Sportful Social Ride
Siamo stati ospiti di Sportful nelle giornate che hanno preceduto la Strade Bianche, abbiamo avuto l’onore di pedalare nella Social Ride, al venerdì mattina, di fianco a campioni come Paolo Bettini, che ha disegnato i 43 chilometri circa del percorso, e Cristian Salvato.
Chi scrive si è staccato presto, dicevano: “sarà un giretto tranquillo, andiamo piano”, non è andata proprio così, nel senso che chi scrive, ma evidentemente non pedala abbastanza, dopo pochi chilometri si è staccato a causa del ritmo insostenibile e ben poco si è gustato dello splendido panorama intorno.
Non fa alcuna differenza ai fini del racconto se è stato l’unico a perdere contatto: lo hanno aspettato, va dato atto, nel punto ristoro organizzato da i ragazzi di VeloEtruria di Pomarance, dove c’è stato un attimo di relax a mangiare panini con la salsiccia o con la nutella assaggiando birra e vino per poi ripartire nel su e giù tra sterrati e asfalto che ci ha ricondotto nello splendido scenario di Stigliano, provincia di Siena, attraversando anche uno dei settori che l’indomani avrebbero percorso i corridori nella Strade Bianche.
Chi scrive ha provato a un certo punto pure a prendere un po’ di vantaggio accelerando leggermente in salita, venendo però scherzosamente richiamato all’ordine da Salvato: “hei ragazzo, però ci vuole un po’ di coerenza quando si pedala, se prima ti sei staccato, ora mica puoi andare in fuga”.
Abbiamo assistito in diretta anche alla caduta - per fortuna senza conseguenze e ormai diventata virale - di Paolo Bettini, leggenda in bici e mega disponibile quando a tavola ci ha riempito di aneddoti sul ciclismo dei suoi tempi, tra gare in Belgio, senatori, volate vinte davanti a Cipollini e strade sbagliate alla Tirreno Adriatico. A parte l'estemporanea fatica della pedalata - ma voi direte: "è il ciclismo, bellezza!" - giornate a loro modo indimenticabili.
Partite, senza paura: racconto di un viaggio in Patagonia
Quando Mario Conti, guida alpina, Ragno di Lecco, ha chiamato Stefania Valsecchi, ha detto solo poche parole: «C'è un viaggio che fa per te». Di fatto, Stefania ed Eleonora Delnevo si sono conosciute in questo modo e, da quel momento, sono diventate Steppo (Stefania) e Lola (Eleonora). Il viaggio di cui parlava Conti era, per l'appunto, il viaggio pensato da Lola Delnevo, anche lei alpinista, anche lei Ragno di Lecco, fino ad un brutto incidente nel 2015, proprio mentre scalava, che le ha fatto perdere l'uso delle gambe. «Il contatto con la natura è la cosa che più mi è mancata in questi anni. Le mie amiche, sapendo del mio legame con la montagna, hanno provato a spingere la mia sedia a rotelle anche nei sentieri fra i monti, ma io ho sempre voluto riprendermi la mia libertà. Volevo vivere quei posti in autonomia. All'handbike sono arrivata così». Sì, proprio lei che ammette di aver usato ben poco la bicicletta nella sua vita, più che altro per andare a scuola, è arrivata al ciclismo nel momento in cui di una bicicletta aveva più bisogno.
Il punto è che, avendo viaggiato molto per il mondo, con quell'handbike non ha pensato a un viaggio semplice, ma ad uno dei più complessi, come quello sulle strade della Patagonia. «Non sapevo come sarebbe andata, però, troppo spesso, ci si ferma ai dubbi, a quel che si ha il timore di non riuscire a fare, non volevo finisse così quest'idea. Ora lo so per certo: meglio partire, in ogni caso». Stefania, in quel viaggio, l'ha accompagnata, con un'idea ben precisa: affiancarla mentre quella fantasia diventava realtà. «Ho viaggiato tanto in bicicletta e mai ho iniziato a pedalare solo per pedalare- spiega Stefania- ho sempre voluto che il viaggio avesse un senso, qualcosa in grado di restare anche al ritorno a casa». Negli anni, Stefania ha attraversato l'arco alpino in omaggio al periodo in cui Lecco era città alpina dell'anno, con tante cartine, sola all'inizio, in compagnia alla fine «perché, quando sei in bicicletta, qualcuno incontri sempre, qualcosa condividi sempre», ha unito Monte Bianco, Gran Sasso ed Etna tra bicicletta e camminate, per una promessa fatta al medico che la operò dopo un incidente, proprio mentre era in sala operatoria, è andata sull'Olimpo nel 2020, l'anno in cui si sarebbero dovute tenere i Giochi Olimpici di Tokyo, poi rimandate a causa della pandemia ed il primo gennaio 2023 è partita con Eleonora per la Patagonia: in programma 1500 chilometri per attraversarla, 1200 in bicicletta.
Patagonia vuol dire steppa, arbustelli spinosi, paesaggio inospitale, a tratti monotono, e, soprattutto, un vento forte che sposta anche le macchine che, all'interno, talvolta hanno incudini per fare peso, per ancorarle a terra. C'è il colore caffè e latte e il profumo dell'asado, la carne tipica argentina: «Quando arrivavamo in un villaggio, magari dopo giorni senza nemmeno la possibilità di comunicare per la mancanza di rete, respiravamo quel profumo e quasi ci sentivamo in famiglia. Basta poco quando si è lontani». Eleonora scopre dal basso quella natura che era abituata a vedere dalle rocce, una prospettiva invertita: «Non è stato facile tornare a prendere contatto con le montagne dopo l'incidente, ma il viaggio è la mia dimensione. Il mio modo di stare bene e ritrovare la portata umana che stiamo perdendo, sciolta nella velocità, nella liquidità di ogni cosa». A questo valore da ricercare, Delnevo aggiunge una precisazione: «Spesso, quando c'è una disabilità, si pone attenzione alla persona e a ciò che fa in quanto disabile, non in quanto persona. Il viaggio è anche un modo per ricordare di interessarsi e di parlare sempre e solo delle persone. Poi ci sono vari modi di fare le cose, ma il modo si trova, si cambia. La persona è il punto fermo».
Si segue la rotta della "Ruta 40", da El Chaltén, El Calafate, le Torri del Paine, il parco Nazionale connesso, la Bahía Inútil, il Lago Fagnano e via. Talvolta si devono usare mezzi pubblici, pullman, perché non è proprio possibile pedalare ma anche in quelle occasioni il fatto di essere in bicicletta è un modo di riconoscersi. Stefania racconta: «Quando due ciclisti si incontrano, si fanno la festa, si spostano dall'altro lato della strada a salutare, si abbracciano, si commuovono talvolta. Fare lo stesso viaggio, vuol quasi dire conoscersi: è significativo». Forse per questo motivo due ragazzi portoghesi che stavano percorrendo la "Ruta" con delle motorette, non hanno esitato a dare delle bottigliette d'acqua a Steppo e Lola che, quel giorno, erano quasi rimaste a secco. Forse per questo Monica, una automobilista, il secondo giorno di viaggio, ha trasportato le borse di Stefania, danneggiate da un incidente, al villaggio più vicino, per ripararle con fil di ferro, nastro adesivo e fascette, permettendo a Stefania ed Eleonora di pedalare più agevolmente in un vento particolarmente insistente. Certamente per questo, ancora oggi, Delnevo e Valsecchi sono in contatto con i viaggiatori incontrati in quei giorni: «Non importa che lingua parli, in un modo o nell'altro ti capisci, ti fai capire». Viaggiatori che vengono da tutto il mondo, che, ancora oggi, stanno continuando i loro viaggi e chissà dove arriveranno. Nel ricordo, anche il sorriso con cui gli abitanti di quelle terre accolgono, la costante voglia di rendersi utili, di ascoltare ogni domanda e di rispondere con gentilezza anche alle più scontate.
Quando in Patagonia era l'alba, in Italia era mezzogiorno e i bambini della scuola elementare in cui Stefania insegna erano in aula: un collegamento via internet, uno schermo e quei bambini ascoltavano quelle due viaggiatrici raccontare la loro giornata, spiegare la geografia e la storia. Chiedevano, guardavano, si interrogavano ed esercitavano la curiosità, via maestra per imparare. In questo modo, la Patagonia è restata nelle loro menti e, anche oggi, ne parlano.
Venticinque giorni di viaggio, diciotto effettivi di pedalate, una conoscenza che continua e si intensifica col passare dei chilometri, con l'adattarsi alle reciproche esigenze che sono, poi, la cifra di un viaggio condiviso: Stefania che in bicicletta non si ferma mai, nei tratti più difficili aspetta Eleonora, torna indietro, “a prenderla”, quando la sua handbike rende più difficoltosa la percorrenza, Eleonora che non dubita nemmeno per un momento del fatto che ce la faranno, che arriveranno, che spinge con in quelle braccia una forza assurda e che, per ogni problema, vede solo la soluzione. Eleonora e Stefania, due donne in viaggio, che, alle Torri del Paine, si sentono immerse in un quadro: il verde acceso della vegetazione, il blu cobalto del cielo e il ghiaccio così bianco da sembrare una meringa.
Anche il ritorno a casa è una scoperta, anzi, una riscoperta: delle proprie comodità, delle proprie piccole abitudini, che ora hanno ancor più valore, proprio perché si è vissuto altro, si è appreso altro.
Eleonora sorride, ride di gusto e riprende a parlare: «Partite, senza paura. Solo provandoci, scoprirete quanto è bello sapere di esserci riusciti». Quella bellezza che prende il nome di stupore, di meraviglia.
Cape Epic: questione di autenticità
Keegan Swenson è certo che, in bicicletta, serva solo essere quel che si è, fino in fondo. Potremmo dire che Swenson creda alla verità di una bicicletta o, forse, che creda alla verità che ogni persona può raccontare: in sella oppure giù dalla sella. Lachlan Morton dice qualcosa di simile: quando racconta che l'idea di correre la prossima Cape Epic, dal 19 al 26 marzo, con Swenson, lo ha preoccupato, innervosito perché "Keegan è un fuoriclasse e io non sono sicuro di esserne all'altezza". Di più: Lachlan Morton spiega di aver avuto timore e proprio il fatto che lo ammetta fa parte di quell'autenticità che Swenson cerca. Importante è soprattutto che, facendo leva su quel timore, su quella paura, considerando quello stato d'animo, dandogli valore, Lachlan Morton abbia accettato la proposta di Keegan e, in Sud Africa, correrà al suo fianco.
Quella di cui parla Morton è una sorta di proprietà della paura che, se riconosciuta e fronteggiata in un certo modo, può diventare un moltiplicatore di bellezza: "Ho detto sì proprio perché mi sembrava una prospettiva scoraggiante, perché ero nervoso e preoccupato". Perché, aggiungiamo noi, dietro questi timori c'è la possibilità di provare ancora qualcosa di nuovo, addirittura di inesplorato: essere messo in difficoltà come via per andare più a fondo, per scoprire un'altra profondità in quello che si fa. Questo è il significato di quello spontaneo: "Non ero mai stato così nervoso prima di una gara, è bello".
Gli ultimi mesi di duri allenamenti del duo Morton-Swenson si sono mossi in questa prospettiva, con sullo sfondo il Sud Africa: rocce, polvere, sabbia, terra, una vegetazione diversa da conoscere, con cui entrare in sintonia per riuscire a conviverci, per arrivare fino in fondo e fare bene. Il meglio possibile. Si parla di podio e, quando si parla di podio, neanche troppo velatamente si parla di vittoria, almeno di una o due frazioni. Sarà certamente una fra le coppie da attenzionare: pare che Lachlan apporterà le proprie conoscenze tattiche e Keegan la propria esperienza. Dal canto loro, quando potranno, rivolgeranno l’ attenzione alle altre coppie sul percorso, soprattutto a quelle meno note e, ancor di più, a coloro che saranno lì con il solo desiderio di completare la prova, di arrivare al traguardo. Anche questo ha a che vedere con la verità di una bicicletta, con la verità di chiunque pedali: può essere bella, talvolta ancor più interessante, pure la storia di chi non chiede altro che provare e serve molta autenticità per questo.
La stessa dell’essere sfatti dalla fatica, dalle energie che non si recuperano, dalle cadute e dagli errori che, comunque vada, alla Cape Epic faranno tutti. Vincere non sarà questione di mancanza di errori, sarà, semmai, questione della capacità di riparare agli sbagli, propri e del proprio compagno. Swenson e Morton ci faranno divertire.
Strade Bianche, facce sporche
E finalmente Strade Bianche. Una corsa che unisce la meraviglia del territorio toscano con la difficoltà tecnica dell’affrontare ripide salite e poi discese, a volte in sterrato, a volte no, seppure uno sterrato battuto, ma che appare rotto in alcuni tratti; il vento che se spira è un accidenti mandato contro i corridori e poi quel finale che se non bastassero le ore precedenti di fatica ti costringe a un ulteriore sforzo per arrivare lassù in cima, in piazza, semplicemente in "Campo", dove un boato accoglie i vincitori.
Di nuovo Strade Bianche: chiudere la corsa con gli occhi che lacrimano, i polmoni che bruciano, le gambe indolenzite, gli sforzi per stare a ruota e recuperare il buco fatto da quello davanti, e la speranza che una volta tanto la sfortuna guardi da un’altra parte. Tra vere e proprie voragini che all’improvviso si presentano sotto la ruota davanti e il complicato muoversi “in the bunch” come dicono gli inglesi, qui ne è pieno, nella pancia del gruppo. Nervoso. A tutta.
Di crete senesi oppure della genialità di una corsa che in pochi anni ha acquistato un livello tale da meritarsi appellativi che non stiamo qui a ripetere, così come non staremo qui a ripetere chi manca e perché: tra infortuni, malanni, scelte di calendario qualcuno è assente, ma come sempre un solenne chi se ne frega, di gente da vedere ce n’è.
Da Pidcock a van Vleuten, da van der Poel a Kopecky, passando per Persico, Benoot, Ludwig o Bettiol. Voi per chi tifate? Tanti altri: tra outsider e nomi che si nascondono pronti a spuntare. Voi per chi tifate, quindi? Noi per lo spettacolo, per una attacco da lontano, una sgasata, ci apposteremo ovunque per esempio lungo le rampe di Monte Sante Marie, tra strade battute oppure polvere, o perché no più avanti quando gli ulivi saranno contorno fino a sembrare statici tifosi imbambolati davanti allo scatto di Valter oppure a quello di Bertizzolo.
Strade Bianche: un concetto astratto che diventa corsa, che lo puoi imitare, ma nulla può ricordare la Toscana: castelli e tenute, casolari e cortili. Arrivando verso Siena su una parete quasi verticale abbiamo visto pure degli alpaca, (o era un'allucinazione?) sorseggiato vino, mangiato formaggio, ci siamo fatti rapire dalle crete, dal giallo e dal verde. Abbiamo chiuso gli occhi e il cielo in un attimo si è ricoperto di nuvole bluastre. A un certo punto andavamo così piano che abbiamo creato coda dietro e ci siamo fatti superare dall’ammiraglia della Soudal QS e volevamo chiedergli: ma Alaphilippe, come sta? Abbiamo chiesto anche a Sagan come stava, banalmente, ma lui ha risposto con il suo solito modo sprezzante.
Strade Bianche, domani sarà come sempre uno spettacolo.
Mettersi in gioco: intervista ad Arianna Fidanza
All'orario prefissato, quando le telefoniamo, Arianna Fidanza è in aeroporto dopo la caduta nei chilometri conclusivi di Le Samyn des Dames: sta per tornare a casa per accertamenti riguardo una possibile frattura del setto nasale.
«Te la senti? Possiamo rimandare, se vuoi».
«No, no, chiacchiero volentieri».
Partiamo. Vorremmo parlare subito di domenica, della sua azione alla Omloop van het Hageland, ma il pensiero va per forza di cose alle cadute: «Per fortuna, non so perché, ma quando sono in corsa non ci penso, altrimenti credo che le cadute, soprattutto negli ultimi anni, mi avrebbero bloccata a livello psicologico nelle volate. Quando pensi, perdi l'attimo. In ogni caso, a ventotto anni, nonostante si sia ancora giovani, non si sprinta come a diciotto: me ne sto rendendo conto». La giovinezza di Arianna Fidanza sta tutta in quel "mettersi in gioco" che ripete diverse volte durante il nostro dialogo.
«Vuol dire essere disposti a fare scelte "scomode": la fuga di domenica, ad esempio. Vuol dire non sedersi nelle situazioni: il cambio di squadra. Forse sarebbe stato più facile rinnovare con BikeExchange, perché abbandonavo qualcosa che conoscevo per qualcosa di completamente nuovo. Vuol dire essere disposti a ricominciare “senza se e senza ma". Vuol dire, soprattutto, cercare di vedere chiaramente quel che si vuole e non farsi spaventare dalla fatica aggiuntiva, in termini fisici e mentali, che serve per raggiungerlo. Non rinunciare». Già, la fuga di domenica. Fidanza non avrebbe nemmeno dovuto essere in gara, tuttavia un cambio di programma all'ultimo e gambe che stavano particolarmente bene, l'hanno portata a seguire l'azione di Allison Jackson. Una fuga a due, difficile, per cui ripartirebbe subito: a costo di spingere a tutta, come ha fatto e come bisogna fare in queste occasioni.
Ad un certo punto, lei e Jackson si parlano, Fidanza le mette una mano sulla spalla: «Vedevo che sugli strappi faticava. Sapevo che l'azione l'aveva promossa lei e ho voluto parlarle: "Stai tranquilla, non cerco di staccarti. Andiamo assieme all'arrivo, poi vediamo cosa succede”. Lei ha capito, mi ha ringraziato. Da qui la mano sulla sua spalla». La fuga è stata ripresa, «forse avrei potuto aspettare la volata, ma Wiebes è più veloce di me. Ho voluto prendere in mano la situazione, non subirla. A prescindere dal risultato». Ha aiutato anche l'ambiente, il Belgio: una nazione che ha conosciuto bene quando correva in Lotto Soudal e per cui prova un'istintiva affinità. Una terra in cui sogna di poter vincere una gara importante.
In tutto quello che è cambiato, qualcosa è rimasto e non era scontato. «Ho sempre avuto una forte sensibilità e, nonostante tutto, le difficoltà non l'hanno scalfita. Anche in corsa: provano a dirmi di "spendere di meno", ma non ce la faccio. Sento di voler fare e, per come sono fatta, devo fare, altrimenti non sono a posto con me stessa». Quella stessa sensibilità che, dalla nascita della sorella Martina, l'ha portata a dirsi che avrebbe voluto proteggerla "dalla sofferenza che si prova". Oggi, dice che in molti casi è stata proprio Martina a proteggere lei, ma l'intenzione è sempre la stessa: «Quando siamo in corsa, mi chiedo sempre: "Dov'è mia sorella?". Ora corriamo in un'unica squadra, ma accadeva anche quando eravamo in squadre diverse. Se hai una sorella in gruppo, la cerchi. Hai preoccupazioni doppie, per ogni dettaglio, ma anche doppio sostegno. Negli ultimi anni, Martina ha vinto più di me, qualcuno mi ha chiesto se ci fosse gelosia, invidia. No, anzi, dirò di più. Lei ha uno spunto veloce migliore del mio: vorrei mettermi a sua disposizione per aiutarla a vincere».
Un legame forte, come quello con la famiglia. E, proprio con la famiglia, ha a che vedere, quella che definisce, la cosa più difficile del suo lavoro: partire quando a casa qualcosa non va. In quei momenti, vorrebbe scordarsi di essere una ciclista. Cosa di cui, racconta, non si scorda praticamente mai, perché non è un lavoro di cui ci si possa dimenticare, neppure per poco, nemmeno in vacanza, forse.
«Ho bisogno di staccare, di focalizzarmi su altro, e, per farlo, mi basta davvero poco, non cerco molto. Però penso sempre al fatto che il mio mestiere è il ciclismo. Questa estate, avrò fatto dieci giorni di vacanza, forse, eppure pensavo spesso: "Avrò perso la forma? Come dovrò fare per recuperarla?". La mente mi riporta sempre lì».
Poche settimane fa, la vittoria a Costa De Almeria, parte di un percorso che le ha permesso di tornare ad alzare le braccia al cielo, perché proprio quest'anno, in Ceratizit, è avvenuto uno dei più grandi passi avanti che Arianna Fidanza si riconosce: «Mi sento cresciuta a livello atletico, soprattutto perché sono tornata a sentirmi nel vivo della corsa. Quello che volevo quando ho deciso di rimettermi in gioco».
L'aereo, il volo ed il ritorno a casa. Ma Fidanza, fra tutte le altre corse, aspetta soprattutto il Belgio perché in Belgio vuole fare realtà del suo sogno più grande.
Diario dall'Alaska: la mente ed il fuoco
28 Febbraio 2023Willy Mulonía,UltracyclingAlaska
Qualche giorno fa, Willy Mulonia era ancora in quel bosco di abeti neri e betulle, di quel grigio monotono che, in Alaska, torna a ripetersi di continuo, senza stacchi. Era in quel bosco di alberi, che definisce anime perse, per provare la partenza di Iditarod Trail Inviitational, con il fratello Tiziano: quarantacinque chilometri e la neve che cade incessantemente dalla mattina. Il fiato smorzato dal freddo e il ricordo che, l'anno scorso, quello stesso tratto l'aveva percorso in quattro ore, quest'anno ce ne sono volute otto. Quando Willy inizia a parlare, la prima considerazione è tagliente: «Se ci pensassi, sarebbe un disastro, una catastrofe». Ma, per fortuna, non è tutto qui e Willy Mulonia, nel tempo, l'ha compreso bene. Si tratta di un segreto nella gestione delle esperienze: «Non bisogna mai paragonare e di conseguenza mai giudicare. Un binomio fondamentale perché la mente ha un ruolo importantissimo in questi casi. L'anno scorso in questo tratto, su questa salita, stavo pedalando, ora sono a piedi e spingo la bicicletta. Quante cose sono cambiate? Più torno in Alaska, più capisco che le cose cambiano. Più passano gli anni e il cambiamento diventa una realtà con cui interfacciarsi perché, all'improvviso, impieghi molto più tempo per fare cose che, prima, facevi in velocità, naturalmente». Già, il cambiamento a cui bisogna saper dare la giusta lettura per riuscire a continuare. Willy Mulonia questa lettura la divide in tre fasi.
Si riconosce il cambiamento, si accetta la realtà modificata e, soprattutto, si cerca di far sì che questo nuovo aspetto delle cose possa giovarti, in qualche modo. «Non puoi parlare alla mente in maniera negativa, perché il cervello non recepisce questo messaggio. Se ti chiedo di non pensare ad un elefante rosso, tu ci pensi. Se all'inizio di questa salita, mi dico di scendere di sella perché non ce la faccio, mi sto parlando male. Invece devo parlarmi bene: scendo di sella per risparmiare energie. Si tratta di un dovere che abbiamo tutti». Intanto là, in fondo, c'è Tiziano che ha girato la bicicletta e sta aspettando Willy, per andare assieme alla cabin che è «posto di giubilo, di felicità, di premio, di ricompensa dopo la giornata». Nella tormenta, ci spiega Willy, si forgia il carattere, nei momenti di calma si accresce il potenziale e questo, nonostante la fatica, è un momento di calma, perché la gara non è ancora iniziata: un allenamento del genere ha permesso di ripassare i punti forti della propria capacità, delle proprie abilità. Si impara, è questo il punto: un banco di scuola in cui nessuno insegna, al massimo qualcuno aiuta ad imparare. E quel temperino, che è l'Alaska, forgia la matita che poi scriverà. La matita è sempre Willy che si parla in positivo, senza giudizio. Magari pensa al mare.
Adesso sta smettendo di nevicare, un altro premio, dopo la fatica. Piano piano si va verso l'uscita del bosco, verso Butterfly Lake: «Il bosco è spesso vissuto come groviglio, come luogo di estrema difficoltà, invece, se sai parlarti bene, il bosco è un luogo di sicurezza, perché, appena ne esci, il vento soffia forte, ti castiga, ti punisce. Nel bosco puoi ripararti, l'animale ferito va nel bosco per curarsi e l'uomo nel dolore dovrebbe camminare nella natura. Come il lupo, il bosco non è pericoloso, è, ad esempio, il luogo dove trovi la legna per il fuoco». Sì, il fuoco. Per Willy Mulonia è vita e morte, è sicurezza, calore, ma anche rischio, pericolo fuori controllo, è rinascita e distruzione. Anche la forma delle fiamme che, dalla grande base, ballano, spingendosi verso l'alto, sembra quasi una divinità.
Willy, Tiziano e Roberto si ritrovano insieme e ognuno ha un suo compito, qualcosa che gli riesce naturale, che lo contraddistingue: Tiziano si occupa del meteo, Roberto della traccia e Willy si prende cura proprio del fuoco. Anche in estate, quando è nella natura, osserva le piante, la loro corteccia, il luogo ideale per costruire un giaciglio o per accendere una fiamma, con un cerino, come gli ha sempre detto un suo caro amico che oggi non c'è più: «Dai, fammi vedere se sai accendere un fuoco con un cerino». A questo scopo, sono quattro i kit che Mulonia ha portato: quei cerini sono sapientemente protetti dalle intemperie. Uno di questi kit lo tiene addosso, «nel caso in cui la bici dovesse finire in acqua. So dove li ho, non devo cercarli. Sono una sicurezza».
L'accensione del fuoco è un rito, la prima cosa che Willy Mulonia fa, dopo essersi ben coperto, per tenere al caldo il corpo e ascoltarlo raccontare ogni gesto a tal fine è come una storia: il momento dell'arrivo, la ricerca del posto migliore, la neve che viene spostata, la pulizia della base del pino, controllando che sopra non ci sia neve, fare un tetto, il taglio dei rami, l'isolamento del luogo dove ci si sdraierà la notte e i materassini pronti. «Non troppo lontano dal giaciglio, preparo un buco nella neve, una base con dei tronchetti di medio taglio, utilizzando una catena di una motosega con due maniglie al fondo, e sopra metto la corteccia delle betulle che inseguo ovunque con gli occhi, pensando a quanta potrei prenderne per il mio fuoco». Così, attraverso la legna accumulata dal taglio e dalla pulizia delle piante secche, si nutre il fuoco. Lì, ci si riunisce, un whisky a sera, qualche parola, poi si va a dormire e il fuoco, lentamente, si spegne durante la notte. Quel fuoco, in Alaska, è, per Willy, Tiziano e Roberto, focolare domestico dove si riunisce la famiglia. Quelle fiamme ipnotizzano, come l'acqua del mare, di un fiume o la vita di un bambino che è appena nato, il suo movimento.
Ora ha proprio smesso di nevicare, la cabin è lì, vicina, la giornata è finita: un cerino, una striscia per sfregarlo e il suo suono. La concentrazione dell'attimo in cui bisogna far partire la prima scintilla, il primo scoppio, perché non si può sbagliare: «Se pensi ad altro, non accenderai mai il fuoco. Se vuoi dar vita a una divinità, non puoi sentirti più importante di lei. Il fuoco ti salva, il fuoco ti distrugge. Tutto qui».
Sì, tutto qui, almeno per oggi. Il 26 febbraio è partita l’avventura di Iditarod Trail Invitational e da lì, per Willy, ci saranno ancora pagine di diario da riempire.
Alvento + Fantacycling? Trofeo Monumento
27 Febbraio 2023CorseMonumento,Alvento,Fantacycling
Ci perdonerete, ma non sapremmo esattamente dirvi con certezza quando per la prima volta nella storia della narrazione ciclistica apparve il termine Monumento riferito a 5 delle più grandi, nel senso di importanti, classiche del Ciclismo Mondiale.
Le elenchiamo che non si sa mai:
Milano-Sanremo;
Giro delle Fiandre;
Paris-Roubaix;
Liegi-Bastogne-Liegi;
Giro di Lombardia, ormai da qualche anno diventato Il Lombardia.
Gusto antico quelle delle classiche: che potrebbe essere il nome di una gelateria artigianale.
Dall’Italia, il 18 marzo Milano- Sanremo, corse imprevedibile e che divide sempre tifosi e addetti... all'Italia, Il Lombardia 7 ottobre, una delle più dure corse del calendario, passando per le pietre fiamminghe, quella con i muri e poi quelle più indecifrabili al confine tra Belgio e Francia. E in mezzo pure quella con le côtes valloni a premiare perlopiù corridori resistenti alle infide fatiche che lasciano nelle gambe le colline ardennesi.
Ma il punto del discorso è un altro, non di certo spiegarvi cosa sono le corse che più di ogni altra aspettano i tifosi di tutto il mondo.
Il punto è un altro: quest’anno abbiamo deciso, in collaborazione con i ragazzi di Fantacycling di premiare i fantagiocatori che, partecipando al Fantaciclismo sulla loro App, otterranno il miglior punteggio nell’evento speciale "Trofeo Monumento" (Regolamento)
Ai primi 3 classificati di ogni singola gara Monumento verrà dato in premio la nostra welcome box, mentre a chi vincerà la challenge Trofeo Monumento, ovvero quei giocatori che avranno totalizzato il miglior punteggio al termine delle cinque grandi corse di cui è composto il torneo:
18 mesi di abbonamento alla nostra rivista cartacea al 1° classificato, 12 mesi al 2° e 6 mesi al 3°.
Per partecipare basta scaricare l’App seguendo i link nel sito di fantacycling oppure su Google store e Apple store e una volta fatta la vostra squadra non vi resterà che schierare i vostri corridori e... via.
Possono partecipare tutti, sia chi inizia appositamente per il Trofeo Monumento, sia chi già è in corsa da inizio stagione. Dubbi? Ecco il regolamento: https://fanta-cycling.com/regolamento
E insomma... seguire le cinque monumento, quest’anno non sarà solo stare sul divano e muovere il dito sul telecomando e fare esercizio alzando la pinta e bevendo birra; non sarà mica solo pedalare le rispettive gare amatoriali, o seguire la corsa lungo la strada, no, qui c’è in gioco la possibilità di vincerle… grazie ad Alvento e a Fantacycling… un affare serio… come tutti i giochi.
Si parte! Iscrivetevi e ci vediamo in game!
PS se volete parlarne con noi seguiteci nel nostro gruppo Telegram: https://t.me/+ePN4JFpjo3YwNDhk
Oggi pilota Søren Wærenskjold
17 Febbraio 2023CorseJakobsen,Kristoff,Søren Wærenskjold,Volta ao Algarve
Ci sarebbero molte cose a cui pensare a inizio stagione, esistono delle priorità. Prendete la Volta ao Algarve, corsa di preparazione in Portogallo che vede al via nomi di un certo spessore e che ieri, nella prima frazione, ha visto la sfida tra alcune delle migliori ruote veloci del “mondo”. Almeno quello della bicicletta.
Ci sono delle priorità, e una corsa di preparazione lo è per definizione: e quindi si cerca l' affiatamento tra compagni di squadra, soprattutto in volata, il colpo di pedale che ti terrà compagnia fino a fine stagione.
Uno strappetto nel finale ha messo in difficoltà Jakobsen così come sembra complesso il rapporto con queste ultime due stagioni (una e un po’ diciamo, visto che questa è appena iniziata) di Michael Mørkøv, che pare abbia perso - fisiologico - lo spunto che lo ha reso fino al 2021 se non il più forte pesce pilota in tempi recenti, probabilmente uno dei due più forti (si accettano suggerimenti per capire chi è l’altro).
E allora dopo lo strappo, Jakobsen - quest’anno la Quick Step, in versione Soudal, ha preso Casper Pedersen per stargli vicino, ma il danese non è un semplice lead out, quanto uno che va forte anche sulle pietre e sugli strappi, e potrebbe anche essere una delle sorprese della stagione, su al Nord; e insomma Jakobsen con le gambe un po’ in croce, come si direbbe in quei momenti, che probabilmente dopo quella faticaccia non sarebbe nemmeno riuscito a riprodurre un passo di danza, sembrava recuperare ma non con il solito brio che ci aspetta dal fortissimo olandese, campione europeo in carica, pareva quasi di vederlo al rallentatore: chiuderà quarto, nemmeno troppo male considerato dove si trovava a un chilometro dalla conclusione.
Davanti al gruppo erano le maglie giallorosse della UNO-X Pro Cycling a farsi vedere non solo brillanti dal punto di vista cromatico, ma anche dell’accelerazione, dell’enfasi, della capacità di farsi trovare pronti in attesa di quello che sarà per loro il picco da quando sono diventati una squadra Professional: correranno il Tour de France 2023, ma prima ci saranno altri appuntamenti interessanti.
E insomma davanti tirano la volata per Alexander Kristoff, sbarcato quest’anno (in Norvegia si dice pure non-senza-polemiche) con la squadra più rappresentativa della storia della sua nazione, una squadra che ogni anno pensa sempre più in grande (Foss l’anno prossimo? e magari tra un paio Vingegaard? Voci…) e per vincere Kristoff sfrutta uno che è pure più grosso di lui, che è più giovane di lui e che va ugualmente forte da pilotarlo e chiudere terzo: Søren Wærenskjold.
Nella foto è quello in secondo piano con una dentatura quasi perfetta, mentre il fuoco è tutto, logicamente, su Kristoff. Il suo nome, Søren Wærenskjold, è più facile di quello che sembra da memorizzare. Mettete a fuoco il suo nome e le sue caratteristiche: se non lo avete fatto, iniziate da oggi. Pardon da ieri, prima tappa della Volta ao Algarve.
Diario dall'Alaska: Love Joy Drive
17 Febbraio 2023Willy MuloníaUltracycling
La pelle di Willy Mulonia è una cartina geografica. I primi a scoprirlo sono stati i figli di Willy che, sin da bambini, hanno dato un altro nome alla vitiligine che ha colpito il tessuto cutaneo del padre. Così, seduti sulle sue ginocchia, abbracciandolo, esploravano quella carta geografica e, dall'altra stanza, li sentivi gridare: «Questa è la Patagonia! Questo, invece, l'Alaska!» e così via, in una geografia tutta loro. Willy, che in quei giorni stava facendo i conti con la convivenza con la vitiligine, trovava in questo gioco il modo migliore per accettarla: su quella pelle, alla fine, qualcuno poteva vedere il mondo, anche quello talmente lontano che, in una sera di alcuni anni dopo, a cena, ha fatto chiedere al figlio: "Papà, perché torni in Alaska?". Il nostro "Diario dall'Alaska" parte proprio da questa risposta, mentre lì è già mattina, Willy Mulonia si sta allenando per Iditarod Trail Invitational e dal cielo è caduto un metro di neve in appena tre giorni.
«Potrei dire che ci ritorno per un fatto estetico, perché mi piace, ma non avrei detto tutto. Ritorno, soprattutto, perché è il mio luogo nel mondo, quello in cui ritrovo me stesso. Qui non c'è la mia famiglia, eppure quando sono qui mi sembra di non essermene mai andato. Tutto riparte da capo, dal punto esatto in cui si era interrotto». Ogni volta, però, è diversa, perché diverso è il viaggiatore anche se si tratta sempre di Willy, lui che quest'anno ha avuto un timore nuovo, un nuovo dubbio: «E se l'Alaska, questa volta, dovesse spaventarmi già dai vetri dell'aeroporto?». Una domanda a cui non c'è risposta razionale, almeno sino all'arrivo, ma a cui anche i sogni della notte provano a dare tranquillità. Un sogno nuovo che lo riporta a un vecchio viaggio, quando, anni fa, in Amazzonia, una famiglia ha accolto Willy per molto tempo e, prima che ripartisse, il padre lo ha preso da parte: «Vedi questo tatuaggio che abbiamo tutti noi sul collo e sul viso? Indica l'appartenenza a questa casa, a questa famiglia. Vorremmo inciderlo anche sulla tua pelle, in modo che, ovunque sarai, saprai di appartenere anche all'Amazzonia. Pensaci questa notte, domani ci dirai». Non fu una notte facile per Mulonia che, al mattino, rispose forse nell'unico modo possibile: «Non posso, nonostante vi sia grato per questa idea. Non posso perché non starò qui ma tornerò a casa, in un altro paese lontano e le persone di quel paese non capirebbero. Nemmeno io riuscirei a spiegare tutto questo». Ancora oggi, Willy pensa a quel giorno, riflette e si chiede se abbia fatto davvero bene a rispondere così, però, qualche notte prima del volo aereo ha sognato un’accoglienza simile da parte delle persone che vivono in Alaska e, probabilmente solo allora, si è sentito davvero tranquillo, davvero pronto.
I bagagli, i voli aerei, le nuvole dall'alto in basso e di nuovo la terra, via verso una casa che, da sempre, ospita Willy, suo fratello Tiziano e Roberto Gazzoli, a dieci giorni da Iditarod. Le indicazioni portano in Love Joy Drive, dove c'è quell’abitazione: «Solo la via, con le parole amore e gioia, sembra un’apoteosi del viaggio. Anche se so cosa c'è là fuori: il freddo, il gelo, il ghiaccio, il buio e le alci che sono un pericolo da queste parti. C'è la fame, la sete, la sofferenza e il dolore. C'è anche la possibilità di ritrovarsi, di tornare avendo aggiustato qualcosa dentro». Willy Mulonia porta l'esempio del temperino e della matita: è un atto ruvido il temperare la punta, ma necessario. E le punte temperate non servono solo alle matite per scrivere, pure agli uomini per vivere. L'Alaska è il temperino e Willy è esattamente dove vuole essere. Willy e Tiziano, fratelli da sempre, che da queste parti diventano ancor più fratelli. Si guardano come non si guardano mai, si parlano come non si parlano mai, si ascoltano allo stesso modo e si dicono cose che, senza l'Alaska, non si direbbero.
Mentre parliamo, in sottofondo, la radio trasmette una canzone di Ornella Vanoni e Mulonia ci dice che è la sua musica preferita prima di eventi di questo tipo. Soprattutto quando c'è la malinconia delle cose che succedono e non dovrebbero succedere. L'altro ieri, sulle sponde del lago Shell, sul percorso di IditaRod, c'è stato un incendio. A bruciare è stato Shell Lake Lodge, un rifugio per tutti coloro che percorrono le strade dell'Alaska, un luogo dove gli "Angeli del Trail", così li chiamano da queste parti, aspettano i corridori e li assistono con molta umanità. Dove c'è Zoe, che gestisce il rifugio da molti anni: una signora che Willy e Tiziano hanno anche aiutato con dei lavori, in cucina, per permetterle di muoversi più comodamente. Una signora che oggi il pensiero non vuole non proprio lasciare: «Sarà triste passare da quelle parti e non poter entrare in quel rifugio. Però, su gofoundme, c'è una racconta di fondi per Shell Lake Lodge, tutti possono fare qualcosa affinché il brutto lasci un poco di spazio al bello della solidarietà. Quest'anno cercheremo un altro rifugio, ma a Zoe continueremo a pensare perché il dolore di una persona lungo il trail è sostenuto e compreso da chiunque, almeno una volta, sia passato di lì».
Intanto, con quella musica nell’aria, si preparano i pacchi che, entro sabato 18 febbraio, verranno inviati dall'organizzazione nei vari villaggi per i ciclisti che arrivano. «Se i ciclisti arrivano, bisogna aggiungere. Anzi, se arriveremo. Ma, anche nel caso in cui non arrivi nessuno di noi, quei pacchi non saranno stati spediti invano, perché verranno aperti dagli altri concorrenti e sarà comunque bello. Anzi, aprire un pacco che non sei stato tu a preparare è ancora più emozionante, quasi come scartare un regalo. Non sai cosa c'è dentro, ti sorprendi ogni volta».
Willy e Tiziano sono pronti, domenica arriverà Roberto, e l'Alaska sarà ancora il filo rosso che li unisce. Nell'ultimo anno, sono stati assieme, come in questi giorni, tre volte e tutte e tre le volte c'era qualcosa che aveva a che vedere con questa terra, fredda e lontana. Hanno scelto il loro nome: "Itialians". ITI come l'abbreviazione di Iditarod Trail Invitational, il resto, invece, è un richiamo all'origine, all'Italia, luogo in cui torneranno dopo che l'Alaska avrà affilato le punte delle loro matite. Sempre uguali e sempre diversi. Il viaggio è appena iniziato.
Quando la fatica è fuori controllo: una riflessione con Mattia De Marchi
15 Febbraio 2023UltracyclingMattia De Marchi
Questa volta, partire era più difficile. Mattia De Marchi inizia più o meno così il racconto di Atlas Mountain Race 2023: 1300 chilometri e 20000 metri di dislivello, da Marrakech a Essaouira, in Marocco. Era più difficile soprattutto perché la partenza era la sera, alle diciotto, e, in tutte quelle ore, dal risveglio, i pensieri hanno modo di prendere forma: «Quando ti alzi la mattina e devi correre per partire, non hai quasi il tempo per riflettere su quello che stai facendo. Sul fatto, ad esempio, che resterai solo per alcuni giorni e potrà succedere qualunque cosa. Ora di sera, invece, ci rifletti e quel pensiero un poco ti segna». Tutte cose che, almeno nel caso di Mattia De Marchi, sono andate via dopo le prime pedalate, quasi come se il vero blocco fosse l'inizio, i primi metri, perché, poi, quelle sensazioni si conoscono bene, anzi si riconoscono come qualcosa di familiare e non c'è più tempo per pensare. Così De Marchi parte bene e per un paio di giorni scorda ogni cosa. In Marocco fa freddo, non solo sulle vette, anche nei paesi in cui ognuno cerca di mettersi a disposizione, di aiutare, laddove, forse, si conosce il vero Marocco «una terra che ha poco a che vedere con l'immagine che ne abbiamo noi, con la sua parte turistica, una terra a tratti scavata dalle difficoltà e per questo vera, reale. Uguale alla disponibilità di queste persone».
In quei momenti, per De Marchi anche dormire fuori da un negozio, in un sacco a pelo, con una temperatura vicina allo zero sembra perfettamente naturale. Eppure qualcosa di strano c'è: quando si mette a dormire, il respiro di De Marchi diventa affannoso e veloce. Ci si pensa per qualche istante e poi non più. Ma quel respiro è già un segnale del limite, della fatica. La fatica è pane quotidiano in eventi come questo: il suo sintomo più classico è il collo che cede, l'impossibilità di tenerlo alto, di guardare avanti. «Ho visto persone che mettono un rotolo di carta igienica sotto il mento per proseguire, qualcuno che usa la camera d'aria per aiutarsi a stare dritto, per poter continuare. Una cosa è certa: uno sforzo simile non fa bene al fisico, bisogna saperlo. E bisogna anche sapere che potrebbe arrivare il momento in cui l'unica cosa razionale sia quella di scendere dalla sella senza farsi prendere troppo da ciò che si sta facendo, pensando solo alla propria salute». Potrebbe sembrare naturale, quasi scontato, invece non lo è. Sarà una salita a svelare il fatto che quel giorno qualcosa proprio non va.
«Non riuscivo a incamerare il respiro, ma credevo fosse qualcosa di momentaneo dovuto allo sforzo. Invece no, anche in pianura avevo la stessa sensazione. Passava per qualche istante e poi tornava». In quel momento, De Marchi è in testa all'Atlas Mountain Race, la gara che ha cambiato Enough Cycling oppure, per dirla ancora meglio, l'ha fatto diventare ciò che è adesso: «La prima volta, io e Federico Damiani eravamo pronti fisicamente, ma totalmente inconsapevoli. Forse anche quello è stato un bene, forse anche per quello siamo arrivati alla stessa conclusione: alla fine, una bicicletta è tutto quello che serve per essere felici. Quello che intendo dire è che il legame con questa corsa è come un nodo, stretto. Per questo il pensiero di vincerla è potente».
Senza respiro, De Marchi telefona a Giovanni, suo amico, medico che corre in bicicletta: «Se ti sdrai, cosa provi? La stessa sensazione?». De Marchi si sdraia e si sente soffocare, Giovanni lo ferma: «Ritirati e vai a farti visitare, può essere un edema». Non c'è altro da fare e Mattia De Marchi scende effettivamente dalla sua bicicletta, si fa venire a prendere, va in ospedale: i controlli ribadiranno che di edema si è trattato. Solo oggi, diversi giorni dopo, De Marchi ci dice che si sente come prima di partire, si sente bene. «Non ho pensato minimamente alla gara e sono tornato a casa, non lo avessi fatto non so cosa sarebbe successo. Il Marocco resta dove si trova e Atlas tornerà a corrersi, ma, forzare troppo la mano, forse, avrebbe impedito a me di tornarci e di fare molte altre cose. Lo dico con forza perché non sono l'unico a cui è capitato: avete presente la tosse da cui sono affetti gli atleti, quella che spesso si nota nei video di queste gare? Non è qualcosa di grave, ma è comunque sintomo di qualcosa che non va, di qualcosa su cui porre l'attenzione per evitare problematiche peggiori». Il concetto è sempre quello di limite, tuttavia, quando si tocca la salute, quel limite diventa particolarmente importante. Si tratta di accettarlo, ma anche di fare qualcosa per evitare che si arrivi a quel punto, allo stare così male.
«Dei segnali ci sono, per me ci sono stati e forse avrei dovuto coglierli. Bisogna aumentare la conoscenza di questi sintomi, magari raccogliendoli fra gli atleti con delle ricerche. Con Giovanni vogliamo provare a fare così, dedicandoci alla prevenzione, perché a forza di tirare la corda non si sa mai cosa può succedere. Penso che oggi il tema sia questo, più che quello del sonno che, tuttavia, si continua a studiare». Per meglio spiegare il concetto, De Marchi porta un altro esempio, un problema che ha sempre alle articolazioni, durante le gare, probabilmente legato al fatto che pratica poca attività in palestra: «Ho chiesto a chi mi segue e mi hanno detto che ci sono allenamenti particolari per eliminare o ridurre questo problema. Ecco: bisognerebbe fare una cosa simile anche con altre problematiche, comprese quelle legate alle vie respiratorie».
Poi c'è una domanda che Mattia si è fatto, che Giovanni gli ha fatto: «E se in qualche occasione, lontano da tutto e da tutti, con un pesante malessere, fosse necessario avere un medicinale a portata di mano per tutelare la salute?». La risposta è complessa, però è bene darla: «Le parole su cui far leva sono due: "necessario" e "tutela della salute". Il ciclismo purtroppo ha pagato fortemente lo scotto del doping e si rischia di fare confusione: bisogna essere netti nel respingere a priori ogni pratica di quel tipo, che serva a potenziare le prestazioni, senza se e senza ma. Bisogna anche dire che il medicinale deve essere l'ultima via, in ogni caso. Ma se quel medicinale fosse indispensabile e non averlo causasse danni gravi? Sottopongo questa riflessione, nulla di più, ben cosciente del fatto che ci sia una forte tematica di responsabilità personale. Si potrebbe anche pensare di aumentare le ore di riposo, ad esempio. L'importante è pensarci».
Proprio perché ci ha pensato e ci sta pensando, De Marchi spiega che non ha timore nel tornare in corsa, forte di quella prevenzione che sta mettendo in atto: coprendosi di più o semplicemente imparando a fermarsi al momento giusto, fossero anche ore di pausa. Poi c'è la fatica bella, quella da elogiare, per esempio quella degli ultimi perché «so bene che chi percorre una gara di questo tipo in una settimana fa molta più fatica di me, anche se fa meno chilometri al giorno. Mi piace dirlo, ripeterlo, perché è fondamentale».
In quanto alla Atlas Mountain Race, De Marchi tornerà, per divertirsi, per rivedere quel Marocco "vero" di cui ha parlato, per pedalare e anche per vincere perché, su quelle montagne, Mattia vuole vincere.