invece arriva la prima vera legnata della sua carriera. Si stacca sulla Cipressa da un gruppo con dentro ancora 70/80 corridori. Va bene che la Sanremo è la Sanremo, corsa lunga che può logorare, ma l’impressione è che questo non sia minimamente lo stesso Toro ammirato a inizio stagione. Cova un malanno, o è partito troppo forte, illudendoci?
BINI GIRMAY
Da un certo punto in avanti della scorsa stagione abbiamo l’impressione che il talentuosissimo corridore della Intermarché - al netto di alcuni risultati qua e là - non riesca più a esprimersi a quei livelli raggiunti tra Gand-Wevelgem e Giro nel 2022. Non vederlo nemmeno nel secondo gruppetto sul traguardo di Via Roma assume i contorni del mistero. Ma anche lui, come si suol dire, ha tutta la stagione davanti.
E ora qualcosa di completamente diverso
18 Marzo 2023CorseMIlano-Sanremo
Non c’è esperienza più strana, particolare, di una Milano-Sanremo. Una Milano-Sanremo con un finale così, poi, lasciamo stare, perché ha decisamente qualcosa in più. Un amico ci scrive - e ci perdonerà per aver usato e rubato il suo esempio - “La Sanremo è come Catherine Deneuve in Bella di Giorno”. Non si poteva spiegare meglio.
Non c’è esperienza più particolare, differente di questa gara. Ti lascia titubante, annoia da morire, ti costringe a contraddirti e ad arrampicarti sugli specchi per spiegare la situazione: la odi e la ami, ma la guardi lo stesso, perché poi sai che quel finale ripaga tutto. E oggi, quel finale, che finale: ha dato decisamente un tocco differente a tutto.
Non è un dramma in tre atti, ma è qualcosa di completamente diverso. È un crescendo continuo, non c’è risoluzione, ma solo scontro e lotta. C’è appagamento fisico. Ti trascina e quando arrivano i Capi vola via e non te ne accorgi. Salgono le pulsazioni, se sei sul divano inizia a mangiarti le unghie dal nervoso (non fatelo...), e ti alzi, inizi a saltellare.
«Lasciatemi stare, ci sono gli ultimi chilometri della Sanremo!»
«Ma se hai detto che è una gara noiosa!»
«Non è vero!»
Non è vero, perché quando arriva quel benedetto Poggio ti accorgi che sei ore sono volate via e se succede come oggi, vedi volare via un quartetto iconico, stellare, che più quartetto iconico, stellare non si può. E se sei ancora più fortunato da quel quartetto iconico, stellare vedi volare via Mathieu van der Poel che trova il momento giusto, perfetto, quasi studiato, per prendere lo slancio giusto e andarsene.
Ci sarebbe da parlare per ore, scrivere trattati e saggi su ciò che van der Poel e questa generazione sta regalando al ciclismo. E di quello che hanno regalato oggi alla Milano-Sanremo. Ciclocrossisti che vincono la gara (e che finiscono sul podio), pistard che arrivano secondi (che gara Ganna, e che sparata sul traguardo!); corridori a tutto tondo che attaccano, vengono staccati e poi battuti, finiscono giù dal podio, ma a fine corsa hanno occhi, sorrisi e strette di mano solo per il vincitore.
Oggi è stata una Milano-Sanremo di quelle che vorresti uscire in strada e urlare: «Che gara!»; una di quelle Milano-Sanremo dove non invidi il tuo vicino che sta in giardino a tagliare l’erba, anzi non solo non lo invidi, ma provi pure un po' di rabbia e vorresti dirgli: «Vai dentro a guardare la corsa che mi disturbi!».
Oggi Mathieu van der Poel, con la sua esplosività e il suo tempismo ha regalato qualcosa di completamente diverso in un ciclismo che, quando ci sono loro a giocarsi la vittoria, fa di tutto per non annoiarci nemmeno un po’. Nemmeno in una corsa come la Sanremo, amata, odiata, bistrattata, difesa strenuamente, e con quel finale così carico di emozioni e adrenalina. E poi quegli ultimi chilometri fatti così e con quel vincitore lì, hanno avuto decisamente qualcosa in più. Che esperienza la Sanremo...
10 nomi da seguire per la Milano-Sanremo
17 Marzo 2023CorseMIlano-Sanremo
Qual è quella corsa che dura quasi trecento chilometri e che ti consuma lentamente, ti annoia, ti fa addormentare e poi all'improvviso ti sveglia come se ti avessero gettato un secchio di acqua gelata? Qual è quella corsa che ha sempre lo stesso canovaccio, ma che si presta a diverse soluzioni, quella corsa in cui “tanti sono i favoriti, ma pochi quelli che davvero possono vincerla?” almeno così dicono i saggi.
Beh inutile stare a girarci troppo attorno perché lo avete già capito: parliamo di Milano-Sanremo che quest'anno, per gli appassionati di fantaciclismo e per tutti gli iscritti a Fantacycling, darà il via al Trofeo Monumento con i premi messi in palio da alvento.
Ve ne consigliamo dieci, ma potrebbero essere anche trenta con il rischio che poi a vincere è il trentunesimo. Una corsa unica a suo modo, divisiva, noiosa e allo stesso tempo palpitante. Aperta a diverse soluzioni, ma paradossalmente con un canovaccio sempre simile che non si discosta da quei tre, quattro modi che si hanno per vincerla.
Abbiamo scelto cinque grandi nomi e cinque outsider che come vedrete alcuni possono essere nomi anche sorprendenti. restano fuori campioni uscenti, vincitori recenti, gente che è salita sul podio più volte, ma questa è la forza (mai il limite) della Sanremo.
PS di fianco al nome trovate anche i fantacrediti per l’acquisto su fantacycling.
DIECI NOMI PER LA MILANO-SANREMO
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5 FAVORITI
1.Mathieu van der Poel (46 crediti)- Arrivato un po' sotto traccia, ha giocato a nascondino o cerca ancora la migliore condizione?
2. Tadej Pogacar (72)- il più in forma, il più forte, lui altro che nascondersi, sta benissimo forse anche più dello scorso anno e con la capacità di non ripetere certi errori.
3. Wout van Aert (67)- A proposito di nascondino alla vigilia della Milano-Sanremo, a proposito di soluzioni differenti. Se c’è uno che può vincere in ogni modo quello è lui.
4. Mads Pedersen (40)- Dice di non amare questa corsa, ma lo scorso anno è arrivato vicino tanto così a salire sul podio. Trovarselo di fianco in via Roma sarà un problema per tutti.
5. Bini Girmay (33) - Ecco su di lui c’è qualche dubbio: alla Tirreno non ha sfigurato, ma è mancato qualcosa, ma se c’è una corsa perfetta per Bini…
5 OUTSIDER
1. De Lie (21) - Già amatissimo, già corridore di culto, alla PaNi ha preso le sberle giuste per continuare a crescere e alla Sanremo può vincere.
2. Tratnik (11)- Volete il nome di un corridore che sta benissimo e può arrivare in Via Roma da solo e anticipando? Ecco lo sloveno della Jumbo Visma per voi...
3. Consonni (12)- Tra gli italiani scegliamo Consonni: abbiamo ancora negli occhi ciò che ha fatto in pista e questa è da sempre la corsa dei suoi desideri.
4.Sagan (15) - Ultima Sanremo per Peterone, la classica che più di tutti lo ha respinto e lui ha sfiorato. Noi sogniamo con lui.
5. Strong (3) - Si è visto pochino in questo inizio di stagione, come caratteristiche sembra un po’ Alaphilippe, un po’ Gerrans, due che questa corsa l’hanno vinta: e pure Strong ha i numeri per emergere nel finale. Certo piovese sarebbe ancora meglio perlui, ma è previsto bel tempo.
Foto: Sprint Cycling Agency
Ecco invece i consigli per la Sanremo di Fantacycling