Una specie di nuova carriera: intervista a Michael Valgren

Tra i momenti più emozionanti di questo Giro non si può non segnalare il commosso arrivo di Michael Valgren a Lucca. Il corridore danese, tra i più importanti interpreti delle classiche dell'ultimo decennio, è infatti al rientro sui grandi palcoscenici dopo un devastante infortunio. Una caduta in discesa alla Route d'Occitanie del 2022 infatti gli procurò una frattura del bacino, la lussazione dell'anca e la rottura del menisco e di entrambi i legamenti crociati, anteriore e posteriore, costringendolo a una lunghissima e faticosa riabilitazione. Lo scorso anno la sua squadra, la EF, lo retrocesse alla formazione Continental per farlo correre senza assilli; ora è nuovamente qua, e al Giro ha trovato la fuga giusta e un grande piazzamento (2°) proprio sulle strade di Lucca, dove aveva vissuto un anno ai suoi esordi.

Buongiorno, Michael. Ci possiamo salutare in italiano, direi.

Sì, il mio italiano è un po' arrugginito, ma questo l'hai capito: buongiorno.

Ci sono altre espressioni italiane che ricordi e magari usi.

Ci sono, sì, ma sai, le cose che so dire in italiano non sono esattamente belle parole, non credo che vorresti registrarle (ride).

La tappa di Lucca ha rappresentato un giorno importante ed emozionante per te. Come hai vissuto quei momenti?

Per me è stato un grande passo per rientrare in serie A. Soprattutto a Lucca, dove ho vissuto un solo anno ma ho splendidi ricordi. Fu un momento speciale, era il mio primo anno tra i professionisti. Conoscevo ancora tutte le strade che abbiamo fatto, siamo passati da una strada in pavé che era la strada preferita di Chris Anker Sørensen (ex corridore danese, scomparso nel 2021, compagno di Valgren alla Tinkoff nel 2014-2015). Entrare a Lucca è stato un momento ricco di grandi emozioni. Sono felice di esserci arrivato facendo del mio meglio.

Ti senti come se stessi cominciando una nuova carriera, a 32 anni?

Sì (ride), una specie di nuova carriera. Credo di avere ancora qualcosa da dare, e finalmente l'ho dimostrato. Ho vissuto anni difficili, ma credo di avere ancora dei bei risultati da raggiungere.

Dove hai trovato le energie per uscire da questo calvario?

Beh, quando sei lontano dal ciclismo ti rendi conto di quanto lo ami. Così quando ero distante ne sentivo davvero la mancanza, desideravo rientrare in questo "circo", che a volte è una specie di grande confusione ma io lo amo. Mi piace stare in giro, mi piace anche la mancanza della mia famiglia, perché quando torno a casa l'emozione è ancora più grande. Riconosco che è una vita un po' da pazzi, ma non riesco a vedermi senza.

Tu provieni dal Thy, l'area dello Jutland da cui viene Jonas Vingegaard, con cui hai condiviso anche il lavoro nella famosa industria ittica in gioventù. Che parole useresti per sostenerlo nel suo recupero, così come per incoraggiare altri ciclisti vittime di incidenti così gravi?

Sono cose che possono accadere a chiunque, non è questione di ciclismo. Anche nella vita ordinaria ci sono infortuni o malattie, quindi credo che commiserarsi vada bene per un po', qualche volta, ma poi è importante allargare lo sguardo e rendersi conto che c'è chi sta peggio. E continuare a lottare, a crederci, perché le cose miglioreranno.

Tu hai uno strano soprannome, Dolle, cosa significa?

In realtà non significa nulla. È un'azienda che produce scale in legno per case, tipo belle scale a chiocciola, e sponsorizzava una squadra di calcio del mio paese. Così quando ci giocavo portavo questa maglia con scritto DOLLE sulla schiena, e qualcuno ha cominciato a chiamarmi Dolle per via di quella scritta. Poi non so come sia successo, ma il soprannome è rimasto.

Hai già dei programmi post-Giro? Qualche celebrazione particolare?

Non lo so. Devo ancora pensarci.

E quando potrai andare in vacanza?

Non lo so. Potrei fare il Tour de France, forse, non si sa mai, ma sarebbe una bella vacanza. Però un giorno io e mia moglie vorremmo affittare un camper e esplorare un po' la Danimarca. Mi piacerebbe andare insieme a Bornholm, l'isola da cui arriva Magnus Cort. È un posto dove sono già stato da solo, ma mai insieme, sarebbe bellissimo.

 


Ritorno alla collina valbormidese

È il primo giorno di riposo al Giro d’Italia. Vale dunque la pena tornare un po’ indietro alla quarta tappa, quella da Acqui Terme ad Andora vinta da Merlier, per parlare di una facezia. Una piccolezza da giorno di riposo, appunto. Nella parte centrale si attraversavano gli Appennini tra Piemonte e Liguria, con un ricciolo non richiesto ma apprezzabile sul colle del Melogno. Tra Cairo Montenotte, Carcare e Millesimo il percorso di tappa passava vicino a un posto leggendario del ciclismo.

Vicino, non davanti: è un grande peccato perché Cosseria (località Bosi) è una zona remota della val Bormida, ma la tappa passava davvero lì sotto. E comunque non hanno pensato di fare una deviazione per il museo, che non è uno dei tanti. Si trova nei locali della vecchia scuola elementare del paese e contiene la collezione privata di Luciano Berruti, morto sette anni fa. Il suo nome è ora scritto sull’asfalto davanti all’ingresso del museo, portato avanti dai figli Leszek e Jacek. Il primo ci accoglie dopo aver salutato in polacco (lingua che conosce per via della nazionalità della madre) un paio di meccanici della Visma | Lease a bike. Anche all’estero è dunque nota la fama di Luciano Berruti, il più famoso corridore dell’Eroica, la baffuta leggenda che pedalava su bici antichissime, tanto che il suo soprannome era “l’Eroico”.

«Io posso dire che era mio papà» sorride Leszek quando gli chiediamo chi era Luciano. Pian piano, Berruti divenne il volto dell’Eroica, il signore coi baffi che pedalava su bici vecchissime. Entrando, sono appese magliette d’epoca su ogni parete, «lui le voleva così, disordinate come sono i ciclisti in gruppo». La stanza è enorme e contiene anche documenti cartacei come fascicoli dello Sport Illustrato degli anni Cinquanta o il primissimo Garibaldi, datato 1909. Mentre mi guardo in giro come se fossi entrato nel paese delle meraviglie, Laszek parla di un manifesto raffigurante Lucien Petit-Breton e Napoleone.

C’è la famosa Peugeot del 1907 di Luciano, con cui ha corso due Parigi-Roubaix, «una allungando pure il percorso. Poi ci ha fatto anche Mortirolo, Mont Ventoux, Colle delle Finestre e altre salite mitiche» dice sempre Laszek. E una bici Bianchi del celeste primigenio, quella di Bottecchia al Tour de France, una coi chiodi nascosti nel manubrio: queste e altre mille storie, tutte in un unico posticino sulla collina valbormidese. Un posto che non può non interessare a chiunque segua il ciclismo, e – pur consapevole dell’evidente sproporzione – se non interessa alle corse professionistiche beh, allora scrivo io, qui in poche righe, di passarci da Cosseria e passare ore là dentro.

 


Napoli è mille colori

«Napule è mille culure» cantava la voce di Pino Daniele e, ad un tratto, sospirava «Napule è mille paure». Le dita a pizzicare le corde di una chitarra dal suono perfetto, in cui, però, percepiva sempre la mancanza di un qualcosa. Napoli è un senso della poesia che scappa dalle parole, mentre una ragazza, sul lungomare, si chiede perché i cento chilometri del giro della costiera si compiano sempre in senso orario, e qualcuno le risponde: «Perché altrimenti vedi troppo il mare e, se vedi così le acque del mare, ti distrai». Quella ragazza è Alessia Vigilia, ciclista di mestiere: una voce parlata, non cantata, dall'altro capo del telefono, mentre la televisione trasmette le immagini della nona tappa del Giro d'Italia, da Avezzano a Napoli ed il mare, in quel senso, viene lasciato sulla sinistra, abbandonato in un cono di sguardo, in un pensiero. Napoli è una mancanza, anche per lei: una voce di padre, Ciro, il suo nome, che racconta Diego Armando Maradona e pare una storia della fantasia, invece è una storia del passato, realmente esistita, mentre i ragazzini giocavano a pallone per la strada. Napoli è andare via assieme, ovunque si vada: simile a Andrea Pietrobon e Mirco Maestri, in fuga, soli ma non soli, anche se non c'è nulla.

Sono quelle persone per strada, ovunque, anche lontano dal gruppo, anche lontano dal mare, su un cavalcavia, che attendono l'ultimo corridore, poi si voltano e vedono il gruppo andarsene, lasciare la loro compagnia, lo ritroveranno chissà dove, forse, sempre con il vestito della festa e i pantaloni poco sopra delle ginocchia sbucciate, giocando in un prato lì accanto. Lo ritroveranno come hanno ritrovato Napoli, quando l'hanno lasciata, sapendo che vi avrebbero fatto ritorno, perché certe volte bisogna andare via, anche se non si vuole. "Chi tene 'a mamma è ricco e nun 'o sape": da queste parti non lo dicono solo oggi, è una certezza a cui aggrapparsi in un giorno difficile, uno di quei vecchi detti che facevano affidamento su ciò che bastava quando non c'era niente altro. È il profumo dei limoni che Alessia Vigilia non può descrivere e basta questo per aver voglia di immaginarlo, è quello dei canditi sulla pastiera portata a tavola dalla zia, è l'aroma della "pummarola", il colore rosso dei pomodori nutriti dalla terra.

Julian Alaphilippe ed il suo scatto hanno qualcosa dell'anima di Napoli, di quei contrasti di cui ci racconta Vigilia. È la cultura di cui parla, ad ogni angolo della città, dove ci si stupisce e si resta a farsi domande. Di quel dare tutto pure se dopo ci si fa male. Alaphilippe è più vicino che mai a Napoli quando un ragazzo, non appena viene raggiunto e si arrende al gruppo, sfilando in coda, gli cammina accanto. Non ha corso con il gruppo, non con Narvaez che è appena scattato, ha corso con lui che anche oggi ha messo tutto e non è bastato. «Stanno gridando, esultando, incitando e lo fanno perché sono così, non importa chi tu sia, è il loro entusiasmo, il loro calore. Lo farebbero con chiunque». Il contrasto è tra i primi e gli ultimi, il contrasto è tra chi ce la fa al primo colpo e chi resta staccato e deve riprovare, tra i momenti felici e la malinconia: le lacrime di Clarke, lo scorso anno, l'abbraccio di De Marchi, la vittoria di De Gendt, in fuga, la beffa di Narvaez, in fuga anche lui, ma con un diverso destino. Napoli è anche quel che non è facile, la difficoltà, le ferite, perché nemmeno la meraviglia è cosa semplice, nemmeno la meraviglia è perfezione, la cura, come preoccupazione e attenzione. Le paure, sì, le stesse paure di Pino Daniele, la stessa voglia di aggiungere ancora qualcosa alle note di quella chitarra. I mille colori di Napoli non sono solo colori: non è solo il cielo blu ed il mare che lo imita, non è solo il Vesuvio maestoso là in fondo e Capri che si lascia intuire. I colori sono sensazioni: la gioia di Ciro che martedì vedrà il Giro partire da Pompei ed il sollievo di Alessia, una ciclista che sorride di gusto mentre dice che "ci sono sempre più persone che vanno in bicicletta e questo è bello, così bello da far bene". Napoli è Tadej Pogačar che spiega che i suoi compagni fanno già tanto per lui e lui non è il miglior ultimo uomo, ma lo doveva a Molano: è fare il possibile.

I colori, quelli dei pastelli e delle tempere, sono quelli del gruppo, dei treni dei velocisti, puzzle variabili. Narvaez, venuto dal freddo, per poco non vinceva dove il caldo è clima e modo di essere, venuto dalla montagna per poco non vinceva al mare e, forse, avrebbe detto qualcosa del Vesuvio, si sarebbe fermato ad osservarlo qualche secondo in più. Lo ingabbia lo sforzo di Simone Consonni per riportare sotto Jonathan Milan, che parte forse presto e viene a sua volta beffato da Olav Kooij e dalla sua maglia gialla della Visma-Lease a Bike: pallido, nulla a che vedere con il sole che disegna la pelle a Napoli, pallido, simile al ghiaccio, dove pattinava. Napoli, adesso, è una festa: un guantino di un ciclista che fa la domenica quello che la domenica dovrebbe essere, che era per i nostri nonni probabilmente, un tramonto di maggio che fa pensare a quando si dovrà partire e alla sera in cui si potrà tornare. Napoli è la voce di Alessia Vigilia che, lontano, è contenta anche solo per averne potuto parlare. Punto e basta. Ma non basta, lo sappiamo.

Foto: SprintCyclingAgency


Breve guida su come seguire il Giro

Andare sul percorso del Giro d’Italia è un’esperienza unica. Si entra davvero in contatto coi corridori, ti passano lì a un metro. Si vive la corsa in modo diverso, ci si sente parte di un sistema più grande, si trascorre una giornata stupita e sognante. Tutto vero. Ma seguire il Giro è anche un grattacapo logistico non da poco: dove appostarsi? Quando partire? E le strade quando vengono chiuse? Si potrà comunque salire in bici?

Ci si organizza, quindi, in più persone. Si fanno macchinate, si caricano nel baule casse di birra, si parte. Non ho dovuto preoccuparmi di come raggiungere Prati di Tivo perché purtroppo al Giro ci lavoro e mi ha dato indicazioni un collega-passeggero; ma ecco, la tappa di ieri, se fossi stato un “tifoso semplice”, l’avrei vista come segue. È un piano forse pazzo e sconsiderato, simile al modo in cui Romain Bardet ha affrontato i primi chilometri della tappa di ieri, ma ci avrei perlomeno provato, a costo di dormire in un sacco a pelo alla fermata dell’autobus di Pietracamela. Ecco il piano, e se qualcuno per caso l'ha realmente messo in atto, per favore mi scriva, scriva ad alvento: vorrei abbracciarlo.

Raggiunto in qualche modo Campo Imperatore (chiusa la funivia di Fonte Cerreto, si potrebbe pensare di arrivare lassù in bici), una decina di chilometri separano l’arrivo della settima tappa del Giro 2024 a Prati di Tivo. La questione, evidentemente, è cosa si trova in questi dieci chilometri. Per chi ama la montagna, più o meno il paradiso. Le foto di questi luoghi d’estate – i rifugi Duca degli Abruzzi e Garibaldi, Picco Confalonieri, il profilo dei monti Aquila e Portella – sono incredibili per quanto brulle, remote e inaccessibili risultino le valli, solcate solo da un sottilissimo sentiero battuto a malapena. Certo, non si tratta dei dieci chilometri più agevoli e lineari del mondo. Perché dunque avventurarsi fin qua per una tappa del Giro d’Italia? Perché non sfruttare le comode navette messe a disposizione dall’organizzazione?

Tutte domande valide, obiezioni ce ne sarebbero mille. Ecco, avessi avuto la certezza di una traversata in totale sicurezza, sarei andato in questo modo al Giro perché è l’inutile sofferenza che avvicina ancora di più alla corsa. È fare dieci chilometri a piedi tra le sassaie abruzzesi che accomuna la nostra piccolezza alle fatiche dei corridori professionisti che, poche ore dopo, andremo ad incitare. Se avete mai seguito una corsa da una di quelle orrende aree hospitality, sapete di cosa sto parlando: che noia dev’essere guardare ciclisti fare sforzi sovrumani mentre si sorseggia un bicchiere di vino. Per carità, è una comodità che attira, forse irrinunciabile, ma seguire il Giro dal vivo non è quella roba lì.

E poi certo, si può anche guardarlo dalla tv. Il ciclismo visto dal divano è fantastico, il miglior ciclismo forse. Spesso però sentiamo il richiamo della strada, quella voglia un po’ masochista di gridare in faccia alle montagne il nostro amore per le biciclette che vi si arrampicano. Così, camminando per chissà quale sentiero sulle montagne abruzzesi, ci sentiremmo anche noi un po’ meno soli.


La medicina più sicura

Un uomo evidentemente più saggio di me, Vasco Pratolini, nel 1955 decise di tornare al Giro d’Italia dopo diversi anni per prendersi una «vacanza di girino». Era inviato per un paio di giornali dell’epoca, scriveva gran bei pezzi di colore, niente più. Un lavoro da sogno, potremmo pensare oggi. Pratolini vedeva la sua partecipazione al Giro come una sorta di liberazione: «Da sei mesi, fino all’altro ieri, sono stato in cura. Avevo dei disturbi, leggeri ma noiosi, soprattutto perché non si capiva di che si trattava. [...] La diagnosi è balzata davanti agli occhi con l'evidenza delle cose di natura. Ero ammalato di sedia e di scrittoio. Andar dietro al Giro è la medicina più sicura. Già al solo pensiero, mi è passato come d’incanto il mal di capo. Non sono un veterano del Giro, ma nemmeno una recluta, mi considero diciamo un richiamato».

Ma il Pratolini del ’55 non è più l’ingenuo osservatore di otto anni prima, quando partecipò al suo primo Giro. «Ero io ragazzo quando mi presentai alla punzonatura» scriveva all’epoca, ma uno scrittore ultra-quarantenne che ricorda come sia coetaneo di certi vecchi campioni e vuole rivivere «la baldanza di quando eravamo ragazzi». Dopo tanti anni e/o tanti Giri d’Italia, insomma, ci si fa l’abitudine.

Ecco, similmente a Pratolini la mia medicina si trova durante il Giro d’Italia, ma non è il Giro d’Italia: si tratta dello scoprire posti, zone, salite e discese, piccoli pezzi di mondo insomma, in sella alla bici mia. Al mattino presto, alle volte prestissimo, quando i corridori ancora si stanno svegliando e pochissimi degli addetti ai lavori hanno la mia stessa patologia (tra questi lo scrittore e podcaster Daniel Friebe, correndo, e un meccanico della DSM), inforco la bici e vado in giro. Spesso a caso, ieri no. Ieri ho voluto percorrere prima dei corridori il finale della crono, da Ponte San Giovanni al centro di Perugia, per capire in anticipo e meglio cosa avrebbe atteso i corridori.

Se ne vedono molte, di cose, passando sul percorso di gara prima dei corridori. Già appostata a bordo strada c’è la fotografa Simona, c’è qualcuno che scrive il nome dei corridori sull’asfalto, ci sono coppie di tifosi che a malapena sanno cos’è il ciclismo. Di sicuro non lo sa un anziano che, appena entrato a Perugia città, mi chiede se sono un corridore del Giro. Però ecco, questa è la mia medicina: vedere una città rosa per ore, attesa trepidante per il passaggio dei corridori, rispondere al saluto di pazzi furiosi che incoraggiano un amatore qualsiasi come se fosse Van der Poel, farsi passare un bicchiere di vino sul tratto più duro di salita.

E poi tornare in fretta a fare la doccia, recuperare le cose, andare verso la sala stampa. Nel mentre, qualcuno ti ferma chiedendo: «Scusi, lei sa quand’è che passa il Giro?». È la risposta a questa domanda, «a breve», la mia medicina più sicura.


Beh, nessuna domanda?

Ieri sono successe diverse cose più o meno divertenti a Tadej Pogačar. Prima della tappa ha vestito pantaloncini rosa, per il secondo giorno consecutivo: per quanto sia di una futilità estrema, è una notizia. Durante la tappa è andato, come tutti i colleghi, a oltre 50 chilometri all’ora nella prima ora e mezza, ha affrontato le montagne russe successive a Volterra in uno scenario incredibile, surfato sui settori di sterrato, flirtato col pensiero di perdere la maglia rosa. E invece gli è rimasta addosso, non per meriti suoi.

Dopo la tappa è salito sul palco delle premiazioni e, nel lanciarli al pubblico, ha colpito il tetto. I fiori si sono schiantati come una tortora contro il vetro, ricadendo tristemente al suolo. Anziché ridere della scena – un’occasione piuttosto facile per farsi una risata auto-ironica – Pogačar ha fatto il gesto di mandare a quel paese i fiori e tutto quanto, e poi se n’è andato scocciato.

Tutto un po’ strano, vero?

È successo, nelle fasi più concitate di corsa, che la Ineos Grenadiers di Geraint Thomas, il rivale più accreditato a rubarne lo scettro, si è messa a tirare. Per la vittoria di tappa di Jhonatan Narvaez, dicono loro, ma ci dobbiamo credere? L’impero del male, la più perfida squadra degli ultimi quindici anni nello sfruttare le debolezze altrui, ha colpito ancora: la maglia a Pogačar hanno voluto lasciargliela addosso. Così è dovuto tornare sul palco, ha dovuto firmare nuovamente una caterva di autografi e rispondere alle domande dei giornalisti. Poi è anche entrato nell’autotreno in cui si tiene la conferenza stampa aperta a tutta la stampa e lì, di nuovo, lo abbiamo incontrato.

«Stiamo perdendo il controllo» la frase d’esordio, con la quale entra nel van. La seconda cosa che dice è una piccola gag che aveva già fatto: si siede, aspetta pochissimi secondi, e dice una variazione di «beh nessuna domanda? Ok, ciao!» e finge di andarsene. Seguono risate nervose, sue e della stampa. Ovviamente le domande sono poi arrivate, lui ha risposto alle volte dettagliando alle volte scazzato, mai torrenziale nel flusso dei pensieri. Da una parte sembra consapevole di essere il più forte, e questo lo fa sentire bene perché senza la vittoria non sa stare; dall’altra non sembra divertirsi granché: che sia – ed è incredibile per uno che ha dimostrato il suo dominio – preoccupato?

È illeggibile, imperscrutabile, pur essendo un campione amatissimo e buonissimo di cui si conosce ormai ogni cosa. Provando a fargli domande, si prova un senso d’imbarazzata ed esitante timidezza: si teme che possa non rispondere, che possa blastarti, che usi solo un monosillabo. E probabilmente va benissimo così, non ci deve nulla, e anche trovare una domanda al giorno è un’impresa. Forse però la soluzione degli enigmi – sulla vera natura di Pogačar e sul vincitore del Giro – è più lontana del previsto.

La cronometro di oggi ci dirà molto di più. Non vediamo l’ora: se sei qui per scherzare con gli avversari, Tadej, oggi è la tua prima vera occasione.

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La corsa di casa per un francese: intervista a Ben Thomas

Pochi giorni fa abbiamo intervistato, alla partenza della prima tappa del Giro d'Italia, Benjamin Thomas, il vincitore della tappa di ieri. Questo è quello che ci ha raccontato.

Il Giro è la tua corsa di casa, possiamo dirlo.
Sì, però stranamente è solo il secondo per me. E a dire il vero non ho un bel ricordo del primo, nel 2020, quando mi sono dovuto ritirare alla quinta tappa perché ero ammalato. Però mi piace sempre correre in Italia, spero che questo Giro vada meglio. Ho fatto tante volte la Tirreno e la Sanremo, mi piace.

Qual è la cosa più bella dell’Italia, di cui non puoi più fare a meno.
Il cibo, ovviamente. Quella è una cosa che mi piace. È difficile a volte arrivare a fine gara, in certi alberghi, e trovare la pasta stracotta o cose simili. Sto diventando un po’ difficile sul cibo, ma quando torno a casa è qualcosa che apprezzo davvero. E poi il ritmo di vita. E il clima: sul Lago di Garda, dove vivo, anche in inverno raramente mi prendo pioggia o freddo. Sono cose che a un corridore fanno piacere.

Ma cucini anche tu? Qual è il tuo piatto forte?
Non ho un piatto speciale, ma faccio la pasta, i risotti, mi piace anche cucinare la carne. Mi piace tutto! Anche i dolci…

E Martina Alzini, la tua collega e compagna, quali tuoi piatti apprezza?
Mah, ti direi il risotto… ma da quando Martina ha preso il Bimby in realtà non cuciniamo più, fa tutto il robottino! So che è diverso dal risotto di un cuoco ma va così, anche perché il tempo è sempre poco.

C’è qualcosa che devi ancora capire dell’Italia? In cosa non sei italiano?
Lasciami pensare… magari il caffè. Pensa che quando sono arrivato qua non avevo mai bevuto un caffè in vita mia. Adesso sì, inizio a berlo, ma senza zucchero proprio faccio fatica, non riesco. Per il resto mi sono davvero abituato all’Italia.

Tu in bicicletta fai tante cose diverse: pista, crono, sei forte in discesa, lanci le volate. Qual è la cosa che ti piace di più?
Le fughe. Mi piace andare in fuga. Giocare con il gruppo. Provare a battere le squadre dei velocisti. Non mi è capitato tante volte, ci ho provato anche al Tour de France o in altre grandi gare. Però è una cosa che mi piace. Anche aiutare i compagni mi piace, ma giocarmela in fuga è la mia cosa preferita del ciclismo su strada.

Come si fa ad andare in discesa come vai tu?
Mah, bisogna non pensare troppo ai rischi. Comunque oggi in gruppo vanno forte tutti. Bisogna essere consapevoli, prendere un po’ di anticipo sulle curve più pericolose perché se sbagli una curva puoi perdere anche 20-30 posizioni e per rimontare poi devi aspettare un momento tranquillo.

Una caratteristica dei ciclisti francesi è l’essere intellettuali: scrivono, leggono, dicono cose un po’ filosofiche. Anche tu hai questa tendenza o il tuo essere ormai italiano ti rende diverso?
Non sono tanto così. Prendo il mio compagno Guillaume Martin, che pure è appassionato di filosofia… A me piacciono queste cose, ma non è la mia passione. Leggo poco, ma penso che sia un modo di staccare la testa dal ciclismo e avere una visione diversa del nostro sport. Lo apprezzo, ma devo dire che non è il mio modo di fare. A me piace di più ascoltare la musica, anche italiana. Ascolto di tutto, dai Måneskin fino al rap. Le cose più classiche, come Vasco Rossi o Toto Cutugno, non le ascolto tanto.

Facci qualche nome.
Gué Pequeno, Club Dogo. Martina è un’appassionata e io ascolto con lei, siamo anche andati ai concerti di Marracash, di Gué. Mi piacciono. Ma poi io amo anche i Måneskin, mi piace la loro musica (l’esultanza a Lucca è stata un tributo a “Zitti e Buoni”, ndr), anche se al loro concerto non sono mai stato. Anche perché sia io che loro viaggiamo in tutto il mondo, è difficile coincidere, e non puoi andare a un concerto il giorno prima di una gara!

L’intervista integrale a Benjamin Thomas è andata in onda nella puntata di GIRONIMO del 4 maggio. Il nostro podcast sul Giro d’Italia, realizzato in collaborazione con Shimano, va in onda ogni sera su Spreaker, Google podcasts, Deezer, Spotify e Apple podcasts.

Foto: Sprint Cycling Agency


Milan e "la mar"

Eravamo in apnea, abbiamo respirato forte, profondamente, siamo tornati in apnea e quel respiro, catturato e fatto proprio, nascosto nel torace, ci è bastato per vedere come andava a finire. Sono trascorsi quattro chilometri, tre uomini, fra i tanti, Filippo Ganna, Simone Consonni e Jonathan Milan: il resto è storia. La strada è vicina al mare e, solo qualche istante fa, tra le gallerie, le rocce, il blu e la vegetazione, la mente era tornata a Sanremo, alla Milano-Sanremo, regno di tutto ciò che ha a che vedere con la velocità e pure con la fantasia. Avremmo potuto essere ancora al primo giorno di primavera, il ciclismo è una macchina del tempo.

A Cosseria, in provincia di Savona, sul percorso, al Museo delle Biciclette, c'è l'eco di quella frase che un signore di nome Luciano Berruti diceva spesso, mentre sistemava la sua bicicletta, antica, rovinata, per cui aveva un'attenzione particolare ed il fatto che fosse "vecchia", del 1907 per la precisione, di più di cent'anni, accresceva solo la cura necessaria per starle vicino: «Non so, forse avrei dovuto nascere in un'altra epoca, in un altro tempo, invece sono nato in questo mondo e qui ho fatto le mie cose». Era un ragazzo vispo "il Berruti", raccontano che, ogni tanto, andava a scuola nascondendo una biscia in tasca oppure sotto il banco, catturata nella natura: i compagni lo vedevano, gridavano e la maestra lo rimproverava, magari lo spediva a casa, mentre sua madre non sapeva più cosa fare. Era, poi, un anziano signore con lunghi baffi, a fare da cornice ad una bocca che scandiva lentamente racconti che ti saresti fermato ad ascoltare solo per sapere come andava a finire. Perché il finale vogliamo saperlo.

Eravamo in attesa, a quattromila metri dall'arrivo, quando Filippo Ganna ha squarciato un cielo già pieno di domande e di fremiti, quelli che precedono il caos di qualunque volata: se ne è andato, in un'armonia perfetta con quello che aveva attorno. Perché Filippo Ganna in bicicletta sta bene, da qualunque prospettiva lo si guardi, dall'alto di un elicottero delle riprese, da una telecamera fissa, in un'inquadratura rubata, al volo, dietro una colonna di una galleria. Il Capo Mele è stata l'occasione per uno sforzo assoluto: altri hanno provato a seguirlo, qualche metro e sono "rimbalzati", accolti dalla stessa pancia del gruppo da cui cercavano di fuggire. Per dire di cosa sia un'azione del genere, per dire di quel che serve a stare da soli, al vento, pancia a terra, mentre dietro è tutto un rumore, una rincorsa senza tregua. Berruti si innamorò così delle biciclette; sentendo il loro suono, persino lo stridere dei freni, l'odore di bruciato che rilasciavano, su quelle vecchie bici: avrebbe capito. Sì, ma quando il gruppo insegue è tutta un'altra storia. Circa 3500 metri così. Poi la fine, a circa 500 metri dal traguardo. Non è strano il suo sguardo amaro, non è strano quel continuo guardarsi attorno, mentre parla: la delusione si manda via anche così dagli occhi, quasi potesse tornare indietro e scendere da qualche parte, in gola, nello stomaco e poi via. Invece no, deglutire non vale contro il rammarico. Respiro profondo, boccata d'ossigeno e ancora apnea.

I baffi sono quelli di Simone Consonni. Scherzerà: «Ad un certo punto, non sapevo più se tirare per Milan, oppure non tirare per Ganna. Mi hanno messo in mezzo». Si dice "lanciare la volata" e non sappiamo chi sia stato il primo a coniare questo termine, ma pare perfetto: quasi fosse un lancio nello spazio, in un'altra dimensione, su una navicella con cui bisogna avere una conoscenza totale. Jonathan Milan è l'astronauta, in questo caso. Lui che "maltratta" la bicicletta tanto la porta al limite massimo: dall'alto pare una danza nervosa, in cui tutto trema, a ritmo variabile, ma in un crescendo incessante. Fino all'arrivo, ai pugni che si stringono, ai muscoli che si gonfiano nel gesto della felicità, alla voce che si libera ed al petto che si espande. Dopo il secondo posto di ieri, la vittoria era accanto al mare di Andora. Ganna, Milan e Consonni: Tokyo, un velodromo, una pista, i Giochi Olimpici, l'estate che ballava nei campi e la gioia. La macchina del tempo è già tornata indietro, come ogni giorno, ad ogni Giro d'Italia.

Pare che, in spagnolo, il mare diventi "la mar", quando lo si ama, gli si vuole bene, si ricordano i favori che ha fatto e gli si perdona tutto il resto, i torti e qualche cattiveria, magari nascondendoli dietro una scusa: le bizze della luna che farebbe girare la testa a chiunque. Il vecchio de "Il vecchio e il mare" di Ernest Hemingway aveva questa teoria e stasera noi ci sentiamo d'accordo con lui. Per qualcuno sarà "la mar", per altri solo il mare, un rivale, un nemico. Qualcuno canterà una canzone, anche Luciano Berruti lo faceva, "ma dove vai, bellezza in bicicletta", così più o meno, altri tireranno le tende di una camera d'albergo, come le coperte su di un letto, tanto fuori resta solo la notte e domani è un altro giorno.

Foto: SprintCyclingAgency


Una tappa da ritornarci

Pioviggina nelle Langhe. Siamo appena usciti dalla serata più piacevole che si possa fare al Giro d’Italia: in un agriturismo in collina, uno di quelli con le camere grandi e rustiche, dove ti preparano cibo fatto in casa sul momento, e per un attimo smetti di pensare pure a Girmay e Merlier.

Il luogo preciso in cui abbiamo alloggiato si chiama Santo Stefano Belbo, neanche 4.000 abitanti in provincia di Cuneo. Non è famoso se non per i vini e per aver dato i natali a Cesare Pavese: comunque mica male. Sfruttando una tappa logisticamente complicata, con la squadra di Gironimo – il podcast di alvento dalle strade del Giro – abbiamo deciso di fare una sosta alla Fondazione Cesare Pavese. Qui abbiamo incontrato Silvia, che ci ha segnalato qualche riga ciclo-letteraria. Si possono leggere in “Feria d’agosto”, il racconto è “Il campo di granturco”, e ha un incipit meraviglioso.

«Il giorno che mi fermai ai piedi di un campo di granturco e ascoltai il fruscìo dei lunghi steli secchi mossi nell'aria, ricordai qualcosa che da tempo avevo dimenticato. Dietro il campo, una terra in salita, c'era il cielo vuoto. “Quest'è un luogo da ritornarci”, dissi, e scappai quasi subito, sulla bicicletta, come se dovessi portare la notizia a qualcuno che stesse lontano. Ero io che stavo lontano».

Ogni tanto il Giro d’Italia ti fa sentire così. È talmente travolgente, la volata di Jonathan Milan è stata così potente, che porta tutto quanto con sé. Comprese le anime di chi lo segue. Oggi ho deciso di no, voglio tornare un po’ in me. Mentre Marta guida il furgone in direzione Andora, lungo una riviera assolata, guardo fuori dal finestrino e leggo pagine a caso di “La luna e i falò”.

Per una volta, mi forzo a non lavorare. Leggo senza cercare paragoni col Giro, senza pensare a possibili punti di contatto. Leggo e basta. Torneremo a parlare di ciclismo domani: oggi ero io che stavo lontano.

"Voleva fare il boss"

Sia dopo la Milano-Sanremo che al termine della tappa di Oropa, Tadej Pogačar ha usato sui social la canzone “Boss” di Tony Effe, trapper romano. È una cosa rara, di questi tempi, che un ciclista dimostri così tanta passione per una canzone diversa da “Sarà perché ti amo”: figuriamoci se il ciclista in questione è il più forte del mondo, figuriamoci se la canzone è questa. La base è identica a “In da club” di 50 Cent, una delle più famose del rapper newyorkese. Anche il testo della canzone di Tony è semplice: le rime vanno e vengono e i temi sono quelli classici della trap contemporanea italiana, come spendere soldi, donne, oggetti di lusso, la descrizione di varie azioni più o meno inutili.

Mi interessava capire perché Pogačar fosse così attratto da questa canzone, quindi gliel’ho chiesto. Un po’, lo ammetto, l’ho fatto per pararmi il sedere: a due domande più ciclistiche della mia, Tadej aveva già risposto «no comment» e «di questa ho già detto», per cui chiedendogli di parlare di musica ero certo del fatto che avrei generato maggiore interesse da parte sua. Insomma, gli ho chiesto di Tony Effe, e lui ha risposto: «Mi piace molto, mi piace ascoltare canzoni con un bel flow. Mi piacciono rap e hip-hop. Anche in italiano ci sono diverse canzoni che mi piacciono, questa ha un ottimo beat».

È evidente che, come suona la canzone, Pogačar ieri voleva fare il boss. Quando la Ineos Grenadiers si è messa davanti a tirare sulla salitella a circa 3,5 chilometri dal traguardo di Fossano, lui era lì nelle prime posizioni del gruppo che mordeva il freno. Gli serviva solo un allungo, di chiunque fosse, è stato Mikkel Honoré, per poter avere una scusa. È stato uno slancio d’animo, una pulsione interna che solo lui ha abbinata a quelle gambe, ad avergli permesso ciò che ha fatto. Se n’è andato, ma come nella prima tappa non è riuscito a cavarseli tutti di ruota.

Stantuffando, Geraint Thomas è tornato su Pogi. Come cantava Gué in “Pappone”, ha conosciuto – una volta di più – il boss mentre fuma un Cohiba. Il cagnaccio gallese poteva dargli un cambio ma ha preferito stare a ruota e farlo impazzire ai -300 metri. Mister G ha scritto dopo la tappa che i ragazzi, al giorno d’oggi, sono così: non si può mai stare tranquilli. I due hanno preso il via uno contro l’altro a 78 giorni di gara: per 73 volte Pogačar ha finito la corsa davanti. Compreso ieri, ma non come sperava lo sloveno. Vuole sempre vincere, sempre usare le barre più estreme sul beat che ha cucito attorno a questa corsa. Ah, non lo fa per finta, lo fa per davvero: «Fila sotto casa come se fosse normale / Completo Loro Piana quando vado in tribunale».

Nella lingua di Tony Effe/Pogačar, significa che ogni giorno è buono per provare a fare il boss. È un atteggiamento quasi da cattivo, e quant’è bello da vedere.