Tornerai, Miguel

Per Miguel Ángel López è crollato tutto dopo 9'38'' dall'inizio del Giro d'Italia. Lo ha spiegato lui stesso, ieri sera, in albergo, parlando con i suoi compagni: «Mentre appoggiavo le mani sulla protesi, ho sentito la bici scivolarmi via. Era impossibile trattenerla: si è ribaltata sotto di me. Qualcosa di incredibile». Il referto medico ha escluso fratture evidenziando solo una profonda ferita nei pressi dall'arteria iliaca, recupererà nelle prossime settimane, insomma. L'uomo è un impasto più complesso, l'uomo non può fermarsi al dato di fatto degli esami clinici, la sua mente non glielo permette. Come quando la scienza sentenzia: «Lei sta bene. Non ha nulla». E tu non riesci a spiegarti come sia possibile, tanto fa male. Forse il viso di Lopez, appoggiato alla testata del letto, con gli occhi rivolti verso l'alto, vuole dire proprio questo. Cenghialta, suo direttore sportivo, lo ha detto mentre lo attendeva in ospedale: «Ora si è tranquillizzato, ora è più calmo. Dobbiamo solo aspettare». Quel sorriso dissimulato, rivolto ai compagni, sottintendeva questo: «Sono più tranquillo, va tutto bene. Se non c'è niente di rotto va bene, come dire il contrario?». In realtà non va bene niente e, prima di tutto, non va bene aspettare. Aspettare ancora. L’attesa ha senso quando c’è la possibilità di riempirla di significato con ciò che verrà. Quando ti strappano via da ciò che hai atteso, come non fosse ancora il tuo turno, come non fosse lì per te, come tu non fossi la persona giusta, dell’attesa proprio non vuoi sentire parlare.

Non abbiamo mai corso un Giro d’Italia in bicicletta ma lo abbiamo percorso in auto, per raccontarvelo. Sappiamo cosa significhi l'attesa di un evento del genere che è poi simile ad ogni altra attesa cercata, voluta. Abbiamo vissuto l'immaginazione che ti traghetta lì, al tuo primo Giro d'Italia o al ventesimo ma poco cambia o dovrebbe cambiare. Se smetti di aspettare ciò che vuoi vivere che senso dai al tuo essere qui? Quando aspetti ciò che vuoi, le ore che si dilatano sono direttamente proporzionali alle paure che ti assalgono. Vuoi essere parte di questo qualcosa in maniera così forte che vedi tutti gli ostacoli che potrebbero impedirtelo e speri solo non si manifestino. Non è tanto questione di ottimismo e pessimismo, accade quando ci tieni. Come quando hai un appuntamento per una sgambata e dieci minuti prima squilla il telefono, la mente corre: «Dimmi che non rimandiamo». Come quando aspettate la vostra gara per tanto tempo. Accade come è accaduto per i tanti eventi in bilico in questo periodo di norme anticovid. Come è accaduto anche per questo Giro d'Italia, ad ogni risalita dei numeri dei contagi. Per gli appassionati, per noi che lo raccontiamo e gli vogliamo bene, e per tutti gli atleti che, su questo Giro, hanno scommesso mesi. Mesi duri, difficili, senza certezze, chiusi in casa, in un vortice di dubbi. Poi i giorni si avvicinano e il Giro parte. Tu sei lì e te lo dici: «Ci siamo. Ho immaginato bene, sono qui. Ora si va, via». E magari sei come Miguel Ángel López ieri e non lo sai. Non sai che dovrai gustarti quella manciata di chilometri e basta. Perché la "bicicletta ti si ribalterà sotto" e non potrai fare nulla. Ti caricheranno su una barella, ti porteranno in ospedale e, fatti tutti gli esami, ti indicheranno una prognosi. Un numero che ti dirà fino a quando dovrai aspettare per poterci nuovamente sperare.

Ma qui le ore saranno ancora più lunghe, i mesi più difficili, le stagioni interminabili. Sì, perché quando ti strappano via dal tuo momento poi sembra impossibile un ritorno. E se torni e poi succede ancora? Se torni e non accade nulla di quello che desideri? In certi momenti ti dici anche che è inutile tornare, ti chiedi il senso del ritorno. Di lavorare tutti quei mesi e poi chissà. Quanto può essere cattiva la vita? Non serve chiederselo. Serve riprendere in mano quella bici e andare. Tirando qualche pugno sul manubrio, imprecando, magari anche sbattendola contro qualche muro in qualche momento no: ma poi riprendendola in mano e controllando che sia a posto. E, magari, quella stessa vita ti farà trovare sul cammino qualcosa di così inatteso, ma bello questa volta, per cui valga la pena. Più verosimilmente non sarà qualcuno a darti una ragione per aspettare e tenere duro ma sarai tu stesso a doverla cercare. Perché lo sai bene ormai: chi aspetta può essere deluso ma chi smette di aspettare è disilluso. E questo è ben più grave. Un ciclista non può permetterselo, un uomo non può permetterselo. Ricordiamocelo quando aspettare stanca.

Foto: Bettini


Filippo Ganna è straordinario

Permetteteci di dirlo: Filippo Ganna, oggi, è stato semplicemente stupendo. Per quella bicicletta dorata, omaggio alla perfezione del mezzo che sfida il vento (ma "ghe voeren i garùn" come ricordava qualcuno) e per quella maglia iridata che ne scolpisce ogni centimetro di muscoli, ogni proiezione di forza, di potenza. Ancor di più: è stato commovente nella semplicità con cui ha risposto alle domande dei cronisti dopo il traguardo, un profumo di normalità che ben si mescola all'atmosfera di questa Sicilia agli albori dell'autunno, spazzata da un vento caldo che ricorda Luglio. Gianni Mura spiegava che il vento, e lui parlava di quello del Mont Ventoux, è come una mano che ti prende e ti sposta. Un consigliere del timore che sconsiglia azioni di fantasia e ti spinge indietro, di lato, obliquamente, persino a terra, se provi a non ascoltarlo. Quel vento traditore e multiforme che appare e scompare, ingrandendo e ridimensionando aspettative e progetti. Quello che fa sentire gli uomini tanto piccoli e impotenti, che ne quieta la tracotanza, come tutti i fenomeni atmosferici che sovrastano e dominano il mondo.

Gli atleti, almeno nelle prime fasi di gara, sono scostati dal vento, devono mettere nelle braccia altrettanta forza di quella che mettono nelle gambe, per reggere il mezzo. Per segnarne ed indirizzarne il tragitto. Il confine dell'impossibilità che si manifesta, quello dove l'uomo deve rallentare, riflettere e dare il massimo per non arrendersi. Accade nella vita, accade in sella. In certe circostanze, restare in sella è tutto ciò che sia possibile fare. Devi dare tutto ciò che vali, questo conta, poi le condizioni esterne avranno un impatto sulla tua prestazione, ma di quelle non devi farti carico, quelle sono da sopportare, da vivere. Siete capitati nello stesso istante, nello stesso luogo, o scappi o accetti la vertigine.

C'è poi qualcuno che quella vertigine può domarla. Che ha un dono, una dote per cui in quel timore di caduta vede una possibilità. Qualcuno che non nasce oggi, come non nasceva poco più di una settimana fa al Mondiale di Imola o qualche mese fa al Campionato italiano. Giusto per ricordarlo. Qualcuno che a quell'essere saldo, marmoreo, vettore di spazio e tempo, ha lavorato silenziosamente per anni. Sin da ragazzino, sì, perché i talenti puoi possederli ma devi crescerli, coltivarli, curarli. Proprio in segno di gratitudine, verso te stesso e verso la natura che ha scelto te: non era dovuto. Filippo Ganna ha fatto questo per tanti anni e continua a farlo, silenziosamente, con coscienza ed occhio critico. Prima di tutto verso la propria persona. E tutti sappiamo come questo sia merce rara in tempi di giudizi sparsi a pioggia, quasi se li portasse via il vento.

Filippo Ganna che percorre i 15.1 chilometri della cronometro inaugurale del Giro d'Italia numero 103 ad una media di 58.8 chilometri orari. Che percorre un chilometro in meno di un minuto, 51 secondi per la precisione. Che supera i 100 chilometri orari di velocità. Che è campione italiano e campione del mondo della specialità. Che è tanto altro, tutto da scoprire e da raccontare, magari con lo stesso stupore del suo viso di fronte ad ogni nuovo successo. Filippo Ganna, di Vignone, che oggi è maglia rosa, nel primo giorno del Giro. E non abbiamo ancora detto tutto.


Alessandro Tonelli spiega la fuga

Se vi capita di scorgere la lista di partenza di una qualsiasi corsa e di leggere "Alessandro Tonelli" fra gli iscritti, allora già sapete che lui, molto probabilmente, andrà in fuga. Solo di recente è successo alla Milano-Sanremo, ha proseguito poi alla Tirreno-Adriatico come fossero azioni collegate l'una all'altra, ma in realtà accade così tante volte da non riuscire nemmeno ad avere un dato certo. «Ma non è che io vada in fuga tanto per fare» esordisce così Alessandro Tonelli, ventottenne della provincia di Brescia, per la precisione di Bornato, come spiega qualsiasi guida che parla di quella zona e come sottolinea lui, fiero, «Nel cuore della Franciacorta dove si produce il famoso vino».

«Andare in fuga è l'unico modo che ho per vincere» ribadisce. Al Giro d' Italia di due anni fa, l'unico al quale abbia partecipato fino a oggi, il ragazzo della Bardiani-CSF-Faizanè ci provò almeno tre o quattro volte: non è sicuro nemmeno lui del numero preciso, mentre ce lo racconta.
Tuttavia, Alessandro Tonelli è un ragazzo pratico; lo capisci dal primo scambio di parole: per lui le fughe non sono mai un romantico sogno d'evasione, quanto un concreto atto verso la libertà. E quando ci sei dentro non è che hai tempo di pensare ad altro, se non alla corsa. Un gioco macabro con il gruppo che ti insegue, acqua che prova a spegnere il fuoco, una partita a scacchi a dimensione umana e dove i muscoli e le gambe muovono le pedine. «E la testa fa la sua parte. Perché la fuga, se vuoi che arrivi, devi saperla gestire, devi batterti con il gruppo, provare a ingannarlo, ma non tutti ci riescono e soprattutto, il bello o il brutto dipende dal punto di vista, è che la fuga non sempre va all'arrivo». Che sia quello il suo fascino? Che sia quello il motivo che ci spinge a raccontare più spesso e volentieri l'ultimo del gruppo oppure le storie di anarchici fugaioli, piuttosto che cannibali e tiranni? «Io da sempre vado all'attacco: era così da ragazzo, è così adesso. L'unica corsa che ho vinto tra i professionisti, nel 2018, l'ho vinta dopo un fuga».

Puoi metterci tutta la forza che hai, puoi sbizzarrirti con tutta la tattica che vuoi, ma «Il destino di una fuga alla fine lo decide il gruppo. Due anni fa al Giro gli attacchi da lontano non arrivarono quasi mai, lo scorso anno sono arrivati praticamente tutti. Classifica generale e squadre dei leader ne condizionano il buon esito». Lo abbiamo definito macabro, ma appare quasi ingiusto: sembra di avere il proprio destino stretto nelle mani di qualcun altro, ma non c'è solo questo. «Prendere la fuga non è mai semplice. A parte nelle tappe che sai che finiranno in volata e allora va via una fuga all'inizio che verrà ripresa, andare all'attacco diventa questione di gambe. Di colpo d'occhio, di tempismo. In fuga ti ritrovi anche signori corridori. Alla Tirreno-Adriatico ero con van der Poel e Visconti, alla Milano-Sanremo eravamo i bresciani: Cima, Frapporti e io. C'è stata una tappa alla Tirreno dove ci sono voluti settantacinque chilometri per portare via, di forza, la fuga».

E per una volta che non va in fuga Alessandro Tonelli rischia di lasciarci la pelle e non è un modo di dire. Siamo in Cina al Tour of Qinghai Lake. È la sesta tappa. Il gruppo sbanda a causa di una folata di vento «Fa un'onda, come si dice in gergo, e io, che ero all'estremità del plotone, mi trovo sbalzato contro un paletto: da cinquanta chilometri orari a zero nel solo impatto. Svengo, non ricordo più nulla e mi risveglio in ospedale. Dieci costole rotte, la scapola fratturata e uno pneumotorace. Resto in Cina per quarantatré giorni: una quindicina di ospedale a Xining a quasi 2.500 metri di altitudine. Il problema era che non potevo tornare a casa in Italia, senza aver pienamente recuperato. E allora avevo una badante che mi aiutava a cambiarmi e a mangiare, una traduttrice dal cinese all'inglese per riuscire a farmi capire almeno dai dottori, e per fortuna dopo qualche giorno anche mia sorella: la Cina è lontana e avevo bisogno dell'affetto di un familiare» racconta sereno, cosciente che quell'episodio, inevitabile, fa parte oramai del suo bagaglio d'esperienza.

E quanto Alessandro Tonelli sarebbe voluto andare in fuga da lì! «Ma non potevo» afferma con una mezza risata, prima di farsi serio «Dovevo pensare a stare bene fisicamente; semplicemente perché il ciclismo è solo una parentesi della nostra esistenza, mentre il corpo devi mantenerlo tutta la vita e quindi la mia preoccupazione maggiore era quella di non aver subito alcuna conseguenza fisica da portarmi dietro per sempre. E così mi consigliarono, una volta guarito, di scendere verso Pechino per iniziare a recuperare e allora mi sono goduto il resto dei miei giorni in Cina come turista infortunato e quello che ho visto... le differenze tra loro e noi. Ho girato il mondo e non ho mai visto tante contraddizioni. Sono avanti dal punto di vista tecnologico, ma tutte le informazioni che arrivano a loro sono filtrate. Hanno Google e i vari Social bloccati perché il governo decide quali informazioni dare e quali no. Non hanno WhatsApp, usano WeChat e i mendicanti in giro per la strada lo sfruttano per chiedere l'elemosina. Sì, avete capito bene: fanno l'elemosina col telefonino; anche i poveri hanno il conto in banca collegato a WeChat e tramite il QR Code chiedono i soldi» E poi ci racconta del cibo: «Solo pollo e riso» e di come per strada trovi, testualmente «Gente che rutta e scatarra: e per loro è una cosa del tutto normale!». E poi ancora: « Oppure una volta ero al ristorante a fare colazione, la sala vuota, il posto davanti a me libero: un signore si è seduto al mio tavolo come se nulla fosse» racconta divertito.

E se viaggiare diventa «uno dei fattori che più appagano le mie scelte di vita», stare tutto il giorno al vento contribuisce a fargli amare un mestiere che non fa sconti. «Non sono un vincente, non lo sono mai stato e allora mi devo far piacere altre cose, altre situazioni: come amare la fatica oppure pedalare in solitudine sulle montagne intorno alla mia zona. Perdermi a osservare la natura - cosa che faccio anche nel tempo libero facendo trekking con gli amici di sempre». E poi si torna lì: la fuga. «Sono sempre stato un attaccante e quindi non mi disturba stare sempre in fuga, anzi, per certi versi faccio meno fatica davanti che in gruppo. E poi l'ho scelto io, perché amo spostare i miei limiti e provare fino a dove posso arrivare con il mio fisico e con la mia mente». Sognando che prima o poi una fuga con lui dentro possa andare fino all'arrivo, magari al Giro d'Italia. “Le antiche arene sono un cerchio chiuso dal quale nulla può scappare” scriveva Elias Canetti. Diteglielo a uno specialista della fuga come Tonelli, e vediamo.

Foto: Bettini/per gentile concessione dell'Ufficio Stampa Bardiani


Siamo tutti Alaphilippe

La storia di Julian Alaphilippe è una di quelle storie in cui tutti ci siamo immedesimati sin dal primo momento. E ci siamo immedesimati perché è storia sua ma, in realtà, è storia nostra. Accade con quelle vicende che racchiudono ciò che tutti viviamo o abbiamo vissuto. Magari non integralmente, magari solo per brevi tratti, magari di riflesso ma sappiamo bene cosa c'è lì dentro, sappiamo bene cosa si prova a stare in quei panni. Quando gioisce qualcuno con quella storia, in fondo, gioiamo tutti. Come se esorcizzassimo qualche groppo in gola, come se guardassimo a tutto quello che ci ha fatto del male e gli dicessimo in faccia: «Vedi? Ci rialziamo lo stesso». Certe storie ci fanno forti. Questo è il bello. Ed è per questo che, appena Alaphilippe ha alzato le braccia al cielo, domenica, siamo tornati indietro e, col pensiero, abbiamo rivisto tante cose. Per lui ma in realtà per noi.

Abbiamo ripensato ai giudizi. Sì perché a tutti è accaduto, almeno una volta ma in realtà molte di più, che un giudizio ci ributtasse là, in fondo al buco nero dove ci siamo sentiti invisibili ed inascoltati. Magari dopo che tanto avevamo fatto per uscirne. Dopo che tanto ci avevamo creduto. Quando eravamo così giovani e di credere avevamo tanto bisogno. E non c'è nulla di peggio soprattutto nell'età della crescita. Un preside me lo disse, qualche anno fa. «Tutte le parole hanno un peso ma le parole pronunciate nei confronti di persone di una certa età, giovani o adolescenti, pesano molto di più. Quelle parole possono rovinare una vita. Certi non ci pensano». Julian è passato da quelle parole: «Suo figlio non ha le capacità per frequentare un liceo. Non ha nemmeno il fisico per frequentare una scuola di ciclismo. Anzi sarebbe il caso che iniziasse a lavorare invece di perdere tempo con gli amici». Qualcosa di questo tipo, qualcosa di questa forza. Le critiche possono servire per crescere, i giudizi perentori no. Quelli distruggono senza dare una seconda opportunità. Senza nemmeno considerare che in errore potrebbe benissimo essere colui che quel giudizio lo ha emesso. Non conta nulla l'età, l'esperienza e tutto il resto. Sbagliano tutti, persino le eccellenze. Essere eccellenza, in realtà, dovrebbe essere un concetto a larga scala, fondato sulla meritocrazia delle capacità e delle competenze ma affiancato dalla sensibilità e dalla cura. Chi sfoggiando la propria capacità, vera e presunta, irrida o distrugga le speranze di altri dovrebbe sottoporsi a un serio esame di coscienza. Catherine, mamma di Julian, ha creduto a quei giudizi, e forse non poteva fare altrimenti date le circostanze. Papà no. Papà ha creduto in un futuro che pareva impossibile. Ha creduto che, forse, quell'irrequietudine del figlio fosse solo sinonimo di un qualcosa da cercare, da trovare. Che quelle biciclette, che tanto gli piacevano, potevano essere un mezzo per farsi strada tra tante cose.

Abbiamo pensato a tante altre cose ed in particolare alla mancanza. Tutti abbiamo qualcuno che ci manca. Perché non c'è più o perché c'è ma è altrove. A tutti mancano delle braccia per essere stretti e delle mani a carezzare il volto. Possiamo cercarle ovunque e non le troveremo più. Altri ci abbracceranno, altri ci accarezzeranno le gote ma non sarà la stessa cosa. Bisogna dirlo. Certe braccia e certe mani le perdi una volta e non ci sono più speranze di riafferrarle. Julian rivorrebbe quelle di papà. Dice che la sua mancanza gli ha tolto il fiato, gli ha tolto tutto. Dice che il mondiale è per lui e piange, guardando il cielo. Sappiamo come si sta. Sappiamo la paura che fa la parola "sempre" in queste circostanze. Fa talmente paura che ci si rifiuta di accostarla alla persona che "abbiamo perso per sempre".

La storia di Julian è la storia di tutti noi perché sa di umanità. Perché racconta umanità e rifugge ogni stereotipo di forza, di perfezione, di eroe che non teme niente e nessuno. Gli uomini non sono così e nemmeno i ciclisti lo sono. Nemmeno se vincono il Tour de France o il Mondiale. Nemmeno se la narrazione sportiva così li dipinge. Forse si raccontano gli sportivi in un certo modo pensando di incuriosire la gente. Di mostrare quel lato "invincibile" che tutti vorremmo, specie quando la vita presenta il conto. Per questo ci sono i supereroi o i miti dell'infanzia. Ed è un bene. Degli uomini e delle donne, invece, ci interessa tutto il resto. Ci interessa la loro gioia, la loro sofferenza ed il loro essere ancora qui. Ci interessa il modo di tenerli stretti per farli restare qui, anche quando dubitano o hanno paura. Nonostante tutto. Come Julian.


Un ciclismo diverso: Antwerp Port Epic

Il porto di Anversa si presenta come ogni... porto. Container colorati come piccoli mattoncini lego, luci azzurrognole sfumate all'orizzonte come fuochi fatui, enormi gru, sirene che segnano il cambio del turno e cicalii che evidenziano il movimento di grossi tir. Una litania di omini in arancione e casco giallo segnalano, sventagliano, dirigono, controllano: il porto di Anversa si presenta come ogni porto.

La sua importanza però è superiore a quella di "ogni porto". Ad esempio la sua estensione, che supera di gran lunga quella della città di Anversa - circa quattrocentotrenta chilometri di strada, quasi duecento di moli, oltre un migliaio di linee ferroviarie - non è quella di "ogni porto". Ne ha fatta di strada, se così si può dire, quel piccolo insediamento sul fiume Schelda da quando «nel 1803, l'imperatore Napoleone compì la sua prima visita in città e dette il via a importanti lavori in vista della costruzione di due moli». Oggi è il secondo porto in Europa come volume di traffico.

E tutto intorno strade di sabbia, ciottoli e asfalto che tagliano in ogni maniera il polder, campi di grano che delimitano vie d'accesso, principali e secondarie. Lì, da un po' di anni, si corre la Antwerp Port Epic. Esaltazione dell'umana concezione dello spirito agonistico: fango e polvere come nella migliore delle tradizioni. Il vento, poi, soffia in faccia in modo così violento che devi essere per forza un belga o un olandese per farti piacere questa corsa.
E quando sei belga e ciclocrossista, qualche vantaggio ce l'hai. Gianni Vermeersch ha vinto l'ultima edizione dopo aver fatto gara d'attacco «perché è l'unica tattica che ti puoi permettere in corse di questo genere».

Meglio stare davanti che dietro, meglio aprirsi un varco nella polvere che mangiare quella del tuo avversario e una volta tanto non in senso figurato come fosse un dialogo di Tex. Vermeersch di fango si è ricoperto a sufficienza nel ciclocross dove stringe un rapporto tale con van der Poel da aiutarlo come un fedele compagno in ogni corsa, da esaltarsi come quando l'olandese vinse l'Amstel Gold Race. «L'unica cosa che sentii quel giorno fu il frastuono nelle cuffie e allora capii che qualcosa di bello era successo».

Ed è belga anche Bert De Backer, quattordicesimo all'arrivo dell'Antwerp Port Epic e che a fine stagione potrebbe smettere di correre. Bert De Backer doveva fare il Tour e invece lo dirottano a nord: ventinove chilometri di pavé e trentanove di sterrato. Non che a uno come lui diano fastidio, d'altronde pare abbia scelto la Paris-Roubaix per abbandonare il ciclismo. «L'undicesimo posto nel velodromo di Roubaix è il risultato di cui vado più orgoglioso nella mia carriera. Sapevo che non avevo il talento dei leader ma quella volta mi resi conto che era inutile continuare a lamentarmi. Faccio il lavoro più bello del mondo e guadagno più di quello che avrei guadagnato con il diploma. È la mia corsa e so che potrei arrivare anche a giocarmela. Se mi ricordo come si vince? Mica tanto. L'ultima volta che ho alzato le mani dal manubrio stavo simulando una vittoria tornando da scuola in bici. Provai anche ad impennare e finii per terra con tutto lo zaino».

E lo sguardo di De Backer a fine corsa dice tutto. Esprime la durezza di una competizione che va a inserirsi nel contesto di un ciclismo che sceglie la via dell'antico per selezionare i gruppi, vendere spettacolo e marcare le differenze; sterrati anche all'interno di grandi giri, arrivi con paesaggi mozzafiato, corse come Strade Bianche o Tro-Bro Léon che fanno il giro del mondo, oppure le modifiche a un percorso tradizionale come quello della Paris-Tours che ora riscopre i sentieri per diventare ancora più attraente. Vecchio e nuovo mescolati per ridare aria a un ciclismo altrimenti spesso così monotono come una tappa di pianura con i suoi interminabili passaggi su strade che sembrano autostrade con le rotonde.

E Bert De Backer esprime stupore più che sofferenza. Ha lo sguardo di chi è passato in mezzo alle pannocchie, ha fatto tribolare i suoi muscoli per stare in piedi, ha bestemmiato quando ha forato. Uno sguardo che abbaglia quanto l'orizzonte affabulatore che si staglia da dietro la corsa. Piccoli ciclisti colorati e sullo sfondo, in mezzo alla polvere granulosa, enormi ciminiere, antenne, pale eoliche che sembrano appartenere a un vecchio Luna Park ormai dismesso.
Si parte e poi si arriva nella Het Eilandje, la "piccola isola", a rendere ancora più forte la contraddizione. Quartiere di Anversa ricostruito come fosse la scena di un film patinato. Invece della polvere, mangi anguilla dello Schelda in salsa verde oppure sogliola e bistecche. Dalle cattedrali gotiche, come una piccola Gotham City disegnate dallo sfondo del porto vero e proprio, alla novità di una zona totalmente alla moda con magazzini ed ex mattatoi ricreati ad arte come una New York espressionista.

E intanto, lo sguardo di De Backer resta ugualmente pieno di polvere, più che smarrito ora è dubbioso, mai sofferente. Era lì per giocarsela, ma si fa riprendere a trecentocinquanta metri dall'arrivo. Per ogni corridore che arriva in fondo - quel giorno solo in quarantatré - queste corse sono sempre una scoperta.


Luigi Sestili: «Non ho mai smesso»

«Alle scuole medie, a Tolfa, eravamo dieci ragazzi e sette ragazze. Al sabato i ragazzi andavano a giocare a pallone e io restavo in classe con le ragazze. Mi prendevano in giro ma non mi interessava: a me non piaceva giocare a calcio, perché avrei dovuto giocarci solo per conformarmi? Preferisco essere controcorrente». Luigi Sestili racconta questo aneddoto per parlare del suo modo di essere, un’indole che permea ogni scelta. E allora va bene correre in bicicletta ma bisogna anche studiare: da qui l'iscrizione a ingegneria. Va bene essere professionista ma serve anche essere professionali: «ho trovato maggiore professionalità in alcune squadre del dilettantismo che del professionismo; che senso aveva continuare se poi comunque non sarei mai potuto arrivare dove volevo?» Va bene avere uno stipendio e una sicurezza economica ma non è l’unica cosa a contare. «Quando ho smesso di correre ho provato una forte amarezza, la prima sensazione è stata quella. Una sorta di dolore. Successivamente ho capito che avrei dovuto fare qualcosa per riscrivere la mia storia. Non lo avessi fatto, sarei finito in depressione. Credo che atleti si resti: non ho mai smesso di andare in bicicletta e le migliori idee per il mio lavoro sono arrivate proprio mentre pedalavo. Ho pensato che il racconto del ciclismo passa dalle storie di tutti gli atleti. Del primo parlano tutti, ma del secondo? Del momento in cui si accorge di essere secondo? Di tutti gli altri? Nel ciclismo provo a portare un approccio filosofico alla fotografia. Forse anche per questo, al termine del mio primo Giro d’Italia si era diffusa quella voce: “Lui è quello che fa le foto strane”. Un orgoglio per me».

C'è il ricordo di quegli anni in bici che ancora oggi provoca una lieve malinconia: «Ho seriamente creduto che il ciclismo potesse essere il mio lavoro: da dilettante ho vinto diverse gare. Da ragazzino mi addormentavo con Bicisport nel letto, sognando di finire su quelle pagine, e quando ho vinto il Prestigio Bicisport ero la persona più felice del mondo. Ho sempre creduto nella consapevolezza e al mio passaggio tra i professionisti ho capito che, nelle squadre in cui militavo, non c'erano le prospettive per correre le migliori gare, per essere alla pari con i più forti ciclisti del mondo, non c'era la professionalità richiesta. Sono stato lasciato a casa e, mentre aspettavo di essere contattato da un altro team, ho ripreso l'università, studiando Scienze Motorie. Un periodo davvero brutto. Più capivo che le possibilità di tornare a correre si assottigliavano, più il mio umore scendeva. Sono stato a un passo dalla depressione. Mi ha salvato un caro amico, l'ingegner Simonetti. Mi propose di raccontare su una sorta di blog ante litteram i miei allenamenti con foto e video. Non avevo gli strumenti adeguati e qualitativamente quelle foto erano davvero scarse però erano un modo per evadere. Per ritrovare un posto nel mondo. Ero davvero perso, non sapevo come indirizzare la mia vita».

Qualcuno lo nota, è Tony Lo Schiavo di Bicisport: «Mi propose di collaborare con la compagnia editoriale e per farlo fissammo un appuntamento con il direttore. Fu un colloquio davvero significativo. Appena mi sedetti, la domanda chiave: “cosa vuoi fare nel tuo futuro?” Dissi che non sapevo, che, forse, terminati gli studi avrei optato per l'apertura di un centro medico assieme a mia sorella. Feci capire di avere poche idee ed anche abbastanza confuse. Da lì quella sua risposta: “Scusa, allora cosa sei qui a fare? Se non ti interessa lavorare con noi, perché ti sei presentato oggi?” Fu una scossa di cui avevo bisogno. Decisi che avrei lasciato il ciclismo e mi sarei messo a scrivere, a raccontarlo. Grazie a quei colleghi avevo l'opportunità che cercavo. Ho imparato tanto e, per diversi mesi, ho anche pensato di essermi messo alle spalle quel passato ingombrante. Tutto crollò un pomeriggio».
Ilario Biondi e Claudio Minardi, fotografi della rivista, lo accompagnano nella sala fotografi e, pensando di fare cosa gradita, gli mostrano l'archivio fotografico che lo riguarda: «Vidi tre, quattro foto. Poi scappai con le lacrime agli occhi. Non riuscivo ad accettare quelle foto che mi ritraevano in sella. Il mio passato era ancora lì, tutto ciò che avevo fatto per superarlo non era servito a nulla. Tutto questo mi fece riflettere: ero arrivato ad avere un contratto a tempo indeterminato ed uno stipendio di tutto rispetto. Quella reazione significava, però, che non ero apposto con me stesso. Avevo avuto diverse idee che avrei voluto provare a sviluppare e le avevo proposte in redazione: non ne accettarono una. Ci rimasi male. Non dormii qualche notte e poi capii. Volevo avere la libertà di sviluppare la mia professione in maniera libera ed innovativa, quella era la via. A Bicisport non potevo farlo, dovevo rischiare. Presentai una lettera di dimissioni e mi licenziai».

Una sfida ma Sestili non teme le sfide. «Il mio direttore sportivo è stato Olivano Locatelli. Un sergente di ferro. Locatelli gridava, ci strigliava, non sempre per colpe nostre. Io gli ho sempre tenuto testa, ho sempre detto chiaramente il mio pensiero anche quando sarebbe convenuto tacere. Ho subito aspri rimproveri e sono andato in fuga, vincendo, per dimostrare il contrario. Sono così, in bicicletta come con una macchina fotografica al collo. Prendersi dei rischi vuol anche dire darsi delle possibilità. Mi sono iscritto a un corso di fotografia, ben sapendo che da solo sarebbe stato tutto più difficile. Provare a competere con le agenzie è difficile, pressoché impossibile. Se vuoi lavorare devi fare qualcosa di diverso. Devi dimostrare che qualcosa di diverso può essere fatto. Io faccio foto degli arrivi dove non le fa nessuno, di spalle. Al podio, non mi concentro sulla premiazione ma sul volto dell'atleta. In quel volto, finalmente solo, si condensa tutto. Il palco lo fotografano tutti, che senso ha? Ogni gara è una sfida, una prova, un test. Anche un rischio. Se sei solo e sbagli foto rischi di non avere il prodotto che dovresti vendere. Non è facile come dirlo. Ma è una grande soddisfazione. Le aziende mi cercano per questo, per questa vena narrativa. Per il mio intento: raccontare ogni piccola sfumatura del ciclismo. Penso ogni minuto a come fare una foto, programmo e invento. Vedrete qualche novità già al prossimo Giro d'Italia. Mi sento vivo».

Vivo e sicuro perché al suo fianco c'è papà: «Ho un ottimo rapporto con i miei genitori. Papà è speciale, è un amico. Lui sa tutto di me e non potrebbe essere altrimenti. Lui c'è sempre stato, è sempre stato dalla mia parte. Con discrezione e delicatezza, mi ha lasciato prendere la mia strada anche quando non la condivideva. Ogni sua critica è stata costruttiva. Se sono l'uomo che sono lo devo a lui. A tutti i pomeriggi in cui mi portava agli allenamenti pur essendo impegnatissimo con il lavoro, a tutte le nostre chiacchierate in auto ma anche al nostro modo di capirci senza parlare. Quest'anno temevo che la situazione attuale non ci consentisse di essere assieme in corsa. Quando ho saputo che anche lui potrà essere al Giro con me, mi sono emozionato».
Poi ci sono le parole per gli altri, quelle che Luigi Sestili indirizza a ogni ragazzo: «Siate consapevoli delle vostre capacità e di ciò che volete diventare. Disegnate la vostra strada, ascoltate i consigli di tutti ma date retta a quelle poche persone che davvero vi vogliono bene. E se siete convinti di qualcosa, andate fino in fondo. La gente, spesso, parla a vuoto. Voi credeteci e lottate per i vostri ideali mettendoci sempre la faccia».


Paolo Bettini racconta quel 28 settembre 2008

Paolo Bettini racconta in un video che cos'è per lui il 28 settembre. Oggi sua figlia Veronica compie diciassette anni e per lui diventa l'occasione per rievocare corsi e ricorsi. Perché quel 28 settembre 2008 ha significato la sua ultima gara, una scelta (quasi? forse?) doverosa dopo aver legato in maniera indissolubile la propria carriera alla maglia iridata.

Perché dopo averla inseguita per un decennio arriva, ma la vita gli porta via suo fratello. Nel 2006 a Salisburgo Bettini vince il Mondiale, dieci giorni dopo suo fratello muore in un incidente stradale e passano pochi giorni perché Bettini domini il Giro di Lombardia, in maglia iridata, appesantito dal dolore e dalle lacrime. Sauro, il fratello, come narra chi li conosceva da vicino, era una parte di lui. E Paolo, cresciuto nel mito di quel ragazzo che in bicicletta da giovane vinceva praticamente sempre, era straziato.

Paolo Bettini racconta di quando durante la Vuelta del 2008 aprì la valigia e trovò un biglietto scritto da sua figlia. Uno di quei disegni fatti a mano da un bambino che sembrano tutti uguali ma che per ogni genitore ha un significato unico e difficile da spiegare. Su quel biglietto c'è un disegno, il papà di Veronica con i colori iridati – che poi non sono altro che quelli dell'arcobaleno, avrà pensato lei – sopra la testa, e poi un messaggio scritto a penna: “non andare più in bici”.

Paolo Bettini quella decisione l'aveva già presa o forse no. Lui dice che la scelta era già stata fatta, ma pensare che quello sia stato il momento decisivo sembra appartenere a ciò che ci piace raccontare. E il 28 settembre del 2008, Veronica compiva cinque anni, e per Bettini sarà l'ultima corsa. E il 28 settembre 2008 sarà l'ultimo Mondiale vinto da un italiano. “Ballaaaan! Ballaaaan!” lo abbiamo ripetuto tante volte quell'urlo nella nostra testa, mentre Ballan, in maglia azzurra, dilaniava il centro di Varese.

Bettini restava dietro in gruppo mentre altri erano a lottare per le medaglie, come tante volte aveva fatto lui. Si prenderà il giusto tributo dai colleghi che lo scortarono fino al traguardo, mentre noi ci domandavamo perché uno così forte doveva abbandonare il ciclismo a soli trentaquattro anni e poche settimane dopo aver vinto due tappe alla Vuelta con la maglia iridata.

Lui lo ha raccontato oggi, 28 settembre, mostrando, con orgoglio, un momento intimo, privato. Quel messaggio scritto da una bambina che all'epoca aveva cinque anni e oggi diciassette. Sono passati dodici anni e sembra ieri: la gioia di Ballan, le lacrime di Bettini, il messaggio di sua figlia e Ballerini in ammiraglia. E pensare quanto stride il fatto che nessuno ci ridarà mai indietro il tempo passato.

Foto: Paolo Bettini/Facebook


Alaphilippe è l'uomo del mondiale di Imola

Non è un caso se il Campionato del Mondo è, per molti, la gara dell’immaginazione sin da fanciulli. Non sono un caso la mano portata al cuore durante l’inno o il legame che ognuno stabilisce con un colore; quel colore che, chissà perché, rappresenta la propria nazione. Alla fine, se guardi bene, quel colore è un paesaggio, un umore, un’indole, una persona, forse una musica. Tante altre circostanze legate a questa competizione, anche la sua luce, la sua stagione e il ricordo del primo Mondiale vissuto, vogliono dire ciò che vogliamo dirvi noi, oggi.

Persino la fuga: Jonas Koch, Torstein Traeen, Yukiya Arashiro, Danii Fominykh, Ulises Castillo ovvero Germania, Norvegia, Giappone, Kazakistan e Messico. Senza dimenticare tutti gli altri che lì, davanti al gruppo, ci sono andati. Perché il Mondiale, è questo il punto, è per molti la possibilità di plasmare un’idea e di farlo insieme. È quella magnifica sensazione di gruppo, di quando fai qualcosa e ti rendi conto che non lo stai facendo solo per te. Quando fai qualcosa e hai il sogno o anche solo l’immaginazione che quel tuo passo cambierà qualcosa per altri. Qui c’è il concetto di terra: sembra quasi di sentirne il profumo o l’umidità. Come quella dei prati in cui ti distendevi da bambino con addosso quel colore. Pensando che un domani tu, proprio tu, avresti rappresentato qualcuno. Quando ci parli, gli atleti ti dicono questo: «Credo che la mia terra abbia tanti talenti. Vorrei essere un esempio, vorrei aprire un varco. Una strada». Essere un esempio ovvero buttarsi in avanti senza pensare alle conseguenze. Fa paura, certo. Forse fa meno paura quando sai che qualcuno sta capendo il tuo gesto. Che, almeno qualcuno, ci sta provando e i cinici dicano ciò che vogliono. Non hai nemmeno il tempo di pensare a loro. Questo, per i più, è il significato di un giro di pedali al Mondiale: ritrovare quella forza e quella splendida incoscienza che solo l’appartenenza regala. E quando hai quelle non ti ferma più nessuno.

Tadej Pogačar questa cosa la sa molto bene, meglio di altri. La sa perché sa quanto potesse sembrare una follia vincere il Tour de France, a ventidue anni, alla penultima tappa ed essere a Parigi con occhi gonfi di lacrime grosse quanto una noce. Sapeva che in tanti, comunque, ci credevano già prima che accadesse e altri hanno faticato a crederlo anche dopo quel tramonto ai Campi Elisi. Lui ha capito che l’importante era fare qualcosa per i primi, perché quando qualcuno smette di credere a qualcosa è un dramma e per chi non spera in nulla poco si può fare. Per chi crede e spera si scatta anche oggi. Un motivo lo si trova sempre, come lo trova Damiano Caruso che immagina un ciclismo raccontato dalle storie di tutti e per questo scatta e allunga. Perché, se non sei pronto a farti un poco male per ciò che vorresti, anche se ottenessi tutto non sapresti difenderlo. Il mondo invece ha bisogno di persone che difendono ciò che vogliono a costo di sbucciarsi le ginocchia e di piangere qualche notte. Ai tuoi desideri devi tutta la protezione di cui sei capace, altrimenti lasciali ad altri.
Alaphilippe è l’uomo di questo Mondiale. Non solo perché lo vince, non solo perché è Campione del Mondo. È l’uomo di questo Mondiale perché la sua storia parla di questa storia. Di dignità e orgoglio, di quando sei ad un passo e perdi tutto ma anche di quando vinci mentre nessuno ti sta aspettando. Parla dei colori che ci portiamo addosso e di appartenenza. Di quel “Lulú” che é uomo forte e fiero ma anche figlio indifeso, abbandonato tra le braccia di un padre. Che poi è uno dei modi più veri che esistano di essere uomini. Poi ci sono tutti i ricordi cancellati per andare avanti e quelli rilanciati per trovare le forze. C’è tutto questo e tanto altro. C’è soprattutto quell’iride che è lì, in quella maglia, e starebbe benissimo sullo schermo del cielo. E chissà che Imola, prima di sera, non la proietti lì, come in un sogno.

Foto: Luigi Sestili


Guillaume, Benoni e scacciare i cattivi pensieri

4 luglio 2017, Tour de France. Guillaume Van Keirsbulck è appena partito in fuga. Le televisioni gracidano al vento, in modo incomprensibile, il suo nome, mentre lui nella radiolina continua a ripetere: «Ca**o, ma dove vado da solo... non è forse meglio che torni indietro?». L'ammiraglia gli risponde di tirare dritto, che tanto qualcuno prima o poi si sarebbe unito alla danza; è un Tour de France e nessuno si farebbe sfuggire l'occasione. Tutto a un tratto, però, invece che colleghi in bicicletta, arrivano cattivi pensieri.

Il 27 giugno del 2011 Guillaume Van Keirsbulck stava procedendo verso casa di suo nonno per festeggiare, con un barbecue, la firma sul contratto con la Quick Step. Un salto in avanti per quel virtuoso ragazzo che aveva già mostrato tutto il suo potenziale; ora c'è la possibilità di studiare nella migliore scuola per uno cresciuto addentando biscotti e pavé e capace di vincere, da giovanissimo, la versione junior della Paris-Roubaix.

Era solo in macchina, Van Keirsbulck, la sua ragazza, Emilia, lo seguiva su un'altra auto perché l'indomani avrebbe dovuto alzarsi presto per andare a dare un esame all'università. All'improvviso l'auto della ragazza sbandò, probabilmente Emilia stava cercando di afferrare qualcosa sul sedile, tanto da slacciarsi la cintura di sicurezza. Il movimento costrinse l'auto su una pista ciclabile, poi un dosso, una sterzata improvvisa. Emilia, presa dal panico, finì sulla corsia opposta colpendo in pieno un motociclista che arrivava in senso contrario. La tragica corsa si spense contro un albero. Tutto questo Guillaume lo vide dallo specchietto retrovisore. L'auto si ridusse ad un ammasso di lamiere e fu proprio Guillaume che provò a liberarla. «Morì tra le mie braccia» racconta.

Lungo da sembrare infinito, elegante con lineamenti quasi irritanti come fosse un Fonzie belga, Guillaume Van Keirsbulck si porta dietro la tragedia. Poche settimane prima di quell'incidente, al Giro d'Italia si consumò la fine dell'esistenza di Wouter Weylandt, amico di Guillaume. Al funerale del corridore belga c'era anche Van Keirsbulck a portare la bara.

Intanto Guillaume al Tour resta solo e al vento. Nessuno lo ha raggiunto, vestito dei colori blu cenere della Wanty Gobert ha percorso una sessantina di chilometri in solitaria. Più che brezza quella che spira dappertutto è una masnada di pugni in faccia; la fuga solitaria al Tour in una tappa di pianura appare quasi strategia del terrore. Già, quel terrore che attanaglia la sua esistenza e lo butta giù.

Racconta a Cyclingnews: «Subito dopo quell'incidente mi rimisi subito in sella per provare a vincere per lei e ci riuscii», ma la notte doveva ancora arrivare e quei terribili pensieri non andavano via. «A fine stagione finii in un buco nero». Staccò dalla bicicletta, iniziò a uscire tutte le sere, a bere. «Se fossi rimasto a casa sarei impazzito».
Prosegue Van Keirsbulck al Tour sulle strade che portano a Vittel, nei Vosgi. C'è gente ovunque da non capire nulla, la gola secca mentre i rumori si fondono con le immagini e i pensieri continuano a viaggiare ancora più veloci.

Come quelli del nomignolo il “nuovo Boonen”: una condanna. Affascinante come il fuoriclasse a cui è stato paragonato, Van Keirsbulck non è mai riuscito minimamente a sfiorare le imprese del quattro volte vincitore della Parigi-Roubaix. E intanto il tempo passa.
Così come i chilometri in fuga in solitaria. Il suo diesse prova a fargli coraggio, ma ora non serve, i cattivi pensieri sembrano andare via, sono come uno schizofrenico boomerang e quando sono distanti, Guillaume è attraversato da una sorta di aura di tranquillità. «Quasi duecento chilometri in fuga al Tour? Mi sono divertito! Era pazzesco vedere quanta gente mi incitava e per una volta ero da solo a godermi il momento». E poi di nuovo altri pensieri.

Come quelli su suo nonno, Benoni Beheyt. Un reietto per il sacro impero di Van Looy e del ciclismo belga. Siamo ai campionati del mondo di Ronse, Belgio. Come in un viaggio nel tempo all'improvviso è l'11 agosto del 1963. Tutto è apparecchiato per il terzo titolo di uno dei più grandi della storia. Qualcosa però non va come deve andare – ci verrebbe da dire che è il ciclismo, la vita, eccetera. Van Looy vuole a tutti i costi il terzo titolo – che mai conquisterà - come l'altro grande Rik Van belga (Rik Van Steenbergen), e muove la corsa quasi a suo piacimento. Si arriva in volata, Van Looy è davanti, all'improvviso Benoni (quel nome è un omaggio al nonno di origine italiane) Beheyt lo affianca, toglie una mano dal sellino, sposta il suo capitano - lo trattiene o lo spinge non si è mai saputo per certo -, lo brucia sul traguardo: è il tradimento di Ronse. Beheyt da quel momento verrà trattato come homo sacer, diventerà un reietto con Rik Van Looy che passerà le stagioni successive boicottandolo e ostracizzando ogni suo intento. Un infame agli occhi del popolo belga e di un gruppo che subisce il fascino dell'Imperatore di Herentals. A ventisei anni abbandona il ciclismo. Resterà in gruppo come motociclista al seguito delle corse e si racconta (verità o leggenda?) che un giorno, pulendo il fucile in una battuta di caccia, uccise per sbaglio uno dei suoi figli. In una recente intervista rilasciata a Marco Pastonesi, dice che Van Looy non gli ha rivolto la parola per decenni e che solo negli ultimi tempi si sono scambiati qualche buongiorno e buonasera.

Ma è ancora fuga al Tour: Van Keirsbulck porta avanti la sua personale sfida col gruppo che inizia ad organizzarsi per la volata, pianura ce n'è ma anche un paio di salitelle sulle quali Van Keirsbulck prova a forzare. Le gambe, atrofizzate, spingono, dalla radiolina arrivano urla di sostegno, ancora una volta il suo sforzo è mirato ad annebbiare i pensieri.
Come quelli che lo rimandano all'incidente stradale di un anno prima. Usciva da una stagione difficile per problemi fisici e da un fastidio alla schiena. Usciva ubriaco da una discoteca. Si schiantò contro un albero «ma ne uscì illeso. Di ferito ci fu solo la sua reputazione» riportano i media tempo dopo. Quegli stessi media che lo crocifissero sulle prime pagine trattandolo come un cattivo ragazzo.
Ora al Tour lo riprendono. Siamo in vista del traguardo. Quasi duecento chilometri di fuga. Si arriva in volata e mentre lui si fa sfilare, esausto, ma felice - «Per una volta tanto meglio che starsene in gruppo a saltellare su una ruota oppure bello tranquillo in scia ad una moto» - Démare vince e Sagan viene squalificato per una scorrettezza nei confronti di Cavendish.

Oggi Van Keirsbulck corre ancora, è un ragazzo giovane - ha ventinove anni – ma sembra abbia bruciato tutto con la velocità di una felce secca intorno al fuoco e la felicità per lui resta un fatto relativo. Fatica in mezzo al gruppo, ma non lascia il segno. Non sarà al via del Mondiale di Imola, non sarebbe potuto essere altrimenti. Nelle prossime settimane ci sarà modo di correre vicino casa e l'anno prossimo persino il Mondiale in Belgio: chissà che non ci stia pensando. Chissà che ne abbia ritrovato il tempo. Chissà che sia riuscito a scacciare i cattivi pensieri. Anche solo questo sarebbe una grande vittoria.

Foto: Van Keirsbulck/Twitter


Ciò che respiri diventa il tuo respiro

Accade che un sabato di fine settembre, a Imola, spieghi tutto. Racconti, per esempio, di Anna van der Breggen, nuova campionessa del mondo, che non è così imperscrutabile come potrebbe sembrare. Van der Breggen che in conferenza stampa l'aveva detto: «Sono cambiate tante cose in me. Crescendo è normale. Una volta soffrivo per le vittorie che mi mancavano, per ciò che non raggiungevo. Così ti condanni a stare male. Su quella bicicletta io metto tutto quello che ho. Certe volte le cose accadono, altre no. Ora so bene che per ogni volta che qualcosa non va, c'è la possibilità di ritornare lì e riprovarci. Questo mi rende tranquilla». Ricordiamolo anche noi, mentre arriva l'autunno e, per molti, giunge il momento di fare i conti con quello che l'estate aveva nascosto tra la sabbia e le conchiglie. Se va male, se non va, ci saranno altre occasioni. Non buttiamoci via. Ancor meglio, non buttiamo via ciò che vorremmo perché fuori fa buio. Puoi uscire, come Anna van der Breggen ha fatto, e scoprire che ti diverti, che stai bene come non ti accadeva da tempo. Da tanto tempo. Bastava riscoprirsi farfalla, alla faccia del mondo.

Accade che, questo sabato a Imola, ci ricordi ancora una volta il senso profondo delle parole. Ci ricordi che è giusto, sacrosanto, utilizzare aggettivi entusiastici per parlare di Annemiek van Vleuten ma c'è di più. Sì, perché chi si ferma all'apparenza delle parole non le fa proprie. Così le ribalta appena cambia il vento. Fare propria una parola vuol dire scavarci dentro, sopra, sotto, intorno, fino allo sfinimento. Vuol dire pensare a cosa significhi per van Vleuten essere qui dopo che, appena una settimana fa, era in ospedale, operata al polso. Uscita sconfitta da un Giro Rosa già vinto, eppur mai conquistato. Vuol dire, per esempio, ricordarsi ogni benedetto giorno che il tuo essere qui ha una ragione. Un qualcosa di difficilmente spiegabile per la mente, un qualcosa di profondamente naturale: quello che sin da bambino sentivi il tuo luogo giusto. Un segno di futuro e guai a chi non bada ai segni, per presunzione o diffidenza. Le parole che si accosteranno ad Annemiek van Vleuten dovranno contenere questo disegno. Annemiek van Vleuten si è ricordata del suo posto nel mondo e, mentre tutti le dicevano che venire al Mondiale era una pazzia, ha sentito di non dover tradire quelle sensazioni di bambina che la vita le ha fatto avverare. Ha preso per mano la bambina che era e pazienza se quel polso non può stringere come vorrebbe.

Questo circuito di Imola, con le sue salite come stanche cantilene, ha parlato di Elisa Longo Borghini e della capacità di togliere parole, di restare senza parole, se necessario, e sapere che va bene così. Che è giusto così. Restare senza parole è meraviglioso perchè, forse, proprio quando non puoi più spiegare ciò che senti, tutto emerge. Come quando l’abbiamo guardata a Grosseto, in maglia rosa, e abbiamo sentito noi stessi quel nodo in gola che le soffocava le parole. Non abbiamo perso un istante di quel silenzio pieno e ci siamo augurati che lo sentissero in tanti. Perché non esiste solo un'età giusta per certe cose, non esistono solo esperienze già vissute e quindi scolorite, non esiste solamente la certezza che debba essere così. C'è la possibilità di riscrivere il finale. Di continuare a stupirci come se nulla fosse già avvenuto, come se nulla non potesse avvenire. Come ha fatto Elisa sul traguardo di Imola. E, per una volta, tutti ci riscopriamo meno attenti ai numeri. Così si è subito detto che quella odierna è stata ''la più bella volata nella carriera di Elisa''. Senza recriminazioni, senza troppi ''se'' a inquinare qualcosa da guardare e di cui godere. Gli umani faticano ad avere questo approccio, oggi ci riescono. Perché poi l'aria che respiri diventa il tuo respiro. Per questo sarà davvero speciale questo sabato: per tutto quello che abbiamo imparato o ricordato.