Pazzi per Pantani
Alessandro ed Emanuele sono vicini di casa. Alessandro è un enologo; andava in motocicletta finché un malanno al ginocchio non lo costrinse a pedalare, e a conoscere la bicicletta. Emanuele invece il ciclismo lo ha da sempre in famiglia; è stato a vedere Pantani sullo Zoncolan e ha un fratello che, nato nel '95, è stato chiamato Marco. Oggi fa il maestro di religione, «così posso passare ogni mese di luglio a casa a guardare il Tour».
Alessandro ed Emanuele sono vicini di casa, si sono conosciuti facendo i volontari nella parrocchia del loro paese in Friuli, ma a farli partire per un'avventura è stata la bicicletta. Non una qualsiasi, è stata la bicicletta di Marco Pantani. Un giorno a casa di Emanuele infatti è arrivata una Bianchi XL EV2, la stessa bici dei grandi trionfi del Pirata, e Alessandro, che aveva ormai cominciato a interessarsi del collezionismo ciclistico, gli disse "fammela studiare un attimo". Era curioso, perché aveva notato subito quanto quel telaio fosse diverso da quello che compariva nelle foto di Pantani. Una curiosità che si acuì quando si imbatté in un commento a un post di Davide Cassani sui social network. Era il periodo dell'asta fallimentare della Mercatone Uno, e Cassani era riuscito, insieme ad altri ex corridori, ad acquistare una bici da donare alla Fondazione Pantani. Il commento diceva: "è sicuramente la bici della seconda parte del Tour, quella del Ventoux, perché ha l'adesivo sulla forcella è un po' più alto".
«Rimasi colpito e decisi di informarmi meglio, entrai in una comunità che non conoscevo, e grazie a loro scoprii che Pantani quasi ogni giorno cambiava una virgola, un dettaglio della sue bici, soprattutto nel periodo 99-2001, ovverosia quando Pantani era già diventato Pantani. Era una storia che meritava di essere documentata e condivisa, e così è cominciato tutto».
Quel tutto è un percorso di esplorazione e scoperta che ha portato alla nascita di Pantabike, un sito collaborativo che testimonia la minuziosa storia delle bici del Pirata. Per fare tutto ciò, però, Alessandro conosce un metodo solo: sporcarsi le mani. Recuperare pezzo per pezzo e montare ogni singola bici, per poterla vedere intera. Questo significa andare sul mercato e comprare varie bici, smontare i pezzi che servono e rivendere il resto, e una volta completato il puzzle assemblarla. Quelle fatte finora sono esposte al museo della bicicletta di Renato Bulfon, a Mortegliano (in provincia di Udine), ma l'intero progetto lo ha regalato ad altri: alla Fondazione Pantani.
«Ho capito subito che nel collezionismo pantaniano girano tanti soldi e interessi, mentre invece allo Spazio Pantani non era ancora stato fatto un approfondimento filologico delle sue bici. Quelle esposte erano quelle che Tonina aveva trovato in cantina, montate com'erano in quel momento. Io ritengo che in molti abbiano preso da Pantani ma pochi abbiano dato, così ho voluto togliere tutto ciò dal mondo dei collezionisti e ho chiamato la Fondazione, ho lasciato la proprietà intellettuale del progetto a loro. Sono rimasti sorpresi e contenti del nostro lavoro».
Il 2024 è l'anno dei 20 anni dalla scomparsa di Pantani, ma sono anche 30 anni dalla sua esplosione sul grande palcoscenico con i podi a Giro e Tour. Pantabike ha deciso di omaggiare questa ricorrenza ritornando alle prime bici di Pantani, per celebrare un'altra storia umana: quella delle Carrera di Davide Boifava, il primo DS del romagnolo ma anche colui che tornò da lui a fine carriera, quando l'urgenza era di recuperare l'uomo prima del ciclista Pantani.
Anche Pantabike è una storia di persone prima che di biciclette. Due amici, due vicini di casa, ma anche un mondo di relazioni che si è creato intorno all'idea di testimoniare un aspetto forse meno noto di Pantani. C'è voluta tanta dedizione e tanta fortuna, perché, come raccontano «c'erano dettagli che sembravano impossibili da ricostruire, come i contachilometri, ma quando avevamo perso la speranza dopo infinite notti a cercare, ecco che comparivano». Un aiuto dal destino che è anche e soprattutto il contributo di tanti, ma che testimonia anche tanti ostacoli sulla strada. «Ci sono sempre zone grigie, anche qui, non è sempre tutto limpido. Tante volte abbiamo dovuto fare anche passi indietro, isolarci, per non finire ad avere a che fare con qualcosa di non buono. La nostra era un'idea semplice, ma ha incontrato tantissime difficoltà. Però abbiamo anche trovato una soluzione pratica: quando non sappiamo cosa fare, andiamo a Cesenatico. Mi basta una serata là, una cantata al karaoke con Jumbo, vecchio amico di Marco, e torno a casa che ho le idee chiare».
[Il lavoro di Alessandro ed Emanuele è tutto su pantabike.com. Alle biciclette di Marco Pantani è dedicato anche un brano di "L'ultima volta che se n'è andato Pantani", il diario collettivo che abbiamo pubblicato la scorsa primavera per raccogliere fondi per la Romagna alluvionata. Lo trovate su alvento.cc, in libreria e anche allo Spazio Pantani di Cesenatico].
Place to be: Ticino
Paesaggi alpini o clima meridionale: in Ticino una scelta non preclude l’altra, a favore di una stagione ciclistica da 365 giorni.
- 27 percorsi ufficiali per MTB
- 4 piste ciclabili su asfalto
- 815 chilometri di pista ciclabile per MTB
- 13 impianti di risalita con trasporto di biciclette
- oltre 30 Bike Hotel pronti a offrirvi ogni tipo si servizio
C'è un luogo davvero a pochi passi da noi, dove quasi non ci si rende conto di essere all'estero, se non per qualche minima differenza linguistica. Così vi capiterà di sentir parlare di medicamenti invece che di medicine e di bilzo balzo invece che di altalena. Le ciabatte vengono dette ziblette e il meteo assume forma femminile: la meteo. Il telefono è il natel, l’ascensore il lift, e se un ristorante cambia proprietà, si dice che cambia gerenza. A parte queste piccole, e decisamente innocue differenze, pedalare in Ticino sarà come sentirsi davvero a casa.
Per prima cosa c’è il treno che da Milano ci porta direttamente lì, nel cuore del cantone svizzero. Sì, una scelta che fa sicuramente bene all’ecologia, ma che ci da subito quell’emozione e quella sensazione di essere in viaggio, già partendo da casa.
Una volta arrivati a Bellinzona, si apre un mondo di opportunità. Si può iniziare subito a pedalare, dirigendosi verso Lugano o verso il Mendrisiotto, oppure verso Ascona e il Lago Maggiore. O ancora proseguendo verso le vicine valli di Bellinzona. E se il chilometraggio diventa troppo importante, si può utilizzare la fitta rete ferroviaria gratuita. Si chiama Ticino Ticket, ed è un semplice biglietto con cui viaggiare all’interno della regione durante il soggiorno, che si ottiene pernottando in uno degli oltre 500 alloggi partner, tra alberghi, ostelli della gioventù e campeggi del Canton Ticino. Attenzione però, le biciclette sono escluse dall’offerta Ticino Ticket; il che vuol dire che se vuoi portare la bici con te devi informarti in anticipo circa eventuali costi e limitazioni definiti dalle imprese di trasporto sulle quali desideri viaggiare.
Noi, per rendervi tutto più comodo, abbiamo pensato a tre itinerari da consigliarvi.
1. Il giro del Lago di Lugano
Una volta arrivati in treno a Capolago, si parte per un tour che tocca la regione di Lugano, il Mendrisiotto e, per una parte, anche l’Italia. Da percorrere in senso orario o antiorario, la scelta sta a voi.
Periodo consigliato: tutto l’anno.
77 km, 680 m d+
2. Blenio – Lucomagno
Raggiunto il paese di Biasca con il comodo servizio ferroviario, parte una lunga salita che lungo la Valle di Blenio arriva fino al Passo del Lucomagno, uno dei valichi più belli e panoramici di tutta la Svizzera.
Periodo consigliato: estate.
28 km, 660 m d+
3. Locarno – Palagnedra – Bordei
Il giro parte da Locarno, raggiungibile con il treno. La zona è più selvaggia e testimonia la povertà del passato, con una strada che sale moderatamente attraverso la valle fino al lago artificiale di Palagnedra. Dopo aver svoltato in direzione Palagnedra e Bordei, inizia la salita vera, con una serie di tornanti, seguiti da una discesa e da un'ulteriore salita fino a Bordei.
Periodo consigliato: primavera, estate e autunno.
50 km, 890 m d+
Le Alpi, i fiumi, i laghi, le curatissime vigne: che sia asfalto o gravel, qualunque itinerario sarà una piacevole scoperta. E, siamo sicuri, alla fine del vostro piccolo viaggio capirete perché tanti professionisti delle due ruote hanno scelto il Ticino come casa, anche per gli allenamenti quotidiani.
Per maggiori informazioni
ticino.ch/bike
Il sogno delle cinque gare più dure al mondo
Il giorno in cui suo padre, ciclista e appassionato di ciclismo, gli ha regalato la prima bicicletta da corsa, la reazione di Giorgio Emanuel è stata un misto di paura e di "odio" verso quel mezzo che aveva sempre vissuto in casa e a cui addossava diverse colpe, quella di non giocare a calcio come tutti i suoi amici, ad esempio. Dietro casa, c'era il campo in cui lavorava suo nonno e un trattore appena avviato, Giorgio corse da lui, con la bicicletta sotto mano: «Nonno, per favore, tagliala, distruggila, passaci sopra con il trattore, però portala via da me. Non la voglio e basta». Quell'uomo, ora malgaro, aveva avuto una vita piena e difficile: a causa dei bombardamenti, subiti in guerra, non sentiva bene e, a causa di una scarica elettrica che l'aveva colpito nei campi, poteva camminare solo molto piano, a piccoli passi, eppure, quando parlava delle sue montagne, tutto passava in secondo piano. Le montagne sapeva anche odiarle, per i loro inverni freddi, per la neve "cattiva", i ghiacci e gli animali, ma da lì non se ne sarebbe mai andato. Ogni tanto, si sedeva con Giorgio, nei campi dei pascoli, e con la mano iniziava ad indicare: «Vedi l'Argentera? Se osservi bene, noterai due punte, ecco, quello in mezzo è il Corno Stella». Sembra di sentirla ancora oggi la sua voce e quelle descrizioni, quei racconti. Per questo, quel giorno chiese a lui di distruggere quella bicicletta, perché si fidava ciecamente, ed il nonno disse solo «abbi pazienza, ancora un poco di pazienza» eppure, col suo tono, quasi lo convinceva, come già gli era successo, quando aveva iniziato a pensare che di tutte quelle montagne, segnate da quelle dita, avrebbe voluto esplorare la cima, poi tornare a raccontargliela.
La prima mountain bike, qualche anno dopo, forse era più simile al suo carattere, libera nei boschi, fra la terra e le pietre, "più feroce", ma, alla prima gara, cadde male e suo padre gliela levò di mano. Pareva finito tutto lì, mentre giocava a beach volley in spiaggia e la nazionale di tiro con l'arco lo convocava. Finito? Sì, almeno sino ai diciotto anni. «Lo sappiamo bene, è l'età della patente, delle serate in discoteca: dormivo due ore per notte e, al mattino, mi presentavo agli allenamenti con gli occhi gonfi e la testa frastornata. I miei genitori lavoravano e non riuscivano ad accompagnarmi ovunque per le gare: presi quella scusa e cercai di convincerli che era meglio rinunciare al tiro con l'arco. In realtà, non avevo la testa per una carriera professionistica e non avere la testa, a certi livelli, significa non avere la stoffa. Preferivo divertirmi in spiaggia e non pensare a nulla». A suo padre, però, di quelle sensazioni di ragazzino alle prese con la prima bicicletta, di quella sofferenza, non aveva detto nulla e non ha mai detto niente: «In fondo, lui mi sognava in quell'ambiente, già non ero riuscito a realizzare il suo sogno, mi sembrava profondamente ingiusto ferirlo, spiegando questo dolore. Alla fine, col senno di poi, sarebbe stata anche una ferita inutile, perché la bicicletta è ancora nella mia quotidianità».
La bicicletta l'aveva portata sulle vette, ma, in quel senso, era quasi diventata un limite, nonostante ci avesse percorso il Cammino di Santiago, perché su certe cime è necessario essere soli, altro non serve, è troppo. Era stato un breve ritorno, l'ennesimo. Le cime delle montagne le ha esplorate scalando, arrampicando, assieme a Maurizio, amico e maestro, e ora è sicuro che nonno non aveva inventato proprio nulla, era tutto vero, un misto di saggezza e di esperienza. Poi una proposta di lavoro da parte dell'azienda in cui era cresciuto, un lavoro lontano, in Cile, nelle centrali idroelettriche, il rifiuto, un nuovo lavoro e un posto di responsabilità. Giusto due settimane dopo, un dialogo con un amico.
«Sai, voglio fare l'Iron Bike. Mi aiuti?».
«Giorgio, ma sei tutto matto. Hai fatto una vita ad arrampicare, come pensi di fare? Dai, si tratta di una sciocchezza».
«No, non mi interessa. Voglio farlo, semmai cammino con la bici fra le mani. Mi aiuti? Sennò faccio da solo».
Quell'amico, messo alle strette, l'ha aiutato, lungo nove mesi di preparazione e, alla fine, il giorno delll'Iron Bike è arrivato, proprio poche mattine dopo il giorno in cui Maurizio se n'era andato per sempre, durante una scalata all'Himalaya, e non sarebbe più tornato. Una mattina sin troppo triste, dopo tanta attesa: le montagne di casa, il ritmo della pedalata, il respiro affaticato, la fatica che morde, l'unico modo per non pensare e, all'arrivo, un'emozione difficile da raccontare che ricorda ancora oggi, mentre ripensa a tutte le volte in cui anche lui ha odiato le montagne, che pur ama, e la bicicletta, che pur era tornata: «La bicicletta insegna la pazienza, i tempi sono lunghi, per andare da una città all'altra o per scalare il Colle Fauniera. Anche a me è capitato di pensare di tornare indietro, per la stanchezza o la noia, non l'ho fatto come non lo fa quasi nessuno in bicicletta. Per me sono stati preziosi gli insegnamenti dei miei genitori, mi dicevano: "Non devi subire la vita. Le scelte sono materiale complesso, difficile, anche rischioso, se vogliamo, però gli esseri umani hanno il dovere di scegliere, non di essere perfetti: noi vogliamo che tu scelga e puoi scegliere quel che preferisci, senza giudizio alcuno, ma una cosa vorremmo la ricordassi. Devi essere responsabile delle tue decisioni e provare a portarle fino in fondo". Quando una salita è troppo tosta, ci ripenso». Gli capita al colle di San Bernardo del Vecchio, dove pedala almeno una sessantina di volte l'anno, nella chiesetta lassù, gli è successo sul Galibier, sulla Bonette, soprattutto nelle gare in condizioni maggiormente estreme. Sì, perché l'idea a cui ha dato vita in cui è sfociata questa storia è stata quella di competere nelle cinque gare più dure al mondo: ha gareggiato in Nepal, in Europa con l'Iron Bike e, se non ci fosse stata la pandemia, sarebbe partito per una corsa in Australia che, ora, non si svolge più. All'Atlas Mountain Race, in Marocco, forse, i momenti più difficili: «Alle due di notte, le mie gambe sprofondavano in mezzo metro di neve. Contavo di arrivare al "campo uno" in sei ore, ne ho impiegate dodici. Chi me lo fa fare? Non lo so, però so che farlo è l'ultimo passo. Penso che alle persone sia necessario raccontare l'emozione del percorso, della volontà, del progetto. Forse è quella che spinge a fare cose che razionalmente difficilmente si capiscono, come l'ultracycling che costringe a non dormire ed a pedalare nel buio della notte». Suo padre è sottilmente orgoglioso di questo figlio pedalatore, ma non è abituato a mostrarlo, anzi, a volte, gli dice che è un folle, come quando, su una fettuccia sospesa a tremila metri, in Valle Varaita, percorse, a piedi, lo spazio tra due montagne, però, racconta a tutti le sue avventure: «Al bar, con gli amici, divento una sorta di figlio-eroe e le mie avventure sono vere e proprie imprese. Mi ricompensa di quel dolore che, forse, gli ho dato anni fa ed è bellissimo così»,
Pauliena Rooijakkers raccontata dalla sua compagna di camera
Appena rientrata al bus della squadra, una ciclista, con ancora il casco in testa, il numero attaccato alla maglia e gli scarpini addosso, ben prima di entrare in doccia, afferra prontamente lo spazzolino, vi mette il dentifricio e si lava subito i denti. Il rito si ripete ogni giorno, dopo una gara. Qualcuno le chiede il motivo di questa abitudine, inusuale, bizzarra, lei, con naturalezza, risponde: «Sono infastidita dal sapore dei gel che utilizziamo in corsa, non voglio che mi resti in bocca, così cerco di eliminarlo subito, lavandomi i denti, prima di ogni altra cosa». Noi non lo sapevamo, ce lo ha raccontato Greta Marturano che, al Giro d'Italia, era compagna di camera, oltre a essere compagna di squadra, di questa atleta: parliamo di Pauliena Rooijakkers. Nata il 12 maggio 1993, a Venray, nei Paesi Bassi, Rooijakkers è professionista dal 2012, ai tempi della Boels Dolmans. Diversi team nel corso degli anni, dalla Parkhotel Valkenburg, alla CCC Liv, alla Liv Racing, fino alla Canyon-SRAM Racing, due anni fa, nel 2022. Proprio in quell'occasione ebbe modo di soffermarsi sulla bellezza del capitare, dopo varie esperienze, in una squadra in cui le componenti non fossero tutte olandesi, ma provenienti da varie nazioni, con abitudini diverse e differenti modi di guardare al mondo. Sì, perché, spiegò, quando accade ed è possibile restare quel che si è, non ci si sente strani e si comprende che, alla fine, si è, se si vuole, solo particolari ed è un piacere saperlo. A inizio anno, in ritiro a Benicasim, in Spagna, Rooijakkers e Marturano lavoravano in due gruppi differenti, in considerazione della data in cui avrebbero iniziato la stagione, ma un giorno, in una pedalata, Pauliena confidò tre cose che amava particolarmente: «Mi disse: "l'Italia, Livigno e la bresaola, in quest'ordine». Poco per dire di conoscerla, ma un inizio". Niente da dire, tutto coerente.
L'abbiamo già detto, anzi scritto, non è un nome nuovo quello dell'olandese, almeno per chi segue con attenzione il ciclismo, ma, se negli ultimi periodi se ne parla con più frequenza è per il podio conquistato al Tour de France Femmes, terza dietro a Kasia Niewiadoma e Demi Vollering. Protagonista nella giornata più dura, dolce e drammatica allo stesso tempo, tra Glandon e Alpe d'Huez, il giorno in cui avrebbe anche potuto vincerlo quel Tour, precedendo Vollering. A quel punto, da sole all'attacco di Niewiadoma, per qualche minuto anche Rooijakkers ha pensato alla maglia gialla: era la prima volta. Di sicuro non ci pensava a inizio settimana, quando Marturano le scriveva il suo in bocca al lupo: «Non sarà lo stesso senza la mia compagna di camera preferita». Rispondeva così. Simili Marturano e Rooijakkers, almeno nel modo di tenere la camera e per condividere uno spazio comune per giorni e giorni è necessario, altrimenti si accumula altro stress fuori corsa ed è altro spreco di energie: «Siamo entrambe precise, ordinate: se aprivi la porta della nostra camera, sentivi profumo di pulito. Io sono molto, ma davvero molto, più timida di lei, Pauliena è spigliata, ma ha anche qualcosa della mia timidezza: la capacità di selezionare, di non darsi, di non raccontarsi a tutti indiscriminatamente. Sceglie le persone con cui parlare e può non dirti proprio nulla, se non vuole, se non si fida. In camera non abbiamo mai parlato una volta della tappa del giorno stesso o di quella del giorno successivo. Non abbiamo mai riguardato una corsa. Ci isolavamo così, recuperavamo così».
Al Giro d'Italia Women, Rooijakkers ha terminato appena giù dal podio, quarta, ma c'è un altro quarto posto particolarmente significativo, quello raggiunto al Blockhaus, nella sesta tappa, la frazione regina. Si sente a proprio agio su salite lunghe e anche questa non è una sorpresa, forse lo è maggiormente sapere che, un paio di anni fa, per preparare il suo fisico a quella fatica pedalava in spiaggia, di più, ha vinto un campionato europeo di MTB Beach Race. In entrambi i casi, analizzava Rooijakkers, è necessario sviluppare molti watt e soffrire: su una rampa verticale o nella spiaggia e nel vento che arriva dal mare. Rooijakkers e Marturano hanno il medesimo preparatore ed i lavori che si trovano a compiere sono simili, essendo anche entrambe scalatrici,così capita che si confrontino sulla propria condizione: «Anche in ritiro è accaduto. Magari continuavamo a sorpassarci a vicenda in salita e a me scappava da ridere, non era competitività, era un gioco. Non ho mai sentito una volta Pauliena sbuffare o lamentarsi per qualcosa che non funzionava: è una vera e propria leader, riesce a prendere la realtà con leggerezza e divertimento, e chi è più giovane ha tutto da imparare. A me piace ascoltarla perché rappresenta il modo in cui deve essere una capitana, a mio avviso». Al Giro, il ruolo di capitano era condiviso da entrambe, al Tour, invece, «nonostante in giro si dicesse altro», era proprio Rooijakkers la capitana.
«Quando caddi, al Giro, fu Pauliena la prima a preoccuparsi per me. Mi chiedeva un sacco di volte al giorno come stessi. Tra l'altro, per me, a causa del Covid, non è stato un bel Giro. La sera del mio ritiro mi ha scritto un messaggio: "Non pensare a come stai ora, a quel che è successo, a queste sensazioni. Tornerai presto. A testa alta". Tutte le volte in cui ci siamo confrontate sui numeri, devo essere sincera, lei credeva nei miei più di quanto ci credessi io, ma sapevamo entrambe di avere dati buoni e, con quei dati, la squadra aveva ben chiaro dove potesse arrivare Pauliena». La stessa squadra che conosceva alla perfezione la tappa dell'Alpe d'Huez al Tour, quella che Rooijakkers ha subito ringraziato a fine corsa, per il ritiro in quota insieme, per i piccoli lavori quotidiani, che nessuno vede ma ci sono, per il cibo e tante altre cose. In Fenix-Deceuninck, ha precisato, non esiste separazione tra squadra maschile e femminile ed è questo scambio reciproco che porta alla crescita. Per il resto, su tutto quel che c'è da migliorare si può lavorare.
Greta Marturano torna con il racconto al ritiro che ha preceduto il Giro d'Italia: «Erano i giorni del mio compleanno ed io ero abbastanza giù di morale, lontana da casa, senza la possibilità di festeggiare. Pauliena Rooijakkers l'ha saputo, ha preso la propria macchina, è andata al supermercato, ha comprato i miei biscotti preferiti e ha organizzato lei una festa, così, quando sono scesa a pranzo, c'era una grande scritta di auguri e un banchetto. Mi piace raccontarlo perché parla della persona prima che dell'atleta». Alla conclusione del Tour, al messaggio di Marturano, Rooijakkers ha risposto con poche parole: «Grazie per il sostegno. Avanti così, verso i prossimi traguardi». Niente da aggiungere, ha detto tutto Pauliena.
Foto: Sprint Cycling Agency
5 cose dal Tour de France Femmes
Il Tour de France Femmes 2024 va in archivio. A vincerlo è Kasia Niewiadoma su Demi Vollering e Pauliena Rooijakkers. Nelle pieghe della corsa, cinque aspetti -o forse giusto qualcuno in più- che non potevamo non raccontare.
«NOI, COME DONNE, CE L'ABBIAMO FATTA. SIAMO QUI!»
"Quello che mi porto a casa da questo Tour de France Femmes è che noi, come donne, ce l'abbiamo fatta. Siamo qui": sono parole di Sofia Bertizzolo, UAE Adq, al primo Tour de France. Anzi, sono parole di Sofia Bertizzolo nel giorno del ritiro dal Tour, la prima corsa a tappe che non riesce a concludere. Insieme a questa riflessione, considerazioni su tutte le persone ad attendere la corsa in strada, ad aspettare il gruppo, per festeggiarlo: a Rotterdam, alla grande partenza, in pianura, in tappe senza grandi sorprese e sui tornanti dell'Alpe d'Huez. Anche in questo, ce l'hanno fatta le donne, soprattutto le donne, e non può essere dimenticato. Ce l'hanno fatta con la fatica ed il merito, perché è così che si fa, ce l'hanno fatta con i sacrifici e le sconfitte, ce l'hanno fatta, anche, va detto, con un patrimonio di piccole e grandi ingiustizie quotidiane che non riguarda solo lo sport. Ma qui di ciclismo si parla. Ed il ciclismo, come lo sport e tutta la quotidianità, è anche (ci piacerebbe dire soprattutto) un fatto di cultura, di conoscenza e consapevolezza. Non esiste altra possibilità per farcela e per fare in modo che, in ogni domani, ci siano sempre più donne a farcela, con lo stesso merito, ma con un punto di partenza uguale e con sacrifici ripagati allo stesso modo, con un lavoro ripagato allo stesso modo. Non ci si può fermare di raccontare. Chi conosce si interessa, chi si interessa scende in strada, chi scende in strada, chi accende il televisore o chi legge un articolo conosce e solo conoscendo si può contribuire ad una realtà diversa, forse, più giusta. Per questo, a nostro avviso, non esiste considerazione sulla corsa, senza questa considerazione madre.
ESSERE KASIA, ESSERE DEMI
Nel tardo pomeriggio di domenica, diciamo verso le diciannove, davanti ad un televisore o sulla linea del traguardo, non sapevamo più cosa pensare, cosa provare. Il punto è che, in quell'istante, a battaglia finita, eravamo tutti sia Kasia Niewiadoma che Demi Vollering, ci riconoscevamo sia nell'una che nell'altra. Allo stesso modo. Nella gioia incontrollabile di Niewiadoma per la conquista del Tour de France, dopo un inseguimento infinito (più di cinquanta chilometri, tra Glandon e Alpe d'Huez) e dopo tante, forse troppe, delusioni, tanti, forse troppi, secondi posti, vittorie sfiorate e lasciate andare. Non esiste nessuno che non ne capisca la portata, il significato, che non possa immedesimarsi, anche in chi non ha mai pedalato. In egual maniera, tutti possono comprendere il "non è abbastanza" detto tra le lacrime di Vollering, a terra, sfinita, con in mano una vittoria tanto bella quanto apparentemente inutile, un'impresa degna delle più grandi imprese del ciclismo che si realizza a metà e lascia il vuoto. Senza quella caduta, Vollering avrebbe vinto il Tour? Probabile. Sicuramente la corsa avrebbe avuto un altro svolgimento, ma le cadute sono parte della corsa. Non sono, invece, necessarie troppe analisi e non occorrono dietrologie, per dire che, nei meccanismi di Sd-Worx, nel giorno della caduta di Vollering, qualcosa non abbia funzionato, perché, se la maglia gialla cade, qualcuno ad attenderla dovrebbe esserci sempre. Un problema alla radio? Un errore di comunicazione? Non serve neppure parlarne ora. Domenica eravamo tanto Kasia Niewiadoma che Demi Vollering, dimezzati eppure interi. Accade con i libri e accade con lo sport: si vivono più storie, più vite.
LA FAVOLA BELLA
La prima volta che abbiamo scritto di Pauliena Rooijakkers, in questo Tour de France, era dopo la tappa di Morteau, quella vinta da Cèdrine Kerbaol: Pauliena era da sola, da un lato delle transenne, a piangere, mentre la festa di Kerbaol esplodeva. Sentiva di aver perso un'occasione, visto che al momento dello scatto della francese era stata l'unica a crederci. Lo scatto del giorno seguente, verso le Grand Bornand era un tentativo di rimediare a questa possibilità andata in fumo. Ma la vera favola bella di Rooijakkers si realizza nella fuga infinita di Demi Vollering verso l'Alpe d'Huez, quando l'unica a tenerle la ruota è proprio lei. Tutti parlano del testa a testa tra Niewiadoma e Vollering ma, se Rooijakkers precede l'olandese al traguardo, il Tour è suo. Non succederà, finirà al secondo posto di tappa e terza in classifica generale, tuttavia sarà comunque una favola bella. Non è un nome nuovo quello di Rooijakkers: solo un mese fa, al Giro d'Italia Women, ha concluso quarta e, a trentuno anni, le sue caratteristiche, già ben conosciute nel plotone, stanno ancora evolvendosi. Le salite lunghe le piacciono, ma alla maglia gialla non pensava nemmeno. Ha ringraziato la squadra, ha detto di dovere molto alle sue compagne ed in effetti Fenix Deceuninck è uno dei team che meglio si sono mossi in questo Tour de France Femmes: Yara Kastelijn e Julie De Wilde, tra le altre, le sono sempre state al fianco. Di Puck Pieterse nemmeno parliamo. Sì, perché il paragrafo successivo è dedicato proprio a lei.
LA PRIMA DI PUCK
Da Valkenburg a Liegi, nei luoghi simbolo delle Classiche, Puck Pieterse, ventidue anni, ha sfidato con piglio e senza alcun timore la maglia gialla Demi Vollering e, in una volata all'ultimo respiro, ha strappato la prima vittoria su strada tra le élite, lei che è specialista di cross e mountain bike. L'anno scorso, il sesto posto alla Strade Bianche aveva già messo in risalto le ulteriori potenzialità di questo giovane talento, qui l'esaltazione e la conferma, ammesso che servisse, con giusto otto giorni di gara prima del Tour. Tuttavia, raccontare il Tour di Pieterse è discorso ben più complesso del racconto di quella vittoria: una maglia a pois conquistata e difesa per diversi giorni, spesso in sprint a due con Silvia Persico, prima che passasse a Justine Ghekiere, e la maglia bianca finale che la consacra miglior giovane del Tour de France Femmes, davanti a Shirin van Anrooij e Marion Bunel. Inciso: occhio anche a Bunel che, dopo la vittoria di Alpes Grésivaudan Classic, a giugno, quando la strada saliva, si è messa in mostra anche in Francia. Tornando a Pieterse, anche Mathieu van der Poel le ha dedicato una storia instagram e molti hanno parlato della sua vittoria, quasi fosse un auspicio di futuro. Nel ciclismo capitano talenti assolutamenti "multiformi", dalle diverse sfaccettature e possibilità, e, quando si manifestano, tutti respirano a pieni polmoni, a prescindere dalla nazionalità o dalla squadra. Sì, perché servono, come l'aria, e fanno bene a tutti. A chiunque guardi, a chiunque si esalti.
TOURBILLON
Sì, Tourbillon, ovvero chicche, note, appunti alla rinfusa. Un poco di tutto quello che ci ha colpito.
-Le volate sono il regno di Charlotte Kool, due su due e la maglia gialla dopo la prima. Una sorta di sogno. A inizio anno avevamo parlato con Rachele Barbieri di come si sarebbe strutturato il treno di firmenich-dsm, ora abbiamo la risposta. Allo stesso modo sappiamo del feeling tra Kool e la sua ultima donna, tra Kool e Barbieri. L'abbiamo visto in volata, l'abbiamo visto nei giorni più difficili di Kool, quelli che hanno preceduto il ritiro. Sempre lì, a scandire il ritmo, a sostenere, ad aiutare, solo con la presenza. L'ultima donna è anche questo.
-Marianne Vos è sempre più "regina": trentasette anni, sempre nelle prime posizioni nelle tappe a lei adatte, in fuga, sin dai primi chilometri, anche nelle tappe più dure per conquistare punti preziosi per raggiungere il proprio traguardo. Alla fine, la maglia verde della classifica a punti è sua.
-Il grazie qui lo dobbiamo a Andy McGrath che, sul proprio profilo X, ha scovato una chicca: provate a mettere in fila i piazzamenti di Sarah Gigante a questo Tour de France Femmes. Cosa notate? 117-84-56-34-30-25-11-8. Esatto, una crescita costante che l'ha portata a chiudere in settima posizione in classifica generale. Un gran bel Tour, non c'è che dire.
-Azzurre? A fine Tour, in classifica generale sono da segnalare il quinto posto assoluto di Gaia Realini ed il dodicesimo di Erica Magnaldi. Silvia Persico ha provato a lottare per la maglia a pois, Cristina Tonetti, invece, l'ha vestita ed è stata la prima italiana a indossare una maglia di leader di una classifica dal ritorno del Tour.
-Impossibile non menzionare due veri e propri numeri: quello di Cèdrine Kerbaol a Morteau e quello di Justine Ghekiere a Le Grand Bornand: fantasia, coraggio e intraprendenza. Buone doti per una ciclista.
Foto: Sprint Cycling Agency
Reverb Hub, Bergamo
21 Agosto 2024Newsletteralvento points
Il volo degli aerei sopra la città di Bergamo può essere un'ispirazione perché da lì, dall'alto, attraverso lo scrutare degli occhi ed il rimando delle loro immagini elaborate dalla mente, riescono a nascere e svilupparsi idee e progetti e, cartina alla mano, dalla crescita, dalla maturazione, delle idee e dei progetti si fanno largo, si fanno spazio i viaggi. Il signore irlandese che ora si sta arrampicando sulle strade del Passo San Marco, in sella alla bicicletta noleggiata stamani da Reverb Hub, in via Casalino 5/N, a Bergamo, non è stato il primo a rivelarlo a Federico Bassis che, in questo momento, attende il suo ritorno tra le pareti in legno e quelle in stile industriale di questo luogo fisico, in linea con i colori del marchio 3T, materializzazione di un pensiero, in cui trovarsi per andare altrove. Milano è a poco più di mezz'ora di strada: chi pedala può fermarsi tra queste strade, conosciute attraverso le imprese vissute guardando il Giro d'Italia ed Il Lombardia, la famiglia, invece, può ampliare la propria prospettiva e recarsi in città, magari con i figli, per trovarsi nuovamente a sera. Incontro e dispersione, dopo una condivisione: ci sono gli aeroporti di Milano e Venezia che esplorano i cieli e c'è la ciclabilità urbana e del circondario che setaccia le strade. «Credo sia necessario curare la cultura della bicicletta e del viaggio in bicicletta. In quest'ottica, penso ai cartelli lungo le ciclabili di Bergamo, che non solo indicano il percorso ma lo raccontano anche. Il turista non si sente solo, abbandonato, ma accompagnato. Guardiamoci attorno: vediamo la fascia delle Prealpi con salite che arrivano fino agli 800 metri di altitudine, pedalabili, da gustare lentamente, senza fatica, e poi le salite dure, fino ai 2000 metri, verso le vette, con venti o più chilometri a massacrare i muscoli. La realtà c'è, va conosciuta».
Reverb Hub ha due anime, da una parte il noleggio, «che non è semplicemente e solo prendere una bicicletta in prestito», dall'altra la comunità del Reverb Team, secondo il manifesto e le parole chiave, sotto la cornice "together", insieme, ovvero divertimento, socialità, esplorazione, apertura, alla ricerca di un ciclismo inclusivo e non categorizzante. «Noleggio, a nostro avviso, significa far capire quel che è possibile fare con una bicicletta. Vorremmo trasmettere consapevolezza, aiutare a comprendere, per questo non noleggiamo per mezza giornata, perché servono ore, serve tempo. La nostra chiave di lettura è il legame con il territorio, non chiusura, ma capacità di credere a quel che si ha attorno: solo così è possibile essere internazionali. Senza radici non esiste universo. La trasmissione di qualcosa è la base perché nasca la voglia di andare ed il desiderio di tornare, una sorta di circolo virtuoso, il miglior lavoro che si possa fare».
L'aspetto connesso alla comunità viene curato attraverso ride infrasettimanali e uscite nel fine settimana, dedicate a tutti e, forse, soprattutto agli abitanti della città che ancora non l'hanno esplorata, come spesso accade con quel che è più vicino, a portata di mano o di ruote e pedali. Bassis cita, a titolo di esempio, la zona della Valcava, il laghetto del Pertús, Calolzio Corte, la Valle Imagna, la Costa del Palio ed i Piani di Artavaggio, senza scordare la possibilità di fare portage lungo i fiumi di montagna, in alta quota.
Quel signore irlandese è arrivato qui con delle domande e questo è sempre positivo perché da qui passa la conoscenza e quindi la consapevolezza: «Le richieste spaziano dal peso, alla tipologia di ruote che si possono montare, fino all'alluminio piuttosto che al carbonio o al gruppo elettronico o meccanico in uso. Talvolta, quando si tratta di persone provenienti dall'estero, la corrispondenza inizia già via mail, da giorni prima. Anche questo è un passo in più verso il cliente, qualcosa che possiamo permetterci non avendo una flotta di bici da noleggiare troppo ampia. Si tratta di minuti preziosi dedicati a ciascuno che, da una parte dimostrano il nostro interesse nei suoi confronti, dall'altro permettono di non trovarsi soli di fronte al mezzo e al suo settaggio. Sono sufficienti delle misure corrette della bicicletta per cambiare completamente l'esperienza e dimostrare cura nei confronti del singolo». Ognuno, infatti, ha le proprie esigenze, non solo dal punto di vista tecnico, ma anche rispetto al tipo di viaggio che immagina, ai sogni che ha proiettato sulla bicicletta. Sicuramente Bergamo ha una grossa tradizione di ciclismo su strada e ogni paese vanta una propria squadra amatoriale, tuttavia, nel tempo, si è rilevato un vero e proprio cambio generazionale: i gruppi della domenica, racconta Bassis, ci saranno sempre. Sono coloro che salgono in sella alle otto del mattino, hanno un giro predefinito, con salite classiche, e, intorno a mezzogiorno, tornano a casa.
«Quando parlo di nuova generazione, non mi riferisco tanto ad un fattore di età, ma di abitudini e desideri. La nuova generazione è quella che si è stancata di quel giro sempre uguale e in bicicletta ha scelto l'esplorazione. Sono coloro che vengono alle ride del giovedì e cercano luoghi lontani dal traffico, nella natura». La bicicletta, poi, è lo specchio di quel che si vuole: il gravel è legato spesso a un pubblico più giovane, la bici da strada a un utente di media di quarant'anni di età, spesso anche a stranieri in viaggio di lavoro che, la sera prima di partire, si cimentano in una pedalata più performativa, in generale c'è molta curiosità anche per l'e-bike light, che permetta un'assistenza fluida e dei giri più lunghi, nonostante gli anni che passano.
L'ingresso da Reverb Hub presenta uno spazio libero con un televisore dove è possibile seguire il Giro d'Italia, il Tour de France o qualunque classica: questo è il luogo dell'accoglienza, per le ride e non solo, dove c'è una macchinetta del caffè, qualche bevanda, dove si può ascoltare musica e venire in qualsiasi orario per trascorrere del tempo libero. Il resto del negozio mostra un doppio volto, da un lato, in un corridoio, il lato espositivo, dall'altro quello dedicato al noleggio bici. Il Team Reverb si cimenta in gare e avventure lungo tutto l'anno, dalla gara Uci, al bikepacking in Patagonia sino al bike to work: il luogo fisico dell'hub è importante anche in questo senso perché è il punto in cui confluiscono tutte le persone, tutti i ciclisti, ed in un certo senso contribuisce alla possibilità di riconoscersi, come, in altro modo, fa il tesseramento in una squadra. «Tutti pedaliamo ed è importante farlo in modo rispettoso ed inclusivo. Purtroppo, credo che spesso il ciclismo sia ancora settario, fondamentalmente perché si teme la contaminazione, non si comprende quanto possa essere bella e preziosa. Faccio un esempio: molte persone che si dedicano al gravel, hanno scelto questa strada perché stanche di un mondo troppo performante. Ora, secondo me, però, si sta cadendo in un errore: anche loro temono l'incontro perché hanno paura che il mondo da cui sono fuggiti possa tornare ed intrufolarsi nel gravel. Dall'altra parte, coloro che sono maggiormente dediti alla strada sostengono che il gravel, essendo anche divertimento, sia una perdita di tempo. Penso sia sbagliato, bisogna, invece, provare a coinvolgere tutti, perché la bicicletta, pur in tutte le declinazioni, è una sola».
L'hub è il luogo in cui è fissato un appuntamento e gli appuntamenti contribuiscono a smuovere, a togliere la pigrizia che, talvolta affligge. Anche a Federico Bassis, che a un progetto simile aveva già iniziato a lavorare con Bergamo Experience, al fine di far esplorare il territorio e di mettere a disposizione la propria conoscenza, è capitato, qualche volta, al giovedì, al pomeriggio, dopo pranzo, di pensare che, la sera, avrebbe voluto andare a casa, stare tranquillo, rilassarsi. Poi, d'improvviso, la porta si apriva, arrivava qualcuno, chiedeva quale sarebbe stato il percorso di quella serata, iniziava a raccontare di biciclette, e qualcosa si riaccendeva, la voglia tornava. «Ho sempre desiderato fare qualcosa di simile, trasmettere la mia esperienza, raccontare, entrare in empatia con gli altri e condividere un momento. Ora incontro molte persone, sono sempre in contatto con gli altri e, dirò la verità, non mi immaginavo potesse essere così bello, potesse farmi stare così bene».
Sì, alla fine serve sempre un motivo per quello che si fa, per iniziare a farlo oppure, semplicemente, per continuare, con la stessa intensità e la stessa attenzione, per esserne convinti, entusiasti e Federico Bassis ha ben presente dove ritrovare quella scintilla quando, per qualunque motivo, sovviene qualche dubbio: «Basta ascoltare chi entra qui e mi dice: “Grazie per avermi fatto scoprire quel luogo, è stato davvero bello. Te ne sono grato". La gratitudine delle persone è la cosa migliore che possa capitarti. Di fronte a questo, puoi solo dirti e ripeterti: "Ecco perché lo faccio"». A noi sembra che non faccia una piega e non serva aggiungere altro: è perfetto così. E, se qualcosa manca, basta andare da Reverb Hub per completare la storia. Il signore viaggiatore irlandese è tornato, ha riconsegnato la bicicletta, era felice: ora si torna a casa.
Nessuno può cancellare il logorìo di una tappa dolomitica
“Contador, por qué non te gusta il Crostis?“. Un pensiero venuto giù di getto e scritto su un cartello che fa il giro delle ultime rampe dello Zoncolan racconta la beffa e l’ironia di quella giornata, 21 maggio 2011, e a reggerlo c’è pure Enzo Cainero, personaggio che chi mastica ciclismo conosce bene.
Grazie a lui lo Zoncolan non si erge più solamente in mezzo al verde oscuro delle Alpi carniche, ma diventa passaggio decisivo al Giro d’Italia. Meta di pellegrinaggio, posto sacro, “il mostro”, luogo ambito da turisti e cicloamatori, siano essi friulani, triestini o che vengano da un po’ tutta Italia ed Europa fa lo stesso: una rampa infinita descritta anche in modi raffinati, e nonostante la sua giovane età dal punto di vista ciclistico fa paura come il mostro, per l’appunto centenario, di un racconto di fantasia. La sua idea era quella di ripetere l’operazione con il Crostis: farlo uscire dal suo guscio di piccola realtà conosciuta al turismo locale e trasformarlo, dandogli un altro contesto a livello (inter)nazionale. Quella volta bisognava fare i conti, però, con una corsa che già aveva pagato un pesante tributo al destino, solo qualche giorno prima, e allora la storia andò diversamente.
La polemica sull’annullamento della scalata del Crostis e della successiva discesa lascia tuttavia strascichi ben evidenti anche al giorno d’oggi, tanto che se ne parli con qualche tifoso della zona se lo ricorda bene, che se ci ripensa ti insulta, perché schietto e orgoglioso della sua terra e in quanto robusto di costituzione non avrebbe nemmeno paura ad affrontarti – succede davvero: provare per credere.
E a proposito di insulti: quelli verso Contador si sono esauriti quel giorno, quando la maglia rosa venne subissato di fischi e ululati lungo quelle linee nervose che salivano fino alla cima dello Zoncolan. Che poi Contador c’entrasse qualcosa con quella decisione, o che fosse stata una scelta presa solo da RCS magari su pressione di Riis, all’epoca team manager dello spagnolo – c’è chi dice per paura di attacchi degli avversari in discesa -, oppure a causa della provvidenza (mai divina, ma solo messa di traverso), poco importa. Diciamo che le condizioni per correre tutto sommato c’erano, la strada fu messa in totale sicurezza, ma si decise di non affrontare quel tratto; e forse è meglio non tornarci sopra adesso, tredici anni dopo: con tutto quello che è passato verrebbe fuori solo un patetico materiale per nostalgici. E poi anche perché quel Giro, come accennato, aveva già vissuto il suo prologo drammatico con la morte di Wouter Weylandt; l’episodio ha pesato nelle decisioni prese e vivrà il suo epilogo kafkiano con la squalifica postuma di Contador per un caso di doping relativo alla stagione precedente.
E allora si torna alla chiave agonistica: ad Alberto, Alberto da Pinto, il Pistolero, Albertino, il favorito, la maglia rosa, Contador – insomma, chiamatelo come volete. Si torna a quando lascia sul posto, in un tratto tra il duro e il durissimo – quello prima delle gallerie – Vincenzo Nibali, il quale, caricato dai fischi, diventa duro e durissimo nei confronti del rivale, e a fine tappa col volto corrugato dirà: «Mi ha mancato di rispetto, però non è finita». Nibali si lamenta (sic) di non aver ricevuto un cambio che fosse uno da Contador. Che poi, un cambio sullo Zoncolan! Sarebbe più corretto, a distanza di anni, derubricare il tutto a scaramucce dialettiche piuttosto che a diatribe tattiche e agonistiche. Nibali prova a staccare Contador, ma non ci riesce e finisce per essere staccato, e da corridore di classe e quindi orgoglioso non digerisce bene quella circostanza. E Contador lo attacca, quel giorno, e difatti lo stacca, guadagna quella manciata di secondi utile a sommarsi al vantaggio già accumulato in precedenza per vincere il Giro d’Italia; e sappiamo tutti che sarà così alla fine, anche se poi gli verrà tolto a causa di una bistecca contaminata. «Io penso alla classifica, ogni secondo di vantaggio guadagnato oggi sarà prezioso a Milano». racconterà a caldo. E alla fine avrà ragione.
Trittici
Parlare dello Zoncolan serve a introdurre quello che succede il giorno dopo, quando si riprende a mulinare contro salite che ti arrivano addosso una dietro l’altra, per chiudere quel trittico di tappe di montagna inaugurato dal successo di Rujano e proseguito con il canto sullo Zoncolan di Igor, di nome, Antón, di cognome, forte scalatore basco che suona meglio quando lo chiami Igorantón, come fosse un cantautore spagnolo in voga dagli anni cinquanta ai settanta. Il basco incide un 45 giri di successo intitolato, nel lato A: “Por qué me gusta lo Zoncolan“, mentre nel lato B scriverà, il giorno successivo, come fosse la parte oscura della sua luna: “Tengo male alle gambe“, e scenderà in classifica.
Una graduatoria che vedrà, proprio alla vigilia del tappone dolomitico, Contador in maglia rosa, Nibali a 3’20”, Igorantòn a 3’21” e Scarponi a 4’06”. Ma di quel 22 maggio 2011 è importante, sì, conoscere la classifica al mattino, ma anche sapere che si parte da Conegliano con il sole per salire su, su, su, fino al Rifugio Gardeccia, con la pioggia. Dalle Alpi Carniche alle Dolomiti trentine. In Val di Fassa, con la strada che si affaccia sui Dirupi di Larséc e il traguardo che guarda fisso verso le guglie del Catinaccio: quel classico paesaggio del quale a un corridore in quel momento gliene può fregare di meno. Un paesaggio che vende un sacco perché le Dolomiti sono un posto meraviglioso e preso di mira da turisti, e almeno una volta nella vita andrebbero visitate. Quindi, se esiste davvero qualcuno che sta leggendo e non c’è mai stato, vi esorto: andateci appena potete.
Ma torniamo all’aspetto agonistico, che è quello che forse si addice meglio al nostro modo di operare: si va su verso Rifugio Gardeccia, che non è poi proprio un su, su, su – si è visto di peggio -, ma saranno comunque quasi sette ore e mezza. Per i precisetti: sette ore e ventisette minuti. Piancavallo, Forcella Cibiana, Giau – qui davvero si sale fino a superare le nuvole: Cima Coppi di quel Giro -, Fedaia, Rifugio Gardeccia: circa seimila metri di dislivello. Il guaio è che oltre alle salite c’è brutto tempo: anzi, quella situazione di sole misto a pioggia che ti scalda e poi ti raffredda, sudi e poi ti si attacca tutto addosso e se non stai attento e non porti la maglia di lana o le pagine di un giornale ad asciugarti, oppure vestiario tecnico all’avanguardia, il giorno dopo ti svegli con una bella bronchite.
E poi, oltre al meteo, si arriva da giorni duri: lo Zoncolan ti resta nelle gambe per settimane, ti sfianca l’anima, rischia di rendere queste fatiche insopportabili. Immaginate chi non ha recuperato bene dal giorno prima a cosa può andare in contro: è un guaio per i corridori, è spettacolo per gli occhi di chi segue e tifa. Ne disegnassero più spesso di tre giorni così, piuttosto che esperimenti da far arricciare il naso come le tappe di montagna da sessanta chilometri che non sono buone neppure per gli Under 23 o quelle pedalate in mezzo alla pianura padana di duecentotrenta chilometri, che sembrano processioni di Ferragosto in un paesino del sud e sono buone solo per far scappare il pubblico dal ciclismo.
Cercatori di fortuna
Ad ogni modo si parte col sole tutti assieme, si arriverà uno dopo l’altro con la pioggia e con il terreno che sembra sfaldarsi sotto le ruote. Si parte con le gambe già dure, la maggior parte dei corridori arriveranno trascinandosi come se addosso avessero attaccati i piedi di qualcun altro. Chi ha negato, mentiva.
Non serve dilungarsi troppo per descrivere cosa succede nella prima parte di corsa, volendo si può leggere tutto di un fiato. Lungo Piancavallo, ancora Friuli, il solito canovaccio scritto da sceneggiatori con poca fantasia se non nello scegliere i nomi dei protagonisti: Sella, Hoogerland, Popovych, tre che poi diventano sei. La carovana di ricercatori d’oro e di fortuna raccoglie altri carri per strada lungo i tratti tra la valle e la Forcella Cibiana: diventano all’improvviso diciassette e poi diciotto, e in mezzo c’è pure Stefano Garzelli, che la sua numero uno l’ha già guadagnata, così come la sua fortuna l’ha già messa via; ma non si sa mai, di questi tempi, e allora dato che il tempo è relativo, almeno così hanno spiegato, lui alla bellezza di trentotto anni, un’età che se corri in bici forse sei vecchio ma se scendi dalla bici forse sei troppo giovane, si lancia come se ne avesse almeno una decina di meno, magari ripensando ai tempi in cui un Giro lo aveva portato a casa.
Decide che è il momento propizio per regalarsi un’impresa, per dirla proprio come se stessimo leggendo un vecchio dispaccio, e quindi dopo essere rimasto con Hoogerland lo stacca e resta da solo quando di chilometri ne mancano una sessantina. All’improvviso, dopo la pennichella pomeridiana, siamo sul Giau. “Se proprio devo provare a vincere, lo faccio bene”, pensa il varesino, “se proprio mi vengono a riprendere, almeno un bel ricordo di questa fatica ce l’avrò”: e allora l’ambito traguardo dedicato a Fausto Coppi è suo, così come i punti necessari per la maglia verde di miglior scalatore del Giro. Dietro, intanto, Nieve sale senza strafare; è quel volpone che si dimostrerà spesso nelle tappe di montagna: uno che se va in fuga difficilmente sbaglia. E poi volete mettere, il giorno prima ha vinto Igorantón, suo compagno nella piccola e amata da tutti Euskaltel-Euskadi, e oggi ci prova lui, Mikel Nieve Iturralde, ieri un cantautore, oggi un elfo guerriero del ciclo di racconti di Terry Brooks. Il Giro è una pozza di storie meravigliose da cui attingere, non c’è da inventarsi proprio nulla.
Intanto il gruppo della maglia rosa si assottiglia e perde terreno – fino a quasi dieci minuti -, distacco che scende mano a mano che i corridori si avvicineranno al traguardo. Davanti fanno un pensierino alla vittoria di tappa. Sfatiamo il mito del fuggitivo esibizionista e un po’ sadico o buono per un feuilleton: mica si nasce solo per scappare via lontano da tutto e mai più tornare indietro, o mettere in mostra lo sponsor o le cosce muscolose, e nel caso degli scalatori le caviglie come grissini. Si va in fuga e si pensa a vincere la tappa. Mikel Nieve, poi, pensa addirittura alla maglia rosa, come quando da ragazzini prima di addormentarsi si ha in testa la compagna di banco in prima fila che nemmeno per sbaglio ti sorride, forse per timidezza, forse perché gli stai antipatico. E purtroppo per lui anche quella maglia rosa sarà virtuale, anche se, c’è da riconoscere, l’arancione nel ciclismo calza con tutto e quindi alla fine va bene così.
L’atmosfera, a poco a poco, inizia a mutare assumendo i contorni di una cornice oscura che racchiude un quadro allegorico pieno di volti scavati dalla fatica, mentre le nuvole si ingrigiscono sempre di più e sembrano domandarsi chi sono quegli strani esseri colorati che le attraversano. Il romanzo d’appendice non è più rosa né arancione, ma si fa minaccioso. Più si sale verso i 2236 metri del Passo Giau e più muri di pietra e vegetazione si tramutano in barriere di neve. Processo naturale, geografia del territorio, il Giro che impartisce lezioni meglio che a scuola. Garzelli passa per primo dopo essersi sbarazzato di Jonny Ho’, che ancora non si era visto investire da un auto al Tour de France – succederà poche settimane dopo, e un giorno, promesso, ci ritorneremo. Il tutto mentre Nieve, col suo passo delicato, scollina a meno di un minuto da Garzelli.
La Marmolada
Superato il Giau, all’orizzonte c’è il Fedaia, perché se gli sceneggiatori nello scegliere i fuggitivi hanno ben poca fantasia, nel disegnare la tappa sono sadici e infilano in mezzo a tutta quella sequela di salita e discesa una delle strade più dure della zona. Come se dopo una pugnalata ti dessero un sacco di botte in testa. Nibali prova a impartire lezioni di guida e allunga nella discesa del Giau, si sblocca e quel suo pelo sullo stomaco gli tornerà utile un’oretta più tardi, il tutto mentre Contador veste i panni dell’animale politico e si contorna di alleanze: il destino del siciliano sembra spacciato.
Contador, in quel Giro molto spagnolo, si avvale dell’aiuto di altri corridori che arrivano più o meno dalle stesse zone: Igor Antón, Arroyo, Lastras si tramutano in compagni di merende ed è come se gli offrissero il caffè al bar dandogli pacche sulle spalle perché convinti che il prossimo giro, finito il Giro, lo offrirà proprio Contador. In parole ciclistiche: si riveleranno fondamentali nel tenere a galla la maglia rosa inseguendo il suo rivale più pericoloso dandogli una mano a tenere alto il ritmo. Un giorno quel favore potrebbe essere ricambiato. «Di aiuti veri ne ho avuti pochi. La Movistar tirava per il suo capitano», racconterà Contador, incalzato dai giornalisti al termine di quella fatica.
Quello di Nibali in discesa si rivelerà un attacco velleitario, ma che serve a far conoscere le sue abilità e a farci sobbalzare con le pulsazioni a mille; lui che, comunque vada, ci prova sempre. «Preferisco rischiare di saltare che andare a dormire con rimpianti», dirà a fine tappa, come fosse il manifesto della sua carriera.
Ed è così che si approccia la Marmolada, cielo di piombo come pallottole che verso la cima cominciano a fischiare. Davanti Garzelli prova a tenere fede alla sua idea del mattino e picchetta verso il tramonto che magheggia di sottecchi nascosto tra le nuvole e le cime dolomitiche. Nieve ragiona ancora bene e tiene Garzelli a tiro, scollinando a meno di un minuto. Per qualche ora lo scontro tra i due sembra un’asfissiante cronometro individuale.
Il gruppo maglia rosa un po’ più indietro, mai sazio, inghiotte chi può dei fuggitivi del mattino, uno dopo l’altro, mentre Contador si scrolla di dosso le fatiche dei giorni prima, gli insulti dello Zoncolan, l’affaire Crostis, e pure l’ingombrante presenza di Nibali che va in difficoltà, perché il Fedaia lo si affronta in salita, e in questo momento lui avrebbe preferito fosse in discesa, soprattutto quando si passa da Malga Ciapela, che se la fai in auto a scendere ti sembra lo strapiombo di una giostra, se la fai in bici, a salire, è una parete per arrampicatori.
Piove fitto, adesso; «piove… e fa freddo», annuncia Savoldelli dalla moto-cronaca con il suo marcato accento delle valli bergamasche. Nibali si salva perché ha sempre trovato nella costanza e nella capacità di gestire i momenti complicati quella sostanza con cui portare avanti la materia, e scollinerà con un minuto di distacco dal gruppetto di Contador, che vede al suo interno oltra la maglia rosa, anche Rujano, Scarponi, Gadret, Purito Rodríguez, Arroyo, Menchov, Kreuziger. Una brutta banda di gente adatta alla salita.
In cima Nibali prende una borraccia da un tifoso, «un membro del suo club», spiega Martinello in telecronaca, e poi lucido si infila la mantellina, e nella discesa della Marmolada, verso Canazei, rischia tutto per rientrare – Nibali, non Martinello. Zig zag tra le ammiraglie, curve prese come se fossero rettilinei, corridori che per seguirlo rischiano di lasciare sul proprio corpo ricordi indelebili: ti accorgi di quanto Nibali sia bello da vedere in picchiata, nel momento in cui scruti la difficoltà di Sarmiento e Petrov che a confronto sembrano saliti sulla bici per la prima volta. Il siciliano recupera lo svantaggio, ma sarà solo un’illusione; Contador, invece, è tranquillo come un vecchio giocatore di scacchi che conosce a memoria ogni giocata del suo avversario e sa già da che parte penderà il risultato finale di quella partita.
Erta finale
E dopo un lungo tratto in falsopiano arriva quell’ultimo capezzolo che porta fino in cima, il protagonista di questa tappa e di questa storia: il Rifugio Gardeccia. Salita vera, nonostante la lunghezza: sono sei chilometri che detto così ti verrebbe da mettere la mano a cucchiaio ed esclamare embè, e invece no, è erta terribile. E poi aggiungiamoci che spesso il meteo è figlio del dispetto e quindi, se vuole rendere più dura quella giornata, eccolo spruzzare un po’ di pioggia qua e là e quando schizza ne fa venire giù così tanta da bagnarti fino alle ossa, da rendere il terreno un tratto d’acqua da affrontare controcorrente. Mentre i corridori erano impegnati in quell’amaro su e giù tra i monti bellunesi, infatti, tempeste d’acqua si scatenavano su quei circa seimila metri finali rendendo ancora più complicato il nobile atto del pedalare.
Appena superato il cartello dell’inizio della salita, Nieve piomba su Garzelli come un fuorilegge gentiluomo: ha una bandana e un fucile e Garzelli alza le mani, ormai ha capito che per per vincere ci vorrà uno di quei miracoli che in bicicletta di solito non accadono. Nieve lo stacca di prepotenza, mentre la pioggia torrenziale inizia a dare tregua stavolta usando una forma di rispetto verso i corridori. Poco dopo le cinque di quel pomeriggio, il ragazzo basco in arancione taglia il traguardo ed esulta a fatica, tenendo il manubrio con una mano ed esultando con l’altra (altrimenti sarebbe caduto a terra), lasciando cadere persino qualche lacrima. Con un filo di voce dirà: «Tappa eterna, nel finale mi sembrava di morire, è un sogno. Quando sono passato professionista non avrei mai pensato di poter fare questo».
Garzelli chiude con un ritardo di 1’41” – dieci secondi prima di Contador – e appena tagliato il traguardo il massaggiatore lo regge per evitare che cada a terra; il suo viso è tagliato in due dalla fatica, dalla pioggia, dal sudore, mentre dalla testa pelata spunta una leggera peluria come se gli fosse cresciuta per la fatica in quelle interminabili sette ore e mezza. Almeno la giornata verrà ripagata dalla maglia verde – e dal ricordo che resterà. «Ho fatto un’impresa, pazienza se non ho vinto. Non credo che avrò le forze per ripetere una giornata del genere».
E dietro che succede? Contador attacca, troppo ghiotta l’occasione per guadagnare ancora su Nibali, fino a quel momento il suo avversario più vicino in classifica; Scarponi usa il suo passo e si salva, non commette l’errore di rispondere subito alle stilettate dello spagnolo della Saxo Bank, e la sua perspicacia gli permetterà di finire dietro di soli sei secondi scavalcando Nibali in classifica generale. Alle spalle di Contador e Scarponi finiscono nell’ordine: Gadret, Rujano, Nibali (a 3’34” dal vincitore) in compagnia di Rodríguez, poi Kreuziger e a chiudere la top ten un giovane Kruijswijk a 4’13”. Mentre l’eroe del giorno prima, Igor Antón (Igorantón), finirà diciassettesimo a 7’59”. Come si sarebbe detto in altri tempi, distacchi d’altri tempi, per una tappa che almeno una volta nella vita va rivista e raccontata e che andrebbe riproposta più spesso nel disegno della Corsa Rosa.
Quel Giro 2011 continuerà nel nome di Contador, capace di vincere dopo il giorno di riposo la cronoscalata sul Nevegal. Farà anche in tempo a concedere all’amico Tiralongo la vittoria sul traguardo di Macugnaga, il terz’ultimo giorno di corsa, oramai forte del successo finale.
Il 6 febbraio del 2012, dopo una serie di batti e ribatti degni di un orrendo match di tennis, il TAS condannerà Contador a due anni di squalifica con effetto retroattivo. Gli verranno tolti, tra le altre corse, il Tour de France del 2010, che finirà nel palmarès di Andy Schleck, e le nove vittorie ottenute la stagione successiva nel 2011, tra le quali due vittorie di tappa e la classifica finale di quel Giro d’Italia 2011 – assegnato così a Scarponi. Mentre resterà dentro di lui e di tutti quelli che l’hanno vissuto il logorìo del tappone dolomitico che il 22 maggio ha portato i corridori da Conegliano fino al Rifugio Gardeccia. E basterebbero le parole dello spagnolo a fine tappa per riassumere tutto, come fossero la pagina del libro più corto del mondo che racconta la giornata più lunga della storia recente del Giro d’Italia: « È stata una tappa terribile, la più dura della mia vita».
Questo articolo è apparso sul sito https://www.suiveur.it/ nel 2020
Foto Sprint Cycling Agency
Leo Hayter: la mia lotta
Non lo si vedeva in gruppo da un po', non c'erano notizie sul perché. Non lo avevamo mai visto raggiungere quei livelli che da Under 23 gli permisero di vincere alcune tra le corse più importanti del calendario (Giro, Liegi e medaglia di bronzo al mondiale a cronometro). Qualche giorno fa, Leo Hayter, 23 anni, corridore britannico della Ineos, ha rotto il silenzio e ha squarciato il velo su una situazione che da anni costringe a lottare lui e chissà quanti altri, e che inevitabilmente fa riflettere su quello che vivono i ragazzi che, giorno dopo giorno, si allenano, subiscono pressioni, non hanno un adeguata struttura che gli dia i mezzi necessari a sopravvivere in un mondo che va avanti in nome del successo, prima ancora che dello sport.
-----
"Ciao a tutti, sono scomparso da un po' di tempo, ma sento che ora è il momento giusto per raccontare la mia storia.
Ho avuto problemi mentali negli ultimi cinque anni. È qualcosa che per molto tempo ho semplicemente "affrontato". Ho pensato di essere solo pigro, che mi mancava la motivazione.
Doveva essere qualcosa di passeggero, ma è semplicemente impossibile superarlo senza avere la sensazione di perdermi dettagli importanti.
Lo scorso maggio ho toccato il fondo. Ero completamente bloccato. Non potevo lasciare il mio appartamento ad Andorra; riuscivo a malapena ad alzarmi dal letto. Il mio team di supporto alla INEOS mi ha riportato a casa e mi ha fatto una valutazione professionale, dove mi è stata diagnosticata la depressione. Ho preso una pausa dal ciclismo, ho iniziato a prendere farmaci e mi è stato detto che non avrei più dovuto gareggiare l'anno scorso, ma in poco tempo mi sono sentito meglio.
Sono tornato al Tour of Guanxi alla fine della stagion scorsa e tutto sembrava a posto. Mentalmente e fisicamente ero nelle migliori condizioni: non mi sentivo così da diverso tempo. Ho avuto una buona off season, ma non appena sono tornato ad allenarmi, quelle stesse sensazioni, quei pensieri negativi sono tornati.
Prima del ritiro di dicembre con la squadra sono andato in modalità panico totale, non riuscivo quasi ad alzarmi dal letto. Ero imbarazzato perché non mi sarei presentato al ritiro al livello che volevo. Non ho dormito molto in quei giorni, non mi sono nemmeno allenato. Mi sono chiuso nella mia bolla, non rispondevo a nessuno lasciando il telefono in modalità silenziosa. È come se sentissi di deludere le persone e di non riuscire nemmeno a controllare le mie azioni.
Quando sono in questi stati di forte ansia, il metodo di difesa a cui ho sempre fatto ricorso è il cibo. Ovviamente, come atleta professionista, non è l'ideale, ma per me è incontrollabile. Mangio in modo compulsivo tutto ciò che mi capita davanti, e poi, molto spesso, mi sento male. Mi sento in colpa per essermi abbuffato, mi faccio morire di fame, prima di sentirmi completamente vuoto e mangiare di nuovo un sacco di cibo. Ovviamente, questo mi porta ad aumentare di peso, quando il mio obiettivo è l'opposto, causando più ansia e continuando lo stesso circolo vizioso.
Sono arrivato al campo di dicembre, la prima settimana è andata bene, e poi la seconda settimana ero a letto con la febbre. Sono tornato dal campo e ho passato la stessa cosa di prima del campo: sono nervoso per il Tour Down Under, sono fuori forma. Ho costantemente "shock" dovuti all'ansia, tutto il mio corpo si blocca per alcuni momenti, questo perché il tuo sistema nervoso è in modalità "combatti o fuggi".
È difficile spiegare l'effetto che hanno su di me. La mia ansia è solo aumentata. Cose che di solito non mi darebbero mai fastidio, come un'auto che mi sorpassa su una strada, mi bloccano per un momento. Rende la guida poco piacevole.
Poi ho avuto un buon periodo in Australia, quando torno succede la stessa cosa. Non sono nella forma in cui sarei voluto essere per la corsa a tappe negli Emirati Arabi Uniti. Gli ultimi anni non mi sono mai sentito dove vorrei essere, ho sempre la sensazione che ci sia un'enorme montagna da scalare per raggiungere il livello a cui "dovrei" essere. Questo ciclo continuo di nessun progresso finisce per essere molto estenuante.
Ho trascorso la prima metà di questa stagione a combattere contro questo. Sapevo che era la mia "ultima possibilità". Stavo facendo di tutto, compresi due campi privati in altitudine organizzati e finanziati da me. Nessuno dei due ha avuto successo.
Quando ho difficoltà mentali il mio fisico ne paga le conseguenze. Dormopoco, non mi sento recuperato nel sonno, la mia ansia porta a un assorbimento di cortisolo. Quando ho fatto un passo indietro l'anno scorso, i miei livelli di testosterone sono aumentati in modo significativo, dormivo meglio, ero più socievole, non ho mai perso peso così rapidamente. Ho sempre fatto buone prestazioni quando non c'era pressione su di me e mi sentivo calmo. Tutte le mie migliori prestazioni sono arrivate in questo modo. Per essere chiari, questa pressione viene sempre da me stesso, una pressione interna per essere il migliore, ossessionato dalla perfezione, che nello sport non è qualcosa di realistico o realizzabile giorno dopo giorno. I piccoli insuccessi fanno parte dello sport, ma non riesco proprio a gestirli in modo positivo. Una brutta prestazione o un giorno meno buono degli altri e vado nel panico al punto che la situazione sfugge al controllo.
Ho raggiunto il punto di rottura prima del Tour de Hongrie quest'anno. Durante tutto il viaggio ho avuto ripetutamente shock di ansia. Non riuscivo a concentrarmi su nulla. All'aeroporto mi hanno detto che non avevo bisogno di correre, ma ero determinato. Ho messo una faccia da poker, sono partito e ho pedalato bene. Al ritorno ero esausto.
Sapevo che non potevo continuare così, ma sapevo anche che se mi fossi fermato per fare un passo indietro, realisticamente la mia carriera sarebbe stata in pericolo. Ho trascorso giorni, settimane completamente bloccato. Sono tornato in una situazione simile a qualche mese prima. Ho fatto un'altra valutazione medica, dove era chiaro che i miei sintomi depressivi non stavano migliorando, anzi, stavano peggiorando. Una cosa del genere non è qualcosa che può essere cambiata da un giorno all'altro, sto seguendo una terapia al momento, ma è un percorso. Ho già fatto alcune sedute con un terapeuta che non hanno funzionato, quindi è come tornare al punto di partenza. Sono molto fortunato ad avere accesso ai migliori psicologi del mondo tramite il team, quindi lavorerò a stretto contatto con loro nel prossimo periodo.
È improbabile che correrò di nuovo quest'anno. C'è ancora tempo e potrei farlo, ma a posteriori non è stata una buona scelta tornare nemmeno l'anno scorso.
Ho sempre avuto questo pensiero in testa, che diventare più in forma e più magro mi avrebbe reso più felice, ma in realtà non ha fatto altro che nascondere il vero problema. Non appena rallento, i pensieri negativi tornano, e rientrare più in forma è come mettere un cerotto su una ferita che ha bisogno di punti.
Al momento anche il mio futuro nel ciclismo non è chiaro. In questo momento è irrealistico continuare come ciclista professionista, quindi non correrò per INEOS l'anno prossimo. Quando riesco a mettermi nella giusta disposizione mentale, non c'è niente che mi piaccia di più. È come una dipendenza per me. Ecco cosa mi fa sentire così doloroso non poterlo fare in questo momento. Ho tutto ciò che ho sempre desiderato, ma non sono ancora felice.
Qualunque cosa accada, la mia carriera ciclistica non è finita. Solo in pausa. Lo devo a me stesso e a tutti coloro che hanno lavorato così duramente per me negli ultimi 10 anni per portarmi dove sono.
So che se riesco a cambiare i miei comportamenti la mia coerenza arriverà e sarò a un livello in cui non sono mai stato prima. Negli ultimi quattro anni non credo di aver avuto più di una manciata di periodi in cui mi sono allenato costantemente per alcuni mesi. Quando ci sono riuscito ho ottenuto vittorie come LBL o Giro U23, ma le singole prestazioni non sono ciò che rende un grande corridore. Ricordo che prima del Mondiale di Wollongong nel 2022 il mio agente è dovuto venire a casa mia per convincermi ad andare. Ero in lacrime. Non potevo immaginare niente di peggio. Ero convinto che avrei fallito; ero grasso, non ero abbastanza bravo per esibirmi. Avevo trascorso una settimana a letto, la mia bici si era rotta ed ero completamente bloccato. Sono andato lì e ho ottenuto una medaglia di bronzo nella cronometro.
Voglio anche aggiungere che mi sembra incredibilmente sbagliato per me scrivere questo. Ho pensato che fosse una buona idea farlo per mesi, mi siedo per farlo ogni giorno e mi ritrovo a fare qualcos'altro, ma è durato troppo a lungo. Al momento non esco di casa. Ho paura. Anche scrivendo questo ora riesco a percepire quanto sia stupido, ma questo non cambia il fatto che è come mi sento.
Mi sono sempre preoccupato di come la gente mi percepisce. Ora sono a un punto in cui finisce solo per debilitarmi. E se esco e vedo qualcuno che conosco? E se mi chiedono dove sono stato? E se pensano che ho messo su peso? E se pensano che sia pigro? Questo è il genere di cose che mi passano per la testa, in ogni situazione.
Significa che prendo le distanze da tutti. Ho perso così tanti amici negli ultimi anni, non perché abbiamo litigato, ma solo perché mi sono allontanato da loro quando ero in difficoltà. Le persone mi mandano messaggi per chiedermi come sto, e io non riesco proprio a rispondere. Cosa dovrei dire? A che punto ho detto cose cattive o stronzate troppe volte? Mi considereranno meno se sono in difficoltà?
È anche una delle cose che mi tiene lontano dalla bici. Vorrei essere più sano, più in forma e più vicino al mio peso da gara. Mi piace andare in bici all'aperto, lo adoro. Ma cosa succede se qualcuno mi vede e mi chiede come sto? Vede che sono chiaramente sovrappeso per essere un ciclista professionista? Penseranno che sono pigro e che faccio perdere tempo alla squadra? Rideranno di me per il mio aspetto?
Al momento in cui scrivo, sono a Parigi a guardare mio fratello alle Olimpiadi. Anche questo non mi sembra giusto, mi sento a disagio solo a stare qui. Confrontarmi con amici e familiari è difficile, ma ancora di più mi sembra sbagliato poter godere di qualcosa. Se in questo momento non sto nemmeno facendo il mio lavoro, merito di divertirmi?
È come se non ci fosse una situazione che non mi spaventi. Se non fosse stato per la mia ragazza, non credo che avrei avuto alcun contatto umano negli ultimi tre mesi. Per questo le sarò sempre grato. Anche nei giorni peggiori riesco a vederla e a dimenticare per un po' quello che mi succede.
Vorrei anche dire un enorme grazie e scusarmi con il mio team di supporto di INEOS. Non posso fare a meno di sentirmi come se vi avessi delusi tutti, ma ci sto provando. Davvero. Il mio allenatore Dajo, gli psicologi Tim e Robbie e il mio agente Jamie mi hanno sostenuto negli ultimi anni, ma non sono riuscito a ripagare quella fiducia e quella convinzione come vorrei. Spero che scrivere questo e renderlo pubblico renderà più facile contattare i miei amici, vedere le persone, fare cose normali. Non ho pedalato negli ultimi mesi, ma non ho nemmeno vissuto.
Spero di potervi aggiornare tutti nel prossimo futuro con qualcosa di più positivo. Tornerò a gareggiare di nuovo ai massimi livelli del ciclismo, non so ancora quando. Ma quando lo farò, sarò pronto.
Leo"
----
Il post originale, tradotto dalla redazione, lo potete trovare a questo indirizzo: https://leohaytercycling.com/
Foto: Sprint Cycling Agency
10 nomi da seguire al Tour de l'Avenir
È una delle corse più attese del calendario Under 23, è quella che chiude il trittico delle gare a tappe più blasonate e qualificanti della categoria a cui appartengono i ragazzi con meno di 23 anni* – per questa stagione quelli nati tra il 2002 e il 2005 – dopo Giro (Next Gen) e (Giro Ciclistico della) Valle d’Aosta, ecco, dal 18 al 24 agosto il Tour de l’Avenir.
Il Tour dei giovani, così detto, e che noi amiamo particolarmente non tanto per gli spunti che può dare verso il futuro – ormai la maggior parte dei corridori che partecipano a questi eventi sono praticamente dei professionisti, anzi, in alcuni casi lo sono a tutti gli effetti e di loro sappiamo “tutto” – quanto per il fascino incredibile che trasmette il vederli correre, non con le maglie di club, ma con quelle della propria nazionale. Quindi niente squadroni Devo delle WT (ben rappresentati lo stesso), ma nazionali, in alcuni casi molto forti, come vedremo a breve.
*Ricordiamo che possono partecipare anche i professionisti del World Tour, anche chi ha già disputato dei Grandi Giri.
Prima di raccontare i dieci corridori che potranno essere protagonisti di questa edizione, qualche numero.
Sessantesima edizione del Tour de l’Avenir, la prima è nel 1961 quando a vincere fu un italiano: Guido De Rosso, l’ultima, nel 2023, l’ha conquistata Isaac Del Toro, da sabato impegnato alla Vuelta. L’Italia ha vinto 4 volte: dopo De Rosso, c’è stato Gimondi nel 1964, Denti nel 1966 e infine Baronchelli, 1973, Baronchelli che detiene un record che quest’anno potrebbe cadere: la doppietta Giro/Tour nello stesso anno, obiettivo fallito nelle ultime stagioni da Ayuso (2021) e Staune Mittet (2023) - anche se, come vedremo, Jarno Widar potrebbe fare pure meglio.
Negli anni, la corsa ha cambiato nome, organizzatori e anche modalità di partecipazione ed è stata vinta da corridori che hanno scritto alcune pagine importanti della storia di questo sport: da Zoetemelk (1969), a Lemond (1982), continuando poi con Ludwig (1983) Mottet (1984), Indurain (1986), Madiot (1987), Fignon (1988), Bruyneel (1990) e venendo poi agli anni 2000, Menchov (2000), Mollema (2007), Quintana (2010), Chaves (2011), Barguil (2012), Miguel Angel Lopez (2014), Soler (2015), Gaudu (2016), Bernal (2017), Pogačar (2018), Foss (2019) Tobias Halland Johannessen (2021), Uitdebroeks (2022) e Del toro (2023). Nomi noti, vero? In poche parole: l’Avenir dice spesso la verità sul futuro dei corridori.
Una corsa che è stata anche vinta da uno dei personaggi più di culto della disciplina delle due ruote: Sergei Sukhoruchenkov, unico corridore ad averla vinta due volte, oltretutto, nel 1978 e nel 1979.
L’Italia, qui, è bene o male sempre stata protagonista, di recente sia con i successi di tappa - nel 2016 c’è riuscito Albanese, poi Covi nel 2018, Milesi nell’ultima tappa del 2022 e Pellizzari nell'ultima del 2023 - che in classifica generale. Oltre ai vincitori già citati spiccano, più di recente, i podi di Pellizzari e Piganzoli lo scorso anno, di Zana nel 2021, di Aleotti nel 2019 e di Ravasi nel 2016. Mattia Cattaneo è stato terzo per ben due anni di fila, 2011 e 2012, e non sono moltissimi, anzi, i corridori a vantare più di due podi. C’è appunto il sovietico Sukhoruchenkov, due primi e due secondi posti, mentre proprio a quota due podi: l’olandese Den Hertog (1° nel 1972 e 2° nel 1971), il francese Laurent Roux, vincitore nel 1997 dopo essere stato sul podio, 3°, nel 1995, i sui connazionali Bezault (due secondi posti) e Bourreau, l’austriaco Steinmayer, e lo spagnolo, José Gomez.
È una corsa che, bene o male, basta vedere l’albo d’oro recente, segnala chi ha qualità per poi imporsi tra i professionisti, e visti i favoriti per quest’anno, dovrebbe essere così anche per il futuro.
Infine due conti sulle nazioni plurivittoriose: la Francia, con 19 vittorie, comanda nettamente l’albo d’oro, segue la Spagna a 12, la Colombia a 6, Russia (o ex Urss) a 4 come Italia e Belgio, Olanda è ferma a quota 3 mentre la Norvegia è a 2 - ha vinto due delle ultime quattro edizioni. Lo scorso anno, con Del Toro, c'è stata la prima vittoria di un messicano.
Ma ora ecco dieci nomi da seguire al Tour de l'Avenir 2024
ANTONIO MORGADO
Che cosa ci fa uno così ancora a correre tra gli Under 23 dopo aver ottenuto un quinto posto in una delle gare più dure della stagione, il Giro delle Fiandre, resta un mistero o meglio, nemmeno troppo, è qualcosa di legato al regolamento che permette a corridori di questa età (Morgado è un classe 2004, sarebbe un secondo anno tra gli Under 23), nonostante siano già ben inseriti in contesti superiori, di scendere di categoria - lo vedremo anche al Mondiale dove rischia di essere il favorito. Il suo nome al Tour de l’Avenir è più interessante per le frazioni singole che per la classifica generale, anche se il suo livello è così alto che non mi stupirei di vederlo in alto a fine corsa. Vedremo, forse il grande caldo previsto rischia di non favorire lui che col freddo e la pioggia si trova a meraviglia, ma giorno dopo giorno il rischio concreto di vedere il baffuto portoghese davanti c’è, seppure dodici mesi fa fu una delle delusioni della corsa.
BRIEUC ROLLAND
Capitano - o uno dei capitani - di una Francia che si presenta al via con una formazione fortissima e che punta a riportare in Francia la corsa otto anni dopo la vittoria di David Gaudu. Non ha disputato il Giro Next Gen dove, gioco forza, sarebbe stato uno dei favoriti pure lì, ma la sua squadra, la Groupama, non era stata invitata; ha saltato il Valle d’Aosta e si presenta tirato a lucido (terzo di recente in una gara in linea in Francia, battuto solo da Lapeira ed Eenkhoorn) per l’evento cerchiato in rosso da inizio stagione. Va forte in salita e quest’anno lo ha dimostrato anche in alcune uscite con i professionisti, è cresciuto con Lenny Martinez e Grégoire e con loro era uno dei leader delle selezioni francesi giovanili, i due, però, sono maturati prima di lui, ma questo non vuol dire che Rolland non sia un corridore di valore assoluto o che non possa togliersi grandi soddisfazioni anche nella massima categoria. Prima però c’è un Avenir da provare a vincere e per la Francia può andare bene sia con lui che con Rondel o perché no pure con Bisiaux.
JARNO WIDAR
Ma chiunque voglia vincere questa corsa se la deve vedere con Jarno Widar che insegue un trittico mai realizzato finora: Giro-Valle d’Aosta e Avenir nello stesso anno, o provare a togliere a Baronchelli quel record di Giro e Avenir vinti entrambi nel 1973. Di recente ci hanno provato Ayuso e Staune Mittet, ma entrambi si sono dovuti inchinare più che agli avversari alla cadute e questo ci fa pensare quanto sia un tabù che prima o poi andrà sfatato. Widar, dominatore in stagione della categoria, non pensa a entrare negli annali per la doppietta ma semplicemente a vincere quella corsa che in Belgio, di recente, ha conquistato Cian Uijtdebroeks. È vero, la strada è costellata di pericoli, ma per quello visto in stagione, il piccolo belga mi pare, in questo momento, imbattibile.
JOSEPH BLACKMORE
Se Morgado è già lanciato tra i professionisti anche Joe Blackmore non scherza e ha pure un anno in più. Ma se Morgado passava quest’anno in UAE come astro baffuto destinato a illuminare il ciclismo, il rendimento nella prima parte di 2024 di Joe Blackmore, se non è da catalogare come un'autentica sorpresa, poco ci manca. Una certezza quasi assoluta è diventato il biker inglese che in stagione ha trionfato tra i professionisti in giro per tutto il mondo: primo al Tour of Rwanda e al Tour de Taiwan, prima di conquistare il Circuit des Ardennes, corsa .2, concludendo una parte iniziale di stagione da mezzo fenomeno con la vittoria alla Liegi di categoria. Dopo una parentesi in mountain bike è tornato a macinare buoni risultati, senza vittorie però, chiudendo al decimo posto l’Arctic Race of Norway, ma pare con una preparazione mirata all’Avenir. Va forte in salita, lunga o corta non fa differenza, è veloce, gli piace attaccare. Se cercate il principale rivale di Widar per la classifica generale ecco il nome.
MATTHEW BRENNAN
Restiamo in Gran Bretagna per parlare di Matthew Brennan, altro classe 2005, dunque un primo anno, che non ha per nulla subito il salto di categoria, anzi, si è pure messo in luce tra i professionisti. Prodotto della Fensham Howes Junior Team, squadra che sta lanciando diversi talenti in questi ultimi anni, Brennan non è un semplice velocista, tutt’altro, ma come caratteristiche potrebbe ricordare un suo possibile compagno di squadra nel 2025, quando il 19enne passerà con la squadra World Tour della Visma, ovvero Wout van Aert. Tiene bene su salite brevi e ripide ed è estremamente veloce, ma sono ancora da cogliere i suoi margini. In stagione è partito fortissimo con il successo nell’ultima tappa del Giro Next Gen come fiore all’occhiello di una crescita continua e di una grande costanza di rendimento. All’Avenir ha cerchiato di rosso la tappa 1, quella con arrivo a Ronchamp-Champagney.
LUDOVICO CRESCIOLI
In un Avenir così montagnoso Ludovico Crescioli, che da ragazzo ha fatto proprio dell'andare forte in salita la sua massima vocazione, sarà la carta più importante della spedizione azzurra di Marino Amadori il quale non ha nascosto di aver provato a riportare in Francia uno tra Pellizzari e Piganzoli, sul podio nel 2023 di fianco al vincitore Del Toro. Il talentuoso corridore della Team Technipes #InEmiliaRomagna sta finalmente vivendo una stagione (quasi) senza malanni fisici e ha un doppio obiettivo in Francia: chiudere in una posizione di classifica tra i primi dieci e strappare ufficialmente un contratto per il prossimo anno tra i professionisti. L’Italia si presenta con una squadra interessante, ma sulla carta appare difficile ripetere le imprese delle ultime stagioni, ma mai porre limiti alle selezioni di Amadori. Oltre a Crescioli, li nominiamo tutti quelli al via: Edoardo Zamperini, uno dei migliori italiani nell’ultimo biennio, fermato in stagione da un brutto infortunio che ne ha compromesso il rendimento al Giro, punterà alle tappe, ma proverà a tenere duro anche per la classifica; Pietro Mattio, una delle realtà del nostro ciclismo giovanile, cresciuto stagione dopo stagione in maglia Visma, anche lui sarà una carta interessante da buttare in fuga e provare a scompigliare le carte. Di sicuro sarà un importante uomo squadra, ruolo che ricopre con qualità anche in Visma; Simone Gualdi, il migliore 2005 italiano per risultati quest’anno, a suo agio anche tra i professionisti, e infine Alessandro Pinarello e Florian Kajamini, anche loro chiamati a provare a tenere duro in salita e a dare anche qualche risposta dopo un periodo non del tutto facilissimo a livello di risultati. Chissà che qualcuno di questi non cerchi gloria e consacrazione l’ultimo giorno con l’arrivo in Italia, sul Colle delle Finestre. Occasione ghiotta.
JAKOB SÖDERQVIST
Lo svedese della Lidl-Trek punta tutto sul prologo iniziale e proprio come al Giro Next gen è il favorito a vestire la maglia di leader per un giorno. Un giorno solo, perché poi già dalla frazione successiva probabilmente perderà terreno appena la strada salirà, ma al momento è il corridore, nella categoria, nettamente più forte a cronometro e potrà usare la corsa francese oltre che per riportare alla Svezia un successo di tappa che manca dal 2004 (Lofqvist primo su Le Grand Bornard), anche per affinare la condizione in vista del mondiale di Zurigo.
AJ AUGUST
Altro corridore che si sta facendo già tra i professionisti è il giovanissimo americano AJ August, in forza alla Ineos e qui leader di una compagine che schiera anche Artem Shmidt, suo futuro compagno di squadra con i britannici e Colby Simmons, che punterà tutto sulla prima tappa e sulle fughe. AJ August, sosia di Miles Teller, l’attore protagonista del film Whiplash, potrebbe essere un nome un po’ a sorpresa a fine Avenir nei piani alti della classifica, perché le lunghe salite ancora non sembra gli si addicano molto, ma chissà. Ci rivediamo a fine corsa per vedere dove sarà arrivato.
ROBIN ORINS
Premio alla regolarità per il 2002 belga che il prossimo anno sarà a tutti gli effetti tra i professionisti in maglia Lotto Dstny. In stagione ha un ruolino di marcia impressionante soprattutto nelle gare di un giorno dove spiccano su tutti i podi alla Roubaix e alla Liegi e le vittoria nel campionato belga a cronometro e nella Omloop Het Nieuwsblad. Insieme a Verstrynge, altro corridore regolarissimo, ma più forte in salita, sarà fondamentale per i sogni di gloria del capitano Widar.
.
MAX VAN DER MEULEN
Tanti alti e bassi in carriera dopo un inizio scoppiettante, quasi folgorante, tra gli juniores. Tanti alti e bassi anche in stagione per il giovane corridore del CTF Victorious e futuro Bahrain, vincitore quest’anno di una tappa alla Ronde de l’Isard, ma spesso anche vittima di malanni e controprestazioni. Lo si vede spesso allenarsi con due mostri sacri come van der Poel ed Evenepoel e lui, che è soprattutto scalatore, andrà a caccia di un posto sul podio che all’Olanda all’Avenir manca dal 2018, quando Arensman chiuse alle spalle di un certo Pogačar. Sulla carta uno forte così in salita, in Olanda, non lo vedevano da anni.
Foto: Sprint Cycling Agency
La prima Olimpiade: intervista a Chiara Teocchi
Ad un certo punto, lungo il percorso della gara olimpica di Cross Country, Haley Batten, partita abbastanza in fondo, ha raggiunto le ruote di Chiara Teocchi e l'ha chiamata. Teocchi, con la coda dell'occhio, l'ha vista, si è spostata a lato, le ha semplicemente detto "vai": «Mi sono fatta da parte, le ho detto di andarsi a prendere la medaglia che meritava. Non l'avrei fatto per chiunque, tanto più per il fatto che la mountain bike è una disciplina individuale: con Haley siamo state compagne di squadra, in passato, il legame è rimasto e questa è stata l'occasione per restituire qualcosa». Qualche giorno prima della prova, la famiglia di Haley Batten aveva chiesto alle persone a lei più care di registrare un video di auguri: Chiara Teocchi era tra queste. Come lo ha visto, Haley le ha telefonato, piangendo, emozionata.
In fondo, Teocchi sta parlando di sogni e sa bene che, per le atlete, molti sogni coincidono, corrispondono, poi ciascuno li realizza in modi differenti e con tempi diversi. Dice che nell'oro di Pauline Ferrand-Prèvot, all'ultima occasione, prima del passaggio su strada, la prossima stagione, si riconoscono tutte e lei in particolar modo: «Quando eravamo ragazzine, la guardavo e volevo essere lei: per questo ho intrapreso la multidisciplina, per questo, in mezzo alla folla di Francia, in delirio per la sua vittoria, ho sentito una sensazione che credo abbia qualcosa in comune con la sua felicità. Perché ci assomigliamo tutte, abbiamo sperato nelle stesse gioie, a volte temuto le medesime paure. Se dovessi immaginare una vittoria olimpica, la vorrei così, esattamente così. Vicino a casa, alla mia gente».
Allora ci si riconosce, in un modo o nell'altro. Per questo, quando al villaggio olimpico ha visto, accanto a lei, Simone Biles, ginnasta e sua ispirazione, Teocchi ha subito pensato di presentarsi, dirle ciò che provava, abbracciarla e chiederle una foto: «Non l'ho fatto, non ne ho avuto il coraggio, sono semplicemente rimasta a guardarla, pensando che mi sembrava incredibile essere nel suo stesso posto, pensando a quanto sia bello ciò che Biles riesce a fare con il suo corpo». Solo tre incontri, uguali e differenti, dietro a cui si celano storie che, spesso, nemmeno si conoscono. Talvolta difficili, tormentate. Anche quella di Chiara lo è stata e non è poi passato così tanto tempo, eppure, ora, con l'Olimpiade di Parigi e quella top ten sfiorata, undicesimo posto, uno dei migliori risultati dai tempi di Paola Pezzo, tutto il resto sembra distante, di un altro mondo.
Nel 2020, l'Olimpiade di Tokyo era vicina, così vicina da diventare un'ossessione: «La passione non c'era più, era diventata un'idea fissa. Non ero più concentrata sul mio percorso, guardavo tutto quello che facevano le altre atlete, le colleghe e vivevo un costante confronto con loro, su ogni cosa, su ogni singolo dettaglio. Una sorta di inferno: prima perdi di vista la tua strada, poi ti perdi. Di solito accade così». In quel periodo, le viene anche diagnosticato un problema al cuore, una situazione da risolvere tempestivamente secondo il medico: «”Chiara, se non ti operi, non posso rilasciare l'idoneità alla pratica sportiva. Vuoi continuare a pedalare? Dovrai farlo da appassionata, assumendoti tutti i rischi del caso. Altre possibilità non ci sono, punto e basta". Ricordo come ora queste frasi e ricordo il mio tentativo di rimandare l'intervento dopo l'Olimpiade. L'ossessione, la stessa ossessione».
Alla fine, quel medico l'ha operata e all'Olimpiade di Tokyo non è andata, per questione di punteggi, tuttavia, racconta, non sarebbe ancora stata pronta per affrontarla. Serviva un'altra Chiara Teocchi, una versione diversa, una versione migliore, a cui ha lavorato in questi anni: «A Parigi ho vissuto la prima esperienza e la prova dei giochi è differente dalle altre gare, da quelle di Coppa del Mondo: bisogna essere capaci di lasciar scorrere la bicicletta e, per farlo, è necessaria una grande sicurezza in sella che, forse, a me ancora manca. In salita spingevo bene, poi perdevo qualcosa. Credo dipenda anche dai percorsi, solitamente corriamo nei boschi, all'Olimpiade si corre nei parchi, vicino alle città. Devo trovare un luogo simile, crearlo, forse, e allenarmi lì». Ha parlato con Luca Braidot, quarto piazzato nella prova maschile: Luca le ha detto che l'Olimpiade, di fatto, è un progetto, da far crescere negli anni e lei, pensando a queste parole, ha in mente Los Angeles 2028: con un'amica ha provato a prenotare i biglietti aerei, non è stato possibile, perché il massimo anticipo, sulla prenotazione, è di un anno. Sorride, Chiara Teocchi.
«Sono cambiata io, certo, ma, in realtà, in quattro anni cambiano tantissimi aspetti nella vita di una persona. Cambia l'ambiente attorno a te e cambiano anche le persone che hai accanto. Nel mio caso, credo che anche questo aspetto sia stato decisivo: ho sempre avuto accanto persone che mi hanno amata e hanno voluto il mio bene, però non è detto che basti questo per capire davvero quel che significa realmente essere una atleta. Spesso si fatica a comprendere questo modo di vivere e allora iniziano i dubbi. Io credevo di essere troppo emotiva, troppo sensibile, troppo insicura, di non andare bene, così mi paragonavo alle altre atlete. Nel tempo è cambiato anche il mio concetto di "bisogno" degli altri, qualcosa che credo debba essere reciproco, non un gancio a cui aggrapparsi per ritrovare sicurezza in te». Il passo decisivo, in poche parole, quello che oggi la carica di un entusiasmo che fatica a stare nelle parole: «Se penso che, quando mi suona la sveglia al mattino, mi sento orgogliosa di quel che sto facendo, del percorso che sto costruendo, mi sembra incredibile: tutto da un anno e mezzo a questa parte».
Nel frattempo, anche il suo mondo, la disciplina della mountain bike, si sta evolvendo e anche a livello federale si fanno passi avanti, la presenza di uno chef in nazionale, ad esempio, per curare ogni dettaglio, a livello anche di tecnica e di allenamenti, a questo si aggiunge la presenza di nuovi materiali: «Credo l'Italia debba solo adeguarsi al fatto che le cose cambiano, è necessaria questa apertura, per cui, però, serve pazienza, Ci sono nazioni che sono, oggettivamente, più avanti rispetto a noi, la Francia o la Svizzera, ad esempio. In Svizzera, sin da giovani, ci si cimenta su percorsi, aperti, con passaggi tecnici: una scelta del genere è vincente, perché la tecnica non la scordi più. Il nostro è un ottimo vivaio, bisogna collaborare, solo questo». Il percorso riparte, dapprima i Mondiali e, poi, il lavoro che serve per essere a Los Angeles, ad un'altra Olimpiade.
Foto: Sprint Cycling Agency