Il suo mondo è nel ciclocross

La vittoria conquistata nella seconda gara del Grand Prix Dohnany in Slovacchia non ha certo l'importanza statistica di un successo in Coppa del Mondo, di una prova del Superprestige o dell'affermazione al Campionato Mondiale.
Ma il sapore che dà alzare le braccia al cielo, dopo essersi sbizzarrito in mezzo ai campi del Ciclocross, ha comunque un gusto particolare, Mondiale, Coppa del Mondo, Superprestige o Grand Prix Dohnany non fa differenza, e questo Zdeněk Štybar lo sa.
Pochi giorni fa, 16 ottobre 2022, Štybar ha disputato la sua seconda gara stagionale nel Ciclocross lui che di questa disciplina è stato Campione del Mondo, che si è preso a sportellate con alcuni dei migliori interpreti della storia: accadde per esempio quando, nel 2014, vinse la sua ultima gara prima del 16 ottobre 2022, e che gara! ai mondiali di Hoogerheide, Olanda. Vinse la maglia iridata battendo un certo Sven Nys al termine di una battaglia fino all'ultimo metro. Fu la terza volta dopo Tabor 2010 e Sankt-Wendel 2011.
Štybar, nato in Repubblica Ceca, il 16 ottobre 2022 le braccia le ha alzate al traguardo della seconda prova del Grand Prix Dohnany vincendo davanti a un ragazzo belga di diciassette anni più piccolo di lui e che lo aveva battuto poche ore prima; la squadra di Ward Huybs, questo il nome del giovane belga, successivamente alla vittoria del suo corridore aveva postato sui suoi profili social una foto che ritraeva Huybs da bambino proprio di fianco a Štybar.
Di Štybar su strada conosciamo il suo profilo da corse del Nord, una vita a inseguire quel successo mai arrivato tra Paris-Roubaix, soprattutto, o Giro delle Fiandre, una carriera nella squadra più forte per quel tipo di corse, la Quick Step, in tutte le sue declinazioni, nomi e maglie; una carriera che lo vedrà il prossimo anno portare il talento e tutta la sua esperienza (saranno 37 a dicembre) nel Team Bike Exchange.
Sono stati anni difficili per Štybar, gli ultimi, con un intervento di ablazione al cuore, una condizione inseguita, una perfezione mai più raggiunta, così come il successo che su strada manca da quasi 3 anni, in un gruppo che viaggia a ritmi a tratti insostenibile anche per chi ha fatto della cadenza e della tecnica imparate tra solchi nel fango, sabbia, brughiere, punti fondamentali delle sue caratteristiche.
Ha deciso a fine stagione di rientrare con più continuità nel ciclocross con l'obiettivo, chissà, magari di chiudere il cerchio proprio a Tabor, Repubblica Ceca, nel 2024, dove si sovlgerà il Mondiale di ciclocross.
Intanto, proprio a Tabor, nello scorso fine settimana, si è corsa la terza prova stagionale di Coppa del Mondo. Vinceva Iserbyt come gli riesce spesso e volentieri soprattutto a inizio stagione, mentre Štybar chiudeva al 17° posto.
La sua non è stata una presenza banale: «Il pubblico è stato meraviglioso. Mi sosteneva come fossi al primo posto o stessi vincendo il Mondiale. Mi manca qualcosa soprattutto a livello di tecnica, ma miglioro di gara in gara. Nel periodo natalizio voglio continuare a fare cross anche in vista della stagione su strada».
Štybar è arrivato al traguardo a braccia alzate, anche stavolta, ma per un 17° posto, in mezzo a due ali che lo spingevano a suon di urla e applausi. Il pubblico di Tabor sa che il mondo di Štybar, nonostante quell'inflessione da stradista, appartiene al fango e gli restituisce indietro la sua passione.


Il Festival del ciclismo lento

«Se mi guardo indietro, trovo i miei fallimenti. Fallisco spesso, come tanti, come i più. Ma, alla fine, con queste sconfitte cosa si può fare? Ho deciso di capovolgere la prospettiva e, con queste perdite, gioco, rido». Guido Foddis, giornalista, se ne intende di prospettive capovolte, pensate ad esempio al “Festival del ciclista lento”, da lui ideato, che si svolgerà, quest'anno, dal 28 al 30 ottobre a Ferrara. In una sua canzone, Foddis scrive: «Beati gli ultimi che la vita san goder». Questa è la filosofia del Festival: il primo, l'unico, non dedicato a chi va veloce, ai campioni e alle imprese nel senso classico del termine, ma alla lentezza.
«I più non riuscirebbero a fare le imprese dei ciclisti professionisti. In parte non ci riuscirebbero, in parte non ne sono nemmeno interessati. Però andare in bicicletta è anche per loro, per chi in bici va a prendere il pane e non è per nulla allenato. Negli anni quaranta, cinquanta, questa lentezza era riconosciuta con bonomia, alla lentezza si voleva anche bene. Serena Malabrocca me lo ha detto: “Mio nonno, andando piano, ha comprato casa”. E Malabrocca era un buon ciclista. Ma nella lentezza ha trovato la sua dimensione». Foddis ha letto e conosciuto Marco Pastonesi che, nel ciclismo, ha raccontato gli ultimi più dei primi, quasi fossero la sua squadra, il suo gruppo, e con Marco Pastonesi vive e racconta questa bellezza.

«Spesso la società ci porta a porre traguardi irraggiungibili o, anche se raggiungibili, fonte di poca soddisfazione perché poi non resta nulla. Forse non è davvero questo quello che si vuole. Ma ci si abitua, ci si adegua. L’ultimo, nel ciclismo fra amici, è colui che si sfila, che gode il paesaggio, che può assaggiare il cibo del luogo perché non ha fretta, è tranquillo, non deve rincorrere nessuno e, prima o poi, arriverà anche lui». Il “Festival del ciclista lento” capovolge le clsssifiche e i criteri: il primo è colui che va più lento, l’ultimo il più veloce. Ma andare lenti non è scontato, non è semplice. Bisogna allenarsi. Anche perché le prove sono molte: per esempio il record dell’ora al contrario. Chi farà meno chilometri, meno metri, in un’ora? L’anno scorso Davide Formolo e Maria Vittoria Sperotto hanno percorso 918 metri in sessanta minuti. Il dettaglio non da poco è che sulle bici utilizzate non ci sono freni.

«È difficile. Ognuno ha la sua tecnica. Sperotto riusciva ad andare pianissimo senza trucchi, Formolo frenava col collo del piede. Gilberto Simoni, per andare piano, “pinzava” la ruota con i guantini, fino a che i guanti non si sono consumati. C’è acido lattico anche nell’andare piano». La prima a stabilire questo record di lentezza è stata Serena Malabrocca. Memorabile è la volta in cui lo stabilì Bruno Zanoni, gregario di Baronchelli. «Quando seppe che Gibí aveva fatto questa prova, mi disse: “Un gregario non può essere più veloce del proprio capitano. Vengo anche io. Si allenó, riuscì a fare il record e fece talmente tanta fatica che finì in ospedale. Ma è ancora orgoglioso di quel giorno».
Si possono percorrere cinque chilometri in cinque ore e, per andare lentissimi, bisogna sforzarsi a tal punto che si arriva sempre in ritardo rispetto all’orario previsto, qualcuno perde il treno per tornare a casa, ma al “Festival del ciclista lento” bisogna metterlo in conto. «Di certo c’è che si divertono anche i campioni, anche se non riescono ad andare piano. Si divertono perché riscoprono il gioco, ridono di gusto, si sentono persone a tutto tondo, non solo atleti, non solo campioni».
E le biciclette migliori non sono quelle in carbonio ma quelle in acciaio, archeologia del ciclismo, prezioso perché figlio dei tempi, perché più pesante e quindi ideale per rallentare. «Giochiamo, giochiamo assieme e ridiamo di ciò che non siamo capaci di fare. Troviamo il sapore delle cose, di quelle che, a forza di correre, di voler essere primi e perfetti, abbiamo perso il ricordo”. Ferrara è lì per ritrovarlo quel gusto. Lentamente.


Buone corse Diego Rosa

Al Giro d'Italia 2022 ci aveva fatto emozionare. Lo abbiamo cercato spesso, con gli obiettivi delle fotocamere per immortalare un momento, con la nostra penna per raccontarne un gesto, un'azione, per farci descrivere un'impressione, due battute, e alla fine delle tre settimane gli abbiamo riservato uno spazio all'interno della nostra rivista per raccontarne l'attitudine di un Giro corso all'attacco.
«Attacchi magari un po' senza senso, ma come quelli che piacciono a me» ha raccontato.
Oggi Diego Rosa ha annunciato il ritiro dalle corse o meglio dal ciclismo su strada perché dopo dieci anni tornerà alla sua vecchia vita quella da biker.
Lascia il ciclismo dopo aver sfiorato il successo al Giro di Lombardia del 2016, quello che segnò la prima grande classica vinta da un colombiano. Passò per primo Chaves, lui arrivò a tanto così da quella vittoria.
Lascia il ciclismo con 3 successi in carriera, il primo alla Milano-Torino del 2015, l'ultimo alla Coppi & Bartali del 2018, in mezzo il successo più bello in una tappa del giro dei Paesi Baschi, al termine di una lunghissima fuga tagliò il traguardo da solo alzando di peso la sua bicicletta.
«La fine di un capitolo non è sempre la fine di una storia» ha annunciato sul canale YouTube che ha appena aperto con l'obiettivo di raccontare quello che combinerà nelle ruote grasse.
«Il prossimo anno correrò in Mountain Bike - ha detto Diego Rosa - su strada sono stati dieci anni divertenti dove ho conosciuto un casino di persone che mi sono state vicino e mi hanno aiutato. Sono nato biker e morirò biker... ritornerò a fare quello che so fare meglio».
Noi lo vogliamo ricordare su strada con un'immagine scattata mentre era in fuga nella tappa del Blockhaus al Giro 2022.
Buone corse Diego Rosa, goditi la Mountain Bike!


Conoscere Corbin Strong

Intanto il nome: c'è qualcosa di evocativo dietro al nome Corbin Strong, che non è altro che Corvino Forte. Dove corvino, come spiegato dal sito Behind the Name, deriva dal francese Corbeau, corvo.
Dove corvino in italiano sta per "di un bel nero intenso" solitamente associato al colore dei capelli. Pare che il nome debba la sua diffusione nel mondo anglosassone a un attore americano, Corbin Bernsen (se non vi viene in mente chi è, appena cercherete la sua foto direte: “ah ma è lui”), celebre per aver interpretato l'avvocato Arnold Becker nel telefilm L.A. Law, ma caratterista in decine e decine di produzioni televisive e cinematografiche.
Stiamo perdendo il filo, scusate, torniamo alle due ruote: dove sta la verità o il romanzato poco importa; c'è quel cognome, Strong, ed è inutile specificare significhi forte. E lui, Corbin Strong, forte è forte davvero.
Poi c'è la nazionalità: la Nuova Zelanda. Tra flessioni e picchi si affaccia al ciclismo (su strada) come una nazione minore, ma non di nicchia: senza voler scomodare pionieri come Dalton o Tabak (quest'ultimo fu anche campione olandese davanti a Zoetemelk!), ricordiamo tutti la maglia “all black” con felce argentata del velocista e pesce pilota Julian Dean che spiccava notevolmente nelle volate di gruppo (soprattutto nel momento di lanciarle); un movimento che vede attualmente punte come George Bennett - scalatore da piazzamento nei dieci nei grandi giri e riciclatosi gregario di Pogačar - corridori completi come Patrick "Paddy" Bevin capaci di andare forte a cronometro, dotati di spunto veloce e una certa resistenza, oppure chi, a proposito di telefilm, porta il nome di Jack Bauer, che ha passato un periodo nel quale si imponeva come gregario di primo rango in gruppo. Ma sono quelli in arrivo a destare più attenzione: i fratelli Niamh e Finn Fisher-Black, per esempio. Niamh si è appena laureata campionessa del mondo Under 23, più per particolare circostanza che altro, ma è una ragazza dall'indiscutibile valore. Nell'ultimo biennio si sono fatti conoscere soprattutto Reuben Thompson e Laurence Pithie - ma non solo. Reuben Thompson è stato uno dei migliori scalatori della categoria Under 23 con un Giro della Val d'Aosta nel suo palmarès e tante prove di altissimo valore, spesso in appoggio a capitani che portano il nome di Grégoire e Martinez. Entrambi i due neozelandesi passeranno professionisti nel 2023 con la maglia della Groupama.
Nel 2023 una delle novità più interessanti che porterà il ciclismo sarà proprio la presenza nella categoria Professional di un team neozelandese: la Black Spoke capitanata da Aaron Gate, che ha già calcato terreni importanti su strada, ma è soprattutto in pista che ha vissuto il suo apogeo. Sarà un importante sbocco nel ciclismo professionistico per i diversi talenti di quelle parti.
Se ci spostiamo dal rugoso asfalto alla turbolenta pista, il movimento mostra capacità di sfornare corridori e risultati: il già citato Gate, l'inseguitrice Bryony Botha, lo specialista delle prove di endurance Campbell Stewart, senza dimenticare un quartetto dell'inseguimento da diversi anni costantemente in lotta per le medaglie tra Giochi Olimpici e rassegne iridate, e tra i talenti nati dalla pista c'è appunto l'oggetto del discorso, Corbin Strong, biondo, a dispetto del nome, ma come suggerisce il cognome, forte.
Classe 2000, pistard di primissimo livello nonostante la giovanissima età, Strong nasce e cresce letteralmente in pista - arriva da un paesino di contadini vicino Invercargill dove si trova uno dei due velodromi al coperto della Nuova Zelanda- ed è nei velodromi che scopre la sua vocazione: specialista dell'endurance, tanto da conquistare, escludendo i diversi titoli nelle categorie giovanili e nelle corse del suo continente, l'oro mondiale a Berlino 2020 in una delle gare simbolo degli ovali, la corsa a punti, l'argento sempre a Berlino nell'inseguimento a squadre e, poche settimane fa, l'argento nella corsa a eliminazione nella rassegna iridata di Saint-Quentin-en-Yvelines battuto solamente da Elia Viviani. Strong è stato capace da ragazzo di misurarsi con buoni risultati anche nel settore della velocità.
Su strada, da neoprofessionista, ha effettuato il primo salto di qualità negli ultimi mesi della stagione 2022 in maglia Israel-PremierTech dopo aver anche concordato una crescita della forma in chiave Mondiale su pista: in poche settimane vince una tappa al Tour of Britain, chiude 5° il GP di Vallonia battuto solo da grandi nomi (tra cui van der Poel e Girmay), 13° alla Agostoni, ma vincendo la volata del gruppo, 2° alla Bernocchi, qui battuto solo da Ballerini ma dopo aver tentato la fuga vincente con Alaphilippe e Hirschi, e infine ha chiuso 7° il Gran Piemonte. Una campagna italiana nella quale è mancato solo il successo.
C'è quello che dicono di lui: Zak Dempster, suo direttore sportivo, ha definito le sue gambe: «perfette, grazie anche alla sua attività in pista», e recentemente Michael Woods ha raccontato: «Ci stavamo allenando e un giorno avevamo deciso di fare le cose sul serio. Stavo affinando il mio scatto: ci provo una volta e Corbin rientra. Ci provo una seconda e lo stacco: “ok”, ho pensato “ mi sono sbarazzato di lui”. Mi giro e vedo 'sto ragazzo che mi torna sotto con una forza incredibile, mi supera ed è lui che si sbarazza di me e se ne va. Avevo sentito fosse forte, ma non avevo mai immaginato avesse tanta fame».
Mentre Luca Saugo su Cycling Chronicles ne fa una dettagliata recensione: "è un corridore molto particolare, profondamente diverso, nella sua incarnazione da stradista, rispetto anche a molti altri pistard che alternano le due discipline. Corbin non è particolarmente possente, è alto 173 cm e pesa 63 kg. Nonostante ciò, però, ha nello spunto veloce uno dei suoi punti di forza. Su questo, molto probabilmente, incide una conformazione fisica particolare e il background ciclistico molto variegato. Ha il baricentro basso e cosce voluminose, retaggio dell’esperienza nella velocità. Nonostante sia un po’ scomposto in bicicletta, quando mette le mani sulla parte bassa del manubrio e sfoga tutta la sua potenza sui pedali, Strong riesce a prodursi in accelerazioni devastanti. È un fascio di muscoli sgraziato che dà l’impressione di poter spaccare la bicicletta da un momento all’altro tanta è la forza che riesce a sprigionare. E ha nelle gare in linea dal profilo tortuoso il suo areale".
Che sia forte, lo ribadiamo, lo dicono gli esperti, lo si capisce guardandolo come si muove in gruppo, lo confermano i suoi compagni di squadra. Che sia forte non c'è alcun dubbio e nel 2023 lo seguiremo con ancora più attenzione, avendo ormai bene in mente pure il significato del suo nome.


Una flotta di Cargo Bike a Milano

Solo le idee possono cambiare le cose e quella che ci racconta Davide Branca è un'idea che ha molto a che vedere con il cambiamento. Proprio nella sua città, a Milano che, a breve, potrebbe avere una "flotta di Cargo Bike", la “Solar Vibes Cargo Flotta”, a disposizione di tutti, in quattro punti della città. Ma andiamo con ordine. Si parla di cargo bike, un mezzo che Davide ha incrociato per la prima volta a Copenaghen, circa quindici anni fa. Lo ha guardato, fissato, scrutato e ne è rimasto affascinato. Non solo lui, in realtà, perché chiunque veda una cargo bike in città la segue con gli occhi per qualche istante. «Credo che molte persone vorrebbero averne una. Però non è così facile: in parte per una questione di costi ed in parte per una questione di spazi. Il nostro progetto nasce da qui». Il progetto di cui vogliamo parlarvi è una scelta che unisce questo aspetto, il desiderio di possedere una cargo bike e la difficoltà, per molti, di averla. Un desiderio che ha il suo centro in questo fascino.
«Una cargo bike è una bicicletta particolare, una bicicletta che si adatta alle esigenze di ciascuno. Come se venisse incontro alle persone che la scelgono. Dalla posizione e dalla grandezza dei carrelli a molto altro: alla possibilità di avere un impianto audio, dei pannelli solari. La cargo bike si trasforma e trasforma. Questa è la sua forza, la sua bellezza».
Il crowdfounding che inizia in questi minuti, mentre le cargo bike stanno sfilando per le vie della città, vuole permettere a questa bellezza di esprimersi liberamente. «Pensate a una città, Milano, con una flotta sperimentale di cargo bike dotate di impianto stereo autonomo e alimentato da pannelli solari. Una flotta a disposizione di tutti, in condivisione, con punti di incontro in quattro luoghi della città: in cui prenderle, viaggiarci, riconsegnarle e lasciare che altri, con lo stesso desiderio, possano usufruirne. Pensate a quanto sarebbe bello». Da oggi ci sono 45 giorni per realizzare questa possibilità: se il crowdfounding riuscirà a raccogliere 14000 euro, il Comune di Milano colmerà la parte mancante, circa il doppio, e non ci saranno più condizionali. Quelle biciclette saranno vicine, più vicine, a chi vorrà usufruirne.

«Mi immagino cargo bike utilizzate per portare i bambini a scuola, mi immagino chi li vedrà passare, la sensazione che proverà. Si tratta di qualcosa che riguarda tutti, un respiro profondo, un sentirsi ancor più vivi. Penso a chi potrà recarsi in luoghi della città difficili da raggiungere in auto, scoprirli, e portare lì tutto ciò che vorrebbe. Magari due chitarre per suonare in un parco, per dare vita a un evento dove ci si possa incontrare e scoprire un'altra forma della città». Già perché la parola chiave è trasformare, cambiare e nulla più di una bicicletta declina questa possibilità. Davide Branca lo dice sempre e, mentre ne parla, le parole diventano più dense, più veloci, come quando si crede molto a qualcosa.
«Parlando di una bicicletta parliamo sempre dell'aspetto di sostenibilità totale rispetto all'ambiente, della nostra salute perché pedalare fa stare bene. Mi sento di aggiungere, però, che c'è molto altro. Non solo la bicicletta ci fa stare bene, ci fa anche sentire bene, felici o più felici per le endorfine che questa attività libera in noi. Sapete perché? Perché in bicicletta cambiamo il nostro rapporto con la città, anche con una città in cui domina la frenesia come Milano. La conosciamo, la conosciamo davvero. Senza lo schermo di un vetro, senza essere schermati in un altrove, quello dell'auto. Conoscere la città significa non solo conoscere i suoi luoghi, i suoi parchi, la sua natura, non solo scoprire luoghi che ci sono, sono vicini, ma spesso ignorati, non solo prendersi cura di questi luoghi, viverli e farli rivivere. Raccontarli, magari. Significa sentire le esigenze della città in cui vivi, comprendere le domande che pone, conoscere i problemi che ci sono e essere concretamente interessati a risolverli». La città così si umanizza, riconosce altri ritmi, li fa propri, lascia spazio, fa spazio. E l'essere umano ha la possibilità di realizzare quella parte di creatività che da sempre ricerca.
«La bicicletta, qualunque bicicletta e anche la cargo bike, permette di disegnare le proprie traiettorie nella città. Di scegliere i luoghi in cui pedalare in primavera, in estate, in inverno ed in autunno. Di scegliere i colori che si vogliono vedere e il posto migliore per osservarli. Quasi fossimo costruttori di quella città, pittori di quella natura. L'essere umano ha bisogno di questa creatività, la bicicletta gliela consegna».
Quarantacinque giorni in cui c'è tutta la possibilità per ampliare quella creatività. Ancora una volta. Ancora un poco.
Maggiori informazioni: https://www.produzionidalbasso.com/.../solar-vibes-cargo.../


Spunti dal velodromo

È vero: ieri il conteggio delle medaglie per la nazionale italiana si è fermato (ieri a un certo punto si è anche fermato tutto il carrozzone, durante la Madison femminile, per un problema alle luci del velodromo: succede anche questo); e ancora bisogna metabolizzare per bene quello che è accaduto il giorno prima: perché Ganna ha registrato col pollicione e le gambone quella che resta senza ombra di dubbio una delle prestazioni indimenticabili della rassegna (e sbilanciandoci anche della storia recente del ciclismo italiano) - un venerdì sera da raccontare, ancora e ancora, e da rivedere: con Mathilde Gros che, battendo Emma Hinze nella semifinale della sprint femminile, dopo una lotta di nervi e sguardi, e poi conquistando l'oro, faceva impazzire il pubblico francese e pure la stampa di casa.
Tornando a ieri, però, cose ce ne sarebbero e ce ne sono da sottolineare anche o soprattutto al di fuori del contesto Italia.
Hayter ha dominato l'Omnium con una superiorità che potremmo definire imbarazzante - un imbarazzo direttamente proporzionale, come ben spiegato da Marco Grassi su Cicloweb, a quello provocato dalla regia, che non ci faceva capire nulla di quello che succedeva, e dagli stessi giudici che dovevano guardare e riguardare i video per capire chi, infine, si sarebbe dovuto mettere al collo il bronzo tra Gate e Larsen. Per la cronaca ce l'ha fatta il capellone neozelandese il quale speriamo prima o poi possa avere una chance importante anche su strada.
Nominiamo il giovane canadese Bibic (classe 2003 e già oro nello Scratch giovedì) prima di ritornare con due parole su Hayter. Bibic è un under 23 al primo anno e già lotta con gli élite, vince medaglie pesanti, non si ritira dalla contesa. Pure ieri c'ha provato e riprovato prima di "arrendersi" alla superiorità ed esperienza altrui. Qual ora dovesse mantenere (e crescere) avremmo trovato un futuro fuoriclasse della pista.
A proposito di fuoriclasse, Hayter. Fenomenale la sua condotta di gara nell'Omnium - di cui era campione in carica. Una gestione totale della superiorità: ha vinto una delle volate della corsa a punti finale tenendo in fila il gruppo per tre giri senza che nessuno riuscisse nemmeno ad affiancarlo. E dietro aveva gente come Thomas, Gate, Viviani, eccetera. Esce da questi quattro giorni, Hayter, con due ori al collo, e oggi la possibilità di vincerne un terzo. Niente male per il ragazzo londinese che in Inghilterra da anni è considerato una sorta di prescelto. Sia su strada che su pista.
Anche perché ha battuto Benjamin Thomas che l'ha spuntata per il secondo posto più di nervi (e classe, e attitudine, lui signore dell'Omnium, una rimonta d'argento consumata negli ultimissimi giri della "sua" corsa a punti, spinto dal pubblico che lo adora, giustamente) che di forma, visto che, parole sue, non è al massimo.
Oggi ci sarà una Madison che al via vede nomi di altissimo livello. C'è la rivincita tra Gran Bretagna e Francia (tra Hayter e Thomas che, come vuole il format, non saranno però da soli a difendere le proprie bandiere) ma con almeno altre sette, otto coppie, Italia compresa, pronte a inserirsi.
A proposito di Madison ieri è stata la giornata di Lotte Kopecky che grazie a un'azione furba e furibonda nel finale (aiutata chiaramente dalla compagna Bossuyt) è andata a rimpolpare un palmarès 2022 che ha semplicemente del clamoroso. Su strada: vittoria alla Strade Bianche, al Giro delle Fiandre e nella cronometro nazionale. Seconda alla Roubaix e al Mondiale.
Su pista: oro europeo nell'eliminazione e nella corsa a punti, oro mondiale nell'eliminazione e nella madison. E anche lei oggi ha un'altra (grossa) occasione nella corsa a punti che chiude il programma endurance femminile.
Ieri è stata anche la giornata di Franziska Brauße che non ha mollato mai nell'inseguimento femminile (a proposito: brava Paternoster che dopo tutto quello che le è successo trova un buonissimo 8° posto) resistendo alla rimonta di Botha e vincendo finalmente, dopo il bronzo nel 2020 e l'argento nel 2021, l'oro individuale.
E ieri è stata la giornata di Kouame che nei 500m femminili ha lasciato di sasso, ancora una volta, Hinze: per lei il velodromo francese si sta trasformando in uno strano crocevia. Anche se non ci sono incroci negli ovali, c'è il diavolo che aspetta la fortissima tedesca e quel diavolo porta diversi nomi francesi.
E nella prova di Keirin oggi ci sarà da diventare matti perché dentro ci sono tutte le protagoniste (anche quelle mancate, vedi Mitchell per esempio) della velocità femminile e alcune hanno il dente avvelenato. In più ci sarà tantissimo pubblico a spingere le ragazze di casa (presenti sia Gros che Kouame) che stanno facendo ammalare di piazzamenti le fortissime tedesche.
Infine due parole sull'Italia: ieri non è arrivata la medaglia (oggi ci si può rifare): pazienza! In ogni caso non possiamo che applaudire tanto da farci male alle mani per quello che continuano a fare tecnici e atleti della squadra azzurra (da più di un lustro ormai nel settore endurance e un po' alla volta si prova a costruire qualcosa nella velocità); sperando - per il momento invano, purtroppo - che prima o poi qualcosa si possa muovere (ma lo diciamo da anni) a livello di impianti.
Perché saremmo anche stufi di parlare di miracoli; preferiremmo rendere i risultati ottenuti in questa disciplina meravigliosa che è la pista, sistematici, facendo diventare la pista azzurra qualcosa di cui vantarci; un movimento da farci invidiare in tutto il mondo - che già si domanda come riesca l'Italia, senza letteralmente un velodromo (attenzione! iperbole voluta per sottolineare quello che fa l'Italia su pista nonostante le difficoltà), a fare quello che fa.
Anche se, a furia di sperare, diceva quello...


Quello di Sisa Vottero non è solo un viaggio

Mentre Elisa Vottero pedalava verso la Cappadocia, anche suo padre era in bicicletta, in Sardegna, per fare il giro dell'isola. Ad un certo punto, un messaggio, poi un altro e, alla fine, una chiamata: «Mio papà era arrivato e stava piangendo. So cosa si prova, so cosa si sente quando, dopo tanto tempo, arrivi nel luogo che ti eri immaginato. Si può piangere, urlare, gridare, ridere di gusto. Bisogna farlo, ovunque, anche in mezzo a una piazza piena di gente. Credo sia sbagliato nascondere quello che si sta provando. Noi siamo fatti di questo». Così Elisa, ma tutti la chiamano "Sisa", ha chiuso quella telefonata. «Ci sentiamo dopo» ha detto e, poco dopo, suo padre l'ha richiamata. «Buon viaggio, fai attenzione!». È felice Sisa perché lei e papà hanno provato la stessa cosa, seppur a distanza di molti chilometri. Come continuare a diventare padre e figlia, sempre più, attraverso la condivisione di un momento.
Elisa Vottero è partita da Trieste il 6 ottobre e arriverà in Cappadocia a fine mese. È partita da sola e ogni giorno ha tanta paura quanto coraggio, però in quella scelta, nell'essere in viaggio da soli, continua a credere, in ogni autunno in cui prende la bicicletta e va. «Forse ho bisogno di fare i conti con le mie mancanze, quelle che, prima o poi, viviamo tutti, di sentirmi viva, capace di farcela anche da sola. Forse è la voglia di fare qualcosa che sia solo mio, più o meno importante, ma costruito da me. Forse è quel sogno di poterlo raccontare un domani ai miei figli e di dire loro di andare, di viaggiare, di scoprire, anche quando la gente proverà a spaventarli, a dire che sono folli, che da soli non si può». Lei sarà lì in quei giorni e non dirà nulla, solo: «Posso venire con voi?» e, mentre partiranno, allontanandosi da casa, dirà anche lei quel "fate attenzione" di suo padre. Poi li guarderà andare e li penserà.
Ora è in Montenegro, ha visto i tramonti infuocati di una Croazia accesa accanto al mare, ha sentito malinconia in Bosnia, negli sguardi tristi e nel desiderio di andare, e ha scoperto che in Montenegro si parla italiano e, quando dici che sei di Torino, ti chiedono subito se sei tifoso della Juventus. Negli ostelli si è sentita ancora ragazzina e allo stesso tempo donna, per la voglia di condividere una stanza, per le parole che escono libere e tutte le cose che si fanno in adolescenza, ma anche la voglia di stare sola, a sera, di riguardare le foto, di ripensare e, poi, di scrivere qualche riga su un foglio per ricordare come ci si sente. «Non ci sarà nessuno a cui potrò chiedere: "Ti ricordi come eravamo felici quella sera?". Per questo devo fare più attenzione, devo ricordare meglio e di più. Non posso perdere nulla». Tra l'latro, continua Sisa, fosse stata in compagnia non ci sarebbero state tante cose: quel momento di commozione, qualche minuto prima, mentre una ragazza suonava il violino, i sorrisi alle persone che incontra, giusto qualche parola, e, forse, nemmeno questa telefonata mentre fuori comincia a farsi buio.

In Croazia, diverse donne, diverse ragazze, le hanno detto che dovrebbe pensarci, forse tornare indietro, perché è un viaggio troppo lungo per essere soli. Lei ha risposto così: «Tu conosci bene questa terra, benissimo, non ho dubbi. Ma fuori da qui, quanto conosci? Quanto conosciamo fuori dalla nostra città? Forse giudichiamo molto perché conosciamo troppo poco e se conosci poco, poi, giudichi».

Il resto è una questione di energia, di energie. Qualcosa che arriva dalla terra, come dalle persone. Qualcosa difficile da raccordare con la mente. «Forse per proteggerti, ma la mente dice un sacco di bugie. Ti blocca, ti ferma. C'è un parte, invece, che è libera: io la chiamo energia ma si può chiamare in molti modi. Non dico di non ascoltare la mente o di sfidarla troppo, però, almeno concediamoci una possibilità. Se sentiamo di voler fare qualcosa, almeno la prima volta, diamo retta alle sensazioni. Io avevo paura a pedalare col buio e la mia testa mi diceva di non farlo. Ci ho provato e, quando sono arrivata, ero così contenta che avrei telefonato a tutti per raccontarlo».
Quando arriverà a Istanbul, la Cappadocia sarà ancora lontana, ma quella porta sulla Turchia la sorprenderà, come quel bosco autunnale all’ingresso, in Montenegro. Sarà il primo passo verso "l'avercela fatta". L'anno scorso, Sisa era partita per il Marocco, un viaggio in bici, come quello di quest'anno, ma qualcosa non è andato per il verso giusto e, a metà strada, Elisa Vottero ha scelto di tornare indietro, di mollare, di rinunciare. Ci ha pensato? «Sì, ogni mattina, quando mi sveglio, quando programmo i traguardi della mia giornata. Penso che quella volta non ce l'ho fatta ed è difficile, anche se sono piccoli traguardi. Fin da bambina mi sono spesso sentita sbagliata e quando ti senti così il fallimento non puoi accettarlo. Tu devi riuscire, devi dimostrare per colmare quella sensazione. Ho capito che è sbagliato, che non bisogna vergognarsi di fallire, di fermarsi, anche di rinunciare perché nella vita può succedere e succede spesso anche per cose più importanti di un viaggio in bicicletta». Si è più leggeri con questa consapevolezza e in bicicletta serve.
«Tutti non ci si può stare su quella sella e quando devi andare lontano bisogna alleggerirsi. Lo facciamo con i bagagli, perché non dovremmo farlo con la nostra mente?». Un bicchiere d'acqua e si riprende a parlare: «Non so se ce la farò, non so se davvero arriverò in Cappadocia, in certi momenti ne sono quasi sicura, in altri mi sembra così lontana. Però posso svegliarmi ogni mattina con un traguardo, provare a raggiungerlo, sentirmi fiera di me, completa pur con ciò che manca e questo mi fa felice, mi commuove anche». La felicità che serve per un viaggio verso Oriente e per quei giorni d'autunno in Cappadocia, che Sisa Vottero aspetta di vivere. Saranno suoi, solo suoi. Costruiti, plasmati, levigati, messi in ordine: questo è l'importante, questa è la cosa da fare con i giorni a cui si tiene e che si aspettano da molto.


Alla maniera dei più grandi

Focus nella serata di Saint-Quentin-en-Yvelines. La rimonta di Balsamo nell'Omnium che partiva dalla gara a eliminazione, quella che lo scorso anno le aveva tolto qualcosa ai Giochi Olimpici di Tokyo. Nella corsa a punti un paio di ore dopo è andata com'è andata. Lei ci stava, ma ha vinto Jennifer Valente, americana, al primo titolo individuale dopo una carriera a battagliare e a piazzarsi. Pazienza, va bene così.
La lotta di sguardi come pugili sul ring tra Mathilde Gros ed Emma Hinze nella velocità femminile è una delle immagini del giorno. Gros va in finale sfruttando gambe immense, acido lattico e forza mentale e poi batte anche Lea Friedrich e vince l'oro, tra le urla del velodromo di casa che scandisce in delirio il suo nome.
Osservare, poi, Matteo Bianchi, classe 2001, in finale nel chilometro, dove non c'eravamo da tempo ma oggi sì, con dei ragazzini che non erano nemmeno nati l'ultima volta che l'Italia prendeva una medaglia, è stato un piacere. Vince chi doveva vincere - Hoogland - sul podio ci sale uno spagnolo - Martinez Chorro - per il quale a un certo punto abbiamo iniziato a tifare. Bianchi arriva quinto senza avere il fisico da colosso che hanno tanti altri, e anche così va benissimo. Un punto di partenza.
Tanti focus nella serata di Saint-Quentin-en-Yvelines, su Havik, olandese, che vince la corsa a punti a 31 anni e ci ricorda che in un ciclismo di talenti precoci non è mai troppo tardi per indossare la maglia più ambita del ciclismo e mettersi una medaglia preziosa al collo. Lui principalmente seigiornista, batte Kluge, Van Den Bossche, Strong, di mestiere anche stradisti. La bellezza della pista punto d'incontro di talenti.
La lotta di nervi tra Milan e Ganna con il ragazzo friulano, fortissimo ma non quanto bastava oggi per battere Ganna, che parte alla grande seguendo il suo schema. Un rapporto leggermente più agile (sic), 66x15 rispetto al 67x15 di Ganna.
Un modo di intendere l'inseguimento fatto di partenza a schioppo.
Una sorta di lepre per Filippo Ganna che stamattina ha pensato di non gareggiare per andare in vacanza, che in una settimana si prende record dell'ora, argento nell'inseguimento a squadre e poi oggi crea e firma l'ennesimo dipinto da esporre in un velodromo: medaglia d'oro nei quattro chilometri dell'inseguimento in 3:59.636, record del mondo, una serie di numeri che forse solo lui in tempi più o meno brevi potrà pensare di ritoccare ancora.


Un nuovo inverno per Ferrand-Prévot

La notizia è di questi giorni. Dalla prossima stagione Pauline Ferrand-Prévot indosserà la maglia Ineos Granadiers. Interessante perché Ferrand-Prévot sarà la prima donna a firmare con Ineos per un progetto ambizioso che ha come orizzonte l'Olimpiade di Parigi 2024, ma che parte da un inverno pieno di programmi, in direzione ciclocross, con il campionato europeo di Namur e i Mondiali di Hoogerheide. Ma si parla anche della Coppa del Mondo di Mountain Bike a Valkenburg in primavera.
Quando si tratta di traguardi, tra l'altro, all'atleta francese non si possono proprio porre limiti. Sembra in grado di declinare la bicicletta come un sostantivo greco o latino, ovvero in ogni forma, in ogni specialità. Conoscendone casi, eccezioni, particolarità. Non solo ci prova, sarebbe già un bel segnale, ma ci riesce. Quest'anno si è laureata quattro volte Campionessa del Mondo in quattro diverse specialità, l'ultima volta proprio qualche giorno fa, nel gravel. Prima c'erano stati lo Short Track, il Cross Country e il titolo Marathon. Il talento nelle sue forme, una delle quali è l'esplorazione, la prova, la possibilità di divertirsi sempre più anche in quelle cose che, diventando importanti (come importante è una maglia iridata) dovrebbero diventare sempre più "pesanti", difficili.
Questo piacere si impara. Ferrand-Prévot lo ha imparato, sulla propria pelle, nel 2016 quando avvertiva il peso dell'essere chi era, dell'essere una campionessa, una di quelle atlete a cui si chiede sempre la perfezione, la vittoria, l'essere al posto giusto nel momento giusto. Senza la capacità di scindere atleta e persona: l'atleta può anche illudersi di non sbagliare mai, o quasi, la persona non può farlo. C'è la fragilità, c'è la paura, c'è l'errore. Serve un permesso: il permesso di essere come tutti gli altri, di cadere, di lasciar perdere. Quando ci si permette questa possibilità, arriva quel piacere, quell'entusiasmo, quella estrema manifestazione della bellezza del talento. La forza di Ferrand-Prévot è stata quella di concedersi questo permesso. E guardatela adesso, guardate il rapporto che ha con quella bicicletta, la stessa che per qualche tempo non poteva vedere, perché le ricordava quella finzione di infallibilità.
Per l'arrivo in Ineos, ha parlato di sperimentare materiali, possibilità, di migliorare perché vuole fare ancora di più, ha parlato della libertà di scegliere un calendario di gare, di prendere un volo per un altro luogo del mondo con la consapevolezza di questa decisione. Si è soffermata sulle presenze, sulle persone che ci sono, che puoi chiamare quando hai bisogno, senza troppe domande o remore. Le gare? Sì, le gare le vedremo e saranno un'occasione di divertimento anche per chi guarda, di chiedersi e dirsi: «Cosa ha fatto? Cosa ha fatto anche questa volta?».
In questo modo il legame con la bicicletta si è rafforzato. Una bicicletta è diventata il modo per esprimere tutti i modi di essere di una persona: forte, fortissima, incredibile, quattro volte iridata in quattro specialità diverse nella stessa stagione, ma anche fragile, mentre riscopre la goduria di due ruote e di un equilibrio straordinario, e si permette di lasciare andare tante cose. Nello stesso tempo, Ferrand-Prévot ha permesso a quella bicicletta di essere tutto ciò che poteva essere e di farlo con la stessa perfezione delle ruote che girano assieme, simili alla perfezione. Sarà un inverno da vivere.


Vincere come Martina Fidanza

È stata la prima serata del Mondiale di Saint-Quentin-en-Yvelines ed è stata subito così la serata di Martina Fidanza, così per i colori azzurri, così per la squadra italiana. Così come una vittoria.
Vincere con i favori del pronostico in una disciplina di gruppo in pista non è uno scherzo, anzi: è roba per le più grandi; vincere confermandosi è ancora più complicato, vincere come ha vinto lei: di sagacia tattica e gestione nella prima parte; guardandosi intorno e poi scatenandosi nel finale, per distacco, imprendibile per le altre, dimostra lo spessore dell'atleta. E qualcuno ha pure detto a denti stretti: "fosse partita un po' prima prendeva un giro a tutte".
Vincere facendo sembrare tutto così facile all'apparenza, al modo di quelle baciato dal talento. Nella testa e nelle gambe. Vincere come Martina per aprire "discretamente" bene la rassegna iridata su pista, nello Scratch, come un anno fa sempre in Francia, ma a Roubaix. Cambia il velodromo ma la più forte resta Martina Fidanza. Che goduria.