Guido Bontempi, l'uomo di radio informazioni

Quante volte avete sentito parlare di Radio Informazioni nell'ambito di una corsa ciclistica? Ma, in realtà, cos'è Radio Informazioni?
Tutti ricorderete Guido Bontempi come ciclista, magari in maglia Carrera, non tutti saprete che la persona più adatta per raccontare il funzionamento di Radio Informazioni è proprio lui, visto che ne fa parte. «Se non ci fosse una diretta- spiega- saremmo noi gli occhi degli organizzatori, dei direttori sportivi e di tutte le persone, in corsa o agli arrivi, che necessitano di notizie fresche».
Nella pratica la faccenda è più complessa. In corsa ci sono due moto della “radio di gara” e le informazioni vengono dapprima trasmesse a un'auto e successivamente a una jeep. Il motivo è presto detto: la frequenza radio. Le nostre frequenze non hanno un segnale così potente da raggiungere l'arrivo, per questo è necessaria una mediazione.

Le due moto scelgono come posizionarsi: una starà sulla fuga ed una sul gruppo. «Non si può programmare, si vede che piega prende la gara e si agisce di conseguenza. Si decidono degli stop, ovvero dei rilevamenti, ed in quei punti si prendono i tempi. Può avvenire in coincidenza dell'ingresso in una città o in altri luoghi, di certo avviene con scadenze più ravvicinate sul finire di corsa. La prima moto segnala dove prendere il rilevamento e la seconda agisce di conseguenza. Da qui discendono anche le mosse dei direttori sportivi che, quando ricevono le nostre informazioni, decidono le tattiche di gara».
Il tutto coordinati dai regolamenti di gara, perché stare in corsa in moto è complesso e tutte le vetture devono attenersi a regole ferree. «Credo che una persona che non sia stata nel mondo del ciclismo, di più, che non abbia mai corso in bicicletta, non riuscirebbe ad affrontare un lavoro di questo genere. Serve attenzione estrema, la sicurezza di tutti è la priorità. Tra l'altro la situazione, in una gara professionistica, cambia molto velocemente e questo rende tutto più difficile. In linea generale le moto della polizia, della direzione e dei regolatori devono sempre stare a sinistra, le altre, ad esempio i fotografi, sempre a destra. Questo per evitare incidenti».

Alcuni cambi sono ammessi, ma solo in situazioni particolari ed in ogni caso vengono comunicati prima tramite una serie di collegamenti radio tra le vetture in gara. «Io sono collegato con l'auto a cui passo informazioni e sento radiocorsa, in questo modo la direzione informa anche noi di tutti i dettagli tecnici della strada, strettoie, curve pericolose od ostacoli. Le altre moto sono collegate sia a radiocorsa che alla direzione, mentre i fotografi solo a radiocorsa».
Bontempi è arrivato da poco in hotel quando gli telefoniamo, è sceso dalla moto ma la giornata non è ancora finita. Sta aspettando di visionare i comunicati ufficiali riguardanti la frazione del giorno seguente. «Una volta presa visione degli orari di partenza della gara noi decidiamo quando muoverci anche in base al tratto di trasferimento. Al mattino lasciamo i nostri bagagli a un furgone che alla sera li porta nell'albergo in cui alloggiamo. Se ci cercate, ci trovate già sul posto circa due ore prima della partenza della tappa».

Foto: Luigi Sestili


Il profumo della pioggia nelle Langhe

A Samuele Zoccarato guardarsi intorno interessa quanto basta. Se lo fa è per scegliere la fuga giusta, per attaccare, e per lui la fuga non è solo portare in giro lo sponsor, o farsi bello davanti alle telecamere. No, per lui è istinto, fame, distinzione.
Se Zoccarato si guarda intorno non lo fa per vedere case e monumenti, tifosi bizzarri che giocano a chi fa il più bizzarro; interminabili filari, colline impregnate di alberi, o il vento che si diletta con il verde dei campi dando il via a spettacolari giochi di onde. Zoccarato si guarda intorno per cercare la fuga giusta.
Tempo fa raccontò di sentirsi un guerrafondaio in bicicletta, uno di quelli che se va a picco si rialza: “fare watt” è una frase che usa spesso e quei watt non li usa mai a sproposito.

Al Giro ci sono due dei suoi punti di riferimento: De Gendt e De Marchi. Come loro sceglie la fuga per vivere meglio, che poi sia quella giusta lo imparerà strada facendo, d'altra parte lui è qui per la prima volta, perché solo da pochi mesi pedala nel ciclismo dei grandi.
Stamattina alla partenza era convinto: un po' di tensione prima del via.
Si è scaldato in maniera intensa, la sua azione era tattica concordata sin dalla sera prima.

Stamattina alla partenza piove: scrosci violenti che non lasciano spazio a nessun malinteso ma che via via daranno tregua ai corridori. Zoccarato indossa una giacchetta ciclamino, si lancia in fuga e la alimenta come se le sue gambe fossero la materia prima di cui si compone l'avanguardia.
E si porta dietro un gruppo di guerrafondai come lui. C'è lo svizzero di Colombia Pellaud, che alla fuga dedica la sua vita. C'è il viaggiatore naïf van der Hoorn, che non indossa mai gli occhiali nemmeno sotto la pioggia violenta o con il sole che brucia gli occhi.

C'è il più giovane di tutti, Ponomar, che galleggia, sbaglia curve, poi sarà il primo a staccarsi: fatica che tornerà utile in futuro.
C'è Rivi con il compagno di squadra Albanese, anche loro si dedicano alla fuga, ma con uno scopo ben preciso: la maglia azzurra che Albanese indossa da ieri e che indosserà anche stasera. C'è Van den Berg, chiamato al Giro all'ultimo per sostituire Pinot, e infine Gougeard.
La fuga va, ma sulla carta non fa paura, appare segnata: il gruppo li tiene a tiro con Sagan e i suoi seguaci (ottimo Aleotti) che sgranano il gruppo e rosicchiano secondi su secondi ai battistrada come una goccia provoca uno stillicidio.

Velocisti saltano – Nizzolo, Ewan, Merlier – altri si aggrappano a ogni speranza mentre il cielo resta triste ma non piange e il gruppo si infila nella coreografia della Langhe. Li riprendono? Sì, li riprendono.
Restano in cinque, molla Albanese, poi lascia van der Berg. Restano in tre. Poi salta Zoccarato, mentre da dietro avanzano con uno schioppo Gallopin e Ciccone.

Restano in due: van der Hoorn e Pellaud. Resta da solo van der Hoorn. Non lo riprendono? No dai, lo riprendono sul traguardo.
Lo spingiamo virtualmente: 45'', 30'', 20'' ecco l'ultimo chilometro. Taco è lì, il gruppo lo vede. 15'', 10'' quando mancano duecento metri ormai è fatta. Taco vince, come quando qualche stagione fa batteva van Aert.

A Zoccarato, invece, stasera faranno male le gambe («ho avuto i crampi sull'ultima salita» dirà), resterà sulla sua pelle impresso l'odore delle Langhe. L'umidità, una leggera nebbiolina, e poi si guarderà di nuovo intorno e penserà a domani, a un altro giorno in cui andare in fuga, magari sarà di nuovo quella giusta, magari sarà il suo giorno, come oggi è stato quello di van der Hoorn.
Foto: Luigi Sestili


Il mondo capovolto di Taco van der Hoorn

Chissà se qualcuno se lo ricorda quel 27 agosto del 2018. Schaal Sels, divertente semiclassica estiva belga nei dintorni di Anversa. Vinse un ragazzo di nome Taco van der Hoorn, alla sua prima vittoria, nella sua prima vera e propria stagione tra i professionisti.

Arrivò a braccia alzate con la faccia sporca di fango, dopo aver superato pavé e sterrati, e dopo aver beffato sul traguardo un certo Wout van Aert. Al terzo posto si classificò Tim Merlier in rimonta.

Il mondo si è poi capovolto: Taco ha faticato, è passato nel World Tour senza mai un vero acuto, mentre van Aert diventava van Aert e Merlier quel velocista capace di vincere ieri al Giro.

Il mondo di Taco van der Hoorn è sempre stato capovolto e un po' bizzarro: quest'anno lo vediamo correre senza occhiali, sempre; un paio di anni fa ha girato per un'estate intera con un furgoncino Volkswagen del 1982, battendo le strade delle classiche del Belgio e di quelle italiane. «L'ho fatto per imparare, prendere appunti, più avanti sarò troppo impegnato tra corse e allenamenti», raccontava.

Lo abbiamo visto provarci, quest'anno, con una nuova luce negli occhi. Spesso in fuga, lo abbiamo visto provarci anche alla Sanremo.

Lo abbiamo visto tentare oggi, gestirsi bene mentre i suoi compagni d'avventura si arrabattavano tra scatti e controscatti e traguardi parziali.
Lui ha tenuto duro, se n'è infischiato di maglie azzurre o traguardi estemporanei e li ha staccati - per ultimo Pellaud - ma sembrava segnata la sua fine come quella degli altri sette, col gruppo da dietro che rinveniva e tutti noi a spingerlo idealmente, urlando "Taco", a soffiare sullo schermo, a imparare bene quel suo nome, a ricordarci dove già lo avevamo sentito nominare.

Oggi 10 maggio 2021, quasi quattro anni dopo quel successo vicino Anversa davanti a van Aert e Merlier, Taco ha capovolto il mondo, regalando così la pietra più preziosa alla sua carriera e a quella della sua squadra, che fino a pochi minuti fa non aveva ancora conquistato un successo in stagione. Ogni tanto le fughe possono arrivare e se vince uno come Taco, il ciclismo ci piace ancora di più

Foto Dario Belingheri/BettiniPhoto


La locomotiva umana

Words: Gino Cervi
Voice: Luca Mich e Claudio Ruatti
Sound design: Brand&Soda

Il 10 maggio 1931 è un giorno di grandi duelli. Sulle strade d’Italia, seppure a distanza di mille miglia, vanno in scena due appassionanti contese sportive. In Sicilia, sulle curve e i saliscendi delle Madonie, si corre la ventiduesima edizione della Targa Florio, una delle più antiche e illustri corse automobilistiche. Al volante di rombanti fuoriserie i piloti più forti del momento: su tutti spicca la sfida tra il vecchio, Tazio Nuvolari, e il giovane campione, Achille Varzi. Al termine dei quattro giri di circuito, 584 km, 9 ore, 0 primi e 27 secondi, alla media di 64,836 km/h, taglia per primo il traguardo di Cerda l’Alfa Romeo del Nìvola, il “Mantovano volante”; Varzi, su Bugatti, arriva soltanto terzo; in mezzo un’altra Alfa Romeo, quella di Mario Umberto Borzacchini. Completa la classifica dei migliori, Giuseppe Campari, quarto. Sembra una canzone di Lucio Dalla.

Dall’altro capo della penisola c’è un’altra sfida. Non schiacchiano i piedi su acceleratore, freno e frizione ma mulinano le gambe sulle pedivelle delle loro biciclette. Nella prima di tappa del Giro d’Italia, la Milano-Mantova, 206 chilometri e mezzo, piatti come una tavola e più o meno dritti come una ferrovia, il testa a testa è tra Alfredo Binda e un altro mantovano che non è ancora volante, ma sta per spiccare il volo: Learco Guerra.

Ci sono almeno due buoni motivi per appassionarsi all’ouverture dell’edizione numero 19 del Giro. Il  primo è che da quest’anno la corsa si è data un colore che la accompagnerà per il resto della sua storia. Il leader in classifica generale indossa una maglia che lo distingue per eccellenza: una maglia rosa. Rosa come la carta sulla quale, fin dal 2 gennaio 1899, viene stampata “La Gazzetta dello Sport”. L’idea è “copiata” dal Tour: anche lì da qualche anno, il primo in classifica è riconoscibile per una maglia gialla, gialla come il colore delle pagine del giornale “L’Auto”, l’organizzatore della manifestazione.

Pare che a Mussolini e agli alti dirigenti dello sport fascista la scelta non convincesse per niente. Il rosa non è u colore che si addice agli eroi, virili e ardimentosi, dello sport. Forse per questo la novità viene poco enfatizzata dagli stessi organizzatori e dalla stampa. Il termine infatti compare timidamente sulle pagine della “Gazzetta” solo al termine della 7a tappa e, a Giro concluso, in una poco appariscente didascalia di una foto del vincitore. Col tempo tuttavia il colore “delle dita dell’aurora”, come scrive Omero che di epica se ne intende, conquistò anche i suiveur del Giro. Non solo la maglia del più forte, ma anche il Giro stesso divenne “la Corsa Rosa”.

Il secondo motivo è questo. Se vogliamo restare fedeli alla tradizione omerica, diciamo che Alfredo Binda e Learco Guerra si accingono quel giorno a diventare l’Achille e l’Ettore del ciclismo nazionale. Così, spalla a spalla, e col coltello tra i denti, si presentano i due avversari alle porte della pista del Te, che prende il nome dal vicino palazzo gonzaghesco a Mantova.

A poche decine di metri dall’ingresso in pista, mentre il gruppo compatto si accinge a preparare la volata, cade Antonio Negrini. Sei corridori si trovano in testa: Di Paco e Battesini della Maino, quindi Binda della Legnano, Guerra ancora della Maino, e poi Mara della Bianchi e, a chiudere, un altro “ramarro” della Legnano, Marchisio. Devono ancora percorrere un giro e mezzo di pista. Ma noi, per il momento, li lasciamo qui. E facciamo un passo indietro per raccontarvi da dove arrivano i due duellanti.

Se fossero vissuti a cavallo tra il I e il II secolo d.C. Plutarco, lo scrittore greco di cittadinanza romana, Alfredo Binda e Learco Guerra li avrebbe inseriti nelle sue celebri Vite parallele. Invece sono figli del XX secolo e ci tocca raccontarli in un altro modo, magari proprio in un podcast. Le vite di Binda e Guerra incominciano nel 1902, quasi appaiate: l’11 agosto nasce Alfredo, 14 ottobre Learco.

A Cittiglio, provincia di Varese, il primo; a San Nicolò Po, frazione di Bagnolo San Vito, provincia di Mantova, il secondo. Un lombardo di lago e un lombardo di fiume. Binda, decimo di quattordici figli, cresce in una famiglia quasi agiata. Il padre ha una piccola ditta edile: il piccolo Alfredo trova anche il tempo di studiare musica e suonare la tromba nella banda del paese. All’indomani della Grande Guerra, sulla “sponda magra” del Lago Maggiore non c’è però lavoro per tutti. E il giovane Alfredo, al seguito del fratello maggiore, Primo, emigra e va a cercar fortuna in Francia, come stuccatore e decoratore nelle belle case della Costa Azzurra.

Qui incomincia ad appassionarsi di ciclismo: all’inizio accompagna il fratello alle corse, poi scopre di avere un innato talento sui pedali.

A vent’anni comincia a correre. E comincia a vincere nelle gare a cui si iscrive, da dilettante, tra un lavoro e l’altro. Va talmente forte che presto diventa quello il suo lavoro. Nel 1923 in una corsa in salita aperta ai professionisti, la Nizza-Mont Chauve, batte tutti, francesi e italiani, Girardengo compreso.

Learco Antenore Giuseppe Guerra è figlio di Attilio, capomastro mantovano, e di Pasquina, combattiva casalinga di simpatie socialiste. Perché lo battezzino Learco nessuno lo sa. Che Learco in mitologia sia lo sfortunato figlio di Atamante, ucciso dal padre reso pazzo per vendetta da Era, o Giunone, non importa a nessuno. Learco suona bene e basta così. A Learco piace lo sport: è forte, atletico, resistente. Gioca a pallone. Vorrebbe anche provare a correre in bicicletta. Ma di tempo da perdere, in famiglia Guerra non ce n’è. L’unica bicicletta è un vecchio tandem. Lo inforca insieme a Papà Attilio per andare nei cantieri.

Nel Mantovano gli anni della guerra sono durissimi: l’alluvione del Po nel giugno del 1917, i disastri della ritirata di Caporetto in autunno; e poi, a guerra finita, le tensioni sociali. Il 3 e 4 dicembre 1919 a Mantova le Giornate rosse dei braccianti, sempre più poveri e sfruttati. Protestano contro il costo della vita e la disoccupazione. Manifestazioni e scontri di piazza degenerano in saccheggi e devastazioni. L’esercito interviene: 8 morti, 50 feriti, centinaia di arresti. Anche alcuni amici di Learco finiscono in carcere e sotto processo. I socialisti vincono le elezioni amministrative del 1920. Le squadre fasciste iniziano le spedizioni punitive nelle campagne. Nel 1921 devastano la cooperativa di San Nicolò.

Learco a vent’anni è chiamato alla leva militare e si toglie per un po’ da quella polveriera. Due anni dopo, al suo ritorno, nell’ottobre del 1924, è già papà. Nasce Gino Beniamino e la mamma è Letizia Malavasi, la sua “morosa” fin da prima di partire soldato. Si sposano qualche mese dopo. Ora che c’è una famiglia da mantenere, c’è ancora meno posto per le fantasie ciclistiche. Eppure Learco non smette di pensare a quegli aitanti ciclisti che corrono nel Pedale Mantovano, o per 23a Legione Bersaglieri del Mincio; e ai campioni locali di cui legge sulle pagine dei giornali. Alfredo Donini e Spartaco Boselli; Giacomo Gaioni e Aimone Altissimo; e Armando Maggiori, che nel 1927 corre il Giro da indipendente. Learco sente che, in sella a una bicicletta, non sfigurerebbe al loro confronto. Ma restano solo sogni.

Ad Alfredo Binda invece la bicicletta ha fatto svoltare la vita. Dopo aver vinto in Francia una trentina di corse, sul finire del 1924 torna in Italia per partecipare al Giro di Lombardia. Ha un obiettivo: vincere le 500 lire di premio messe in palio per chi passerà primo sul Ghisallo. Alfredo ce la fa. Scollina per primo con 2 minuti di vantaggio su Brunero e 3 e mezzo su Girardengo. In discesa viene ripreso da Brunero, che poi lo stacca a Viggiù. Al traguardo, arriva 4°, a 8 minuti da Brunero, il vincitore, ma insieme a molti navigati campioni come Girardengo e Linari. L’occhio lungo di Eberardo Pavesi, direttore sportivo della Legnano, lo nota. A corsa finita gli fa firmare un contratto con la Legnano. Per un decennio sarà la fortuna di Binda, ma anche di Pavesi.

L’anno seguente, con la maglia verde ramarro, il “Trombettiere di Cittiglio” – come hanno iniziato a chiamarlo sui giornali – vince il Giro d’Italia al primo tentativo e, a fine stagione, anche il Giro di Lombardia. Nel 1926 arriva secondo al Giro, ancora dietro a Brunero, ma vince sei tappe, si ripete al Lombardia e conquista il suo primo titolo di campione italiano su strada.

Nel 1927 ammazza il Giro: guida la classifica dal primo all’ultimo giorno e vince dodici tappe su quattordici. Sgomina la concorrenza internazionale al primo Campionato mondiale su strada, sul circuito del Nurburgring.   Quindi ancora Campionato italiano e ancora il Giro di Lombardia.

Nel 1928 si “limita” al terzo Giro d’Italia (con sette tappe su dodici) e alla terza maglia tricolore.
Nel 1929 vince la prima Milano-Sanremo e poi cala il poker sia al Giro sia ai Campionati italiani.
Non è un dominio: è una tirannia. Binda pare imbattibile. In meno di cinque anni ha sbaragliato il campo, mettendo all’angolo un Campionissimo come Girardengo. Quello che sconcerta di più è la scientificità dei suoi successi. Tutto, nelle sue imprese, pare calcolato al millimetro: sforzi ed emozioni. Il varesino ha una gestione perfetta del proprio talento sportivo ma non entusiasma le folle. Anzi, i tifosi del ciclismo, abituati fin dalle origini alle rivalità e a i duelli – Gerbi e Cuniolo, Ganna e Galetti, Girardengo e Belloni – cominciano a irritarsi per questa incontrastata egemonia. Lo capiscono anche gli organizzatori del Giro d’Italia. Nel 1930, per non privare d’interesse la corsa, gli propongono questo accordo: «Tu resti a casa, noi ti paghiamo lo stesso il premio del vincitore: 22.500 lire». Binda accetta: così avrà modo di prepararsi meglio al suo primo Tour de France.

Cosa succede intanto dalle parti di Mantova al muratore Guerra?
Autunno 1927. Ferruccio Gatti, fascista della prima ora, è il presidente della società sportiva della 23a Legione Bersaglieri del Mincio, affiliata alla Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. Gli presentano Learco: ha già venticinque anni, non ha mai corso in bicicletta, però quel giovanottone massiccio, con le mani grosse da muratore, gli ispira fiducia. Learco si lascia alle spalle il suo passato di simpatizzante socialista: prende la tessera del partito e viene iscritto. Non vede l’ora di essere messo alla prova.
Nelle prime corse solo piazzamenti. La prima vittoria è nel Giro della Provincia di Ferrara: porta a casa 1200 lire, quel che ci vuole per rispondere alle perplessità della famiglia che non vede di buon occhio la passione ciclistica.
Si iscrive come indipendente al Lombardia: tiene fino a 10 km dall’arrivo, poi si ritira. Ci riprova nella “Coppa d’Inverno”. Arriva 11° e si merita una menzione da Emilio Colombo della “Gazzetta”:

«Atleta solido, ben piantato, munito di un fiato rimarchevole. Potrà certamente fare qualcosa».

Si batterà generosamente in altre corse, ma i risultati non arrivano. Manca qualcosa: forse la preparazione, forse l’assistenza tecnica. Forse è troppo tardi per lui: le grandi case, la Legnano, la Bianchi, non si accorgono di lui. A fine stagione sta per mollare tutto. Ma un amico, Gino Ghirardini, piccolo imprenditore mantovano, gli procura una bicicletta Maino e una maglia grigia. Gli dice di presentarsi a Milano alla partenza della Sanremo: la Maino gli ha procurato il materiale tramite Spaggiari, un loro rivenditore mantovano.

Learco è stupito: ma il 19 marzo è alla partenza della Classicissima di primavera. Si presenta a quelli della Maino, tra cui Antonio Negrini che si sta facendo massaggiare da Biagio Cavanna. Lo guardano storto: Guerra, timido e orgoglioso, gira al largo. Ma in corsa gira eccome. È l’unico tra quelli in maglia grigia ad arrivare al traguardo, anche se a 17 minuti e 35 secondi da Binda, che stravince. All’arrivo però non capisce perché nessuno della squadra gli rivolga una parola, una pacca sulla spalla, neanche uno sguardo. A stento riesce a trovare qualcuno che gli presti i soldi per tornare a casa in treno. In viaggio lo assalgono pensieri cupi. Una volta tornato a Mantova scopre la verità: non era vera la storia dell’invito della Maino. Era stato l’amico Ghirardini a comprare bici e maglia al rivenditore Spaggiari. Learco è mortificato.

Ma quella Milano-Sanremo “regalata” è la sua sliding door. Girardengo che non prendeva parte alla gara l’ha notato in corsa e convince il commendator Giovanni Maino a dare davvero una possibilità al muratore mantovano. Corre il Giro del Piemonte. Dopo aver dato l’anima per Negrini, che infatti vince per distacco su Binda, Learco è costretto al ritiro da due forature. Testardo, insiste. Giro di Romagna. Anche qui si batte alla morte per Giacobbe e Negrini, che arrivano alle spalle di Binda. Lui solo 17°. Alla Maino però hanno capito che ci si può fidare. E lo ingaggiano per il Giro d’Italia. Learco tocca il cielo con un dito: neppure un anno e mezzo prima la bici la usava solo per andare a lavorare. Al servizio Negrini e Giacobbe chiude 24° in classifica generale. Prima della fine della stagione vince la Coppa Appennino, a Vignola, e la Benevento-Napoli, 4a tappa del Giro di Campania; e poi, tra la sorpresa generale, i Campionati nazionali di mezzofondo su pista, a Carpi, battendo Binda e altri campioni come Piemontesi e Linari.

La stagione 1930 inizia con un 7° posto alla Milano-Sanremo. Ma è al Giro d’Italia, quello che si corre senza Alfredo Binda, pagato pur di lasciare il campo agli avversari, che Learco Guerra diventa finalmente protagonista. Dopo un anno di apprendistato tra i professionisti, grazie all’allenamento, a una migliore alimentazione e una maggior assistenza tecnica, Guerra inizia a esprimere tutte le sue potenzialità. È un formidabile passista, perfetto per le gare a cronometro. Sa battersi allo sprint ma ha anche notevole capacità di tenuta sulle lunghe distanze.
Ma soprattutto è un esplosione di temperamento. Così come Binda applica un metodo scientifico alla sua condotta di corsa, Guerra è al contrario un arrembante esplosione di vitalità. Per questo che i tifosi iniziano ad amarlo ancora prima che diventi un vero campione. E al Giro del 1930 Guerra parte all’arrembaggio. Vince due tappe (a Roma e a Forlì), arriva due volte secondo, una volta terzo e altre due volte quarto. Alla fine si piazza 9° in classifica generale, a 36 minuti e 10 secondi dal vincitore, Luigi Marchisio della Legnano.

Il giornalista della “Gazzetta” Valdo Cottarelli lo ribattezza “La Locomotiva Umana”.

La consacrazione a idolo dei tifosi avviene un mese dopo. Guerra è chiamato a far parte della squadra italiana che partecipa al Tour de France. Il patron Henri Desgrange, inventore e autorità assoluta della Grande Boucle, ha rivoluzionato la formula della corsa. Basta con le squadre-corsa delle marche di biciclette. Alla partenza cinque squadre nazionali, Francia, Belgio, Spagna, Italia e Germania, formate da otto componenti l’una; più una schiera di un ottantina di touristes-routiers, ovvero di corridori che correvano in autonomia, senza assistenza tecnica a supporto. La rappresentativa italiana è tutta votata al successo di Alfredo Binda: lo affiancano il vecchio Tano Belloni che ha già 38 anni, Domenico Piemontesi, Giuseppe Pancera, Leonida Frascarelli, Marco Giuntelli, Felice Gremo e, appunto, Learco Guerra, «il più taciturno, spesso appartato, quasi sempre imbarazzato»

Ma se al Tour tutti quanti attendono l’exploit internazionale di Binda, a stupire è proprio il campione mantovano. Vince la seconda tappa, la Caen-Dinan, e indossa la maglia gialla. Ha un vantaggio esiguo, 12 secondi, sul francese Charles Pellissier. L’uomo che tutti temono resta Binda. I francesi cercano di farlo fuori, non perdendo occasione per farlo innervosire. Nella volata di Bordeaux, Pellissier gli si aggrappa alla maglia e los supera di slancio sul traguardo. Pellissier viene penalizzato e retrocesso, ma il campione di Cittiglio vuole ritirarsi. Lo convincono a ripartire ma nella tappa seguente rompe un pedale e poi cade: accumula un ritardo di oltre un’ora. Binda è sempre più intenzionato ad abbandonare, ma c’è la maglia gialla di Guerra da difendere. Lo fa con successo nella Hendaye-Pau. Ma nel successivo tappone pirenaico, la Pau-Luchon, con Aubisque e Tourmalet da scalare, Guerra cede di schianto: Binda va a vincere per il secondo giorno consecutivo, ma la maglia gialla passa sulle spalle del francese André Leducq.

Nella Luchon-Perpignan, vittima dell’ennesimo incidente, si ritira infine anche Binda. Guerra, secondo in classifica, rimane solo, con Pancera e Giuntelli. Nonostante questo, e nonostante le provocazioni dei francesi, Guerra si batte come un leone. Si conquista anche la stima e la simpatia dei tifosi francesi, che lo chiamano Ghérà. Vince altre due tappe, a Cannes e a Grenoble, e a Parigi, sul traguardo finale, arriva secondo. Un secondo posto che vale 30.000 franchi di premi e la popolarità. Che vuol dire altri soldi. In Italia Guerra che corre il Tour de France suscita l’entusiasmo dei tifosi. In segno di gratitudine aprono cospicue sottoscrizioni a suo favore. A Mantova si raccolgono 13.358 lire. Un sarto si offre di tagliargli un abito su misura. Un barbiere gli assicura barba e capelli gratis per un anno. Attraverso le pagine della “Gazzetta” si arriva addirittura alla cifra di 111.761 lire. Per dare l’idea del valore, all’epoca un buono stipendio di un impiegato di banca era di 500 lire al mese. Albergatori di tutta Italia, da Montecatini e Ponte di Legno, lo invitano a soggiornare gratuitamente nelle loro strutture. Ma la stagione non è ancora finita. Il 30 agosto ai Campionati mondiali di Liegi 1930, Guerra è di nuovo al fianco di Binda nella lotta per la conquista del titolo iridato. Si corre in casa del campione belga Georges Ronsse, vincitore delle ultime due edizioni. Da alleati, Alfredo e Learco sono imbattibili. Nella fuga decisiva a quattro, vince il primo, lanciato in volata dal secondo: Ronsse è solo terzo.

Gli ultimi appuntamenti dell’anno sono le prove del Campionato italiano. La sera del 13 settembre parte la Predappio-Roma, 477 km, praticamente una Gran Fondo. La gara si decide a 60 km dal traguardo, quando Guerra parte in solitaria e stacca tutti. Arriva primo all’ippodromo di Villa Glori, portato in gloria dalla folla di tifosi. Si ripete il 5 ottobre, nell’ultima prova del Campionato tricolore: vince la Coppa Caivano, vicino a Napoli, e si aggiudica il titolo italiano, interrompendo la serie di quattro successi consecutivi di Binda. Da qui in poi tra i due sarà guerra, di nome e di fatto. A prendere le parti di Learco sono soprattutto i vecchi tifosi di Girardengo, che, ormai a fine carriera, è di fatto anche il mentore di Guerra alla Maino, come spiegano i commentatori più avveduti:

«Guerra è curato, consigliato, indirizzato da Girardengo al quale non par vero di buttare un tale ostacolo tra le ruote dell’aborrito rivale. Binda aveva vinto per quattro volte consecutive la maglia tricolore? Ebbene, al primo serio assalto di Guerra, egli dovrà cedergliela. Il dito di Dio! Sentenziano gli inconsolabili girardenghiani, d’incanto diventati guerriani per la pelle…».

E sono sempre loro a raccontarci che, soprattutto a Mantova, l’ex muratore di San Nicolò Po non conosce più la solitudine:
«Anche Virgilio, se potesse, verrebbe giù dal piedistallo e apparirebbe sotto i platani del Te con il suo bravo programma delle corse in mano».
Per le vie della città lo salutano affacciandosi alle finestre, le automobili rallentano, si fermano per strada. Se va a comprare il giornale, le edicole vengono prese d’assedio. Se entra in un bar a prendere un caffè, fuori fanno la fila per vederlo dalle vetrine. I bambini gli corrono dietro, le ragazze gli sorridono, le autorità se lo contendono.

Al Giro di Lombardia, gran chiusura di stagione, tra i due litiganti, secondo Binda e terzo Guerra, gode Mara, primo dopo la squalifica di Piemontesi per scorrettezze in volata. Mantova tutta gli prepara una gran festa. 15.000 spettatori assistono alla riunione su pista, dove sono invitati i più forti, da Binda a Charles Pellissier, in segno di pace dopo le scazzottature al Tour. La fa da padrone… il padrone di casa: a mani basse Guerra vince nella velocità, nell’inseguimento e a cronometro. Il giorno dopo, la domenica, a palazzo Aldegatti gran pranzo di gala. Ci sono tutti: da Giovanni Maino a Costante Girardengo, da Orio Vergani a Vittorio Varale, a Henri Desgranges. Emilio Colombo consegna a Learco il lauto incasso della sottoscrizione della “Gazzetta”.

Il 1931 la sfida continua. La Sanremo la vince Binda davanti a Guerra, non senza polemiche. Alfredo perde in casa nella Tre Valli Varesine, dove è primo Giacobbe, compagno di squadra di Learco. Guerra s’impone al Giro di Calabria. Alla vigilia del Giro del 1931 i duellanti si presentano così. Binda ha già praticamente vinto tutto: due Campionati del mondo, quattro Giri d’Italia, tre Giri di Lombardia, due Milano-Sanremo. Guerra ha un palmarès infinitamente più modesto: due tappe al Giro, tre al Tour e la maglia di campione italiano. Eppure quella che si preannuncia è una lotta tra titani.

E allora torniamo all’ingresso alla pista del Te, arrivo di quel 10 giugno 1931, prima tappa della XIX edizione del Giro. Riporta la cronaca del “Corriere della Sera”:

«Al primo giro, Binda supera i due grigi [Di Paco e Battesini] che gli stanno davanti, e si porta davanti in prima posizione. Guerra lo segue come un’ombra. All’entrata dell’ultima curva il mantovano supera il cittigliese e resiste vittoriosamente sul rettilineo al contrattacco del rivale». Learco Guerra vince e indossa la prima maglia rosa della storia del Giro d’Italia. Ma la battaglia è apertissima. Nella seconda tappa che arriva a Ravenna Guerra concede il bis. Ma nella terza paga dazio alle prime salite appenniniche e sul traguardo di Macerata accusa un distacco di 6 minuti da Binda, che arriva primo e balza in testa alla classifica.

Nella quarta tappa che giunge a Pescara il testa a testa è appassionante: allo sprint vince per un nulla Binda. All’arrivo a Roma, Binda cade a pochi chilometri dall’arrivo: si ferisce e viene scalzato in classifica generale da Mara. Il giorno dopo è costretto al ritiro.

Guerra allora si scatena: vince due tappe consecutive, a Perugia e poi a Montecatini, dove riconquista la maglia rosa. Ma nella successiva Montecatini-Genova, va in crisi sulla salita della Foce e cade in discesa, investito da altri corridori. Il freno di un’altra bicicletta lo ferisce alla schiena. Viene soccorso, si riprende ma a La Spezia, con la maglia rosa insanguinata, si ritira. A differenza della defezione di Binda, l’abbandono di Guerra suscita grande emozione tra i tifosi. Privato dalla malasorte dei duellanti tanto attesi, il Giro del 1931 viene vinto da Camusso.
Né Binda né Guerra partecipano al Tour de France. Entrambi puntano al Mondiale, in programma a Copenaghen, il 26 agosto.

La formula è inedita: una cronometro individuale di 172 km. Praticamente una maratona contro il tempo. Binda, il campione uscente, non è in forma e arriva solo sesto. Guerra stravince alla strepitosa media di 35,136 km/h e con 5’23’’ di vantaggio sul francese Le Drogo, un nome che forse oggi susciterebbe ben di più che un sospetto. Da Mantova seguono la corsa via radio. Alla trattoria Stella con campo di bocce, in Porta Pusterla, c’è anche il padre di Learco, Attilio. Corre a casa ad annunciare il trionfo e vorrebbe cambiare nome alla nipotina, nata solo da pochi giorni, il 13 agosto: «Cambiamo nome alla Carla! Chiamiamola Vittoria!». A Mantova la goliardia dei GUF inneggia in versi al trionfo del concittadino, prendendosi gioco dell’avversario:

«Lo disse Socrate
lo confermò Virgilio
che uno solo di Mantova
val cento di Cittiglio».

La strepitosa vittoria del Mondiale di Copenaghen sembra a molti un passaggio di consegne. Ma non è così. Due mesi dopo, Binda torna a vincere alla grande il Lombardia.
La rivalità si acuisce. Una rivalità, come scrive Bruno Roghi sulla “Gazzetta”, «sorda, caparbia, gelosa. Una rivalità senza parole e senza gesti, come se l’uno e l’altro fossero muniti di uno schioppo carico e si minacciassero continuamente la fucilata senza avere mai il coraggio di premere il grilletto».

1932 è l’anno del Decennale del fascismo. Ci si aspetta che al Giro si celebri la ricorrenza con un testa a testa tra i due grandi campioni. Ma, ironia della sorte, la corsa nazionale rischia di essere vinta da uno straniero. A lungo in maglia rosa è il tedesco Büse e lotta fino in fondo per la vittoria anche il belga Demuysere: per fortuna ci pensa il bergamasco Antonio Pesenti, il “mulo di Zogno”, a mettere d’accordo tutti. Guerra arriva 4°, anche se vince 6 tappe su 13. In una di queste la banda locale lo accoglie con le belligeranti note del coro «Guerra! Guerra!» della Norma di Bellini. Binda invece è solo 7°. Ma si prende la rivincita trionfando nel primo Campionato mondiale che si disputa in Italia, a Rocca di Papa. Guerra, attardato da una congestione, è 5°.

Il 1933 è di nuovo lotta all’ultimo sangue tra i due, che corrono l’uno con la maglia iridata di campione del mondo, l’altro con quella tricolore di campione d’Italia. Alla Sanremo Binda rompe una ruota a 20 km dal traguardo e Guerra ha via libera per la sua prima vittoria in Riviera. Al Giro, dopo la vittoria all’esordio, la sfortuna si accanisce contro Guerra, attardato in classifica già dalla seconda tappa. Si riprende, recupera in classifica, vince altre due tappe, prima di cadere di nuovo in volata a Roma, proprio per essersi toccato con Binda. È costretto al ritiro tra mille polemiche dei tifosi delle contrapposte fazioni. Binda conquista la maglia rosa a Foggia e la tiene fino all’arrivo di Milano: è il suo quinto Giro d’Italia. Ma è anche il suo canto del cigno. Guerra invece torna al Tour a dare spettacolo. È il leader della selezione italiana che però gli fa mancare il supporto decisivo. Da otto che erano rimangono in tre nelle tappe decisive tra Alpi e Pirenei. Nonostante questo, Guerra vince cinque tappe.

Vola a Charleville, città natale di Rimbaud, poeta «dalle suole di vento». Learco ha il vento nelle suole anche a Aix-Les-Bains e a Grenoble, quando nella discesa del Galibier rimonta un ritardo di oltre 10 minuti; poi ancora a Pau, nella massacrante tappa del Tourmalet. E infine nel gran finale sui Champs Elysées.
Guerra, come già tre anni prima, arriva secondo, dietro il francese Speicher. I baci della conturbante Joséphine Baker sono anche per lui.

Tra Binda e Guerra il duello non ha più storia nel 1934. Binda scompare dietro le quinte e Guerra trionfa. Dopo tante vittorie parziali, il Giro è un suo monologo: vince 10 tappe e finalmente è anche primo a Milano. Binda si ritira nella tappa di Napoli. Ai Mondiali di Lipsia una scorrettezza in volata del belga Kaers – non punita dai giudici – sottrae a Guerra il secondo titolo iridato. Learco si rifà vincendo il suo primo Giro di Lombardia e il suo quinto titolo di campione italiano. Nel 1935 la “Locomotiva umana” vince ancora cinque tappe al Giro ma anche il suo straordinario motore comincia a battere in testa. Mentre Binda si ritira dalle corse l’anno seguente, Guerra continua. Indossando la maglia che fu del rivale, quella della Legnano, nel 1937 vince la sua ultima tappa al Giro, la Roma-Napoli. Non poteva che andare così. Napoli, dopo Mantova, è da sempre la sua seconda patria: all’ombra del Vesuvio, accompagnato dal calore dei tifosi che da quelle parti lo idolatrano, ha ottenuto le vittorie entusiasmanti.

Lo ha scritto Mario Fossati, in questo bel ritratto parallelo dei due contrapposti campioni:
«Binda era un campionissimo che incantava i raffinati. Non era un freddo, un ingrato, un avaro come in fans di Girardengo sostenevano… Certo, con lo stile superiore delle sue imprese sapeva convincere i tecnici; certo, diceva una parola nuova; certo, mascherava lo sforzo con tanta eleganza da portare il primo pubblico femminile al ciclismo. Ma la corsa rimaneva sempre dentro di lui. Poi arrivò Guerra. Un volto aperto, i capelli nerissimi, la risata pronta, la generosità oltre ogni limite. Guerra osa perché non tramonta mai l’ora di osare. Osa per il bel gesto in sé. Binda scivola, arriva, espugna la trincea. Guerra la invade, a suo rischio, d’un balzo. Il pueblo è per Guerra».

Il secondo dopoguerra riserva al grande Learco una seconda carriera di successi da imprenditore – dà il suo nome a una fabbrica di biciclette – e da direttore sportivo. Con la Guerra-Ursus porta alla vittoria al Giro per la prima volta un campione straniero: lo svizzero Hugo Koblet nel 1950. Replicherà nel  1954 con l’outsider Carlo Clerici, altro svizzero di origini italiane. E poi ancora, con la Faema-Guerra, nel 1956 è l’artefice strategico della mitica vittoria di Gaul: nella giornata di tregenda sul Bondone, fa fermare Charly, gli fa fare un bagno in una tinozza calda, lo riveste con un cambio asciutto e lo rimette in sella. E l’Angelo della montagna conquisterà il suo primo Giro. L’accoppiata Gaul-Guerra farà il bis, tre anni dopo, nel 1959. Ma anche le Locomotive smettono di correre. Learco Guerra dà i primi segni di un improvviso cedimento – un tremore alla mano destra – quando ancora non ha sessant’anni. La diagnosi è una sentenza, per quegli anni: morbo di Parkinson. Learco Guerra si spegne a Milano il 7 febbraio 1963. Non c’è miglior finale di quanto ha scritto di lui Marco Pastonesi:

«Come un vulcano, uno tsunami, una bora. È un bisonte della strada. Come una moto, una macchina, un camion. Di più: la Locomotiva umana. Nell’immaginario popolare, se nel cognome sono rappresentati lo spirito del corridore, la strategia di corsa, la filosofia di gara, nel soprannome risuona il motore bicilindrico, si respira la polvere, si sente il vento. E Guerra indossa un paio di occhialoni alla Nuvolari, degni delle Mille Miglia».

 

 

Fonti

Renzo Dall’Ara, Locomotiva umana: Learco Guerra: l’avventura di un campione nella leggenda del ciclismo, Tre Lune Edizioni, 2002
Claudio Gregori, voce Ciclismo in Enciclopedia dello Sport Treccani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2005.
Marco Pastonesi, Ritratto di Learco Guerra. Macchina da… Guerra, in Giro d’Italia. La grande storia. 1925-1935, La Gazzetta dello Sport, 2012


Tornare a guardare

Tornare a guardare. Sì, basterebbe questo per raccontare quello che abbiamo visto ieri sulle strade tra Stupinigi e Novara. Per parlare della fame che c'è in ogni persona che incontri qui al Giro. Vedere, sapere, conoscere ogni dettaglio di quelle biciclette che si riversano in strada. La stessa fame di chi, per molti giorni, ha dovuto accontentarsi della fantasia, dell'immaginazione, che è grande cosa, ci mancherebbe, ma l'essere umano ha anche bisogno della realtà, non può vivere solo nel ricordo, altrimenti, prima o poi, lo assale la paura che quella sia solo una scusa e che aspettare sia inutile perché le cose non torneranno più come prima. Ed invece no, perché le cose possono cambiare, si possono aggiustare ed in ogni caso si possono sempre migliorare.

Non serve spiegarlo a quella signora che era seduta sul bordo di una rotonda ad aspettare il passaggio della fuga, lo stesso bordo su cui sedevano altre persone e, ad un certo punto, ha detto: «In fondo basta fare più attenzione e sembra quasi la vita di prima». Certo, con qualcosa in più. Perché adesso ci stupiamo e prima, forse, avevamo perso questa abitudine.

Adesso, anche alle gare di ciclismo, restiamo qualche secondo in più a guardare quell'operaio di una ditta meccanica che esce in strada a vedere il passaggio con le mani ancora annerite dal grasso. Quel signore che sta sudando da ore sotto al sole ed ha l'ombra a pochi passi ma da lì non vede bene ed allora si accontenta di farsi ombra con il braccio e resta a sudare. Per non parlare di quella coppia di anziani che voltano il viso nello stesso preciso momento al solo sentire l'aria spostarsi. Perché il ciclismo è aria che sposta, vento che ti prende a pugni. Oppure quella ragazza che ha fame ed essendo distante da ogni negozio recupera dallo zaino un pacchetto di cracker sbriciolato e non sapete che fatica fa a mangiare quelle briciole, perché c'è un leggero vento e deve già tenere in mano lo striscione e quelle briciole o cadono a terra dal pacchetto aperto male o volano via come il polline.

Già il polline, perché ieri c'era anche qualcuno con gli occhi arrossati ed il naso da cui quasi non passava più l'aria, maledetta allergia. Eppure è stato accanto alla transenna, non ha mollato di un centimetro. «Se si richiudesse tutto, un momento così lo rimpiangerei a vita. Tanto di allergia non si muore». E c'è chi ti ringrazia solo perché gli hai spiegato perché le moto in corsa stanno a sinistra: «Non me lo aveva mai detto nessuno». Che non è una frase scontata come può sembrare. Ha un peso importante.

E ci siamo noi, che dovremmo essere abituati a tante situazioni perché il ciclismo lo viviamo, perché di ciclismo viviamo. Invece, in macchina, ci voltiamo l'uno verso l'altro e gridiamo: «Guarda là!».
Sì, perché tutte queste cose le abbiamo sempre viste, ma solo quando ci sono state negate, siamo riusciti a tornare a guardarle. Questo è il bello di questo Giro, che si guarda, non si vede solamente.

Foto: Luigi Sestili


Arance ad orologeria

Certo, doveva essere volata: volata è stata. Certo, doveva essere fuga iniziale da lasciare a tiro: non ci si è spostati di un millimetro da questa legge scritta. Una tappa dallo svolgimento arcinoto e lineare come la forma di uno sbadiglio. Fino all'epilogo: veloce, incerto, convulso.

Si parte col cielo grigio: l'oscurità impregna visi e contorni, e le facce dei corridori si distendono, paradossalmente, solo dopo il via. La partenza ha un nome e un numero: Wouter Weylandt – 108. Dieci anni esatti da quel tragico 9 maggio 2011, giusto ricordarlo anche con poche righe. Oggi, idealmente, la mano a formare una “W”, come fece il suo amico fraterno Farrar nella sua unica vittoria al Tour. Era il 2011 e arrivò a due mesi da quella tragedia. Oggi, mentre Wouter non c'è più, Tyler si dedica agli altri come pompiere.

Si parte con uno in meno: Krists Neilands. Ricordate la vittoria di Nibali alla Sanremo? Nibali fu attirato dall'attacco del corridore lettone, che resta impresso nell'immaginario per quel giorno, ma sarebbe ingiusto non rammentarlo anche per altro. Ha vinto poco, ma l'ultima volta, nel 2019 al Gp de Wallonie, fu un colpo superbo; piace Neilands, per la provenienza atipica, la Lettonia, la stessa di Skuijiņš che non perde mai occasione per ricordare come la cioccolata e la birra fatta dalle sue parti sia la più buona del mondo. Piace, Neilands, perché completo. Qui al Giro poteva togliersi il gusto di qualche fuga, magari vincente, e invece entra nei record di questa edizione per essere il primo corridore a lasciare il Giro. Il come poi, bizzarro, quasi irritante: cade rientrando in albergo dopo la cronometro. Fine della storia? No, fine della corsa per lui: portato in ospedale con la clavicola rotta.

Si parte da Stupinigi, nome buffo, e si attraversa uno scenario di vita rurale che poi si susseguirà per tutta la tappa, tra rotonde con gente che banchetta, verde intenso un po' ovunque che si alterna alle risaie; uccelli che volano rasenti al suolo, preti vestiti di rosa, cani che inseguono il gruppo, mucche dipinte, asini mascherati: sembra un felliniano tuffo nel passato, come una pellicola grottesca che ostenta sprazzi di colore alternandolo a immagini in bianco e nero. Da una parte il borghese caos del gruppo, dall'altra la quieta anima contadina tra cortili e aie, trattori e galline.

Si parte, e dopo il ricordo, lo sguardo volge al futuro. La fuga va e nessuno accenna nemmeno ad annusargli la ruota. Albanese, Marengo e Tagliani, protagonisti. Tre corridori, tre maglie, tre storie. Quella di Albanese parla di un ragazzo talentuoso che sembrava potesse diventare qualcosa in più. Vinse tra i professionisti che era ancora dilettante e poi tra i professionisti non ha più vinto. Dice di aver perso quattro anni, e che ora è arrivato il momento di mostrare chi è. Un problema meccanico lo costringe ad abbandonare la fuga prima degli altri.

Tagliani: ieri dilettante, oggi al Giro. Ieri primo a partire e terz'ultimo al traguardo, oggi primo assoluto a muoversi, ultimo a mollare. Quella di Marengo è un'altra storia di corridore che da giovane faceva incetta di traguardi, veloce quanto gli bastava. Oggi si cava il suo spazio in fuga e se non altro le telecamere indugiano sul suo elegante stile di pedalata. Lo scorso anno, in tempo di lockdown, Marengo si è messo ad aiutare gli altri consegnando cibo in bicicletta.

Ma la corsa cresce di interesse e velocità più ci si avvicina al traguardo di Novara: mancano 26 chilometri quando i due superstiti vengono ripresi. Poi tutto esplode come arance ad orologeria: è il caos della volata. Preparazione, treni, pulsazioni elevate. Remco e Ganna sprintano per il traguardo volante: bello e inaspettato. Il finale mescola le squadre come al campetto, soffioni grossi che sembrano borracce volano dappertutto.

Capitani e velocisti, gregari e pesci pilota: si sbanda perché tutti hanno ancora gambe piene e motivazioni al limite. La volata è caos: Molano la combina grossa, stringe il suo capitano alle transenne. Nizzolo prende la ruota giusta, quella di Merlier, ma il belga quando parte lungo è imbattibile. In primavera lo è stato in Belgio, oggi al Giro, e due anni fa era praticamente senza contratto. Al traguardo mette la mano a “W” e in sala stampa i giornalisti belgi urlano come pazzi. Dietro di lui Nizzolo, Viviani, Sagan, Groenewegen. Bravi Moschetti e Fiorelli, sesto e settimo. Doveva essere volata: volata è stata.

Foto: Dario Belingheri/BettiniPhoto©2021


Aza e Filippo

La storia che vi raccontiamo oggi parte dalle vie del mercato di Torino, accanto all'Arsenale della Pace. Lì dove c'erano le armi, ora c'è un punto di ritrovo per madri sole, carcerati, stranieri, per tutti coloro che hanno bisogno di cura o di lavoro. In una piazzuola c'è un albero col tronco tinto dei colori del tramonto. Noi chiediamo il perché ad Aza, una ragazza eritrea che passa di lì. «Mia madre- ci spiega- mi raccontò che in un villaggio, da noi, si dipingevano le cose dei colori che le nutrivano, che le facevano star bene, e questo era un atto di cura. Non so, magari è successa la stessa cosa qui».
Qualche passo assieme, parlando, poi Aza fissa la bicicletta di un ciclista in ricognizione e noi le chiediamo se le piacciano le biciclette. Lei ci racconta della sua di quando era bambina: «Aveva un cesto davanti, anche qui si usa e le donne ci mettono la borsa. Il mio cestino era di vimini ed i vimini li avevo intrecciati io. Alcuni erano completamente sfilacciati e si lasciavano andare». Eppure spiega di non aver mai pensato di cambiarla e, se oggi non l'ha più, è solo perché gliel'hanno rubata.

La bicicletta di Aza non aveva nulla a che vedere con quella di Filippo Ganna, di questo siamo certi. Aza non conosce neppure Ganna e certamente neanche Ganna la conoscerà. Eppure, quando abbiamo sentito parlare la prima maglia rosa di questo Giro d'Italia, ci è tornata in mente proprio lei.
Ci è venuta in mente quando Ganna ha ricordato le polemiche dei giorni scorsi. «Ho sentito molte parole negli ultimi tempi. Ho preso tanti schiaffi negli ultimi tempi ed è giusto così. Qualche volta cedi, è normale. Sei un uomo e gli uomini si stancano, si fermano. Se non cedi mai, qualcosa non va». E poi ha aggiunto: «Certo che, quando leggi o senti certe cose, ci pensi e quando ci pensi ti blocchi, ti chiedi perché si dicano quelle cose».

Ci è venuta in mente quando Ganna ha raccontato della sua squadra di quest'anno e dell'anno scorso. «L'anno scorso ci siamo uniti quando è successo l'incidente a Geraint Thomas. Eravamo in ginocchio in quel momento e dovevamo trovare un modo per ripartire. Se non fosse accaduto, sarebbe stata la fine. Siamo stati bravi a capirlo, siamo stati coraggiosi a ricominciare». E, sorridendo: «Nei momenti difficili accadono cose bellissime. Ora sono contento di questa maglia, ma venti tappe sono tante e magari verrà il momento in cui i miei capitani faticheranno e dovremo supportarci ed anche sopportarci perché quando le cose vanno male si è tutti più nervosi. Bisogna accettarlo ed imparare a fare il proprio dovere divertendosi, anche quando è più difficile».

Ed in fondo è tanto difficile da mettere in pratica ma è così logico, così naturale. Come per la madre di Aza dipingere un albero per prendersene cura, come per Aza quel cestino di vimini sfondato. Siamo noi a complicare tutto, anche questo dice Ganna. Aza non lo dice, ma dal suo sguardo si intuisce. Per questo Aza e Filippo Ganna si somigliano. Perché sanno che molte cose sono semplici e vanno vissute così, in modo genuino, leggero. Per se stessi prima di tutto.

Foto: Luigi Sestili


L'alba, l'iride e il crepuscolo

Torino si leva avvolta da una crepuscolare afa mattutina. I corridori si svegliano, brillano e fibrillano come al loro primo giorno di scuola. Qualcuno al Giro fa il suo esordio, altri hanno la pelle segnata da cicatrici e il motore temprato da pedalate su pedalate che messe in fila li potrebbe forse condurre fino alla luna.
Il Giro non si sposta dalla sfida tra il nuovo e il vecchio tanto in voga di questi tempi. I più giovani scalpitano e se non sarà per oggi ben venga la prossima volta. I meno giovani gestiscono, ma hanno imparato a memoria le regole del gioco. Lo sport è esercizio crudele e prima o poi arriva il crepuscolo.
Scriveva Katherine Dunn: “uno sportivo passa una vita intera a sviluppare doti che si trasformano nella sua identità, ma quando arriva il tempo di smettere quella persona è ancora giovane, e deve diventare qualcun altro”. Non ditelo a chi vede il proprio tempo agonistico scivolare via e magari annaspa nelle zone d'ombra, poiché se è qui lo fa per lasciare il segno. Come Nibali che si difende bene oggi, o Pozzovivo, grande come un pollice, che a conti fatti segna uno dei migliori tempi tra chi vuole far classifica.
La crono è esercizio così crudele da poter strappare via il veleno da un cobra: conta andare più forte del tuo avversario contro cui però non combatti fianco a fianco, e ti devi affidare al tempo, alle lancette: lo chiamano il tic-tac. Ti fai guidare dalle sensazioni, e resisti alle urla dall'ammiraglia e se potessi ti gireresti per mandare tutti al diavolo.
La crono è esercizio speciale, è strumento per specialisti, come specialista è Cavagna. Arriva dall'Alvernia, Francia, Massiccio Centrale. Lui, massiccio, ma meno di tanti altri. Dice di amare la cucina e infatti lo trovi spesso col grembiule a cucinare torte e lasagne, dice di amare il formaggio così diffuso dalle sue parti, ma di doverne fare troppo spesso a meno.
Un velo di nuvole, come la mano affievolita di un gigante, copre il cielo, poi stringe il pugno e all'improvviso torna il sole, mentre si susseguono arrivi e partenze con cadenza musicale. La gente (tanta) in strada è mascherata dietro le transenne, ma non nasconde l'emozione nel veder passare cenobiti con casco e occhiali.
I body dei corridori fanno rabbia per quanto sono perfetti, come i loro quadricipiti scolpiti e le bici che sembrano arrivare da un mondo distopico. Dekker, giovane figlio d'arte, segna il miglior tempo, poi tocca ad altri: Campenaerts, Kluge, Castroviejo, Brändle, Foss, Affini, in una esorbitante litania di nomi e cognomi, di vecchi e giovani, di significati e assonanze.
Quando parte Cavagna, parte uno dei favoriti, ma negli ultimi metri barcolla come ubriaco e straziato dall'agonia: resta dietro Foss. Quando arriva Affini c'è da sgranare gli occhi: per carità, forte è forte, ma oggi lui e la sua Cervélo erano razzo e pilota.
Per Ganna si alza un urlo: in partenza, sul percorso, all'arrivo, quando fa segnare lui in maniera definitiva la migliore prestazione.
Spinge: pare un ossesso dopo ogni curva. Prende rischi che non prende nessun altro, pennella come in uno slalom gigante tra le porte della Gran Risa. Perfetto in quella posizione ineccepibile, dalla punta delle dita fino all'ultima delle pedalate. Cresce di colpi, meraviglioso specialista contro il tempo, quando conta. Come un fuoriclasse, in quella livrea iridata che oggi torna a far scintille dopo un periodo con le polveri un po' spente.
E intanto, mentre l'ultimo arrivato taglia il traguardo, il sole cala, la prima nottola sbatte le ali e Filippo Ganna, oggi ancora più gigante di un gigantista, sale sul palco per festeggiare la sua maglia rosa. La luce assume timidamente i primi contorni del crepuscolo, tempo per parlare di classifica, vincitori e vinti ci sarà. La corsa si erge e poi cala, questa di oggi è solo l'alba, è solo l'inizio del Giro d'Italia.


Nei paraggi

C'è una ragazza accanto a un meccanico intento a pulire con uno straccio un tubolare. Chiede: «Per caso vi serve qualcuno che vi dia una mano? Verrei volentieri con voi. Anche solo per lavare le biciclette, anche gratis». Succede così, quando arriva il Giro d'Italia tutti vorrebbero partire. Anche qui, anche a Torino. Giorgio ci dice che a casa ha un camper, guasto, e quest'anno avrebbe voluto sistemarlo per seguire tutta la corsa da lì, ma da qualche mese è in cassa integrazione e non può permetterselo. «Le cronometro non mi sono mai piaciute: troppo statiche, noiose. Figuriamoci una cronometro che passa sotto casa. Questa volta è diverso: non avendo la possibilità di viaggiare è la prova migliore. Ti metti a bordo strada e vedi quanti corridori vuoi».

Qualcuno sposta un vaso da davanti casa e porta fuori una sedia e un tavolino di plastica bianca. «Maria» chiama a gran voce e poi borbotta qualcosa in dialetto piemontese. Sì, oggi cercate quella sedia e quel tavolo perché quel signore si apposterà lì a vedere i corridori. Se ci fate caso noterete anche un portacenere perché qualche secondo dopo è Maria a borbottare: «Un'altra sigaretta? Non mi ascolti proprio».

La corsa partirà a pochi metri da qui. Se ne sentono i rumori: pedali che frullano, ruote che girano, porte di ammiraglie che si aprono e si chiudono, ed ancora voci di corridori e meccanici seduti a un tavolino con qualche lattina di aranciata. Per Filippo Ganna è una parlata familiare, conosce inflessioni e modi dire. Sa che qui non può proprio mentire: «Non si può andare sempre veloci. Ci si deve provare, ma non è detto che ci si riesca» spiega a chi gli chiede se oggi sia il favorito. Egan Bernal pensa a casa, da qualche giorno ormai. «Mi fa male quello che sta accadendo in Colombia. Vorrei poter essere lì e sostenere la mia famiglia, il mio popolo». Non può, non c'è tempo.

Perché di questo si parla oggi, del tempo. La cronometro è l'esasperazione di questo concetto, come il ciclismo, perché in bicicletta le classifiche si fanno col tempo, sul tempo. Il punto è che nella quotidianità è tutto diverso. Giorgio ce lo ha detto: "In bicicletta puoi perdere, poi riparti ed è un'altra storia. Nella vita spesso non è possibile. In fondo, i campioni del ciclismo o dello sport ti fanno sentire quello che vorresti essere. Forte, deciso, convinto". Ed è vero, ma è anche vero che lui starà qui fino alle cinque e mezza per vedere tutti ed applaudire anche ciclisti che non conosce, anche gli ultimi, i gregari, coloro che magari domani si ritireranno. Perché essere forti non significa essere campioni, significa dare tutto ciò che si ha. E queste persone lo fanno tutti i giorni, in diversi modi: trascinando un vaso con le mani segnate dall'artrite, volendo partire e lavorare, andando a vedere qualcosa che non ti è mai piaciuto, perché sai che, se riesci a entusiasmarti, hai vinto, a prescindere da tutto.

Sono forti, incredibilmente forti. Perché spingere a tutta quando il traguardo nemmeno si vede è difficile. Ma è l'unico modo di essere ciclisti e, forse, anche di essere uomini.

Foto: Luigi Sestili


Giro my love

È quel periodo dell'anno. Il periodo della mia corsa a tappe preferita: il Giro d'Italia - solo che, per me, è più di una corsa in bicicletta. O meglio, il fatto che sia una corsa in bicicletta le dà qualcosa in più.
Intanto è un'esplorazione della geografia italiana, o di parte di essa. Il punto più occidentale del percorso di quest'anno è Stupinigi, la città di partenza della tappa numero due, e il punto più a nord è il Passo della Spluga nella tappa venti.

L'ottava tappa porta i corridori dal punto più orientale del Giro, la città di partenza Foggia, al suo punto più meridionale a Castelvenere, sessanta chilometri a nord-ovest di Napoli, prima che il percorso di gara giri a nord-est verso il traguardo di Guardia Sanframonti.
La tappa quindici inizia sull'isola di Grado, un luogo che conosco bene. La tappa venti passa vicino al punto d'Italia più lontano dalla costa, Monte Spluga, a 234 chilometri dal mare. Il poeta Giosuè Carducci, primo italiano Premio Nobel per la letteratura, andava in vacanza lì.
Alcuni luoghi vedono il Giro anche due volte: Novara nelle tappe tre e diciannove; Piacenza nelle tappe quattro e diciotto; il paese di Cordignano, vicino a Treviso, nelle tappe quattordici e sedici; Canazei nelle tappe sedici e diciassette; persino un tratto di 4,8 km della SP22 tra Montechiaro d'Asti e Montiglio Montechiaro nelle tappe due e tre.
Altre hanno una sorta di assonanza che si ripete sul percorso: Rovere, Rovereto, Roveredo e Roveleto; Cicognolo e Cigognola; Chieri e Chieti; Castelnuovo Don Bosco e Castiglion del Bosco.

E Carducci non è l'unico tra coloro che hanno reso grande la tradizione letteraria italiana, che verrà ricordato lungo il percorso di quest'anno. Il Giro 2021 celebra Dante e Virgilio: durante la prima tappa i corridori lottano contro il tempo lungo il Viale che porta il nome del vate.
La tappa dodici si addentra nel territorio dantesco lungo le strade bianche della Toscana, mentre il giorno dopo la tappa è dedicata proprio a Dante con la partenza da Ravenna, dove morì 700 anni fa, e l'arrivo a Verona, dove visse in esilio dalla sua amata Firenze.
Poi la tappa diciotto, al km 88,3, passa per Castel Goffredo, luogo di nascita di Virgilio. Vicino a Canossa, alla tappa quattro, il poeta Francesco Petrarca passò l'estate del 1341 per completare il suo poema "Africa". L'isola di Grado è stata la città natale del poeta dialettale Biagio Marin, candidato al premio Nobel nel 1981, mentre un altro poeta dialettale, Pier Paolo Pasolini, che ha scritto anche in friulano, ha girato a Grado parte del suo film "Medea", con la diva dell'opera Maria Callas.

E che Giro sarebbe se non fosse anche un Giro musicale? La tappa diciotto ci porta a Cremona, patria dei maestri costruttori di violini Stradivari e Guarneri, e ad Ala, dove Mozart era un assiduo frequentatore del Palazzo Pizzini. Il suo librettista Lorenzo da Ponte, che scrisse i libri per Le nozze di Figaro (1786), Don Giovanni (1787) e Così fan tutte (1790), soggiornò al Castello di Spessa, sul percorso della tappa numero quindici - così come Giacomo Casanova. E, sotto il marchese Aloisio Gonzaga, il Palazzo Gonzaga-Acerbi di Castel Goffredo divenne la capitale del piccolo stato, frequentato da poeti e artisti come Pietro Aretino.

Ma il Giro è anche un viaggio nella cucina italiana, e come potrebbe non esserlo? Prendete la seconda tappa, che ci porta da None, con la sua annuale fiera del cioccolato, alla "città della menta" Pancalieri, a Carmagnola, sede di una fiera annuale del pepe, a Chieri, famosa per la sua focaccia, a Montechiaro d'Asti, la patria del tartufo bianco, a Murisengo, la città natale di Luigi Lavazza, il grande commerciante di caffè, ai centri risicoli di Vercelli e Novara e, naturalmente, la patria dell'aperitivo Campari. L'Italia, in ogni tappa, offre un itinerario simile.

L'undicesima tappa è detta in maniera ufficiale: "la tappa del Brunello di Montalcino", ma c'è a malapena una tappa che non affianchi o le grandi aree vinicole, o locali vitigni di nicchia. Prendiamo ad esempio la Vallagarina della tappa diciassette, dove si coltivano antichi vitigni Enanzio Lagarino, noto agli antichi come Oenanthium, e Faja Tonda-Casetta, un altro dei più antichi vitigni a bacca rossa, in gran parte abbandonato negli anni '60, anche se oggi ne sopravvivono alcuni ettari nei comuni di Ala e Avio.

E potremmo parlare all'infinito di borghi collinari, paesaggi, arte e architettura. Ma, tra tutte queste ricchezze culturali si trova qualcosa che è centrale nella carica emotiva del ciclismo: la distanza, la difficoltà, la differenza.
Per difficoltà intendo gli ostacoli fisici, da quelli evidenti e visibili rappresentati dalle montagne, a quelli meno visibili dei ciottoli e delle strade bianche, persino, a volte, la resistenza invisibile del vento.

Per il 40% montuosa, l'Italia è ben fornita di passi di montagna, con Alpi e Dolomiti ammucchiate in cima, e una dorsale di Appennini che corre per più di 1.300 km nel mezzo. Se scegliessi a caso le città di partenza e di arrivo, molto probabilmente troverei sempre un ostacolo fisico tra di loro.
L'Italia è una terra fatta da centinaia di lingue pigramente descritte dagli italiani come dialetti, ma che non sono affatto dialetti, nel senso di variazioni dell'italiano standard, ma vere e proprie lingue che si sono evolute accanto ma del tutto indipendentemente da quella che sarebbe diventata la lingua nazionale, che è essenzialmente la lingua - o dialetto - di Firenze.

Tornando al regno del simbolico, come nazione che è stata unificata solo nell’anno 1860, l'Italia è ancora lacerata da rivalità storiche tra villaggi, città e regioni e attraversata da linee di divisione di lingua, cultura e visione del mondo, evidenti nelle più piccole cose quotidiane. Per esempio la divisione riso-pasta o la divisione burro-olio d'oliva. Chiedete "Un nero" alla stazione ferroviaria di Trieste e avrete un caffè piccolo e forte in una tazza da espresso. Chiedete "Un nero" al bar della stazione successiva, Monfalcone, e vi daranno un bicchiere di vino rosso.

Così l'Italia offre infinite opportunità per l'attraversamento simbolico delle soglie, consce o inconsce. Tutti questi fattori la rendono un terreno incredibilmente fertile per il ciclismo, e il Giro d'Italia uno spettacolo così magico e avvincente.
Oppure pensate a un'altra grande nazione ciclistica, la Colombia, una terra dove la gravità a volte sembra spingere troppo forte. Uno storico nazionale la definisce "una nazione a dispetto di se stessa". L'invisibile rete di linee che i suoi ciclisti tracciano sulla nazione pare a volte l'unica cosa che la tiene in piedi, intrecciando passato e futuro mentre i ciclisti portano la croce della loro patria sulle montagne dove, attraverso atti volontari di sofferenza, sembrano pagare la penitenza per i peccati della Colombia.

Così il ciclismo, lo sport del territorio per antonomasia, è un grande unificatore. Se le gare di ciclismo hanno un ritorno emotivo superiore ai disagi locali che causano, è forse grazie al senso di appagamento che il ciclismo ci regala con le sue emozionanti scene di trionfo, le sue ardue odissee atletiche perpetrate lungo l'ambiente che attraversa.

E, andando indietro nel tempo, anche oltre il primo Giro d'Italia, fino alla prima classica in assoluto, la Milano-Torino di 145 anni fa, si attraversa anche un altro tipo di soglia: la soglia del tempo.

Mentre corriamo verso il futuro, la bicicletta, quella macchina elementare, lo strumento di lavoro del contadino, tiene aperte le nostre linee di memoria collettiva del passato. Anche questo si avvicina molto all'essenza del ciclismo.

Foto: Luigi Sestili