Il mondo di Katarzyna Niewiadoma
7 Settembre 2020RitrattiKatarzyna Niewiadoma
«Il futuro lo immagino in un piccolo paese di montagna. Magari simile a Ochotnica, dove sono cresciuta, in Polonia. Vorrei vivere in una di quelle casette nella natura, con un orto davanti. Uscire di casa, al mattino presto, sentire l’aria fresca sul viso e, oltre qualche nuvola, vedere i monti. Poi scendere nell’orto e raccogliere frutta e verdura. Portarla in casa, sedersi al tavolo, pulirla e prepararla per il pranzo. Vorrei una famiglia e dei bambini. Stare con loro al caldo, accanto a un camino, a guardare da una finestra mentre fuori nevica e la brina ricopre i cancelli». Katarzyna Niewiadoma ama parole semplici, gesti genuini e sensazioni primordiali: «Provo una sensazione bellissima quando vedo le macchie di colore mescolarsi sul mio foglio. Non dipingo per esporre, dipingo perché mi fa stare bene. Mi rigenera. Se poi tra quei colori spunta il giallo ancora meglio. È il mio colore preferito. Dipingere è un gioco». Così quella maglia, quella della Canyon Sram Racing, così variopinta, come calata da qualche universo futuristico e parallelo, le sta proprio bene. È una seconda pelle che fa riaffiorare ciò che la prima cela.
«Ringrazio Taylor Phinney, il mio ragazzo, per tutta la sua magia». Niewiadoma ha scritto così al termine della prova che la ha vista terza all’Europeo di Plouay e noi siamo sicuri che parlasse di questo, come della bellezza del fare il pane in casa, impastandolo a mani nude, o del raccogliere le albicocche in giardino prima che venga a piovere. «A Ochotnica non c’era molto. Ma per me bastava: c’era la mia famiglia, la mia casa e quel paesaggio che qui in Spagna, a Girona, mi manca. Amo ogni singolo sentiero del mio paese di origine. Lo sento palpitare. Lo porto dentro di me». Da qualche parte, in lei, ci sarà anche quella sera in cui papà, tornato a casa con una bicicletta da regalarle, le chiese: «Questa è tua. Mi piacerebbe se qualche giorno venissi con me in bicicletta, mi piacerebbe partecipare a qualche gara con te. Ti va?». Non abbiamo visto i suoi occhi in quel momento, ma possiamo intuirli. Alla fine, per quanto ogni iride sia diversa, quello che ci luccica dentro può ricondursi a ciò che tutti conosciamo. Più o meno intensamente. Figlio della vita.
«Ho una paura che mi ha sempre accompagnata. Ho paura, nel tempo, di vedere il ciclismo solo come un lavoro. È un lavoro, inutile negarlo. Ma non è solo quello, non posso immaginare che sia solo questo. Il ciclismo è quella sensazione di pace che senti quando vai dove vuoi, magari scappi o magari insegui, ma nelle orecchie hai solo il suono della bicicletta. Se scappi non devi mai voltarti, tu stai andando altrove. Perché pensi ai luoghi che stai lasciando? In bicicletta non hai più l’assillo che tormenta ogni nostra giornata: il tempo. Vorresti averne di più, vorresti che tutto il tempo fosse lì per te, per non dover mai scendere dalla sella». Le piace l’Italia, Siena, le stradine del centro città che sanno di antico e il nostro cibo. Le piace vincere. E voi direte che, in fondo, è ovvio per un’atleta. Non così tanto per Katarzyna; a lei, oltre che per tutto il resto, piace vincere per un motivo ben preciso. «Puoi andare in conferenza stampa e rispondere a tutte le domande. Puoi raccontare, puoi raccontarti. Non è bellissimo?».
Foto: Katarzyna Niewiadoma, Twitter
Fragile, duro, rampante o semplicemente Pozzovivo
6 Settembre 2020RitrattiTour de France,Domenico Pozzovivo
Raccontare la storia di Domenico Pozzovivo è raccontare la storia di un uomo piccolo di statura, ma la cui forza fisica, come racconta lui stesso in una recente intervista, rispecchia il suo carattere perché il modo in cui il corpo reagisce riflette la sua personalità. Tenace, caparbio, mai superbo, Domenico Pozzovivo è un pittore che cura con attenzione i dettagli, un musicista meticoloso, concreto più che scapigliato, un abile correttore di bozze dotato di una sensibilità che lo rende un personaggio diverso in gruppo. Alto 1,65, ma in verità un gigante che si riflette sulla strada.
Quando era dilettante, con la maglia della Zalf Euromobil Fior, Pozzovivo non era forse il più forte in assoluto, ma come minimo il più testardo. Luciano Rui, suo mentore a quei tempi, racconta così quelle giornate: «Faceva i rulli "in casetta", si preparava le borracce con i sali. Meticoloso e scrupoloso, visionava sempre i percorsi. Un esempio pratico di come sacrificio e dedizione paghino. Ieri come oggi. Ed era uno dei pochi che, terminato l'allenamento, si metteva sui libri». Allenamento, dedizione, doccia, libri, esami, laurea, professionismo: parole chiave che descrivono l'essenza di Pozzovivo. Piccole tappe, quotidiane o esistenziali, per formarsi e realizzarsi come ragazzo, prima, e poi come uomo.
Oscar Gatto, ex compagno di squadra, ha ben in mente il Pozzovivo ragazzo, quello che «faceva saltare di testa tutti» spingendo al limite ogni allenamento. Lo definisce una macchina da guerra, e ha ben in mente pure quel piccoletto che col tempo si è fatto corridore di razza. «Non mi stupisco nel vederlo continuare a tenere duro sempre con i miglior in salita». Nonostante l'età e gli infortuni, Pozzovivo è sempre rampante.
Appassionato di metereologia, non aveva certo bisogno che tutta quella serie di ferite che ne segnano il corpo diventassero un avvisaglia sul cambio del clima. «Il braccio sinistro non ha l’agilità nei movimenti di prima. A seconda del meteo, o su certe strade dissestate, ho fastidio», racconta alla Gazzetta, ferito fuori, fiero dentro, il Pozzovivo mai domo.
Silenzioso, brillante, quando parla non lo fa mai a sproposito. Decise di diventare un corridore dopo aver visto passare il Giro davanti a casa sua a Montalbano Jonico colpito dal fatto che a giocarsi la vittoria erano atleti da tutto il mondo. «L'internazionalità del ciclismo, il potermi confrontare con gente di ogniddove è stata una molla decisiva».
Coerente, esaltato dalle imprese dei più grandi, mai indifferente alle loro debolezze. «Mi sono avvicinato alle corse quando Pantani era all'apice della sua carriera. Le sue imprese in salita mi hanno segnato. Purtroppo dopo essere stato idolatrato da tutti è stato lasciato solo nella sua fragilità dal nostro ambiente e da chi gli stava più vicino».
La bicicletta gli serve per sfamare un altro dei suoi bisogni. «Mi ha fatto scoprire la bellezza della natura e la passione per i santuari. Ovunque mi trovi, anche all'estero, non mi perdo una salita che conduce a uno di questi luoghi sacri».
Suona il piano grazie all'amore per Chopin, ama rileggere Seneca e a scuola la sua materia preferita era proprio filosofia. Ha due lauree: la prima in Economia Aziendale, la seconda ottenuta poco tempo fa in Scienze Motorie. Per la prima laurea ha portato una tesi intitolata: “Politiche meridionalistiche dall’Unità d’Italia ai giorni nostri”, scelta perché, a furia di viaggiare all'estero e in giro per il mondo, Pozzovivo coglieva le differenze del mondo che lo circonda e si interrogava sui problemi che affliggono il sud. «Avendoli vissuti in prima persona ed essendo stato costretto a emigrare per fare il mio mestiere, mi piacerebbe impegnarmi per trovare delle soluzioni», raccontava tempo fa.
Difficile, parlando di Domenico Pozzovivo, dimenticare quelle immagini che arrivavano dall'elicottero durante il Giro del 2015 e che lo vedevano riverso a terra dopo una caduta in discesa: perse conoscenza, rimediò un forte trauma cranico e diverse ferite sul viso con «il pensiero alla mia famiglia a casa in apprensione». Ma poi, come sempre, Pozzovivo è ripartito.
Nel 2018 è il migliore italiano al Giro – e lo sarà anche al Tour: diciottesimo. Sfuma il sogno del podio finale nella Corsa Rosa nella tappa del Colle delle Finestre, quella dell'attacco di Froome. Poteva essere il premio alla carriera – ma ne avrebbe poi bisogno un uomo così? - chiuderà quinto in classifica generale in quello che sarà tuttavia uno dei picchi della sua carriera, nonostante i 35 anni, quella statura, quella cadenza, quella sua ricerca costante della conoscenza. Più che affamato di vittorie o piazzamenti, affamato di sapere, tanto che, quando parte per le gare si porta dietro sempre qualche libro: zoologia, divulgazione scientifica, filosofia, meteorologia.
Da professionista Pozzovivo ha avuto quasi lo stesso numero di vittorie (tredici) rispetto alle operazioni subite (undici - e a fine stagione sta valutando se farne un'altra per togliere le placche in titanio sul braccio) e poco più di dodici mesi fa – erano i primi giorni di agosto del 2019 - un terribile incidente ha rischiato di cancellarlo via per sempre. «Hanno messo fine alla mia carriera» raccontò a sua moglie mentre veniva portato in ospedale. Frattura di tibia e perone, frattura pluriframmentata ed esposta del gomito. In poche parole, sbriciolato da un’auto che lo investiva mentre il corridore attraversava un incrocio.
Riparte perché non c'è nessuno più testardo di lui, perché se gli hanno dato un corpo piccolo è stato solo per rendere ancora più grande la sua resistenza. «Due mesi in sedia a rotelle, otto interventi chirurgici, decine di visite mediche, migliaia di ore di fisioterapia. Centinaia di grammi di titanio addosso» scrive sui suoi canali social. Sei mesi dopo è in gara al Tour de Provence – e con un dignitoso quattordicesimo posto – migliore in classifica della sua nuova squadra (NTT Pro Cycling), davanti a corridori quotati come Bagioli, Gesink, Sivakov.
Pensava di smettere o di restare su una sedia a rotelle e invece va persino al Tour de France che per lui non poteva che partire nel peggiore dei modi. Una storia già scritta, un ritornello che sappiamo a memoria e che si installa nella mente appena alzati: è tra i primi ad andare giù nelle tante cadute verso Nizza. A causa di uno spettatore che «Per fare un selfie ha tirato giù me e altri 20 corridori, distruggendo di nuovo il mio gomito». E lui che fa? Si rialza, mai domo, e oggi, una settimana dopo è ancora lì in corsa, anzi prova a stare con i migliori in salita e dice che si ritirerà solo se dovesse venirgli un febbrone da cavallo.
PS - Aggiornamento di lunedì 7 settembre, ore 14 - Purtroppo nella serata di ieri Pozzovivo ha abbandonato il Tour de France: troppo dolore dopo la caduta del primo giorno. Lo rivedremo fra qualche settimana al Giro d'Italia, perché sennò che Pozzovivo sarebbe?
Foto: Bettini
Badlands, quando l'utopia diventa realtà
6 Settembre 2020StorieBadlands
«Amavamo la gravel, le montagne, i deserti, la neve e il mare. Amavamo la bicicletta, il bikepacking e l’autosufficienza che regalano. Avevamo una sola domanda: è possibile mettere tutto questo assieme in un unico evento? Abbiamo cercato, esplorato, ribaltato ogni angolo di mondo e trovato la risposta. L’abbiamo messa in pratica, le abbiamo dato un nome evocativo ed oggi Badlands è realtà». Sono dei visionari con il futuro in una mano ed il presente davanti agli occhi gli organizzatori di Badlands 2020, evento organizzato da Transibērica Ultracycling. I partecipanti sono partiti questa mattina alle otto da Granada, in Spagna.
Ad attenderli 700 chilometri e 15000 metri di dislivello, attraversando luoghi remoti e sperduti ai confini del continente: Hoya de Guadix, deserto Gorafe, deserto Tabernas, Cabo de Gata, sino a 3212 metri del Passo della Veleta. Percorsi caratterizzati all’85% da fuoristrada, è consigliata una bicicletta gravel ma l’avvertimento è chiaro: «tu e la tua bici siete i benvenuti, sempre». Un percorso da attraversare da soli od in coppia, immergendosi nella natura. Con poche e semplici regole: «Passerete in ecosistemi delicati, rispettateli. Non lasciate traccia del vostro transito. Studiate prima il percorso, preparatevi. Viaggiate leggeri, tralasciate il superfluo e ricordate l’essenziale. Ricordatevi di usare gentilezza e comprensione per tutti coloro che collaborano all’organizzazione dell’evento. È importante».
La libertà è il sapore di tutto: «Potete abbandonare il tracciato predeterminato, liberamente. Ma dovete ritornarci, se volete restare in gara. Il tempo scorre e non si ferma mai: quando mangiate, quando bevete, quando dormite o quando vi fermate a prenotare un posto dove trascorrere la notte. Non sempre lo troverete e le condizioni meteorologiche potrebbero essere complesse. Passerete dai quaranta gradi a temperature inferiori allo zero. Portate una borsa da bivacco e avrete tutto ciò che vi servirà».
Non chiedetevi se è una gara. Dipenderà da voi. Se vorrete correre per vincere o per arrivare in fondo. Ci sarà una classifica finale ma nessun premio per il vincitore. Sarà bello, soprattutto se ci avrete creduto in ogni singolo momento. Ed arrivare alla fine, forse, non vi sembrerà neanche vero. Al via anche due italiani: Bruno Ferraro e Alessandro Pace.
Un’esperienza inimmaginabile solo fino a qualche anno fa. Almeno per i più. Non per gli organizzatori. Badlands, letteralmente terre cattive, sarà una perfetta miscellanea di desiderio di competere, di migliorarsi, di sfidare l’impossibile e di sogno di tranquillità, di visione incantata su altri mondi, di terra, acqua, sabbia, ghiaccio e neve. Dell’uomo e della natura. Ecco perché Badlands è Alvento. Ci riguarda e vi riguarda.
Ricominciare a scrivere
4 Settembre 2020StorieTom Pidcock
A chi, in questi tempi di cinismo e sfiducia, si fosse disamorato di qualcuno o di qualcosa consigliamo solo di dare un’occhiata qui sotto. Guardate la foto, sì, quella di Thomas Pidcock che firma la maglia rosa all’arrivo di tappa di ieri, nella splendida Colico, al Giro Under23. Voi guardate, il resto ve lo raccontiamo. Vi raccontiamo della delicatezza con cui Piddock, o Pidders come lo chiamano, ha preso in mano le maglie, dopo essersi passato le mani sudate nei pantaloncini. Per non sporcarle. Vi raccontiamo della sicurezza con cui ha afferrato il pennarello e si è chinato sulla prima maglietta per autografarla. Come a dire “sei mia, sei ancora mia”. Vi raccontiamo della sua reazione quando, nell’autografare, le magliette si sono scostate e la sua scritta ha traballato. Le lettere del suo nome hanno traballato e quella firma è diventata sbiadita, storta, poco decifrabile.
Tom Pidcock se ne è accorto subito. Ha messo una mano sotto le magliette e con l’altra ha provato ad allungarle, a stirarle, per meglio vedere. La vista lo ha deluso. Aveva firmato male, quella scritta non era più un decoro, quella scritta stava male lì. Messa così era quasi meglio non ci fosse. Cosa fare adesso? Tom Pidcock ha avvicinato il viso alla maglia, ha guardato meglio e ha deciso. E dovevate vederlo. Dovevate vedere l’attenzione con cui ha riavvicinato il pennarello alla maglia. Non è facile avvicinarsi a qualcosa di rovinato o di sgualcito. Non è facile avvicinarsi al dolore, alla malinconia, alla tristezza. Puoi avere la migliore delle attenzioni e peggiorare la situazione. Come quando pensi di pulire una piccola macchia su un divano ed in realtà sbagli prodotto, sbagli modo di strofinare, sbagli tutto e la macchia si ingrandisce.
Dovevate vedere la leggerezza con cui ha iniziato a ripassare con il pennarello le lettere scritte male, nel tentativo di renderle migliori. Scriveva e allontanava la testa per vedere l’effetto che avrebbe fatto quella firma così corretta. Lo ha fatto per una, due, tre volte. Poi ha guardato un’ultima volta ed è passato alla maglia successiva. Con una cura raddoppiata, triplicata, quadruplicata, se possibile. Era soddisfatto. E pensare che non ci eravamo mai soffermati con tanta attenzione sugli atleti alla firma delle maglie, dietro il podio. Pensare che lo ritenevano un gesto quasi scontato, ripetitivo. Uno di quei gesti ufficiali che poi contano fino ad un certo punto. Ci eravamo sbagliati. Di grosso.
Ogni tanto, nella vita, qualcosa sbiadisce, scolora, traballa. Qualche volta, purtroppo, è qualcuno a perdere salde radici, ad abbandonarci, a cambiare così velocemente da non lasciarci tempo di capire. Nella peggiore delle ipotesi è la vita stessa ad apparirci così, a perdere bellezza e meraviglia. Noi vi auguriamo una cosa: trovate il coraggio di Thomas Pidcock. Non rinunciate per paura di peggiorare la situazione o per la certezza che la situazione non cambierà. Non potete saperlo. Tornate ad avvicinarvi. Riaprite quel pennarello. Ricominciate a scrivere. Fate qualcosa, qualunque cosa. Non trovate scuse, non cercatele, non le avete. Poi riguardatela, la vita. Riguardatela bene. Vi piacerà. Più di prima.
Foto: Claudio Bergamaschi
Quando sogna Simon Pellaud è un genio
2 Settembre 2020RitrattiSimon Pellaud
Il destino di Simon Pellaud è racchiuso in due parole: Chemin Dessus, “Sentiero di Sopra” letteralmente, un paesino della Svizzera posto a milleduecento metri d'altitudine, perché è da lì che arriva e poi perché viene naturale tradurlo, visto che oltre ad andare forte in bici, Pellaud parla cinque lingue.
Il destino di Simon Pellaud è proprio quel cammino che lo porta in fuga, perché lì sa stare meglio, trova il suo habitat, un animale che si mimetizza tra le fronde: «All'inizio andavo in fuga perché non avevo le qualità per stare davanti fino alla fine con i migliori, poi è diventata un'abitudine: mi emozionava “tentare el golpe” - provare a fare il colpo - giocando con il gruppo che ti insegue. E poi volete mettere? Il senso di libertà che ti dà andare in fuga, poter vedere la strada davanti ai tuoi occhi lontano dallo stress dello stare in mezzo al plotone. Un gusto impagabile», ci racconta, alternando con estrema brillantezza italiano, spagnolo e francese.
Il cammino di Simon Pellaud, ventotto anni, svizzero, è quello che lo porta fino in Colombia, dove ha costruito una casa e dove vive diversi mesi all'anno; una scelta di cuore, di amore a prima vista, come una carezza che ti fa ribollire il sangue. «Tutti mi chiedono perché ho scelto la Colombia e il perché lo trovo guardando le strade, conoscendo le persone, mangiando la frutta – ha un sapore incredibile che non trovi da nessuna parte! Apprezzando clima e paesaggi. Ho trovato un'energia che altrove non esiste: le persone sono sempre felici pur avendo poco. La Colombia è luminosa, mentre in Europa ci sono i soldi ma il colore che domina è il grigio. E poi, come dicono loro, c'è tanta “alegría” e la gente ha cambiato il mio modo di vedere la vita. Hanno poco e gli va bene così, in Svizzera hanno tutto e si può avere tutto, però ci si lamenta troppo spesso».
Ha scelto il ciclismo perché lo sente scorrere nelle vene: «Mio nonno era ciclista e probabilmente mi ha trasmesso l'amore per la libertà. Per me uscire in bici anche solo a fare un giro vuol dire essere “libre”, per me vuol dire avere la possibilità di viaggiare dappertutto» . Una conoscenza del mondo che gli ha insegnato a vivere. «È nata come passione è diventata scuola di vita», concetto che può suonare banale, ma dal quale non si sfugge quando pedalare non è solo il tuo mestiere, non è solo gonfiare i polpacci o eseguire un gesto meccanico, ma la tua ragione di vita. Ciò che ti fa salire le pulsazioni anche al solo pensiero. «Corro sempre con il cuore, perché mi piace davvero tanto fare ciclismo».
Il cammino di Simon Pellaud più di una volta ha trovato ostacoli complicati da superare: nel 2016 correva nel World Tour, ma la sua squadra, la IAM, chiuse, e lui si ritrovò a rifare tutto da capo. «Scendere in una squadra Continental è stata dura per me. Un po' perché pensavo di fare il capitano e mi sono ritrovato ad aiutare Avila, un po' perché dal World Tour è proprio un altro mondo: come organizzazione, come programmi. A volte sapevamo all'ultimo dove saremmo andati», un'esperienza dal quale trova insegnamenti, nella quale matura e che lo ha riportato in questo 2020 tra i professionisti con la maglia dell'Androni, squadra che sposa perfettamente la sua indole fugaiola.
La prima corsa dopo il lockdown, infatti, è subito in avanscoperta: di nuovo mimetizzato tra asfalto e cielo all'orizzonte, perché prima di salire in sella Pellaud già aveva in mente l'evasione come risposta alle sue domande. E poi «quando mi riprendono la mente corre subito di nuovo alla prossima volta che mi lancerò all'attacco».
Simon Pellaud lungo il suo cammino prova a fuggire alla pressione: «La soffro più quando si corre vicino casa, in Svizzera, che quando sono al via di una corsa importante come al Giro di Lombardia» e pochi giorni dopo la Monumento prende parte anche al Giro dell'Emilia dove si immagina in fuga e invece arriva, lungo quel sentiero, un altro intoppo. La sua bici all'improvviso smette di frenare: «La peggiore paura di un ciclista? Trovarsi senza freni in piena discesa. I freni a disco sono il top a parte quando non frenano», racconta, visibilmente ferito, sui suoi canali social.
Il cammino di Simon Pellaud è incastrato nel presente, non può pensare al futuro, oscuro, brillante, non importa, non è possibile nemmeno immaginarselo perché non sa cosa riserva a un corridore come lui: «Firmando di anno in anno per me è impossibile programmare dove sarò domani o l'anno prossimo o nemmeno fra dieci» e quindi lastrica il suo sentiero, sognando la Milano-Sanremo. «Io mi immagino lì, in fuga, in Via Roma a giocarmi il successo. So che rimarrà un sogno, ma a me piace così».
D'altronde, sosteneva Kurosawa: «I sogni sono la rivelazione dei desideri inconfessati, delle paure segrete che l' uomo nasconde nel profondo di se stesso. I sogni sono delle cristallizzazioni di questi desideri puri e disperati, li esprimono in una forma fantastica e totalmente libera. L'uomo, quando sogna, è un genio; è coraggioso e audace come un genio». E questo Simon Pellaud, lo sa bene.
Foto: Simon Pellaud, Twitter
Un po' di umido stanotte, eh?
2 Settembre 2020GravelJeroboam Dolomiti
Jeroboam Dolomiti - 29 agosto
“Da giugno, è il secondo weekend che piove qui in Val di Fiemme. Una bella sfiga”. Maurizio forse ha ragione, perché è la prima Jeroboam Dolomiti che organizza e una mano dal meteo - è vero - non sarebbe guastata. Il punto è che nessuno, però, sembra farsi troppi problemi. Il venerdì sera è tutto un ritirare pacchi gara, sistemare borse, numeri e bere birre per accompagnare polenta e costine, incluse nel “ristoro 0”. Insomma si parla più di birre che dell’acqua che si prenderà il giorno dopo.
C’è di dorme in tenda, chi dorme in camper e chi arriva “già dormito”. Appuntamento alle 8 a Varena per il briefing, in cui si consiglia caldamente - vista l’allerta meteo per la notte - di non pensare al percorso da 300km, ma di ripiegare al massimo su quello da 150. C’è anche Nico Valsesia che comunque ci vuole provare. Un po’ di esperienza lui ce l’ha, quindi si registra la notizia e si può partire, ognuno padrone del suo destino.
Il meteo regge e il percorso 150 regala una prima parte magica. A mezza costa, su strade bianche contornate da campi, si risale la val di Fiemme verso Moena, mentre un timido sole sbuca dalle nuvole e scalda il terreno quel che basta per far sollevare un alone di umidità quasi mistico. Un bel contrasto con le gomme che cercano le pozzanghere per sporcarsi e sporcare i componenti del gruppo il più possibile.
C’è da superare una montagna e lo si fa su una forestale sterrata di quelle cattive. Di quelle che a poter parlare con chi le ha costruite chiederesti se era una sfida a usare meno tornanti possibile. Poi la discesa e finalmente la Val Venegia. Il vento è forte, la pioggia è vicina, ma è difficile pensarci mentre si pedala al cospetto delle Pale di San Martino.
Primo checkpoint, strudel e giù dal Passo Rolle per una forestale. Prima velocissima e perfetta, poi quasi un single track per chiudere alla fine con un ponte tibetano. Tutto il gravel minuto per minuto.
Si torna in Valle scappando dalla pioggia. La fuga non va in porto e la seconda parte sono quattro ore di acqua di un certo livello. Ci scuseranno i nostri lettori se non abbiamo bene idea di dove ci trovassimo da questo punto in poi.
Sappiamo solo che dopo un’altra salita nel bosco, con gli alberi a farci da ombrello e a creare un’atmosfera surreale, c’è tempo per un altro strudel al check 2, prima di una discesa verso Ora e la risalita in val di Fiemme lungo la ciclabile sterrata della ex-ferrovia. Bellissima, attrezzatissima, consigliata anche per una gita tranquilla in famiglia.
E poi dopo ancora un po’ di salita, ancora un po’ di discesa e poi l’arrivo. E poi la polenta, la birra e tutto il resto, mentre qualcuno racconta della giornata, qualcuno delle sue (dis)avventure e qualcuno compie persino gli anni allo scoccare della mezzanotte. Poi tutti a letto, con un tetto sulla testa mentre fuori il cielo continua a mandare acqua per tutta la notte.
La mattina porta qualche dolorino alle gambe, qualche ricordo delle birre e qualche bici da lavare. E porta anche Nico Valsesia, che alle 8.00, puntuale, arriva dalla sua 300 km dopo aver pedalato tutta la notte. Più fresco di quelli uccisi dalle birre, ci guarda, sorride e poi: “Un po’ umido stanotte, eh?”
Federico Damiani
Farsi ricordare
1 Settembre 2020StorieMarta Cavalli
La telefonata con Marta Cavalli era in corso da circa mezz’ora. La linea telefonica, nelle gallerie attraversate dal treno che la riportava a casa da Napoli, veniva spesso interrotta. Così le parole si inseguivano fra pause e ripetizioni. Ho atteso qualche minuto, giusto il tempo di arrivare alla prima fermata e come ho intuito che, almeno per qualche istante, la linea sarebbe stata buona le ho chiesto quello che meditavo da qualche giorno: «Marta cosa significa per te farsi ricordare? Come fai a farti ricordare?». Proprio così.
Per come la intendiamo noi, la preparazione di un’intervista è un insieme di atti estremamente delicati, in certi momenti anche invasivi. Cerchi notizie sulla vita dell’intervistato, ovunque. Passi in rassegna vecchi articoli di giornale, social, dichiarazioni rilasciate alla televisione. Vai a letto la sera con la cuffia nelle orecchie mentre risenti cronache di vecchie tappe o frammenti di dialoghi intercettati dai microfoni. Magari ti addormenti anche con quelle voci in sottofondo. Ti svegli la mattina e, al tavolo della colazione, cerchi foto, immagini, video di corsa in cui osservare ogni minimo dettaglio. Dal modo di pedalare allo sguardo. Dalla mimica dopo una vittoria alla delusione e agli occhi lucidi dopo una sconfitta. Insomma, entri nella vita di un’altra persona che, magari, non ti conosce nemmeno. Lo fai perché tu vuoi conoscerla, tu hai bisogno come il pane di conoscerla. Per l’intervista, certo. Ma non solo. Hai bisogno di conoscerla perché non c’è nulla di più brutto che spegnere il registratore dopo una chiacchierata e sentire che non ti è rimasto nulla. Sentire che in te non è cambiato nulla. Che è come se fossi stato davanti al computer o ad un muro. Tu eri con un’altra persona, tu hai raccontato e ti sei fatto raccontare, qualche modifica in te deve essere avvenuta. Devi avere sentito qualcosa, altrimenti che senso ha?
Così mi sono ricordato di quella didascalia ad una foto che Marta Cavalli aveva dedicato al ricordo. Ho pensato che sarebbe stato bizzarro chiedere ad una ciclista qualcosa di simile. Poi ho anche pensato che forse proprio per questo sarebbe stato interessante. Perché nessuno lo chiede ma, forse, in tanti se lo chiedono. Si chiedono chi sono queste ragazze una volta scese dalla sella. Ed è bello così, è giusto così. Marta ci ha pensato qualche secondo, dubbiosa, sicuramente stupita. Poi ha iniziato a parlare.
«Credo che per una ragazza con il mio carattere sia molto più difficile farsi ricordare. Lo sai, no? La società oggi tende molto a ricordarsi dei gesti appariscenti, delle battute ironiche, degli estroversi. Più volte mi sono chiesta quale sia il posto degli introversi nei ricordi. Sì, perché anche noi abbiamo un mondo dentro di cui vorremmo gli altri si ricordassero. Io vorrei essere ricordata, eccome se vorrei. So che dovrò fare molta più fatica perché non parlo molto, per i miei silenzi, perché sono timida. Ma so anche che questa fatica intendo farla tutta. Se sei come me devi dare ancora di più, devi fare ancora di più, devi essere ancora più precisa e meticolosa per essere ricordata. Ce la farai. Facendo così ci riuscirai. Vorrei che si ricordassero di Marta come di una ragazza che fa tutto quello che può al meglio, come di una professionista seria, come di una ciclista che ama il suo lavoro. Lo vorrei tanto e credo succederà».
È passato un anno, forse poco meno. Eppure, quando si parla di ricordi, a noi torna in mente quella telefonata. Ci sarà un motivo, non credete?
Foto: Bettini
Siate veri
29 Agosto 2020RitrattiCampionato Europeo,Eleonora Camilla Gasparrini
«Sai, la maglia di campionessa europea è qui in camera con me. È lì, distesa sul letto. Ogni volta che passo la guardo, la fisso. Mi invento anche qualche scusa per tornare in camera a vederla. Devo ancora capire se è vero oppure no. Ma mi sembra proprio realtà, altrimenti tu come faresti a saperlo? Stanotte la terrò nel letto con me, deve essere bello dormire con tutte quelle stelle». Sono le sei di sera del giorno in cui ha conquistato l’Europeo, quando telefoniamo ad Eleonora Camilla Gasparrini e lei ci risponde così. Forse per questo il pensiero va ad una notte speciale. Sono sempre insonni le notti che succedono a giorni belli: quando dormi perdi la cognizione del tempo e se sei felice ti spiace buttare via anche solo qualche granello di sabbia della clessidra che scorre. «Sono stanca ma forse stanotte starò ad occhi aperti a fantasticare. Del resto non ho debiti col sonno, la scorsa notte ho dormito davvero bene. Non ero preoccupata. Avevo coscienza del fatto che mi aspettava una prova importante ma sapevo anche di aver fatto tutto il possibile e di avere al mio fianco delle compagne fantastiche. Perché avere paura? Ero emozionata, certo». Qualcuno diceva che le emozioni le viviamo tutti, solo che alcuni si spaventano quando si sentono diversi. Parlano tanto della normalità che uccide ma poi, quando incontrano lo speciale, rimpiangono il normale. Perché lo speciale ti ribalta la vita e non è detto sia sempre così piacevole. Il segreto è trasformare quello scombussolamento emotivo in adrenalina. Magari in euforia.
C’è una regola personale: quando scrivi, vai sempre di prima impressione. È quella giusta. Eviti l’errore? No, però, hai imboccato la via giusta, quella della realtà. Nuda e cruda, talvolta. Non piaci? Pazienza, il vero difficilmente piace. La società si è ammalata del brutto vizio di edulcorare. Eleonora no, sarà perché è così giovane e crede ancora a quel manicheismo esistenziale che l’età tende a smussare. In parte va bene, in parte è un errore. Per esempio è un errore quando parli con il cervello che tiene sotto stretto controllo ogni virgola del pensiero. Quando nelle parole non lasci uno spazio, il giusto spazio, al tuo sentire. Quando ogni parola è una ponderazione esasperata per restare dove più ti conviene. Eleonora, per fortuna, non sa cosa significhi questo o, se ne è cosciente, lo respinge. Tra le nostre domande e le sue risposte non passano mai più di tre o quattro secondi. Per questo siamo certi di raccontarvi il vero, perché in così poco tempo non si può assemblare una bugia. «Cosa vuol dire la maglia azzurra? Ma vuol dire tutto. Molti dicono che è un onore. È vero ma c’è di più. Per la maglia azzurra devi essere disposto a morire. Tu rappresenti la tua nazione. Tu sei figlio di quella terra che hai sulla pelle. Non vale una sola scusa».
Al traguardo Eleonora Gasparrini è scoppiata in un pianto liberatorio. Lacrime grosse, anche quelle tipiche solo di una certa età. Crescendo si impara a mentire anche con le lacrime. Non le lasciamo più uscire, non le lasciamo più libere. «Appena ho rivisto le mie compagne mi sono messa a piangere. Piangevo e mi asciugavo il viso nelle loro magliette. Poi c’erano mamma e papà, loro sono ovunque io sia. Questa vittoria li fa felici e questo è il mio primo motivo di felicità: vedere mamma e papà contenti». Del ciclismo le è sempre piaciuta la velocità, e, quando questa primavera, a causa del lockdown, non ha potuto correre, soffriva: «Sono sempre le sensazioni a mancarci. Sin da piccola mi sono abituata a vivere quelle sensazioni e mai avrei pensato ad una situazione come quella di marzo. È come se ti portassero via ciò che provi. Come puoi fare? Adesso disputerò il Giro delle Marche e poi aspetterò ottobre per altre gare. L’attesa in questo periodo è snervante. Vorrei questo tempo passasse velocemente per essere già lì. Per buttarmi in una nuova corsa con la certezza che nulla potrà impedirmelo. È bello buttarsi a capofitto nelle cose che ci fanno stare bene. Per carattere lo ho sempre fatto, so che ci sono persone più riflessive o meditative. A me piacerebbe provassero anche loro a fare così. Credo potrebbero essere felici».
Foto: comunicato stampa Vo2 Team Pink
Enigmi e tartufi, Tour e dintorni
29 Agosto 2020ApprofondimentiTour de France
La partenza del Tour sembra essere l'unica certezza, perché a oggi non c'è più grande enigma del suo arrivo. Come si giungerà tra una ventina di giorni a Parigi? Il protocollo Covid è una pezza difficile da tenere cucita, due positivi in una squadra - ogni team sarà composto da massimo 30 persone, staff compreso - e si va a casa. Per evitare succeda come in Bora-Hansgrohe e in Astana - casi positivi, “diventati” negativi nel giro di poche ore - si potranno effettuare ulteriori test che stabiliscano la reale positività ed eventuale contagiosità, insomma un bel caos da gestire.
Tanta confusione sotto il cielo che maledice una corsa che, con queste avvisaglie, potrebbe saltare in aria, e chissà, non concludersi nemmeno nella peggiore delle ipotesi. Un paio di giorni fa quattro membri dello staff di un team (Lotto Soudal) sono risultati positivi al tampone, rimandati a casa e poi sostituiti, vedremo al Tour come gestire una corsa a eliminazione degna di un reality futuristico.
Ma in una stagione così proviamo a parlare di corsa e dintorni, almeno un po', e magari a non prenderci troppo sul serio: si parte da Nizza, quella mondana e francese, seppur al confine e dunque molto italiana, ma comunque non quella di Eco e Pavese così zeppa di tartufo. Semmai, per chi se lo potesse permettere: ostriche e champagne, anche se oggi quelle le puoi trovare pure se vivi a Pizzo Calabro – se siete da quelle parti in quel caso vi consiglieremmo il tartufo gelato. Provare per credere. Tuttavia, ci sarà ben poco modo di gustarsi il contorno: sarà una corsa blindata come un fumetto di fantascienza.
Sarà, come si legge un po' ovunque: “Tutti contro Bernal”? Oppure un tutti contro Roglič? Chi lo sa, la vigilia non è mai stata così tormentata anche per loro, agonisticamente parlando. Bernal ha mal di schiena, ma quando si sale ha un motore mica male e oltretutto deve difendere il titolo, cosa che di solito al Tour riesce pure abbastanza bene se hai del talento. Roglič cadeva quindici giorni fa e racconta di essere pronto ma di non sentirsi tanto bene (pretattica), e allora occhio agli altri che schiereranno Ineos-Grenadiers (sic!) - per i quali speriamo di non leggere metafore di guerra, non se ne sente il bisogno - e Jumbo-Visma: fossi un direttore sportivo, un corridore, un suiveur, uno scommettitore, un appassionato, un lettore di Alvento, un blogger, un giornalista, mi preoccuperei pure di Bennett e Sivakov, Carapaz, Kuss e Dumoulin. Vanno forte, e sanno più o meno come si vince o come si potrebbe. Lo spilungone olandese oltretutto è dato in crescita, forse potrebbe essere l'uomo della terza settimana. Lui, più verticale di una parete alpina.
Poi certo, in tutto questo ben di dio si potrebbero scegliere Quintana o Pogačar che mi fanno venire in mente il vecchio e il bambino, ma giusto perché Quintana con quella faccia vecchio lo è sempre stato, bambino chissà. Il Quintana di inizio stagione lo avrei dato favorito almeno per il podio, questo lo vedo "comme ci comme ça" come dicono loro, i francesi, loro mai così poco convincenti da quando hanno trovato una generazione nuovamente vincente.
Pinot e la sua idiosincrasia con la vittoria che fa quasi tenerezza come quel pedalare con le ginocchia che sembrano colpirlo in faccia; Bardet sempre più incerto ed enigmatico, nonostante ami tenersi informato costantemente leggendo di politica e sociologia – e questo in un certo senso ce lo fa stare più simpatico. Doveva fare il Giro, è stato dirottato al Tour e magari questo cambiamento gli farà bene. Alaphilippe lo scorso anno fiammeggiava e volteggiava, non riusciva a stare mai fermo con quelle gambette da grillo e un orribile pizzetto che lo faceva sembrare un Peter Sagan con la febbre. Quest'anno chissà, pure lui non sembra al meglio, ma corre nella squadra più vincente che ci sia e un colpo lo darà – magari già al secondo giorno.
Poi la sfilza di nomi proseguirebbe: non citiamo Porte, per decoro, ma magari il simpatico quanto caratteristico Mollema sì. Quando pedala è curvo e dinoccolato come un galgo, vince poco ma bene, ma anche quando non vince si fa sempre vedere. Il landismo di Landa ci ha un po' stufato perché è un'attesa eterna (o forse ci piace per questo?), però per un quinto, sesto, settimo posto o giù di lì c'è pure lui. Così come ci sono tedeschi con clavicole rotte e braccia scorticate che non si sa come abbiano recuperato. E poi? Altri colombiani tutti da spuntare con la penna rossa: Urán, Martínez, Higuita, López, nomi meravigliosi che sembrano quasi di fantasia, corridori di spessore ma dalla cifra a volte misteriosa.
Percorso? In brevissimo: tanta salita, tante tappe miste, poco tic-tac. I francesi fanno sempre come pare a loro e dopo averci annoiato per anni con volate e lunghe crono, oggi decidono che ne possa bastare una messa il penultimo giorno. Potrebbe essere una mossa contro lo spettacolo non mettere una cronometro a metà o inizio corsa e che favorisca in qualche modo gli specialisti, con il rischio di annacquare la corsa e tenerla ancora più sonnolenta di quella che ci si potrebbe prospettare. Uno scalatore in ritardo a causa delle prove contro il tempo è invogliato ad attaccare, così invece si aspetterà sempre la prossima salita, in un loop infinito, e verso l'esasperazione del landismo. E vediamo, poi, cosa succederà con gli interminabili treni formati dai vagoncini Jumbo-Ineos che potrebbero, così come sono, tranquillamente attraversare l'Europa e arrivare in Asia e tenere la corsa cucita come un abito da sera.
Infine due parole sulla pattuglia italiana, pochi ma buoni: sono sedici. Nizzolo sogna un filotto campionato italiano-europeo-maglia gialla il primo giorno; da Viviani ci si aspetta sempre un bel colpo, Trentin, Bettiol e De Marchi possono farsi vedere tutti i giorni con il loro animo da incendiari. Occhio a Formolo, corridore diventato spettacolare anche in bicicletta, mentre su Aru non ci accaniamo. Buon Tour a tutti.
Foto: ASO/ Thomas Maheux e ASO/ Pauline Ballet
Pensieri e parole
28 Agosto 2020StorieElisa Longo Borghini,Campionato Europeo,Annemiek van Vleuten
Quando Annemiek van Vleuten ha tagliato il traguardo di Plouay, ha guardato il cielo e mischiato sorriso e pianto. La gola, probabilmente, avrebbe voluto sorridere ma dagli occhi scendevano già alcune lacrime. Ci rendiamo conto che dire una cosa del genere per van Vleuten rasenti l’assurdo ma, forse, l’olandese non era la più forte, ieri pomeriggio. C’è stata molta tattica psicologica nella gara in linea delle donne élite e Annemiek van Vleuten ha giocato d’astuzia sino al rettilineo d’arrivo. Si è messa nella scia di Elisa Longo Borghini e Kasia Niewiadoma, non ha tirato un metro. Della serie: «Sono la più forte e dietro, in gruppo, ho una squadra altrettanto forte. Vogliamo andare via da sole? Bene. Tirate voi. Noi potremmo vincere lo stesso». Questo il messaggio da consegnare. Forse nella sua mente pensava altro e non tirava appunto perché non ne aveva le forze. Perché se avesse collaborato maggiormente, poi, non avrebbe avuto la stessa brillantezza per lo sprint. Van Vleuten ha raccontato una bugia senza proferir parola. E, consapevoli della straordinarietà della atleta di Vleuten, ci abbiamo creduto quasi tutti. Sì, perché chi era lì qualcosa ha intuito. Forse perché quando è rientrata Chantal Blaak è stata proprio van Vleuten a mettersi in testa al drappello, come per salvaguardare la compagna. Longo Borghini e Niewiadoma devono averlo pensato: «Strano. Sono in due e si limitano a controllare la situazione. Annemiek non scatta: o sta a ruota o si mette in testa e fa calare l’andatura. Queste vogliono portarci alla volata e metterci nel sacco».
Nella mente di Longo Borghini è balenato un fulmine in quel momento. Ed è partita Elisa. Uno, due, tre scatti. Blaak si stacca. Van Vleuten non risponde subito, perde qualche metro e poi rientra. È la conferma: «Ho ragione io. Non sei la stessa, Annemiek. Non sei la stessa». Se lo dice, si volta e riscatta Elisa. È la più brillante di quello che ormai è rimasto un terzetto. Lei e Niewiadoma si guardano negli occhi, come a trasmettersi quel messaggio. Van Vleuten è sola ed inizia a capire: «Se mi mostro vulnerabile è la fine. Dai, dai uno scatto. Uno solo. Magari si staccano, potrebbero avere già speso tutto. In ogni caso devo intimorirle. Vai Annemiek, vai». Ognuno si racconta ciò che può e muove le pedine come in una partita a scacchi. Quando Annemiek van Vleuten parte, la paura è che sia un arrivederci a dopo il traguardo. Anche Longo Borghini lo pensa: «Mamma mia se fai male quando parti. Altro che storie. Questa è sempre la stessa. Che male, che male». Per un attimo crolla il fine meccanismo psicologico costruito per tanti chilometri. Poi Elisa cambia rapporto, si alza sui pedali e guarda a terra: non vuole vedere dove si trova l’olandese. Spinge più che può e rialza la testa: «Ti torno sotto, ti torno sotto. E no, Annemiek, troppo facile così. Devi sudartela». Così si riforma il duo che andrà sino al traguardo: Annemiek van Vleuten ed Elisa Longo Borghini per l’oro europeo.
Lo sanno tutti e lo sa anche lei: le volate non sono mai state il punto forte di Longo Borghini. Mentre l’olandese quando lancia l’affondo è irresistibile. «Devo fare attenzione a quando parte. Devo essere concentratissima. Se le prendo la ruota, è fatta. Devo prenderle la ruota e uscire nel finale. Sì, devo fare così». Ancora nella testa. È lì che si rimescolano le carte mentre la pioggia lascia spazio a qualche raggio di sole sulle strade bretoni. La volata è lanciata: van Vleuten parte in testa, Longo Borghini le prende la ruota. Da un momento all’altro tutti si aspettano che Elisa sbuchi a destra o a sinistra. Niente da fare. Le immagini schiacciano, tra la ruota posteriore di van Vleuten e quella anteriore di Longo Borghini ci sono diversi centimetri. Troppi per prendere la scia e tentare un sorpasso. Van Vleuten oro, Longo Borghini argento, Niewiadoma bronzo. A un passo dal tris, dopo Balsamo e Nizzolo. Ma non conta. Non così tanto almeno. Elisa è stata commovente. Non si è mai arresa sino alla linea bianca, ha rilanciato anche mentre van Vleuten stava alzando le mani dal manubrio per festeggiare. I cinici, o forse solo quelli che non hanno mai preso in mano una bicicletta, diranno che non arrendersi è un dovere. Che conta solo vincere. Che dei secondi non si ricorda nessuno. Noi diciamo che il loro mondo ci fa un poco tristezza. Dei primi si ricordano gli albi d’oro e le persone, magari dopo averli consultati. Dei secondi, a certe condizioni, si ricordano solo le persone. Senza nemmeno bisogno di controllare. Perché quello che dai ti qualifica. Solo quello. Punto e basta.
Foto: Bettini