Potenza e fantasia

Ci voleva estro, un colpo di fantasia per farsi piacere la tappa di oggi. Ci voleva potenza per sfuggire al piazzamento su quel rettilineo dove una bava di vento ogni tanto portava refrigerio all'ennesima giornata calda. Perché più sali verso il nord e più pare di soffocare, l'asfalto ribolle e i corridori in gruppo hanno di che temere: contro queste temperature non c'è riparo. Nemmeno se freni o corri veloce. Niente.
C'era bisogno di furbizia, o chiamatela sapienza. Conoscenza delle leggi della fisica: prendere la scia giusta e saltare gli avversari stremati verso il traguardo in una delle tappe più veloci della storia del Giro. Ci voleva in fondo, un po' di fondo, di velocità, scaltrezza e doti non comuni.
Ci voleva senso del dovere e passione per seguire una tappa pianeggiante, noiosa, quasi spocchiosa e inefficace, ma il Giro è anche questo, strappa applausi e sbadigli: per chi lo segue in gara è attraversare città, colline, costeggiare il mare, salire passi e infilarsi dentro centri storici; per chi lo segue per strada è aspettare il gruppo che passa per pochi secondi, applaude e poi scompare nei portici come succede a Forlì verso l'ora di pranzo. Si chiama passione, oppure curiosità.
Ci voleva estro per diventare un grande scalatore nascendo sul mare. Siamo partiti, con la nostra giornata Alvento, da Cesenatico. Doveroso. Ieri a salutare Scarponi a Filottrano, oggi a rendere un omaggio a Pantani.
Ci voleva coraggio, o le leggi del gruppo che ti mandano in fuga sapendo come il tuo destino sarà quello delle prede coscienti di essere braccate: così per Rastelli e Tagliani. La legge del gruppo che poi è la legge del regno animale da cui evade, con estro, Dries De Bondt scatenato: per un attimo ha pensato persino di farcela, per spingere più forte, quando si voltava dietro e vedeva il gruppo, quella vaga e incomprensibile macchia multiforme, si sarebbe appoggiato sul manubrio persino con i denti. Avesse potuto.
C'è voluto un rettilineo, qualche sbandata, un treno, un rallentamento, qualche gomito e poi una volata. Ci voleva Dainese a farci saltare sulla sedia: «Ha vinto Gaviria! Ha vinto Bol! Ma no ha vinto Dainese!» Che è spuntato da dietro all'ultimo, all'improvviso. Con le doti di chi sa scrivere un finale ma troppo spesso gli è rimasto sulla punta della penna.
«La volata è venuta fuori un po' così» ha raccontato con quel suo fare sempre umile e costante, a fine gara, lui che diceva a inizio stagione che se non avesse vinto avrebbe iniziato a pensare a fare altro. Ad esempio il pesce pilota. Oggi il suo pesce pilota è stato Bardet.
Di gran carriera, Dainese, per una gran carriera, lanciata da lontano come una volata. Fatta con potenza e fantasia, ideale per farsi piacere una giornata piatta, calda e veloce, come quella di oggi. E alla fine godereccia come la bella Reggio Emilia.


La festa di Filottrano e Girmay

L’arco che porta al centro di Filottrano conduce ad un’altra dimensione: la festa. Qui usano molto questa parola: «Facciamo festa» e apparecchiano un tavolo con bicchieri e piatti di plastica, pane, salame e una bottiglia di vino rosso. Insieme. Si aprono le porte dei negozi per far spazio a più persone sul ciottolato del centro e la corsa è davvero ovunque. Un universo parallelo legato al paese come i palloncini che vengono liberati al passaggio del gruppo, che sono legati ai polsi delle persone ma, in realtà, sono le persone a essere legate a quei palloncini. Per come li guardano mentre orgogliose li lasciano volare via e vi dicono: «Questo è il mio paese».
Parlare di Michele Scarponi è difficile o forse sin troppo facile. «Era come noi» ed oggi ci sembra più vero che mai. Perché abbiamo rivisto queste persone mentre fanno un occhiolino, mentre guardano la corsa in un bar e non riescono a non commentare, mentre gesticolano, anche mentre dicono tutto in maniera così spontanea che ti chiedi se, poi, non sia più semplice. Persino nelle rughe di espressione che ricalcano le forme che il viso prende spesso: il piacere e la fatica. Mentre gridano per l’arrivo del gruppo che è ancora lontano ma chiunque passi lì in mezzo si sente atteso. E Pavese aveva ragione: da ragazzi si può pensare che il proprio paese sia il centro del mondo, girando tanto, poi, ci si accorge che tutti i paesi sono così perché il mondo è fatto di paesi. Quanto ti eri sbagliato? Quanto avevi ragione?
Il gruppo va via da qui mentre poco più in là, nei bar, si parla della fuga ripresa e i ragazzini prendo i gelati e li scartano in piazza. I giornali sui tavoli, aperti, spalancati e sfogliati e il classico odore della carta assieme al suono della lattina Coca Cola che viene aperta. «Vuole vincere per Michele» dice il proprietario quando Nibali prova ad allungare. «Gliel’ho detto io» aggiunge indicando la moglie. E appena scatta qualcuno ci si mette in punta di sedia, si appoggiano i gomiti sul tavolo e si proietta il corpo in avanti, come un ciclista su una salita, meglio su un muro o uno strappo da queste parti.
Lo stesso accade sul bancone del bar mentre Biniam Girmay parte in volata e Mathieu van der Poel gli prende la ruota. Sembra quasi un percussionista van der Poel, un percussionista che per unico strumento ha la bicicletta, insiste e si gasa mentre il suo viso prende proprio la forma dello sforzo. Deve cedere prima del tempo perché Girmay è sempre più avanti e qualunque movimento sembra inefficace. Cede alla sua maniera: quella degli attacchi folli, delle imprese incredibili, dei colpi geniali e delle batoste. Si siede e alza il pollice: «È tua». Poi lo abbraccia.
Si parlava di paesi. Asmara, la città natale di Biniam Girmay, è certamente più grande di Filottrano ma è comunque un paese, una città, e somiglia agli altri perché ti permette di essere aspettato, di riconoscerti, di riconoscere.
Accade a Girmay, il primo ciclista africano di colore a vincere una tappa al Giro d’Italia, che nei suoi tifosi riconosce le sue stesse epressioni, i modi di fare e persino di gioire. Accade a Filottrano, in cui, dopo la corsa, le persone tornano al lavoro e lo fanno con la stessa dignità, lo stesso orgoglio, con cui hanno festeggiato. Insieme. E chi manca, nel paese, è atteso e non manca mai del tutto.


Forti e gentili

Forte e gentile si dice così degli abruzzesi e te ne accorgi dalla quantità di gente che ti ferma su Passo Lanciano e ti stringe la mano. Ti raccontano di tutto: chi del suo passato da ciclista, chi di quando correva contro Ciccone da bambino, chi della propria squadra del cuore, chi ti spiega nel dettaglio tutti i versanti per arrivare in cima alla Majella.
Ti parlano delle differenze esistenti tra un versante per arrivare in cima al Blockhaus e l'altro; chi ha vinto dove e quando. "Da lì vinse Merckx", "Qui su vinse Basso". "Lì, Di Luca fece il diavolo a quattro contro Menchov. E se c'era ancora un chilometro, il russo quel giorno sarebbe tornato a casa con una gamba su e una giù".
Ti offrono birra, vino e arrosticini e se la prendono nell'intimo se osi di dire di no, anche se gli spieghi che ne hai mangiati una decina prima arrivando su: "ma provate questi che sono più buoni, anzi se stasera andate giù a Pescara... quel signore lì, lo vedete? ha un ristorante dove fanno gli arrosticini più buoni di tutto l'Abruzzo".
I nomi pure da queste parti, sono forti e gentili: Lettomanoppello, Pretora, Roccamorice. Da lì partono i versanti per arrivare in cima alla “Montagna Madre”. Venerata e adorata dagli abruzzesi.
In cima a Passo Lanciano aprono la strada centinaia di amatori. La bicicletta prende possesso della montagna e unisce. Un gruppo di ciclisti di diverse parti d'Europa fa amicizia e si ferma a un ristoro e dopo qualche ora sono ancora lì con il tavolo pieno di birre vuote e rimasugli di porzioni di arrosticini. Mauro, cuoco di uno dei rifugi in cima ci apre le porte della sua piccola cucina dove prepara da stamattina presto la carne nei tipici bracieri a canalina. Si ferma a chiacchierare e non sa dirci quanti arrosticini ha già cucinato in queste ore: «Di gente ne è venuta tanta, ma speravamo anche qualcosa in più, purtroppo però già da ieri han chiuso le strade: qui d'inverno vengono così tante persone a sciare che le macchine sono parcheggiate una sopra l'altra». Con il suo accento abruzzese, forte.
Forte, molto forte, oggi è stato Diego Rosa. “Gamba paurosa” dicono i tifosi che attendono il suo arrivo cercando di capire da smartphone e tablet quanto manca al passaggio. Prova la fuga da solo, poi in compagnia, vuole la maglia azzurra. Quando la fuga si spacca lui la riprende. Quando Tesfatsion in fuga con lui cade, non si turba. La sua sorte è segnata, ma va bene così, ci saranno altre volte in questo Giro dove mostrare la sua forza, il suo viso, dai lineamenti così gentili.
Porca Majella, ti viene da dire poi, ripetendo divertito uno striscione e osservando poi il gruppo dei migliori riprendere Rosa e salire verso l'arrivo del Blockhaus. Porca Majella, gustosa, grondante fatica come quei pezzettini di carne infilati in un lungo stuzzicadenti che i ristoratori offrivano persino ai ciclisti che assiepavano la terribile salita abruzzese. «Prendine uno! Prendine uno!», urlavano.
Forte e gentile, il viso di Pozzovivo: lasciateci dire di quanto forte è andato. Ha un'età che potrebbe fare tutt'altro eppure resta lì a soffrire. Va su tutto storto che ti chiede come faccia. La risposta è semplice: è Pozzovivo. Forte è Nibali, che si salva pochi giorni dopo aver annunciato l'addio al ciclismo. Mentre Landa, Carapaz e Bardet, forse i più forti oggi di questo Giro, giochicchiano un gioco tirato all'estremo, si passano la palla senza andare a rete. Forti, loro sin troppo gentili, forse potevano osare di più.
Forte e poco gentile il caldo per tutta la tappa, Yates lo soffre, salta e si stacca, all'arrivo si accascia come tramortito sulle transenne, mentre una calca di persone attorno cerca di capire il perché. Come poi fosse facile per un corridore dare una risposta di questo genere.
Almeida fa un gioco strano, brutale, è forte ma non appare mai gentile in bici nonostante quegli occhi che intorno sembrano sempre aver un filo di matita come a rendere più morbidi i suoi lineamenti. Si stacca e poi rientra, sembra saltare e invece resta lì come se dovesse fondere il motore da un momento all'altro: resisterà fino alla fine del Giro andando così?
Juanpe Lopez è la scoperta. Sia come corridore forte che come corridore gentile. Forte: salva la Maglia Rosa per pochi secondi; gentile come le sue parole a fine tappa: «Voglio scusarmi con Oomen per avergli tirato una borraccia. Lui mi ha fatto andare fuori strada e ho perso la testa per un attimo».
Due parole poi su Hindley, forte e gentile: non poteva che essere così, lui il più abruzzese di tutti gli australiani che vince in quella che è stata una terra che per un periodo lo ha visto crescere come ragazzo e corridore.
E domani riposo per la carovana. Sulla Majella orsi e lupi stanno nascosti mentre il sole viene coperto da nuvoloni grigi. Il ristoro del ciclista erano birra e arrosticini. Il riposo della grande montagna segna la fine di un'altra lunga giornata al Giro d'Italia.


E tu sai ca' nun si sulo

I suonatori di chitarra in via Caracciolo suonano le prime note di “Napule è”. Solo musica, le parole arrivano da chi passa ai lati della strada e fischia o canticchia. Ad un certo punto, il testo dice “E tu sai ca' non si sulo”, noi ci pensiamo accanto al fruttivendolo che mostra la verdura e la descrive, alla pasticceria e a quei “babà” su piccoli vassoi che girano per i Quartieri Spagnoli, alle mani infarinate di un pizzaiolo che torna a casa ancora così, di fretta, al piattino del caffè che sembra un’opera d’arte. Ci sono loro e quelle voci che non si fermano mai.
Voci e maglie azzurre, alcune in tessuto vecchio, con un numero, l’unico che ha senso: il dieci, che è un numero è una persona. Mentre Mathieu van der Poel va via subito, scatta, quasi una burrasca vederlo partire così presto. Lui a queste cose è abituato, come ad andare via mentre mangia un panino. È abituato a sentire il suono della ruota che insegue come va davanti al gruppo.
Non sappiamo se Girmay, che va via con lui e gli altri, avesse mai visto Napoli prima di oggi. Non sappiamo se ha sentito come tutti qui storpiano il suo cognome ma lo gridano forte, lo cercano. E le bandiere del suo paese sono arrivate anche qui e sventolano senza arricciarsi, mentre lui e van der Poel nel finale si gettano da soli all’inseguimento di De Gendt, Gabburo, Arcas e Vanhoucke e quasi li riprendono. Loro sono i contrattaccanti: coloro che attaccano nell’attacco, le ruote che van der Poel sente inseguire, poi vede andare e si trova a inseguire a propria volta.
Proprio in quel momento una signora belga, si affaccia a una transenna e chiede: “van der Poel?”. Chiede di lui per sapere di De Gendt, chiede di lui perché se rientra sono problemi per tutti. È lei la prima a gridare Thomas dopo il traguardo. O forse semplicemente lo grida più forte perché la sua voce arriva prima. Prima che De Gendt scenda dalla bicicletta, abbracci Vanhoucke, inizi a sospirare e vada a sedersi su una sedia nel tendone giornalisti. Una sedia bianca del tipo di quelle che si trovano fuori dalle case nei borghi al passaggio del Giro.
Mani sul volto, mentre tutto lo fotografano, lo cercano, chiedono. Lui, la personificazione della fuga, dell’essere soli. Lui che oggi che non era solo, ha vinto e al traguardo si è allontanato da tutti cercando quella stessa solitudine mentre qualcosa dentro cercava di uscire.
In fondo, il Vesuvio che a Napoli è anche un punto di riferimento per indicare le strade. È “il vulcano”, come “il dieci”, come “il fuggitivo”, tutto quello di cui vi abbiamo parlato e quelle voci che arrivano anche all’interno dei locali. Punti di riferimento e “tu sai ca’ nun si sulo”.


Su a Viggiano tra le foglie

Per arrivare a Viggiano da Diamante, tagliando - si fa per dire - per la strada che porta verso le Grotte del Romito e poi per il Parco Naturale del Pollino, non è facile come sembra dalle indicazioni studiate con attenzione certosina e riportate poi su Google Maps.
Chi guida - che non è chi scrive - ha la situazione sotto controllo, i passeggeri - tra cui chi scrive - , maledicono invece il momento in cui hanno preso un'arancia dal fruttivendolo. Quel frutto così gustoso in un primo momento, decide di fare su e giù nello stomaco a ogni curva, buca, tornante.
Interessa poco al racconto della corsa, è vero, ma è importante per capire che, prima o poi a Viggiano, per seguire il passaggio del Giro d'Italia, ci siamo arrivati veramente. E se lo scriviamo è perché non sembrava di fatto così scontato. Abbiamo attraversato zone che lasciavano a bocca aperta, dove il verde intenso della macchia calabrese (se uno decidesse di "darsi alla macchia" qui probabilmente non lo ritroverebbero più) a un certo punto lasciava spazio alle infinite vallate della provincia di Potenza. Una sorpresa. Alpeggi, borghi mozzafiato appesi alle montagne che ricordavano le biciclette colorate di rosa che avevamo visto penzolare da alcune finestre poche ore prima dalla partenza di Diamante.
Quando si arriva Viggiano, in paese, la luce si fa forte, gialla come nascosta da una lente color limone. Gruppi di persone salutano, bambini vestiti di rosa battono le mani e urlano, scritte ovunque per l'idolo lucano: Domenico Pozzovivo.
Su, invece, sulla Montagna Grande di Viggiano (che da ora in poi chiameremo per semplificare semplicemente Viggiano), situata a circa sessanta chilometri dall'arrivo, una bella salita; strada larga, ben asfaltata e con tratti di pendenza davvero infidi. Da fare in bicicletta. La luce fatica a passare in mezzo al verde degli alberi - e a dire il vero anche il segnale di ogni compagnia telefonica: un paio di ore, per noi, di totale black out in attesa del gruppo.
Ma su a Viggiano abbiamo dato un senso a tutto vedendo i corridori passare al massimo del loro sforzo, mentre comandavano perfettamente la loro arte. Davide Formolo appariva bello in viso, prendeva una borraccia dal primo massaggiatore, rifiutando quella offerta dal secondo pochi metri più avanti: segno di freschezza o poco lucidità? Vedendo il finale di gara di Formolo, che quella fuga l'ha portata via convinto, scegliamo la prima ipotesi. Ha osato troppo nel finale, forse, è vero, ma verso Potenza è stata una lotta anche di nervi e di attimi. E lui ha scelto le sue armi migliori: grinta e rapportone.
Dumoulin, con i suoi labbroni e il naso ingrossato da occhiali e fatica, comandava quel gruppo di fuggitivi: conosceva già la sua sorte personale e quella poi vincente del compagno di squadra Bouwman? Villella zigzagava, segno di fatica estrema. Buttava via la borraccia, che come altre raccolte dal ciglio della strada era piena, probabilmente calda, caldissima, e quasi si fermava per prenderne un'altra fresca. Ulissi, in quel tratto di forte pendenza, chiudeva invece il gruppo della maglia rosa. Rosso in viso, chiedeva a gran voce: "avete acqua?".
Su a Viggiano un tifoso francese quasi fermava l'ammiraglia della Groupama: «Merci Démare! merci Démare!», gridava scalmanato. Su a Viggiano, Cavendish, invece, malediceva il gruppetto - la rete. «State andando forti come se fossimo in una c**** di fuga! Se volevate andare così potevate stare davanti!».
Su a Viggiano bastava un urlo, una serie di "alè alè alè" per dare forza ai corridori che ringraziavano. Giù a Potenza, invece, Koen Bouwman batteva Bauke Mollema e Formolo, specialisti delle evasioni in giorni duri. Da oggi anche Bouwman si scrive al circolo; ricorderà la luce fioca che passava tra le foglie e quello strano silenzio interrotto solo dalle urla di qualche tifoso. Su a Viggiano è andata proprio così.


Le infinite possibilità di Démare e Rosa

Se potessimo farvi sentire le voci dei tifosi dietro le transenne, dopo l'arrivo, vi faremmo sentire solo quelle perché non serve molto altro per comprendere la giornata di Scalea. Solo voci, nemmeno un'immagine, e potreste capire. Solo un "assurdo" e potreste capire. Assurdo com'è assurdo che tanta noia e tanta adrenalina si trovino nello stesso posto. E via a una lunga serie di considerazioni su chi l'ha spuntata, Ewan o Démare: non saperlo, sembra ancora meglio, perché lo si chiede a chiunque e si mostra la propria visuale sul traguardo che la conferma o smentisce. Qualcosa che continua anche dopo la certezza che a vincere è stato Démare, perché, dove c'è stato il dubbio, c'è la possibilità di vedere altro. Abbiamo capito così che l'assurdo ci fa bene.
Proprio quello che non sai spiegare. Come si spiega a un americano il significato della parola "Terún"? Innanzitutto non avendo paura di chiamare qualcosa con quel termine: una squadra, un ristorante ma potrebbe essere altro. Franco e Rossano lo hanno fatto. Succede così che le parole difficili, quelle che si portano addosso un significato complesso, cambiano volto e portano l'orgoglio di chi sei.
Potremmo chiamare un fuggitivo a spiegare l'assurdo, perché le fughe sono una sorta di apologia dell'assurdo, una difesa, un'arringa. Ci ha fatto riflettere chi si è chiesto cosa sarebbe stata la noia di oggi se non ci fosse stato Diego Rosa all'attacco? Allora qualcosa di apparentemente inutile, come una fuga in solitaria in un tappa dal finale scontato, è in realtà utilissimo perché cambia tutto. Il punto è che senza assurdo non ci sono le possibilità e senza le possibilità anche il ciclismo è più povero. Le possibilità che, poi, sono dietro il significato del sorriso di Diego Rosa quando intuisce il gruppo alle spalle e ognuno può leggerci ciò che crede. Noi vogliamo vederci la soddisfazione per essere riuscito a fare ciò che ha fatto: innanzitutto è stato l'unico a farlo e già questo dice molto. Gli atti di coraggio si fanno più facilmente in compagnia, perché, per quanto siano assurde le tue ragioni, almeno non sei solo. Quando sei anche solo la faccenda è ancor più complessa.
«Nonostante l'età e il mal di gambe sono ancora riuscita a scendere da casa e venire qui» ha detto una signora in fondo al viale del traguardo. Nonostante che è la preposizione dell'assurdo, del coraggio, di quando fai una cosa malgrado tutto direbbe il contrario. Succede in volata, chiedete a Démare e Ewan, succede in fuga, ma soprattutto succede a tutti e per il ciclismo è questo l'importante.


1909, primo Giro di ruota

Testo e interpretazione: Marco Pastonesi
Sound design: Brand&Soda

Due e cinquantatrè. Di notte. La notte del 12 e del 13 maggio, ormai 13 maggio, del 1909. Milano, Rondò Loreto. La zona nord della città. Centoventisette corridori ciclisti – a quel tempo si chiamano così per distinguerli dai corridori podisti – danno il primo colpo di pedale. Il primo colpo di pedale della prima tappa del primo Giro d’Italia. La prima lettera di una storia infinita, la prima lettera di un’appassionata dichiarazione d’amore, la prima lettera di un romanzo rotondo, sudato, avventuroso, alpino e appenninico ma anche lacustre e marino, urbano e rurale, imprevedibile e ancora misterioso, la prima lettera di una divina commedia umana.

Ma non si può raccontare il Giro d’Italia, innanzitutto il primo Giro d’Italia, senza raccontare “La Gazzetta dello Sport”. Che lo organizza allora, che lo organizza ancora adesso. Il primo numero esce tredici anni prima, venerdì 3 aprile 1896. Non si chiama ancora “La Gazzetta dello Sport”, ma “Il Ciclista e la Tripletta” (che qui non significa tre gol in una partita, ma indica una bicicletta a tre posti), due testate e due giornali che si fondono in uno solo. La prima pagina – a cinque colonne, titoli a una colonna, senza disegni o fotografie, soltanto testo – è interamente dedicata al ciclismo. Si presenta la riunione in pista a Milano, organizzata dalla Forza e Coraggio al Trotter, con i più forti specialisti italiani, da Pontecchi ad Alaimo, da Pasini a Tommaselli e Momo. Si presenta anche la corsa su strada Milano-Lecco-Erba, 70 chilometri, e si aggiunge che contemporaneamente si organizza una gita turistica Milano-Erba. Si propone il parere di Tom Eck, un allenatore americano passato dall’ippica al ciclismo, cioè dai cavalli ai corridori, compreso il formidabile Johnnie Johnson (qui peraltro ribattezzato Antonio), che fa parte di un sedicente World Team, la squadra mondiale, con cui si esibisce negli Stati Uniti e in tournèe in Europa, da Londra a Parigi. Si annuncia la sfida lanciata da tre milanesi – De Peccati, Pereda e Delmont – che intendono cimentarsi in una corsa ciclistica di mille chilometri, sempre nel ciclodromo del Trotter a Milano, scommettendo, ciascuno, 250 lire. E si precisa che due dei tre contendenti, De Peccati e Pereda, si sono già sfidati un anno prima, in una giornata di freddo e pioggia, ma – come si scrive – “al tour de force d’allora mancò quella garanzia di controllo e di disposizioni che occorrono per dare serietà all’avvenimento”. E si danno i risultati di una riunione, sempre ciclistica, disputatasi a Londra nell’Agricultural Hall, trequarti di miglio per gli uomini, mezzo miglio per le donne. Sulle altre tre pagine: ippica, scherma, tiro a segno, tiri a volo (compresi tiro alle quaglie, tiro alla tortora e tiro al piccione), sport pedestre (cioè corsa a piedi), ginnastica, lawn-tennis (cioè tennis sull’erba), pattinaggio, alpinismo, automobilismo e caccia. E anche la pubblicità, che però riguarda soltanto il ciclismo.

La Gazzetta dello Sport” ha dunque quattro pagine, formato lenzuolo, carta di un verde pallido, smunto, anemico, prezzo di ciascun numero cinque centesimi, prezzo dell’abbonamento da aprile a dicembre quattro lire, due uscite settimanali, il lunedì e il venerdì, cioè dopo gli avvenimenti sportivi che a quel tempo si tengono sempre la domenica e il giovedì. La redazione è a Milano, a due passi dal Duomo, in via Pasquirolo 14, nella sede della società editrice Sonzogno. Le macchine da stampa sono quelle del quotidiano “Il Secolo”, giudicate “le più potenti rotative che abbiamo in Italia”, capaci di stampare 40 mila copie all’ora. La prima tiratura è di 20 mila copie. 20 mila copie che andranno completamente esaurite.

Dodici anni più tardi, è il 1908, per incrementare il numero delle vendite del giornale, nasce l’idea del Giro d’Italia. L’idea è rubata. E’ l’agosto 1908 quando trapela la notizia di un Giro ciclistico d’Italia, a imitazione del già esistente Giro automobilistico d’Italia, che il “Corriere della sera” con la collaborazione del Touring club italiano (che nasce eallora si chiama ancora Touring club ciclistico italiano) e della Bianchi allestirebbe per elevare le vendite del giornale. Il triumvirato convocato d’urgenza nella sede della “Gazzetta dello Sport” – uno dei soci Tullo Morgagni, il direttore Eugenio Costamagna, il cui pseudonimo è Magno, e il responsabile della redazione ciclismo Armando Cougnet – decide di precedere i rivali sparando la notizia in prima pagina. Al resto ci avrebbero pensato: regolamento, percorso, iscrizioni, squadre e corridori. Si può ben immaginare: non è stato facile. Ma nove mesi dopo sboccia il primo Giro: otto tappe, la prima partenza e l’ultimo arrivo a Milano, sede del giornale, in tutto 2447 chilometri e 900 metri. E poi la punzonatura: nel Salone del Giardino Teatro Margherita all’Albergo Loreto di Milano. Il ritrovo: nell’Albergo Loreto. La partenza: dal Rondò Loreto dalla parte di viale Monza. Gli iscritti: 166. E i partenti: 127, di cui cinque stranieri, quattro francesi e un austriaco, che viene da Trieste, che fa ancora parte dell’Impero asburgico, cioè austro-ungarico. La prima tappa: da Milano a Bologna, 397 chilometri. Il saluto: del dottor cavalier Carlo Cavenaghi, presidente della Uvi, l’Unione velocipedistica italiana. Il mossiere: Gilbert Marley, inglese, poi milanese, poi campione italiano di biciclo e triciclo nell’Ottocento, poi fondatore dell’Unione sportiva Milanese, carte e biliardo, ciclismo e calcio, poi cronometrista, il re dei cronometristi. Il giorno, anzi, la notte, già detto, quella del 13 maggio. L’ora, già detto: le 2.53 di notte. Non si corre a tempo, ma a punti: vince chi meno ne fa (un punto al primo arrivato, due al secondo, tre al terzo e così via). C’è un’altra premessa da fare, ed è doverosa: i francesi ci hanno preceduto, il primo Tour de France è scattato sei anni prima, nel 1903.

Ma torniamo al nostro Giro. Il giorno prima del pronti-via “La Gazzetta dello Sport” apre il trisettimanale con il titolone “La grande battaglia tra i giganti della strada”. E nell’editoriale “Il congedo” si declama, militarmente e retoricamente: “Corridori!! L’ora è prossima, la battaglia incombe. Gli amatori del ciclismo di tutte le nazioni vi ammirano e attendono. Ognuno ha fra di voi il suo favorito, la sua speranza. Come corridori italiani avete il gran compito di difendere i colori della nazione. Come forestieri ed ospiti, troverete fra i nostri campioni avversari degni ma leali e cortesi”. E ancora: “Corridori! Concorrenti tutti! Più che il premio vi sia incitamento l’amore puro per lo sport. In questo amore, in questa passione sana e sincera, voi troverete le forze per vincere, per trionfare”.

Chi sono questi concorrenti? Fra gli “inscritti” (con la enne) spiccano il tre volte campione italiano (e a quel tempo campione in carica) il tortonese Giovanni Cuniolo, l’astigiano Giovanni Gerbi soprannominato il Diavolo Rosso ricordato e cantato anche da Paolo Conte, il pavese Giovanni Rossignoli detto Baslot per il recipiente, la scodella, con cui il padre – oste – versa il vino nella sua osteria, e Luigi Ganna, muratore – magutt, in dialetto – varesotto di Induno Olona, allenatissimo perché ogni giorno fa sessanta chilometri per andare a lavorare a Milano e altri sessanta per tornare a casa. Fra gli “inscritti” ci sono anche i migliori “routiers” francesi, da Petit Breton (è il soprannome che si è dato Lucien Maze per non farsi riconoscere dal padre, contrario al ciclismo, negli ordini di arrivo) a Louis Trousselier, per tutti semplicemente Trou-Trou. Fra gli “inscritti” i corridori ciclisti che fanno parte delle squadre, le squadre delle case costruttrici di biciclette, e i corridori ciclisti definiti dilettanti, isolati, individuali e addirittura individualisti, e ancora peggio, diseredati, costretti ad arrangiarsi da soli nell’assistenza meccanica, ma anche nel mangiare, bere e dormire, nel sostenere le spese, tanto che molti devono ricorrere all’aiuto economico – collette, adesso si direbbe “crowdfunding” – dei concittadini, o più semplicemente, gli amici del bar.

Alle 2.53 lo storico via. “I piedi premono, i garretti scattano, il piccolo esercito di ciclisti si stacca – è la cronaca della “Gazzetta dello Sport” -. La folla scoppia in un lungo ululato di ammirazione, di entusiasmo, di augurio, di gioia. Un lampo, una luce bianchissima, abbagliante che tutto avvolge e illumina come di pieno meriggio. La schiera ciclistica sembra per un istante lunghissima, infinita, eborme; la folla stacca nel buio che la circonda in tutta la sua urlante compattezza variopinta”.

Neanche il tempo di accendere le luci che per qualcuno già si spengono. Ancora “La Gazzetta dello Sport” scriverà in toni angosciosi: “Il Primo Giro d’Italia ciclistico si è iniziato con un incidente drammatico”. Poi tranquillizza: “Non c’è sangue, non ci sono morti, ma non per questo il dramma è meno intenso e meno commovente, non per questo meno fosca vi appare l’ombra di ciò che gli antichi chiamavano ‘fato’ – che i francesi hannosportivamente volgarizzato sotto il nome di ‘guigne’ – e che a Napoli traducono ‘jettatura’”. Gerbi, il Diavolo Rosso, millcinquecento metri dopo il pronti-via, è coinvolto in una caduta, forse contro un carretto, provocata da un bambino che attraversa la strada e che genera un groviglio di uomini e biciclette. Tutti si rialzano, anche Gerbi, ma non la sua bici. “La Gazzetta” riprende con enfasi: “Il piccolo gioiello d’acciaio, accuratamente miniato e irrobustito per la battaglia, giacerà solo, nella polvere, con una ruota spezzata quasi senza rimedio. E sopra di esso, spezzato, pure, un audace sogno di gloria – affranta un’energia delle più invidiate e più temute – piangente, di dolore e di rabbia, il Campione”.

Gerbi, è lui “il Campione”, non ha la possibilità di sostituire la ruota e ripartire, come succede oggi, perdipiù con l’assistenza dell’ammiraglia e del meccanico. Ma deve tornare, a piedi, alla partenza, cercare un’officina e riparare da solo la ruota. Un problema, data l’ora. Tant’è che deve camminare un altro chilometro e mezzo prima di trovare un meccanico che lo accolga e, senza intervenire con le mani, lo consigli con le parole. Morale: tre ore più tardi, mentre il gruppo è già a Brescia, Gerbi ricomincia il suo Giro dal Rondò Loreto. “La macchia rossa – tinteggia “La Gazzetta dello Sport” – riprende la via, che poteva essere della vittoria e che diventa quella del Calvario”. E subito commenta: “Gerbi ha avuto molte colpe, che oggi non si richiamano per rinfaccio”. Non a caso era soprannominato “il Diavolo Rosso” per i suoi diabolici trucchi. Poi una citazione evangelica: “Molto sarà perdonato a chi molto ha amato”. Infine la dura realtà: “Ma egli, in questa sua ‘stagione nera’ ha subito la più terribile delle espiazioni. Mentre scriviamo la corsa continua. Da ogni parte, per telegrafo, per telefono, ci arrivano lo stupore, il dolore, la tristezza infinita, perché Gerbi non c’è, perché Gerbi non passa. Bergamo, alle 7,40, tre ore dopo il gruppo di testa, lo accoglie col plauso della più affettuosa simpatia, lo incoraggia, lo spingerebbe, se potesse…”.

La corsa è vera. Ai rifornimenti c’è sempre qualcuno che prova ad attaccare. Dopo Lonato il gallaratese Domenico Ferrari ripara una gomma, si specifica, “penosamente”. A Desenzano, sopra un carro, una fanfara accoglie il gruppo. Prima di Peschiera Petit Breton cade e si lussa un braccio, ma si rimette in sella e ai pedali, e insegue. Cuniolo confessa di essere ammalato, fatica, si stacca. Trou-Trou cerca di andare in fuga, ma viene controllato da Ganna e da Eberardo Pavesi. Fa caldo: il forlivese Attilio Zavatti – documenta “La Gazzetta dello Sport” – vede una ragazza con una secchia d’acqua, balza di sella, corre alla giovinetta, le toglie la secchia e vi tuffa la testa tra le più matte risate degli astanti”. L’arrivo, dopo 397 chilometri, è allestito nell’ippodromo Zappoli di Bologna, la pista in terra battuta, e siccome piove a dirotto, il fondo è molle, quasi fangoso e insidioso soprattutto per chi è costretto a fare la volata larga, all’esterno. A vincere, in 14 ore, sei minuti e 15 secondi, alla media di circa 28 chilometri all’ora, è il romano Dario Beni. Ultimo, Gerbi, a tre ore e mezzo dal primo. Quando Gerbi arriva a Bologna, è ormai notte. L’ippodromo è stato chiuso. Per lui il traguardo è diverso da quello di tutti gli altri, sistemato fuori dall’ippodromo, davanti a un’osteria, l’unico punto illuminato del quartiere.

Ma chi è Dario Beni, il primo vincitore di tappa al Giro d’Italia? Quattro giorni prima della grande partenza del Giro da Milano, Dario Beni è a casa sua, a Roma. Andare in treno a Milano sarebbe la soluzione più ovvia, ma Beni non ha i soldi per acquistare il biglietto e deve campare una quindicina di giorni fuori da casa. Quindi, in bici. Seicento chilometri, in due tappe, la prima da Roma a Firenze, la seconda da Firenze a Milano, prima la Cassia, tutta su e giù, poi la via Emilia, diritta e polverosa, da condividere con altri tre corridori romani. Beni, vent’anni, ha ottenuto la bici – gratis – da un rappresentante della Bianchi a Roma, e la collauda in queste due tappe – per così dire – di riscaldamento. I quattro si arrangiano come possono. In Toscana accade quello che loro definiscono “inevitabile”. Alla fine del pranzo, robusto, anche perché a pancia vuota non si pedala, i quattro avviano un’animata discussione su chi tra loro dovrà pagare. Visto che l’accordo era impossibile, chiedono all’oste di fare lo starter di una particolare volata: l’ultimo sarebbe andato alla cassa. Inorgoglito ma anche ingenuo, l’oste abbassa la salvietta e dà il via alla sfida, salvo accorgersi che i quattro non hanno alcuna intenzione di tornare indietro.

Quei seicento chilometri da Roma a Milano si rivelano allenanti. Nell’ippodromo di Bologna Beni parte lungo, infilandosi fra Trousselier che è scattato e il bordo della curva, tiene duro per trecento metri, in testa, alla corda, e vince quasi per distacco. E poi si lascia andare: grida, urla, esulta. Vede gente che corre verso di lui. Si esalta. Ma quando gli cantano “Viva Ganna, viva Ganna”, capisce che lo hanno confuso con il vincitore della recente Milano-Sanremo. Si riprende dalla delusione quando viene avvicinato dai dirigenti della Bianchi. A bordo di un’automobile viene portato in un grande albergo a Bologna, bagno caldo, massaggi, cena, infine una banconota da mille lire e la promessa di uno stipendio di 250 lire al mese. Beni non si dimentica di Ottorino Celli, 19 anni, con cui ha diviso l’alberghetto a Milano in corso Venezia: “E’ mio cugino e il mio gregario”. Alla Bianchi fanno le cose in grande stile. Ingaggiato anche Celli, con uno stipendio di 125 lire al mese. Affare fatto. Beni fa i conti: per la vittoria di tappa ha guadagnato anche mille lire per il chilometraggio e trecento lire di premio tappa. “Commendatore – dice al direttore tecnico della Bianchi – i soldi, tutti sti soldi, li tenga lei, me li darà a Milano quando vincerò ancora”.

La seconda tappa va da Bologna a Chieti, 378 chilometri e mezzo, primo il redivivo Cuniolo. La terza da Chieti a Napoli, i chilometri diminuiscono, quasi 243, ma le condizioni delle strade peggiorano, primo il tenace Rossignoli. La quarta tappa va da Napoli a Roma, 228 chilometri e 100 metri, primo Ganna.

Un prezioso libriccino, s’intitola “Cronache del primo Giro d’Italia”, Edizioni La Vita Felice, ripubblica i pezzi della “Gazzetta dello Sport” di allora. Le note, soprattutto le più semplici, sono illuminanti, e anche divertenti per la loro ingenuità. Per esempio: “Tutte le equipes, per qualche disgraziato incidente, ne escono ferite, smembrate. Le ferite però non sono inguaribili”. Per esempio: “Gli umili, quelli che compiono il Giro ‘en promenade’, passano pressoché inosservati: tutta l’attenzione della folla è rivolta ai grandi nomi”. Per esempio: “Le simpatiche cittadine romagnole ci hanno tutte preparato una accoglienza trionfale. Si lanciano migliaia di cartoline allegoriche al Giro d’Italia e noi ci divertiamo al getto come a una battaglia di fiori”. E ancora: “Al lancio di foglietti multicolori si unisce quello dei fiori, veramente, e dalle finestre sciami di signorine salutano e inneggiano, sorridendoci e sventolando i fazzoletti”. I giornalisti assistono e partecipano a momenti emozionanti: “Gaioni ci chiama disperatamente, ma non possiamo essergli pietosi”, “Ceccarelli si sente male e vuol prendere la ferrovia. Ma il poveraccio non ha soldi. Gli do venti lire. Voglio sperare che siano poche queste defezioni, altrimenti…”, “Alla sommità della salita (350 metri) troviamo l’amico Banfi. Egli ci domanda sorridendo con che treno si parte per Napoli. Poi ci dice di voler ritornare a Chieti, perché la tappa è troppo dura”, “Inseguiamo il veterano Nanni Enrico di Bologna, un simpaticissimo routier. Ha quarantaquattro anni ed è padre di quattro figli. Scende filosoficamente, allargando le gambe. Buona fortuna, nonno!”, “Ferrari Domenico rimonta a raccattare la pompa che ha perduto”, “Como scarta violentemente e minaccia di andarsi a schiacciare contro un muro. E’ un urlo di paura e raccapriccio. Fortunatamente riesce a frenare in tempo, con molta energia, e si salva per miracolo. Tuttavia cade, e si rialza leggermente contuso”. C’è anche chi fa il furbo: alla partenza da Napoli, quarta tappa, Giuseppe Brambilla da Gorla viene squalificato perché beccato mentre prende il treno nella Bologna-Chieti, seconda tappa. Anche la giustizia sportiva ha i suoi tempi. Ma Brambilla non ci sta, protesta, contesta, infine minaccia i delatori: “Quando passerà quello che m’ha denunciato gli spaccherò una bottiglia sulla testa”. Giustamente preoccupato, un ispettore di Pubblica Sicurezza allontana Brambilla, lo chiude in una stanza guardato a vista dai carabinieri e lo libera un’ora dopo la partenza. E il vecchio Nanni, anche se estromesso dalla classifica perché giunto al traguardo fuori tempo massimo, parte da Napoli con gli altri, perché vuole almeno arrivare – chissà perché – ad Aversa.

La corsa è un’orgia di incidenti, cadute, forature. Anche di bestemmie. “Dio fauss, due gomme”, si sfoga il torinese Luigi Chiodi. Si corre per vincere, per arrivare, anche per sopravvivere. Davanti a una cascina ci sono tre bici, i concorrenti sono dentro a lavarsi e rinfrescarsi e rifocillarsi. Annibale Magni, milanese, 45 anni, il più vecchio in gara, procede solitario. Un giornalista della “Gazzetta” gli grida “forza!”, Magni gli risponde in milanese: “Con comod vegni anca fina all’Arena”, con comodo arrivo anche fino all’Arena, l’Arena di Milano, il traguardo finale. Intanto l’arrivo a Roma è caotico. “Un mare umano – Armando Cougnet registra sulla “Gazzetta dello Sport” – e uno spazio strettissimo per il passaggio dei corridori”, “Al traguardo vi sono ben ventimila persone. Il servizio di pubblica sicurezza quantunque abbondante, è insufficiente a contenere l’entusiasmo della folla, collettivamente stupida”, “Quasi tutti si fanno lavare e si sdraiano sul letto, o si fanno fare il massaggio e la doccia”, “Una vera gragnuola di scoppi di gomme ha modificato un po’ la lotta ultima. Ma questi sono pure gli inevitabili incerti delle gare su strada”. Cougnet conclude salomonicamente: “Il ‘guignard’ (lo sfortunato) d’oggi è il fortunato di domani, e viceversa”.

Siamo a metà dell’opera. Mancano quattro delle otto tappe. La direzione della “Gazzetta” e del Giro non nasconde qualche timore: se “da Milano noi abbiamo avuto una partenza imponente, meravigliosa, davanti a diecine diecine di migliaia di persone accorse all’epico spettacolo”, “sapranno Firenze, Genova, Torino essere degne della sorella, più di quello che le altre città del Giro non siano state fino ad oggi?”. Ma sì, lo saranno. Il 23 maggio si riparte con quinta tappa, la Roma-Firenze, 346 chilometri e mezzo, primo ancora Ganna. La sesta tappa va da Firenze a Genova, 294 chilometri e 100 metri, e Rossignoli concede il bis. La settima è la Genova-Torino, 354 chilometri e 900 metri, e il finale è rocambolesco. Fuggono Rossignoli e Ganna. A Pinerolo l’ultimo rifornimento. Rossignoli ci arriva prima di Ganna, si precipita per avere un bicchiere di tè, invece Ganna beve correndo per cercare di scappargli. Ma Rossignoli lo insegue e lo raggiunge. E ricomincia la lotta, che i giornalisti al seguito definiscono “snervante e titanica”. Finché Rossignoli “leva le braccia al cielo, desolatissimo”. Ha forato la gomma posteriore. Deve femarsi a cambiarla, “ma l’operazione – sempre nelle parole scritte sul giornale – è lunghetta”, e già si profila il colle di Superga. Ma non è tutto. Causa sovraffollamento, per prudenza il traguardo viene spostato indietro di tre chilometri, a undici dal centro di Torino. Così, quando Ganna giunge al traguardo, ci sono solo tre o quattrocento spettatori. E, ancora sulla “Gazzetta dello Sport”, la marea urlante è laggiù. E Ganna prosegue, seguito dall’automobile della Giuria. L’accoglienza” è “qualcosa di grandioso, di colossale, di indimenticabile. Lo portano in trionfo, non può nemmeno firmare” il foglio d’arrivo.

L’ottava e ultima tappa porta quello che resta del gruppo da Torino a Milano, i cinquantuno arrivati alla settima, più il veterano Nanni che aveva promesso di fermarsi ad Aversa e che invece ha proseguito fuori classifica, e in attesa di giudizio partono anche Giovanni Carena, piemontese di Bosco Marengo, e Camillo Carcano, lombardo di Soncino, “risultando a loro carico la taccia di aver usufruito del treno”. E’ la frazione più breve, 206 chilometri, ma ormai i concorrenti sono sfiniti, e il risultato finale non è ancora scontato, Ganna è in testa alla classifica generale, ma Carlo Galetti, tipografo di Corsico, alle porte di Milano, potrebbe ancora aggiudicarsi il Giro. Cento metri dopo il via il primo imprevisto: il milanese Pietro Molina, “per scansare sulla banchina una vecchia”, così è scritto, cade in malo modo e abbandonerà. A Borgomanero lo stato di tregua si esaurisce e comincia la battaglia. Attacchi e controattacchi, fughe e contro fughe, polveroni che si alzano dalla strada e quando Ganna fora, Galetti lo attacca. “Magno”, Eugenio Costamagna, fondatore e ancora direttore della “Gazzetta dello Sport”, si prodiga con la retorica: “Il momento è emozionante, ma nel tempo stesso lascia come una pena dolorosa nel cuore. Si approfitta delle disgrazie altrui”. A questo punto esibisce la sua conoscenza delle lingua e della letteratura latina: “Hodie mibi cras tibi”, oggi a me domani a te. E prosegue: “I corridori sono meno sentimentali degli osservatori. Corrono, corrono staccando altri concorrenti sino a ridursi ad un gruppo di cinque”. E’ Galetti a spingere più di tutti. Al passaggio a livello di Busto Arsizio i corridori non aspettano, scavalcano la sbarra e passano: il primo gruppetto è condotto da Galetti, poi ce n’è un secondo, quindi un terzo, ed è quello di Ganna. Che subito raggiunge e sorpassa il secondo gruppetto e si lancia all’inseguimento del primo. C’è un nuovo passaggio a livello, ma stavolta il cantiniere non permette ai corridori di scavalcare il cancello. E Ganna raggiunge Galetti. “L’epica lotta – conclude “Magno” – è compiuta”. Nessuno, né gli atleti né gli spettatori, sanno con precisione dove sia stato stabilito lo striscione d’arrivo. Il motivo è la pubblica sicurezza. Non si vogliono creare pericolosi assembramenti, così tutti si dispongono lungo la statale del Sempione fino al cimitero Musocco e infine, lungo il viale Sempione (oggi si chiama corso Sempione), all’Arena. Lo striscione viene alzato, proprio all’ultimo momento, davanti alla trattoria Isolino. I corridori sono protetti, si fa per dire, dai cavalleggeri al galoppo. A vincere la tappa è Dario Beni, il romano che ha vinto la prima e che aveva promesso di vincere anche l’ultima. A vincere il Giro è Ganna. A vincere la scommessa, forse anche la storia, è “La Gazzetta dello Sport”.

Ma chi è Ganna? E’ un povero cristo. Dignitoso, rispettoso, forte, atletico, povero. La povertà ha il suo peso. Quando nasce Luigi, o Luisìn come lo chiamano in famiglia, Induno Olona ha la scuola elemnatare (lui frequenterà un paio di classi), ma non il telegrafo, non la farmacia, non l’ospedale. E’ il nono di dieci figli, ma tre sono già morti. E’ del 1883, lo stesso anno in cui nasce Benito Mussolini. Alla nascita, in casa, e dove se no?, il medico è sostituito dalla levatrice. Luigi imparerà a scrivere, ed è già tanto. Strada facendo, cioè facendo lavori di strada, imparerà anche a fare di conto. Imparerà soprattutto a soffrire. A 13 anni perde la mamma, a 19 il papà. Resta l’unico maschio di casa: una colonna d’Ercole. Fa il muratore. In dialetto, magutt. Come muratore sarà anche Learco Guerra, “la Locomotiva Umana”, nato 19 anni dopo vicino a Mantova, poi campione del mondo. La fatica scolpisce, la fatica fortifica, la fatica struttura, la fatica fa e farà sempre la differenza, anche su una bicicletta.

Ganna, nel ciclismo, esordisce a vent’anni. Oggi, a vent’anni, c’è chi già nauseato ha smesso di correre. Gianni Brera scrive che, alla prima uscita, a Milano, in Piazza d’Armi, Ganna batte tutti. E’ il 1903. Un anno più tardi vince la Milano-Melegnano-Milano, 60 chilometri, per dilettanti di seconda categoria. Il mondo delle corse è il Far West, i pionieri sono cowboy, cavalcano bici invece di puledri e stalloni. La gavetta è lunghissima. La rincorsa lunga. La rivelazione nella Milano-Piano dei Giovi-Milano, 250 chilometri: primo davanti a due fuoriclasse come Pavesi e Galetti. Da quel momento in poi Ganna entra in un’altra dimensione: quella dei campioni.

Dunque, la classifica finale del primo Giro d’Italia recita: primo Ganna Luigi punti 25, secondo Galetti Carlo punti 27, terzo Rossignoli Giovanni punti 40. Carena, sospettato di essere salito e sceso da un treno, assolto, figura trentasettesimo. L’altro sospetto, Carcano, probabilmente giudicato colpevole, non c’è più. Se nelle otto tappe Ganna colleziona 25 punti, Giuseppe Perna, siciliano di Regalbuto, provincia di Enna, ne somma 297. Quarantanovesimo e ultimo, Perna è uno di quei corridori che Cougnet definisce “attori generici”, che “hanno una parte importante e servono a dare maggiore risalto alle linee del dramma”. Ma chi è l’ultimo se non il primo da un altro punto di vista? E chi dice che non sia quello il punto di vista giusto? Di certo, è il punto di vista più umano. Perfetto – e lo avrebbe dimostrato un altro ultimo, Luigi Malabrocca, il primo ufficialmente capace di ribaltare la classifica generale – perfetto per il Giro d’Italia, questa divina commedia così umana.

E Milano ha il cuore in mano. Si dimostra affettuosa e generosa. Secondo i calcoli degli organizzatori (ma su questi bisogna andarci sempre con molta cautela) gli spettatori al finale dell’ultima tappa potrebbero essere anche centomila. Ganna, quando fa per proseguire in bici dall’arrivo all’Arena, viene fermato dalla folla e portato in trionfo.

La sera di quel 30 maggio 1909, alla festa organizzata al Teatro Dal Verme, a Milano, un giornalista della “Gazzetta dello Sport” domanda a Ganna come si senta. E Luigi, dopo quasi 2500 chilometri su strade infernali e con bici pesanti ed elementari come cancelli, risponde, semplicemente: “Me brusa el cu”. Che non ha bisogno di traduzione.

 


Nibali, borracce e ragazzini, in una calda giornata siciliana

I ragazzi dietro le transenne che urlano "borracce! borracce!", più che chiederle sembra che stiano trattando i prezzi al mercato, per il modo, la cadenza da venditori smaliziati, per quell'insistenza che è l'insistenza ingenua e tipica che si ha quando si è giovani.
Scene di un ordinario Giro d'Italia che se le racconti sembrerebbe di sfociare nella finzione. Come i due bambini senza casco che in zona pedonale sfrecciano su uno scooter che dal rumore pare elaborato.
Stanno inseguendo Lennard Kämna - ci stiamo ancora chiedendo cosa ci facesse la maglia azzurra in via Loggia dei Mercanti a fine tappa. Kämna si gira e gli passa una borraccia come di solito l'ammiraglia la passa al corridore.
Messina è questa. Calore e passione. Tifo sfrenato per Vincenzo Nibali che dopo la tappa si commuove annunciando il ritiro a fine stagione: «È arrivato il momento di restituire alla mia famiglia tutte le ore che ho dedicato al ciclismo». Ha scelto la sua Messina per dirlo, oltre che gran corridore, mossa da narratore navigato.
Quella Messina dove sua sorella stamattina nella cartoleria di famiglia sorrideva, timida, riservata, e ci raccontava quasi con un filo di voce: «È una cosa bellissima quella che ci fa vivere Vincenzo, ma – sorride - è anche un po' stressante». Sulla parete dietro la cassa una foto con Antonio e Vincenzo, e poi la maglia gialla incorniciata. C'è anche Manuel, il nipote di Vincenzo, sta seguendo l'inizio della tappa sul computer nel retro del negozio.
La Messina di Nibali è quella di Salvatore "il re degli arancini", un fiume in piena che ci racconta di quando il corridore siciliano girava in bici fin dentro la sua rosticceria: «Faceva avanti e dietro e non se ne andava finché non gli davamo un arancino».
La Messina dei tifosi è quella di altri due ragazzini, hanno la tuta e lo zaino del Team Nibali e fanno foto a ogni ammiraglia che passa accompagnando tutto con un “olè!”.
Messina oggi non è stata né di Cavendish né di Ewan, ma di Démare, che si sfilava in salita con intelligenza, soffriva come può soffrire un velocista in salita, ma lo faceva per non perdere un filo di energia. Rientrava mettendo subito i suoi a tirare e poi battendo tutti sul rettilineo controvento di via Garibaldi.
Messina è quella del signore che ci racconta di suoi figlio che ha corso in una squadra toscana per qualche anno: «Ma costava troppo, le trasferte, la bici... sapete quanto l'ho pagata la sua Colnago? Cinque milioni di lire, e quando ha voluto mollare gliel'ho tagliata in due».
Ciclismo, passione, e un po' di follia: siamo in Sicilia, non potremmo che definirla trinacria. A fine giornata il sole batte ancora forte sulle nostre teste e sullo sfondo si vede la Calabria, da dove domani la carovana riprenderà il suo viaggio.


Juanpe: luna bianca, luna nera

Sui crateri dell’Etna si parla di ciclismo: ci si arrampica mentre la terra nera, mista a minuscoli sassi, rotola a terra, poi si inizia a parlare. Si sale in alto per vedere meglio, ma si è disposti a scendere per cercare chi vuoi vedere, di traverso, per frenare il peso del corpo. «Se non arriva fra i primi, scendo e gli vado incontro» una sorta di regola del tifoso, di quelli che scendono mentre il gruppo sale perché cercano qualcuno che non è ancora arrivato.
Una sorta di luna nera questo vulcano che, quando cala il sole, è identico alla notte. A quella reale degli autisti di alcuni bus che per arrivare qui hanno guidato ventidue ore e stamattina sono ripartiti all'alba, a quella figurata di Miguel Ángel López che si ritira e di Tom Dumoulin che si è staccato dal gruppo ai meno nove dal traguardo. Una sorta di luna nera spazzata dal vento come un'altra luna in terra: il Mont Ventoux, bianco come la vera luna.
Bianco come la carnagione di Juan Pedro Lopez, per tutti "Juanpe", che è giovane di età e di emozioni. Lui che fugge due volte: fugge al mattino come fanno in tanti qui al Giro d'Italia e torna a fuggire mentre quella terra nera finisce nelle narici e una coppia canadese sui crateri chiede se anche i ciclisti mangino arancini. Bizzarra domanda, ma tant’è.
Fugge “Juanpe” come lo chiama anche chi non lo conosce e chiede chi sia. Supera Oldani che non ce la fa più e al traguardo viene tranquillizzato dai cronisti: “Tranquillo, Stefano. Riprendi fiato. Quando te la senti, parliamo”. Fugge “Juanpe”, viene recuperato e anche beffato sul traguardo da Leonard Kamna che quello scatto lo aveva nelle gambe da chissà quanto. Da Budapest, probabilmente. Quasi lo scatto fosse una sua proiezione, l’ombra lunga dei ciclisti che, in certi punti sembra precederli quassù. Fugge, perde, ma indossa la maglia rosa e parla con la voce che trema. Dice che lui è qui per Ciccone, che questo non cambia nulla. Anche se per lui, almeno oggi, cambia tutto, è ovvio.
Dicono che “Juanpe” si fidi di tutti in squadra e lo dicono sinceramente. Si fidi soprattutto di chi gli prepara le biciclette che, se ci pensate, è una fiducia enorme perché da lì dipende la tua gara, le sicurezze che puoi avere e le insicurezze da lasciare da parte. Noi diciamo che “Juanpe” domani riparte in maglia rosa e, anche quando tornerà a lavorerà per Ciccone, e si sposterà andando nelle retrovie, avrà tanti tifosi che gli andranno incontro, invece di aspettarlo. Luna nera o luna bianca.


Le domeniche senza Giro

Mentre il mare si agita, quasi succube di quelle nubi che i vetri del traghetto lasciano intravedere, ognuno fa i conti con il proprio tempo. Messina è ancora lontana e le cabine in cui ci si chiude a riposare troppo piccole per restarci nove ore. Si esce sul ponte, dove il fumo delle sigarette è spazzato via dal vento e ci si affaccia a guardare la spuma bianca che lo scorrere della nave lascia sul mare. La vertigine è lì, nelle mani che si stringono il parapetto e nei corpi che restano indietro, gettando in avanti solo il capo, per guardare.
Cosa sta accadendo in Ungheria, vicino al Lago Balaton, qui non lo sa nessuno. La connessione internet è assente da pochi minuti dopo la partenza e la televisione trasmette pochi canali, nessuno che restituisca qualche immagine del Giro d'Italia. Appena il traghetto si avvicina alla costa, in corrispondenza di qualche centro abitato, col segnale che torna si prova a cercare qualcosa: "Stanno andando piano, arriveranno tardi". Fino a tarda sera, è l'ultima cosa che sappiamo del gruppo. Il resto ipotesi, supposizioni ai tavoli accanto al ristorante.
Chi sale sul traghetto la domenica pomeriggio o va al lavoro o torna a casa. In ogni caso, quello è il momento in cui tutto si interrompe e, anche se stanco, scherzi. Oppure ti distendi su un divanetto e ti addormenti coperto da un cappellino. Sono i camionisti: qualcuno racconta a un ragazzo di quando, di notte, per non cedere al sonno, suona il clacson ai colleghi, si saluta, un sorpasso e via.
Il tempo sospeso è anche quello di ciò che chiunque potrebbe fare a casa, in una domenica qualunque: la Formula1, il Giro d'Italia e il televisore in salotto. Qui no e gli sbadigli testimoniano questo piccolo vuoto. Un signore, dopo di noi, chiede di cambiare canale, ma ritorna al tavolo con un pugno di mosche. Così, sul ponte, pensiamo a quante ore mancano, a chi per lavoro o per altri motivi di domeniche così ne vive tante, a chi sognerebbe di andare a vedere il Giro d'Italia passare come quando andava a scuola, ma sarebbe già felice di poterlo vedere a casa, con un figlio che fa i compiti per il lunedì e di tanto in tanto alza la testa a guardare la televisione.
Sono già passate le otto quando sappiamo che ha vinto Cavendish, dopo nove anni, a più di settanta all'ora, in volata. Cerchiamo l'ordine d'arrivo, mentre la connessione ritorna. In fondo, è sufficiente questo. Una notizia che ti arriva da una corsa di biciclette e ti ricollega alla realtà.