Torto Cicli, Alba
21 Marzo 2024Newsletteralvento points
Federico Torto era ancora un bambino, ma i suoi pomeriggi li trascorreva già in quel negozio di Corso Piave 93, ad Alba: ad un certo punto metteva da parte i libri e si guardava attorno, fra le biciclette e le attrezzature, qualche volta si affacciava dalla finestra e restava a fissare quel che accadeva dall'altra parte del vetro. All'orizzonte, si distinguono le colline del Barolo e del Barbaresco, una via di fuga affascinante per gli adulti, mentre le papille gustative già riconoscono le note fruttate e floreali delle uve, quelle speziate, magari, e gli occhi immaginano il colore rosso rubino, talvolta granato, nel calice, fra le mani. A un bambino basta molto meno, a Federico, ad esempio, bastava stare nei pressi del bancone e, quando qualcuno apriva quella porta, correre nel retro dell'officina e chiamare il padre che, spesso, era lì a lavare altre biciclette. I più piccoli si rendono utili così, si sentono grandi così e, nel frattempo, mentre imitano i genitori o i nonni, crescono davvero e, un giorno, anni dopo, sono dall'altra parte del bancone a raccontare la lunga storia, ben quarant'anni, dal 1983, di Torto Cicli. In volto e nelle parole, un'umiltà giovane e un pizzico di ritrosia, mista al forte senso di responsabilità tipico delle strade che si incontrano e si seguono, senza che nessuno le abbia imposte, senza, forse, averle nemmeno mai scelte del tutto, ma sicuri che siano quelle giuste. Così è successo, fra quelle mura, a Federico Torto.
«I tempi sono cambiati talmente tanto, sia a livello di società che a livello economico, che la responsabilità è sempre più forte. Non credo che potrò mai fare meglio di mio padre, forse non potrò nemmeno mai eguagliare quello che lui ha fatto. Una volta, i sacrifici erano molti, ma, assieme, c'era anche una sottile spensieratezza ad accompagnarli: di questi tempi, la spensieratezza è quasi impossibile da trovare e questo complica le cose. Nel mio piccolo, sono contento di aver portato avanti l'attività, di non averla abbandonata, di non essermela dimenticata come, purtroppo, succede tante volte. Capita che i negozi chiudano o che vengano messi da parte: non l'ho fatto e succede ancora di andare in quel retro officina e chiamare papà, quando qualcuno entra da quella porta. Come ai vecchi tempi». Tanti di questi pensieri svaniscono appena mette le mani su una bicicletta: l'aspetto meccanico resta quello che più gli piace, quando si approccia a una bici, da lì arrivano le endorfine e la dopamina che lo fanno stare bene e lo gratificano mentre si prende cura del mezzo e fa manutenzione. Il mezzo è un oggetto pieno zeppo di libertà: «Subisco il fascino di quella libertà totale. Una bicicletta non ha serbatoi, non richiede carburante, bastano le gambe fresche, riposate o stanche ma ancora ostinate, ed è possibile andare ovunque, senza alcun limite, nei paesi vicini o in quelli lontani, dietro le montagne». Suo padre Costanzo, probabilmente, ha iniziato anche per questo, per una voglia sottile ma profonda di trasmettere questa idea alle persone che incontrava. Pensate che gestiva una squadra di cicloamatori: bici e divise tutte uguali e anche qualche ex professionista che, dopo la carriera, pedalava con loro: oggi succede spesso, ai tempi del signor Torto era qualcosa di innovativo, da pionieri.
Qualche volta, il signor Costanzo si rivolgeva a Federico, proprio nei momenti in cui stava riparando qualche bicicletta: «Lavora bene. Ricorda che serve lo stesso tempo a fare un lavoro fatto bene od un lavoro fatto male, ma di quello fatto bene potrai essere fiero. Impara dall'esempio perché è da lì che vengono gli insegnamenti più importanti, prima si guarda, si ascolta e poi si applica, cercando di stare il più attenti possibili ai dettagli, che fanno la differenza». Il loro rapporto si è sincronizzato nel tempo e ciascuno, con le proprie caratteristiche, ha cercato di completare il lavoro dell'altro. Al suo ingresso a titolo definitivo nel negozio, nel 2011, Federico Torto ha pensato alle novità, a modernizzare, ad aggiungere qualcosa, a cambiare qualcos'altro, nel segno dei tempi che gli corrispondevano, che viveva, e che si riflettevano anche nel settore biciclette: era aumentata la professionalità, la base dell'oggetto era la stessa, ma nei dettagli c'era molta più tecnica, così ogni attrezzatura diventava più delicata e anche per la manutenzione serviva un'attenzione finissima. Si andavano a toccare biciclette provenienti direttamente dal futuro, era davvero difficile, impegnativo.
Suo padre gli lascia spazio, fa in modo che la gestione delle novità sia davvero "una cosa sua": «Papà lo ha fatto nel modo più onesto possibile. Certe volte si lascia un incarico a qualcuno più a parole che nei fatti, si fa fatica a fidarsi davvero dei cambiamenti, delle innovazioni. Allora resta la paura di sbagliare, il giudizio in agguato, e non si lavora tranquillamente. Mio padre si è sempre fidato delle mie idee e me lo ha dimostrato, permettendomi di renderle reali, di applicarle».
Il locale, in cui questa storia è cresciuta e con lei Federico, è medio grande, l'idea è quella di un restyling, a breve: il colore che fa da sfondo è il celeste, una sorta di richiamo alle biciclette Bianchi. Lo spazio espositivo è abbastanza semplice, le biciclette sono esposte frontalmente, sulla sinistra, per ogni tipologia, da quelle che domano le colline dei vini a quelle a pedalate assistita, su un soppalco, invece, troviamo lo spazio dedicato ai più giovani, dai tre ai quattordici anni, mentre sotto c'è il reparto abbigliamento.
Proprio guardando al soppalco, Federico Torto pensa alla scelta della prima bicicletta, qualcosa di cui lui è spesso testimone, un momento da ricordare, ma anche una grande responsabilità: «Io dico spesso che chi va in bicicletta è coraggioso e dobbiamo essergliene grati, ringraziarlo perché affronta da solo, ogni giorno, una realtà che spesso si disinteressa di lui. Chi pedala cerca di sconfiggere questa forma di menefreghismo e di "violenza". La frase tipica è: "Non ti ho visto". Mi sembra un'affermazione davvero grave: significa che, come automobilista, non contempli nemmeno la possibilità della mia presenza in bici. Di più: ti fai forte della tua auto e ignori i più deboli sulla strada, inveendo contro un ciclista per un secondo di attesa, ma portando pazienza se tocca rallentare per un trattore. Nella nostra società, un ciclista pare quasi un elemento di disturbo. Perché? Qualcuno può spiegarmelo? Sì, a livello urbano c'è molto da fare e la responsabilità spaventa. Ci sono le strade sterrate, gravel, noi consigliamo anche questi percorsi, ma un ciclista non può dover fuggire dalla strada per sentirsi sicuro. Non è giusto. Bisogna continuare con la formazione, sempre più». Le colline, quelle ordinate, pulite, della zona di Alba, sono per eccellenza luogo di pace e tranquillità, fuori dal caos della quotidianità, Torto ci indica i percorsi verso Monforte e verso La Morra, i suoi posti preferiti. Il consiglio, spesso, ai turisti, è quello di viaggiare con una e-bike: le pendenze non sono sempre agevoli, un piccolo aiuto è la soluzione ideale per non privarsi del vento in faccia e della continua scoperta che rappresenta la velocità di una bicicletta nell'osservazione, durante un viaggio.
Muovendo altri passi, si arriva all'officina, nel retro del negozio, ma ben visibile: «In realtà è la parte centrale della nostra attività, perché è qui che possiamo fare la differenza, che possiamo rompere gli schemi. Le porte del cambiamento sono le porte dell'officina. Quando ha iniziato mio padre, le bici portavano il nome di chi le produceva, poi è stato il momento dei brand e della promozione dei brand. Ora anche i brand sono consolidati, ma diventano asettici se non si mette al centro la persona. Allora è spesso il luogo in cui si compra la bicicletta a fare la differenza. Un posto in cui si racconti la storia di quell'oggetto, dove lo si provi e lo si racconti, lo si descriva. La persona è il fulcro di tutto». Allora da Torto Cicli qualunque prodotto viene testato, d'estate e d'inverno, e, successivamente, narrato: la tesi è che l'affezione nei confronti della bicicletta aumenti sempre più conoscendone la storia, un poco come accade con le persone che entrano ed escono da una casa o da un negozio. Una questione di confidenza, insomma.
Torto Cicli vuole essere tutto questo: un negozio che somigli ad una casa, quindi non più solo un negozio ma un punto di ritrovo, di aggregazione, in cui la porta che Federico osservava da bambino si apra sempre di più ed accolga le persone che sono là fuori, con le stesse idee, magari con qualche sogno comune e la voglia di parlarne, di scambiarsi prospettive e desideri, una sorta di piccola comunità: «Mi piace il verbo "umanificare". Cerchiamo di umanificare l'acquisto di una bicicletta. Tutte le persone raccontano quel che cercano, il nostro compito è capirlo e lavorare perché, fuori da qui, possano vivere un'esperienza che sia la più simile possibile a quella che avevano in mente». Al centro di quel punto di incontro sempre la bicicletta e varie sfaccettature di libertà: «Qualcuno la usa per gareggiare, qualcuno per un viaggio, altri semplicemente per una gita, la domenica mattina. La bicicletta è tutto questo e molto altro. Fa bene alle persone stesse, mentre la utilizzano, e fa bene al mondo, perché non inquina, perché è ecologica. In ogni spostamento permette un considerevole risparmio di tempo e tutti vogliono avere più tempo. Insomma la bicicletta è un oggetto che entra sempre più in vari ambiti della nostra quotidianità, che deve entrarvi. Per questo è così ricercata e su di lei c'è sempre più attenzione».
Tutto intorno ancora le colline, un cliente arriva, chiede un pezzo a cui Federico Torto aveva lavorato nei giorni precedenti, suo padre lo cerca, gli chiede qualcosa, uno scambio di informazioni e si ritorna dal ciclista che aspetta, guardandosi in giro, con curiosità: un gesto semplice, basilare, profondo ed immutato, che si ripete uguale. Fino a quando ci sarà una bicicletta e fino a quando ci sarà un negozio di biciclette.
La Milano-Sanremo e i suoi scenari
Milano Sanremo: corsa che ha del filosofico. Marcia ambigua: polarizzante nel dibattito che la precede e nel suo svolgimento. Corsa che non lascia speranze allo spettatore: ore di nulla prima di un finale che si accende all’improvviso; quaranta, quarantacinque minuti di crescendo che spesso ti manda il cuore in orbita.
Si vive in maniera empatica con i corridori: il mal di gambe aumenta progressivamente, è vero si sta in pancia al gruppo per mezza giornata, ma dopo un po’ le ore ti consumano, così come le ore ti consumano a guardare poco e nulla se non panorami che conosci a memoria, fino a quello che il più delle volte è un tumultuoso epilogo finale. Più che Tarkovskij, Hamaguchi.
Corsa dai risvolti più disparati, da lì forse il fascino, quando questo non è legato a una meravigliosa abitudine.
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Abbiamo provato a immaginare cinque scenari, consapevoli che poi sarà il sesto quello che si avvera.
SCENARIO 1 - Ovvero Pogačar e van der Poel che se ne vanno.
Le Manie o non Le Manie (nel momento in cui scriviamo non è stata ancora presa una decisione in merito all’inserimento della salita a causa di problemi di viabilità sul percorso per via di una frana) questo è lo scenario che tutti ci aspettiamo. Gara dura dalla Cipressa: UAE a tutta, con Covi, Hirschi e Ulissi; si scollina ancora in tanti, ma non tantissimi, soprattutto pochi quelli che salvano le gambe. Si arriva in pianura, tirano sempre loro, a tutta, fino al Poggio e poi di nuovo marce alte, ancora l’UAE che usa prima Del Toro e poi Wellens che a un certo punto si sposta. Sparata di Pogačar - stavolta solo una e al momento giusto - e van der Poel unico a rispondere. I due se ne vanno. Discesa, rettilineo finale, vince il migliore. In alternativa Pogačar fa il vuoto anche su van der Poel che resiste in discesa al rientro del gruppo o ciò che c'è dietro: fanno primo e secondo. La costante è un gruppetto dietro che si gioca il terzo posto sul podio e gli altri piazzamenti.
Favoriti scenario 1
⭐⭐⭐⭐⭐Pogačar, van der Poel
⭐⭐⭐⭐
⭐⭐⭐ Laporte, Pedersen, Pidcock
⭐⭐
⭐ Bettiol, Van Gils
SCENARIO 2 - In solo, ma più a sorpresa: ricordate Nibali o perché no, Mohorič?
È una corsa un po’ sorniona, sonnacchiosa, il vento contro non permette chissà cosa sulla Cipressa, sull’Aurelia si sta bene a ruota e così sul Poggio. Tutti aspettano una mossa: UAE, Alpecin, chi altro? Ci prova qualcuno, si guardano i migliori, un corridore da solo se ne va, allunga o mantiene in discesa, vince in solitaria. Scegliete voi chi, il ventaglio dei nomi è ampio.
Favoriti scenario 2
⭐⭐⭐⭐⭐ facciamo venticinque, trenta corridori di ogni genere. È il bello della Sanremo, no?
SCENARIO 3 - Il Gruppetto assottigliato.
Restiamo sul classico. La corsa inizia a farsi seria sulla Cipressa dove a un’andatura alta, ma costante, buona parte del gruppo risponde bene. Sul Poggio si va su una meraviglia, anche qui regolari, ma sempre più forti, a ruota, nemmeno a dirlo, si sta da Dio e si risparmia qualcosa. Fondamentale il posizionamento, già essere intorno alla quindicesima, ventesima ti taglia fuori. Poi iniziano gli attacchi, ci prova Pogačar (chi sennò?), rispondono bene van der Poel, Laporte, Pedersen, spunta la sagoma di Cosnefroy, con i denti anche Bettiol, Mohorič, Trentin, Pidcock, Skuijns, c'è persino Del Toro, inserito all'ultimo e all'esordio in una corsa così lunga, poi altri restano lì in scia. Differenza c’è, ma poca. Si arriva su, alla svolta, e in discesa si resta sfilacciati. Nel gruppetto c’è un po’ di tutto: uomini da classiche fatti e finiti, novità degli ultimi tempi, gente che ha una certa affinità con la Sanremo, sorprese assolute. L’epilogo in questo caso è avvolto nella nebbia. Una cosa è certa: non bastano velocità ed esplosività, ma ci vuole fortuna magari nel partire al momento giusto e c’è poi bisogno che nelle gambe sia rimasto qualcosa: alla Milano-Sanremo, nonostante si viaggi in gruppo per quasi tutta la gara, il serbatoio si svuota inevitabilmente.
Favoriti scenario 3
⭐⭐⭐⭐⭐ Laporte
⭐⭐⭐⭐Pedersen, van der Poel
⭐⭐⭐ Pogačar
⭐⭐ Van Gils, Bettiol, Pidcock, Scaroni, Mohorič
⭐Skuijns, Cosnefroy, Trentin, Zimmermann, Ganna, Neilands, Wellens, Kwiatkowski, Narvaez, Velasco, Albanese, Del Toro
SCENARIO 4 - La Cipressa oppure il pensiero pieno di fiducia.
Gli inglesi usano un termine che suona benissimo: wishful thinking. In italiano esiste il suo corrispettivo, pensiero speranzoso, fiducioso, e visto che siamo alla Sanremo lo preferiamo, anche se magari in altre sedi siamo indotti a usare l’espressione anglofona. Senza entrare nel merito di cosa sia giusto o sbagliato, immaginiamo un attacco sulla Cipressa. È Pogačar che ci prova, non fa il vuoto ma porta via i migliori. In discesa il vantaggio aumenta, al ritorno sull’Aurelia, quando di solito da dietro si fa in tempo a chiudere, in gruppo ci si guarda un po’ troppo. E il gruppetto, quello di testa, invece, e che comprende i favoriti, gira a meraviglia, diverse le squadre di punta rappresentate e la corsa è già selezionata prima del Poggio, dove, succeda quel che succeda, tanto già fino a questo momento è stata una corsa bellissima. Il Poggio darà comunque il suo verdetto definitivo: sparpaglio dato dalla durezza della corsa. Si arriva, giù a Sanremo, uno alla volta o poco più mentre dietro ci si raggruppa per un piazzamento nei dieci, venti.
Favoriti scenario 4
⭐⭐⭐⭐⭐Pogačar
⭐⭐⭐⭐ Laporte, van der Poel, Pedersen,
⭐⭐⭐Pidcock, Bettiol, Vermaerke, Mohorič, Van Gils
⭐⭐ Scaroni, Cosnefroy, Matthews, Vendrame, Albanese, Pithie, Strong, Wellens
⭐ Milan, Trentin, Mayrhofer, Beullens, Lamperti, Velasco, Del Toro, Hirschi, Ganna, Kooij, Philipsen
SCENARIO 5 - La volata di gruppo
Gruppo a giocarsi la vittoria più o meno numeroso - scegliete voi, un po’ come il triennio 2014 (Kristoff), 2015 (Degenkolb), 2016 (Démare), o quelle di inizio millennio - tra i venticinque e i trenta corridori. E allora in questo caso entrano in scena quelli veloci, che resistono alle ore di corsa, alla Cipressa fatta con buona andatura, al Poggio a tutta, ma non così selettivo. Venticinque, trenta corridori, e in mezzo a loro i più forti velocisti resistenti al via. Sì, pure Philipsen o Kooij.
Favoriti scenario 5
⭐⭐⭐⭐⭐ Kooij
⭐⭐⭐⭐Milan, Philipsen
⭐⭐⭐Pedersen, van der Poel
⭐⭐Waerenskjold, Kristoff, Matthews, Lamperti, Strong, Pithie
⭐Ewan, Mayrhofer, Trentin, Cimolai, Stuyven, Girmay, Vendrame, Van Poppel, Bol, Démare, Bittner, Ganna
E voi, quale scenario immaginate?
Il questionario cicloproustiano di Samantha Arnaudo
Il tratto principale del tuo carattere?
Credo sia la resilienza.
Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
L’empatia.
Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
La sincerità.
Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
L’attutire la mia sincerità in certe circostanze, senza offendersi.
Il tuo peggior difetto?
Essere troppo severa con me stessa.
Il tuo hobby o passatempo preferito?
Pedalare in montagna.
Cosa sogni per la tua felicità?
Credo la felicità sia una scelta giornaliera, scelgo di vivere come credo giusto e senza rimpianti, inseguendo i miei sogni e stando con chi mi ama veramente.
Quale sarebbe, per te, la più grande disgrazia?
Preferisco non pensarci.
Cosa vorresti essere?
Vorrei essere di ispirazione.
In che paese/nazione vorresti vivere?
Per il cibo, il clima e i paesaggi l’Italia, per il “sentire-rispettare il ciclismo come sport nazionale” in Belgio o Olanda.
Il tuo colore preferito?
Fucsia.
Il tuo animale preferito?
Gatto.
Il tuo scrittore preferito?
J.K. Rowling.
Il tuo film preferito?
Harry Potter.
Il tuo musicista o gruppo preferito?
Muse.
Il tuo corridore preferito?
Marco Pantani e attualmente Wout Van Aert.
Una tua eroina nella vita reale?
Mia mamma.
Il tuo nome preferito?
Tommaso e Beatrice.
Cosa detesti?
Fare i rulli.
Un personaggio della storia che odi più di tutti?
Berlusconi.
L’impresa storica che ammiri di più?
L’invenzione della ruota
L’impresa ciclistica che ricordi di più?
Marco Pantani a Oropa.
Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
Giro d’Italia
Un dono che vorresti avere?
Rivivere alcuni momenti da prospettive diverse.
Come ti senti attualmente?
Serena e grintosa.
Lascia scritto il tuo motto della vita:
I sogni, se ci credi, non sono che realtà in anticipo.
Tra Lettonia e Marche: intervista ad Anastasia Carbonari
«In agosto, prendevamo sempre un volo diretto in Lettonia per andare a trovare i nonni. A tavola c'erano i piatti di carne, le zucche e le patate che cucinava nonna, al parco vicino casa, invece, le corse in bicicletta dei bambini: si vincevano caramelle e poco altro, magari qualche giornalino. Sono ancora terre povere rispetto all'Italia. Noi portavamo qualche coppetta di quelle che qui si conquistano nelle gare giovanili, da mettere in palio, e quei bambini esultavano come se avessero vinto la Parigi-Roubaix. Uno degli anziani signori che organizzavano le corse segue ancora il mio percorso, vede le mie fotografie». La maglia di campionessa nazionale lettone che Anastasia Carbonari indossa tutt'oggi e la maglia della nazionale che veste nelle competizioni internazionali assumono, allora, un significato particolare, al termine di questo racconto. Sono maglie che Carbonari ha scelto, lei di Montegranaro, in provincia di Fermo, nelle Marche, una zona in cui mancano gare e squadre di ciclismo. Tante volte ha pensato a quella ingiustizia, spesso al ritorno da lunghi viaggi, lontano, mentre guardava fuori dalla finestra e si diceva che «non c'è panorama più bello di quello di casa», almeno per lei.
Eppure è così, non ci si può fare nulla, ha imparato a convivere con quel "torto" di cui nessuno ha colpe. Di Riga è sua madre ed in Lettonia sono rimaste le sue origini anche oggi che i nonni sono mancati. Sta cercando casa a Bergamo, assieme al compagno, per motivi di lavoro, di entrambi, e, giusto qualche settimana fa, ha riflettuto sul vicino aeroporto, sulla possibilità di volare ancora in Lettonia, non solo per i Campionati Nazionali, in ottobre. Forse, per Parigi, partirà proprio da quell'aeroporto, per l'Olimpiade a cui pensava di non qualificarsi ed invece ce l'ha fatta e vi parteciperà con la maglia rosso scura, con una linea bianca, della Lettonia. In UAE Team Adq, Carbonari arriva quest'anno, a ventiquattro anni, classe 1999, dalla squadra Development: passista, tiene bene su strappi brevi e può giocarsela in volate ristrette, Uno dei suoi punti forti è, senza dubbio, la lettura della corsa, spiega di aver imparato correndo spesso in testa al gruppo, anche per il timore di restare nelle retrovie nelle fasi concitate di gara, ma, in questa capacità, rientrano anche tutte le competizioni viste in televisione, sin dall'infanzia, quando con la sua bicicletta girava in cortile e, mettendo una bottiglia di plastica sul tubolare, fingeva di essere una motociclista. Avrebbe scoperto solo anni dopo che essere una ciclista di mestiere significa «dover provare ad eccellere in ogni singolo dettaglio», qualcosa che, successivamente, si tende a traslare in ogni campo, quasi come un'abitudine. Nel 2022, al passaggio in Valcar, dopo anni complessi e una prima parte di carriera «abbastanza tormentata», Anastasia Carbonari si era promessa che avrebbe provato a dedicarsi solo al ciclismo, per vedere se, davvero, era la sua strada, se veramente avrebbe potuto essere il suo mestiere. Bastava davvero poco, in quel momento, per metterlo in dubbio: «Magari sbagliavo un allenamento o una gara mi andava storta ed entravo in un circolo vizioso in cui non esisteva più nulla di positivo. Non mi sentivo forte, non mi sentivo preparata, non mi sentivo un'atleta e passavo ore a chiedermi se non avessi sbagliato a correre in bicicletta». Solo pochi anni prima, nel 2019, dopo il Campionato italiano a Notaresco, in cui portò a termine una buona prestazione, si era quasi convinta di poter veramente essere una ciclista. Quella mattina di fine luglio era uscita così, in allenamento.
Un automobilista la investe, l'impatto è forte: frattura di una vertebra e la stagione finita lì. Poteva andare anche peggio, sul momento c'è un sospiro di sollievo, poi giorni e giorni, settimane, d'inferno: «Ero a letto, completamente immobile, non potevo fare nulla: alzarmi, prepararmi da mangiare, lavarmi. Avevo bisogno dei miei genitori e di mio fratello anche per i gesti più piccoli, quelli che solitamente ci paiono naturali». Tornò, anche se pareva impossibile in quegli istanti. Quasi mille giorni dopo, al Simac Ladies Tour, in ospedale, era accanto a Davide Arzeni, che l'aveva voluta in Valcar, e, mentre lui cercava di consolarla, dopo una caduta, a lei vennero solo poche parole: «Speriamo, Davide. Perché un'altra volta non la sopporterei, non tornerei più a correre, sarebbe troppo difficile». Il verdetto fu, se possibile, peggiore: cinque vertebre e sei costole fratturate. Eppure Anastasia Carbonari, oggi, è ancora una ciclista.
«Non so se sia il ciclismo ad aver formato il mio carattere, di sicuro, però, i due aspetti sono legati. Senza questo carattere non avrei potuto essere una ciclista e senza essere una ciclista non avrei avuto questo carattere, forse non mi sarebbe servito». Di arrivare fino al livello in cui è oggi non l'avrebbe nemmeno mai pensato. Al Giro d'Italia del 2021, il suo primo Giro, il carattere le servì la mattina in cui in corsa arrivò Roberto Baldoni, team manager di Born To Win. La partenza della tappa del 9 luglio era a San Vendemiano, l'arrivo a Mortegliano: proprio prima che la bandierina si abbassi, Baldoni parla con la squadra. «Oggi voglio qualcuna di voi all'attacco»: lo sguardo vaga tra le atlete, fino a che trova Anastasia e la indica. «Non mi sentivo pronta, non sapevo cosa pensare e nemmeno cosa fare. C'erano tante atlete forti, più forti di me, come avrei fatto ad andare in fuga? Tra l'altro, la fuga, in quella tappa, non riusciva nemmeno ad andare via». Carbonari, invece, se ne va, su una ripartenza, guadagna secondi, minuti, resta davanti per circa cinquanta chilometri, viene ripresa solo agli otto chilometri dal traguardo: «All'inizio, mi sembrava impossibile. Non sai quante volte mi sono maledetta, mentre ero a tutta. Maledivo me e le mie folli idee. Alla fine, però, quasi ci credevo. Non avevo nessuna esperienza, non sapevo che il gruppo lascia fare e rientra all'ultimo, tutto mi sembrava straordinario ed in un certo senso lo era. Non mi sono più rivista, non mi piace rivedermi, ma ricordo quasi tutto di quei momenti».
Davide Arzeni la seguiva da tempo, dalla sponda Valcar, in un periodo in cui, dopo l'addio di molte atlete, la squadra si doveva ricostruire. Probabilmente quella fuga ha aggiunto l'ultimo tassello, per proporle il passaggio di team. Studiava Scienze Politiche, l'appassionano i rapporti tra Stati ed il diritto Internazionale, ora studia Scienze Motorie. Non si abbatte più per un allenamento andato male, per i giorni in cui le sensazioni non sono buone, sa che può succedere, basta riposarsi e ripartire il giorno seguente. Intanto si cimenta in quella che definisce "gavetta" e che ritiene essenziale per l'atleta che potrà essere un domani. Quando ancora aspetterà un volo per la Lettonia e, al ritorno a Montegranaro, dopo settimane di gare, guardando fuori dalla finestra, sarà certa che casa è solo nelle Marche.
Bike Line, Bagnacavallo
14 Marzo 2024Newsletteralvento points
«È una bottega, un piccolo negozietto, molto intimo, quasi romantico, dove la gente non arriva solo per una riparazione o per un acquisto, ma, ancora prima, per raccontare un'uscita, per parlare di bicicletta e biciclette, spesso per riempire l'attesa tra un appuntamento di lavoro e un altro. Mentre i fiori di maggio pullulano nei campi e pendono dai vasi, sui balconi, qualche sedia e, al nostro tavolino, si seguono le cronache del Giro d'Italia, quando, invece, luglio imbiondisce le spighe del grano, le parole arrivano dal Tour de France. Queste pareti non conoscono il silenzio, perché il brusio ed il continuo vociare sono linfa vitale, che corre in ogni nervatura, simile a una pianta in una primavera eterna. Questa bottega è fatta da tante cose, soprattutto, però, dalle persone, che da quel tavolo si alzano, aprono il frigorifero, prendono una birra gelata, in estate, se la versano e, con ancora l'amarognolo a pizzicare il palato, continuano a raccontare». Siamo a Bagnacavallo, in Emilia Romagna, in provincia di Ravenna: il paese del dolce di San Michele, una base di pasta frolla, rivestita di gelatina di frutta o ricoperta con panna, poi decorata con disegni geometrici costruiti con mandorle, noci, pinoli e nocciole, come ci dice un signore, interpellato per cognome o, forse, per soprannome (tal Capucci, assonante nel cognome al ben noto ciclista Chiappucci) da Fabio Conti, al bancone di Bike Line di Mattia Zoli, in via Giuseppe Garibaldi 74. Se cercassimo su un vocabolario Bike Line, troveremmo proprio il lemma che Fabio ci ha esposto poco fa.
La terra è una terra legata al ciclismo, radicato, storico, eroico: un fatto che i nonni trasmettono ai nipoti, ad accompagnarli tra l'infanzia e l'adolescenza, tutti ne parlano e tutti sanno che, poco lontano da qui, a Cotignola, è nato Alan Marangoni. Bagnacavallo è un paese vivo, dinamico, probabilmente il posto giusto per una persona come Fabio Conti che ama la natura e che crede «nell'essenzialità della bicicletta, anche dal punto vista meccanico, un aspetto che, a differenza delle auto, conosciamo approssimativamente tutti, perché quasi tutti abbiamo provato a metterci mano, nella sua capacità di riportare ad uno stato più genuino, sconfiggendo la continua frenesia in cui siamo costretti a vivere ad una velocità accelerata che non è quella degli esseri umani. In bicicletta respiro, sento gli odori, i profumi, sto in mezzo ai boschi, torno bambino. Certo, la bicicletta è essenziale anche nella meccanica, nelle sue componenti, ma l'essenzialità permea tutto ciò che la riguarda». La storia di Bike Line inizia ad essere scritta, da queste fondamenta, nel 2020, nel periodo della pandemia: assieme a Fabio Conti c'è Mattia Zoli, in bicicletta sin da bambino, alle gare, nel dilettantismo, per arrivare ai viaggi ed alle avventure. Quel locale, in fondo, fa come le biciclette che vi sono ospitate, come qualunque bicicletta, come quelle su cui pedala anche Conti: permette di riscoprire il primo contatto con gli altri, dopo l'isolamento, una ritrovata socialità, già a partire dal 2021, fino ad evolversi, in maniera naturale, non pensata o studiata, a diventare quella linfa vitale di cui accennavamo ed a formare, nel tempo, una comunità. «La bicicletta non può essere associata ad una sola idea, è molto di più, e, più pensiamo di conoscerla, meno torniamo vergini rispetto al suo incontro, più perdiamo occasioni. Chiunque sa rispondere ad una domanda su cosa sia una bicicletta, però molte sono risposte incomplete, che non prendono in considerazione tutte le possibilità: è un mezzo di trasporto, prima di tutto, anche se spesso non la pensiamo come tale, ma è anche un mezzo per fare sport, attività fisica, è molto altro, è tutto, azzeriamo le idee che già abbiamo e ripartiamo da zero, forse, allora, scopriremo tutto quel che c'è fra la catena, i freni, i raggi e tutti gli ingranaggi».
A questo azzeramento e ad un nuovo inizio, contribuiscono senza dubbio gli eventi che Bike Line organizza e quelli a cui partecipa: in agenda, ad esempio, Veneto Gravel e Tuscany Trail.
La vigilia è preceduta da tutta una serie di incontri in preparazione, sia a livello di allenamento che di nutrizione, ma anche a livello tecnico, il cambio della catena o della camera d'aria, supporto, quasi psicologico, per i dubbi che, ovviamente, assalgono alla vigilia di una prova a cui, magari, il fisico non è abituato, oppure, semplicemente, laddove si teme la valutazione, il giudizio, anche se ci si sta divertendo: «Ora accade meno, bisogna riconoscerlo, ma parte delle remore di alcune persone nel mettersi in sella erano, e talvolta ancora lo sono, date dall'immaginario dell'atleta perfetto, con un fisico impeccabile, inavvicinabile, a tal punto che, per evitare di "sfigurare", non sentendosi all'altezza, si evitava a priori di uscire in bicicletta. Questo scenario è stato molto ridimensionato dall'avvento del gravel, una disciplina che, pur comportando fatica e sacrificio, accomuna una vasta platea con caratteristiche differenti». La bicicletta, confessa Fabio Conti, sulle orme di Alfredo Martini, è amicizia: si progettano lunghi giri, chilometri e chilometri, con chi ci è già amico ed allo stesso tempo si conosce chi ancora ci è sconosciuto fino a diventare amici.
La bicicletta è anche sincerità, nulla è più sincero e onesto della fatica, così anche il mestiere di chi ha a che fare con le biciclette deve comprendere questo elemento, sin dal primo incontro, varcata la porta del locale: «All'inizio essere sinceri può fare paura, perché chiunque arrivi qui ha un'aspettativa, probabilmente anche un'idea abbastanza precisa della bicicletta che vorrebbe. Noi dobbiamo avere l'onestà di dire se, filtrata da ciò che chiediamo e dalla nostra professionalità, la scelta del cliente sia corretta per lui oppure no. Talvolta ci si illude, si desidera quel che non fa per noi e, se nessuno ci mette in guardia, può diventare un problema. Noi lo diciamo, sul momento c'è anche il rischio di perdere il cliente, va corso. Ne vale la pena a livello etico e, siccome comunque non facciamo filosofia ma commercio, anche a livello commerciale. Forse la persona in questione andrà altrove, ma, poi, tornerà e la fiducia, costruita su quella sincerità, sarà più forte». Dal negozio parte una sorta di traccia, di percorso permanente, un giro veloce per chiunque voglia mettersi alla prova, dal sito, inoltre, è possibile accedere ad un itinerario di circa trenta chilometri, un'ora e un quarto di pedalate, con partenza e ritorno a Bike Line e lunghi tratti tra le valli e le colline romagnole, denominato "Scaramello".
Le strade sono tante e portano ovunque, come le biciclette, ma la realtà ha sempre più spigoli di quelli immaginabili: «Pedala la signora che va a comprare il pane, pedala il ragazzino che va o torna dalla scuola, qualche difficoltà in più si riscontra con le distanze maggiori, il problema principale resta, anche se duole dirlo, la mancanza di infrastrutture che rende difficile muoversi in modo sicuro e confortevole. Certo, anche il rispetto è un punto, ma su quello non abbiamo grosse chiavi per agire, se non mettendoci nei panni dell'altro, visto che quasi tutti siamo sia ciclisti, che automobilisti, che pedoni. L'astio che vedo sulle strade è quanto di più assurdo possa esserci». Il pensiero costante ogni volta in cui si mette qualcuno di nuovo in sella, in cui un giovane acquista la sua prima bicicletta ed inizia a progettare viaggi ed avventure, è proprio rivolto a ciò che potrebbe accadere sulla strada, a ciò che chi pedala già conosce, purtroppo. Fabio Conti ha vissuto questi dubbi quando la fidanzata ha iniziato ad andare in bicicletta e a fare uscite in solitaria: «Le prime volte che viaggiava da sola ero in pensiero, purtroppo conosco le nostre strade e, quindi, pongo particolare attenzione ai pericoli».
La tematica della parità di genere è presa in considerazione da Conti che la segnala come uno dei punti principali per il futuro delle uscite in sella, della comunità, ma, a dire il vero, del ciclismo stesso: «Per alcuni anni si è portata avanti l'idea del ciclismo come "uno sport da uomini”. Che fesseria! Per fortuna superata, sconfitta, sicuramente basata sull'ignoranza. Però, almeno da noi, mi sembra che siano meno le donne che pedalano: se ho un desiderio è che questo gruppo si allarghi, è importante. Mi piacerebbe che chiunque passasse di qui e volesse iniziare a pedalare o a viaggiare in bicicletta ci provasse, chiedesse, si mettesse in gioco. Noi siamo qui».
Il tempo in negozio, in effetti, è sempre di più, le pedalate si sono ridotte e anche quando si va in bici, nei giri organizzati o negli eventi, il pensiero che si tratti di lavoro, le responsabilità connesse sono sempre presenti, forti, a tratti invadenti, ma il lato bello continua a prevalere, su e giù dalla sella.
Una sfaccettatura che ha a che vedere con i segreti. Sì, i piccoli segreti che ognuno di noi ha, spesso riguardanti sciocchezze della vita quotidiana, che, tuttavia, custodisce gelosamente e racconta a pochi, pochissimi, spesso solo agli amici più intimi: «Dico sempre che, nel nostro ruolo, dobbiamo ricordarci un sacco di cose: ci sono clienti che, a casa, non dicono o non vogliono dire di aver acquistato una bicicletta, altri, invece, cercano di non dire alle compagne o alle moglie il vero prezzo della bici. A quel punto, siccome il paese è piccolo ed il locale è frequentato da tutti, noi non dobbiamo confonderci, per non creare litigi. Qualche volta, invece, contribuiamo pure a risolvere qualche piccola discussione. Sai, forse è una delle parti più belle del mio lavoro». Quei minuscoli segreti, alla fine, sembrano essere sparsi nell'aria, un poco per tutto il negozio, quella bottega, piccola, intima e romantica, a Bagnacavallo, nel paese del dolce di San Michele.
I sogni fanno scalo in Sudafrica
Nel mezzo di una strada rossa, di quella sabbia che, ogni tanto si alza, con nulla all'orizzonte, su una bicicletta, alle sette del mattino, con già trenta gradi nell'aria, sugli occhi di Ettore Campana la crema solare colava assieme al sudore e bruciava, accecava. Dal nulla, però, un gruppetto di bambini africani rincorreva quella bicicletta: sandali rotti, pochi vestiti, spesso rovinati, ma grida forti. Talvolta unite in un canto di felicità, in un guizzo di energia proveniente da dentro, esploso fra le corde vocali e diretto in quella calura asfissiante, che pare luglio ma è la primavera del Sud Africa. Ettore sta in silenzio, le parole sono un pensiero: «Se loro hanno questa energia, come posso non averne io?».
In quell'esatto momento, nella mente di Campana era arrivata la certezza che, in quella telefonata con il primario di oncoematologia dell'Ospedale di Brescia, circa un mese prima, aveva davvero dato la risposta giusta, sebbene sembrasse una follia. Quel giorno, aveva spiegato che sarebbe partito lo stesso per il Sud Africa, anche se i tempi erano stretti, anche se non c'era molto modo di organizzarsi, per lui l'importante era che per i bambini ricoverati in ospedale quell'idea potesse portare un sorriso, un pensiero di libertà, di altrove, una fantasia, un sogno, per l'appunto. I problemi e tutto il resto sarebbero rimasti suoi, solo suoi. Del resto, non a caso il progetto si chiama "Scalo Sogni" ed è la continuazione di un altro viaggio, sulle Alpi, che già vi abbiamo narrato tempo fa. Un viaggio per motivare i bambini malati di tumore a restare forti, a credere nel futuro, a sapere che l'avventura li aspetta, che l'avventura esiste e può entrare a far parte delle loro giornate. Così il racconto dei ghiacci alpini diventa quello delle savane africane: attraverso un gruppo whatsapp e di persona, nelle stanze di ospedale.
La partenza è fissata per la metà di ottobre, il primo incontro qualche giorno prima: «Molti bambini non li avevo mai visti, qualcuno, invece, era ancora in quel lettino dai tempi del viaggio fra le Alpi: emotivamente bello e difficile incontrarli nuovamente. Hanno fatto molti disegni, a libera scelta, da donarmi per l'avventura. I soggetti erano spesso gli animali, la natura, anche una bandiera con la scritta pace e tanti cuori. Un'altra bandiera, quella italiana, è stata firmata da tutti quei bimbi nella parte bianca ed è venuta con me per essere firmata anche dai più piccoli fra i sudafricani sulla parte verde e su quella rossa dagli abitanti del Lesotho e della Swahili Coast». Quarantadue giorni di viaggio, trentacinque in bicicletta, circa 3200 chilometri percorsi. Attorno un'autentica tavolozza di colori; la primavera, dopo l'inverno piovoso, disegna campi verdi con fiori colorati, da un lato, e distese di fiori gialli dall'altro, si corre su strade mai pianeggianti, sterrate, gravel, lontano dal traffico, con un cielo blu acceso e nuvole che paiono dipinte. Si annusa il profumo dell'oceano che si percepisce anche senza vederlo: il vento forte lo trasporta ovunque, mentre rende l'aria tersa e limpida fra le fattorie dei paesi. «Se la natura potevo immaginarla, non avevo assolutamente idea degli incontri umani. Sapevo di una situazione sociale delicata: ho vissuto qualche attimo spiacevole, mai il pericolo reale. Tuttavia tutte le persone che incontravo e a cui dicevo che stavo affrontando un viaggio da Cape Town a Maputo mi chiedevano se non avessi paura, di non accamparmi, di non lasciare incustodita la bici e di non fidarmi di nessuno. Anche molti poliziotti me lo hanno raccomandato: sia nelle volte in cui ho dormito in caserma che quando mi hanno ospitato a casa. In realtà, mi sono fidato di molti e quella fiducia non l'ha tradita nessuno. Devo tanto a coloro che ho incontrato e che mi hanno aiutato».
Dapprima gli incontri sono casuali, magari al supermercato, come casuali sono le offerte di luoghi dove dormire, poi il passaparola è una catena che non si scioglie e si fa più forte da città a città: in questo modo ovunque c'è un parente di qualcuno pronto ad accoglierlo. Campana lascia spesso un link con il tracciato in tempo reale del suo viaggio, le persone lo seguono e gli segnalano dove andare a cenare o a dormire. Ben presto, ogni tappa è scandita così: da una cameretta, in mezzo alla campagna, al verde, in posti stupendi, con platani giganteschi, animali, cani, galline. Alla sera ci si ritrova tutti assieme a mangiare, a raccontarsi storie, con la nonna, magari con il pranzo al sacco già pronto per il giorno dopo. Qualche volta sono case di contadini, di agricoltori: nel giardino, con il bel tempo, si fanno grigliate, si sta insieme, si condivide tutto, persino l'essere stanchi, senza forze, sfiniti, come era Ettore, sul ciglio della strada, a Lesotho, quando una ragazza, vedendolo, gli ha offerto aiuto.
«Il gruppo whatsapp è servito per mantenere il contatto, anche quest'inverno, bastava la foto di una vetta per scatenare nei bambini la voglia di partire, di farcela. Mentre ero in viaggio, chiedevano di tutti gli animali che incontravo: scimmie, babbuini, struzzi, gnu, bufali, zebre, antilopi, kudu, giraffe, elefanti, facoceri, rapaci, uccelli, rettili ed insetti di ogni tipo, serpenti velenosi, ho persino avvistato balene. Per i bambini c'erano leoni ovunque da cui avrei dovuto difendermi, in realtà, pur se presenti, sono in delle riserve. Certo- sorride Campana- con quelle reti di recinzione così sottili non ci vuole nulla per uscirne. Tra l'altro, in certi punti, ci sono piante alte da cui un leopardo salterebbe come fosse niente. Eppure, chissà perché, i leoni restano lì». Nemmeno il vento furioso che non lascia tregua, che, talvolta, fa pensare di mollare tutto, di non farcela, ferma Ettore Campana, sono più forti le voci dei bambini che cantano fuori dalle scuole e le loro matite che donano disegni da riportare in Italia, all'ospedale di Brescia. Così, il 27 novembre, Campana farà ritorno a casa e, qualche giorno dopo in ospedale, a Brescia. Stanco, anche mentalmente, da un viaggio più difficile di quanto avrebbe pensato, senza attimi di riposo e relax completo, ma felice di essere partito nonostante le giustificate paure delle persone a lui più vicine.
«Quella bandiera piena di firme è, ora, appesa in reparto e dovreste vedere gli occhi con cui la scrutavano i bambini. Come dovreste vedere le mani ad afferrare i disegni donati e la loro curiosità. L'avventura è più viva che mai in loro, missione compiuta». Sì, missione compiuta, i sogni hanno fatto scalo un'altra volta.
Nos quedamos con lo bueno: intervista a Mavi Garcia
Le scarpe gliele aveva prestate suo fratello, come, del resto, la bicicletta, solo così Margarita Victoria García Cañellas poté partecipare alla sua prima gara di duathlon e vincerla, ma, in quegli istanti, nemmeno la sfiorava il pensiero della prestazione. Quella che la carta d'identità identifica come Margarita Victoria García Cañellas è, in realtà, per tutti, da vari anni, solo Mavi García, ora in Jayco AlUla, che, di quella competizione, in cui lei si dedicava alla corsa a piedi ed il fratello al ciclismo, ricorda, soprattutto, la sensazione legata a delle scarpe così grandi che il piede vi "ballava" all'interno. Non aveva una bicicletta e nemmeno scarpe adatte a correre perché da ragazzina sua madre la portava a fare ginnastica, a pattinare, mentre all'atletica si era sempre dedicato proprio il fratello: ormai, però, era circa nove anni che si era allontanata anche dal pattinaggio. Quella gara di duathlon e, poi, diverse uscite in bicicletta insieme ad amici del fratello stesso, che la "temevano" perché non avevano mai pedalato con una ragazza, per giunta così forte, mentre le scarpe erano sempre troppo grandi ed i piedi continuavano a navigarvi. Dovette presto capire che il ciclismo, probabilmente, era un suo talento da sempre, ma un talento che non avrebbe mai scoperto, se non per puro caso. Ben presto era la seconda del mondo nella disciplina individuale e la prima, considerando le squadre. In quel periodo, il training camp del team Bizkaia Durango, suggeritole da un amico, mostrava i suoi dati come ciclista, dati notevoli: «Vinsi la seconda gara a cui partecipai. Non sapevo ancora che la terza gara sarebbe stata la Freccia Vallone e sarebbe stato quasi un incubo. Del ciclismo non conoscevo praticamente nulla, stavo in fondo al gruppo perché mi intimoriva la sua "pancia" e ben presto quel timore sarebbe diventata una vera e propria paura». Mavi García si riferisce alla brutta caduta che la coinvolse in Argentina, all'ultimo anno in Bizkaia: picchiò la testa, restò traumatizzata da quel che era successo e, al ritorno in sella, si rese conto che quella paura la condizionava a tal punto da pensare di smettere per non stare così male ad ogni corsa.
Nei primi tempi, García faceva duathlon, atletica, ciclismo e continuava a lavorare nell'azienda di hotellerie in cui si occupava di contabilità da circa dodici anni. Successivamente grazie all'aspettativa, in Spagna denominata "excedencia", era riuscita a concentrarsi solo sullo sport: «L'excedencia permette di conservare il proprio posto di lavoro per almeno cinque anni, ovviamente non percependo più lo stipendio. Ogni anno, tornavo in azienda a firmare chiedendo altri 365 giorni e, poi, mi buttavo sull'allenamento per migliorare in tutte le discipline che praticavo. Decisivo è stato il momento in cui ho scelto di dedicarmi solo al ciclismo: lì i risultati sono fioccati ed il mio margine di crescita si è espanso di molto. Tutto assieme non si poteva più fare». Il 2018 è l'anno in cui Movistar le propone il primo contratto da professionista, è l'anno della conquista del suo primo Campionato Nazionale Spagnolo a cronometro ed è anche l'anno in cui García lascia definitivamente l'azienda in cui lavorava: «Ho sempre firmato contratti di un anno, solo ultimamente sono biennali, e, soprattutto all'inizio, credevo che sarebbe durata per due o tre anni, non mi aspettavo di certo di arrivare a quarant'anni ancora in sella. Ma, a parte questo, ho sempre fatto questa scelta perché nella vita si cambia e non potrei accettare di fare un lavoro in cui non mi riconosco più, soprattutto un mestiere complesso come quello della ciclista. Avevo paura, certo, come tutti in una situazione simile, anche in famiglia avevano dubbi, ma riconoscevano il mio talento e questo li ha spinti a incoraggiarmi in quella scelta».
In spagnolo si dice "nos quedamos con lo bueno" ed è la filosofia di Mavi: salvaguardare le cose buone, gli aspetti positivi, di quel che accade. L'ha applicata soprattutto l'anno scorso, una stagione in cui nulla girava come avrebbe dovuto e come avrebbe voluto: i risultati non arrivavano, ogni gara era un poco meglio o un poco peggio della precedente, ma non risolveva mai quel malessere persistente. «Stentavo a riconoscermi e non ne capivo il motivo: la mononucleosi, scoperta solo successivamente. Il risultato, nel ciclismo, ti permette di riprendere fiato, di vivere con serenità la gara successiva. Ogni volta mi dicevo che nella corsa successiva avrei fatto qualcosa di buono, non succedeva mai. Più il tempo in cui i risultati non arrivano si dilata, più diventa pesante, difficile da gestire, più pare impossibile tornare a fare risultato».
Così, anche lei che spiega di riuscire a gestire bene la pressione, almeno generalmente, e che sottolinea che gli obiettivi sono necessari per avere una direzione, ma, alla fine, dopo tutto il lavoro, non bisogna fare in modo che qualche traguardo non centrato possa mettere in discussione il percorso, rivela di essere particolarmente serena dopo il podio, terzo posto, centrato all'UAE Tour, ad inizio stagione: «Non pensavo ad un risultato di questo tipo, vuol dire che le cose stanno andando bene». L'anno scorso, dopo il secondo posto nel Campionato Nazionale Spagnolo a cronometro, ha avvertito intorno alla propria persona una delusione che non pensava di trovare: la sua storia con la maglia di campionessa nazionale ha origini lontane, quel 2018, per l'appunto, e l'ha spesso conquistata da sola, senza una squadra a sostegno, spesso con notevoli pressioni, per esempio quando la gara si è svolta a Maiorca, suo paese natale. «All'esterno sembra che per me sia facile, quasi scontato vincere, invece è dura, sempre più dura. Anche chi vince fa fatica, pure se è il più forte in corsa».
Spiega di essere cresciuta assieme al ciclismo, negli anni, e di essere contenta di aver potuto vivere questa crescita del movimento, l'unico neo potrebbero essere quei limiti posti alle squadre più piccole che, non raggiungendo il budget, resteranno escluse, però «ai molti passi in avanti corrisponde sempre qualche passo indietro, va accettato». Scalatrice, nei dintorni di Maiorca ha scalato non sa quante volte il Puig Major, una delle salite più lunghe della zona, ama il caldo, il sole di Maiorca e della Spagna che cerca invano in ogni parte del mondo e il mare che ha più che mai bisogno di vedere. Fra i momenti più belli della sua carriera ricorda la Strade Bianche del 2020, negli sterrati roventi dal sole d'agosto, superata solo da Annemiek van Vleuten, i più difficili, invece, fatica a trovarli. Non perché non ce ne siano stati, anzi, è la prima ad ammettere che sono stati molti, ad esempio quell'inizio di stagione in UAE Team Emirates, nel 2022, anno in cui centrò il terzo posto al Giro d'Italia, quando tutti si aspettavano da lei "Pogačar" in versione femminile, ma il suo voler salvare il buono le impedisce di restare fissa su quelli: «Quando le cose vanno male, tendiamo tutti a pensare che andranno sempre così. Forse è naturale, ma non è vero. Non andranno sempre male, miglioreranno o, comunque, cambieranno. Questa è la certezza che deve farci forti».
Tracce Bike Shop, Genova
7 Marzo 2024Newsletteralvento points
Potrebbe essere una sera, una delle tante, in cui Genova ed il suo mare sono avvolti nel buio. Genova in un ritratto, come la narrava Giorgio Caproni, nella notte la pensiamo così: "Genova di solitudine, straducole, ebrietudine. Genova di limone. Di specchio. Di cannone. Genova da intravedere, mattoni, ghiaia, scogliere. Genova grigia e celeste. Ragazze. Bottiglie. Ceste. Genova di tufo e sole, rincorse, sassaiole". Le finestre delle case sono quadri illuminati e chissà cosa accade dietro le tende, mentre il mare è mosso. Chissà la felicità, la paura, la stanchezza ed i pensieri. Chissà il giorno che nascerà, il domani, ora dov'è, come suona o risuona alle orecchie, come si compone nell'immaginazione. Da qualche parte c'è Marco Bragagnolo, già nel letto, è una delle sere in cui il sonno non vuole arrivare, turbato da qualche preoccupazione: «Ti giri e ti rigiri nel letto, non funziona. Qualcuno conta le pecore in questa circostanza, ognuno ha i propri trucchi. Personalmente mi visualizzo in bicicletta, da solo, tranquillo, con una leggera brezza che mi viene incontro, magari sull'Alta Via dei Monti Liguri, dove compaiono i pascoli e la natura regna sovrana. Riempio questa situazione di dettagli e, lentamente, le braccia di Morfeo mi avvolgono». Qualcosa di simile allo stare sdraiati sul letto, occhi al soffitto, dopo il click che spegne la luce in camera, a pensare ad un amore per ritrovare serenità. La bicicletta è un amore per Marco Bragagnolo, un amore nato presto, forse un poco "immaturo", o solamente diverso, più forte, toccante, com'è nell'adolescenza, ed evolutosi negli anni, cresciuto con lui, migliorato come un buon vino, non più quel che "strazia", che toglie la fame, ma che si deposita e resta.
«Era un sentimento morboso, che, dapprima, aveva molto a che fare anche con l'estetica dell'oggetto bicicletta, che mi affascinava, mi ammaliava. Mi piaceva andare a pedalare e su quell'istante si è costruito quel che c'è ancora oggi, perché quando prendo la bicicletta percepisco qualcosa di simile ai superpoteri. A cinquantotto anni posso ancora alzarmi dieci metri sopra il terreno e isolarmi da tutto il resto, dimenticarlo, metterlo all'angolo. Non servono grandi giri, anche il bike to work è sufficiente». La prima bicicletta è quella acquistata con tutti i risparmi di un'estate di lavoro, ai tempi della scuola, quella che pareva bellissima, unica, invece, con gli occhi degli adulti e con lo sguardo di oggi, era davvero modesta, "un cancello", come si dice in gergo ciclistico. La prima mountain bike, invece, è arrivata all'inizio degli anni novanta, «quando prendevo e mi rifugiavo nei boschi a pedalare, per, poi, finire a fare portage, a portarla in spalla quella bici perchè, ad un certo punto, non avevo la forza per spingere sui pedali». Così, sulla terra, c'erano le orme della sua camminata e le tracce incise di quei copertoni. Traccia è una parola chiave, in questa storia, non solo perché "Tracce Bike Shop" è il nome del negozio di Marco, in via Monte Grappa 26r, a Genova. Si tratta di una parola importante perché può essere declinata in più modi: traccia come segno, come orma, come percorso da seguire, come indizio di un qualcosa da cercare, come ispirazione. Proprio per questo motivo Marco è legato a quel nome anche se, a dire il vero, non l'ha ideato lui, bensì il suo socio dei primi anni di attività, all'inizio degli anni duemila, «in un vero e proprio buco di trenta metri quadrati, con officina e abbigliamento all'interno». Bragagnolo aveva iniziato a lavorare in una videoteca e, nel tempo, anche quella era diventata una passione, ma il richiamo del primo negozio di biciclette a Genova era irresistibile: così forte da recarvisi sempre per dare una mano, appena poteva, ma i tempi non erano ancora maturi. Giusto qualche anno, la cessione della videoteca, un lavoro da rappresentante e questa nuova realtà che permetteva a quelle farfalle nello stomaco di trasformarsi in un mestiere, con al centro la mountain bike ed il gravel di cui Bragagnolo si prende cura da tanti anni.
«La videoteca aveva fatto germogliare una passione, un interesse, che prima non c'era. Nel caso delle biciclette è accaduto esattamente l'opposto: la passione ha costruito quel che c'è oggi. Non è facile perché la passione è un filo ossessione, tormento, qualcosa che non ti molla mai, che non ti concede respiro. Da quando lavoro con le biciclette, il mio mondo è tutto concentrato qui, pedalo molto meno, ogni tanto mi manca. Sono un lavoratore autonomo, lo sono sempre stato, e come tale non ho altra scelta che prendere il lavoro che c'è, anche se sono stanco, anche se è il periodo delle ferie. Non si va via finchè non è finita: la mia dimensione del dovere è questa». Nel 2007, il negozio viene ingrandito, ma quello che vediamo oggi è nato nel 2015: siamo sopra la stazione Brignole, il locale è esteticamente piacevole, non ci sono arredi standard, bensì molta artigianalità, oggetti pensati e realizzati da chi vi lavora, le lampade, ad esempio, costruite con vecchie ruote libere. Nel periodo dei lavori, della ristrutturazione, il negozio è restato chiuso solo dieci giorni e, se qualcuno fosse passato di lì, avrebbe visto proprio Marco ed i suoi dipendenti, la sua famiglia, a progettare, montare, smontare, ripulire, dopo aver girato per paesi e città e aver osservato altri negozi simili, qualche "bike cafè", per raccogliere idee ed imparare. «Lo dico con fierezza ed un certo orgoglio: ovviamente non potevamo occuparci noi dei quadri elettrici, i professionisti erano necessari, ma direi che circa l'80% dei lavori è stato eseguito da me, parenti e amici. Qualcosa di simile ai tempi dell'alluvione». La ferita che si cela dietro il ricordo dell'alluvione è profonda, sottolineata da un inciso spiazzante e sincero: «Era già successo nel 2011, è ricapitato nel 2014. Ricordo come ora un dialogo con l'unico dipendente che avevo in quel periodo, che mi aveva anche aiutato nella strutturazione del locale: è stato il primo a dirmi che dovevamo cambiare luogo, andare via da lì». Quel signore sapeva che Marco da molte notti non dormiva più, controllava il cielo e, se qualche goccia d'acqua cadeva a terra, restava a controllare, temendo l'ennesimo disastro.
Eppure, anche dopo l'alluvione del 2014, Tracce Bike Shop è ripartito e Bragagnolo ha progettato il nuovo negozio come mai aveva fatto prima, con una cura al dettaglio e al particolare che avrebbe ben potuto essere spazzata via da quell'acqua a fiotti e dal dover ricostruire tutto da capo, così chiedere "perché" viene spontaneo: «Il fango e la terra da quei locali non li abbiamo tolti da soli, sono venute tante persone ad aiutarci: amici, clienti, conoscenti, che non hanno esitato a sporcarsi le mani per noi. Abbiamo scoperto una vicinanza che non ricordavamo, che, forse, nemmeno sapevamo di avere. Quei sentimenti che si manifestano nei momenti più difficili. Allora siamo riusciti a trovare la forza per ripartire». A Genova, dove probabilmente il genovese puro non c'è nemmeno più, ma le sue caratteristiche, quelle stereotipate che strappano un sorriso, sono ben riconosciute e riconoscibili, oltre ad essere sintetizzate da un detto: “Sono di Genova, rido poco, stringo i denti e parlo chiaro" . A Genova, dove la bicicletta sta divenendo sempre più un mezzo di trasporto, dove si sono ampliate le ciclabili e si è investito su un nuovo tipo di mobilità, dove il clima è mite, la neve non c'è praticamente mai, e la natura è dietro al mare, ma la convivenza con gli automobilisti continua ad essere complessa e per quella serve solo il tempo, la cultura ed il reciproco rispetto, in un settore, quello delle biciclette, che, come dice Marco, ha ancora un mercato immaturo ed in periodi di difficoltà, come gli ultimi tempi, questo emerge: «Se dovessi narrare il mio lavoro tramite le soddisfazioni economiche, ti direi di lasciare perdere, di cambiare discorso. Invece non te lo dico, perché per descrivere il mio lavoro non c'è altro di meglio di raccontarti che, nonostante i sacrifici, le rinunce, non trovo, nemmeno nel pensiero, un mestiere in grado di farmi stare meglio e rendermi più felice di quanto lo sia oggi. A questo potrei aggiungerti la voglia di imparare, senza cui non avrebbe senso essere qui. Senza l'umiltà di cosa staremmo parlando?».
Da questa percezione deriva il bisogno, la necessità costante, di imparare, soprattutto rispetto alla bicicletta, un oggetto, un mezzo di cui la conoscenza difetta ancora oggi, pur con tutte le differenze date dalle varie tipologie di bici: la mountain bike, ad esempio, spiega Bragagnolo, è più un "gioco", "alla buona", qualcosa di rustico, diversa, in questo, dal professionismo su strada. In comune c'è sempre il senso di comunità, pur in qualcosa che è e resta molto personale, anche intimo, se vogliamo, perché l'esperienza in bici è, di fatto, qualcosa di unico per ciascuno. La possibilità di stare insieme deve diventare una chiave di lettura costante quando si parla di ciclismo: «Ci sarà sempre un negozio che avrà prodotti migliori, che venderà di più, a cui, in questo senso, non ci si potrà nemmeno raffrontare, perché se ne uscirebbe sconfitti, ma non deve essere questa la gara. Tracce vorrà organizzare sempre più eventi, incontri, permettere lo svilupparsi di quel dialogo, di quell'empatia, sempre difficile da raggiungere, anche perché i genovesi sono abbastanza freddi, diffidenti, devono conoscere prima di aprirsi. Ma è un fatto generale, l'empatia è essenziale per questo lavoro e per ogni rapporto umano che abbia una base solida, noi intendiamo dare questa interpretazione al nostro mestiere». Marco Bragagnolo torna con il ricordo ad una pedalata prima di Natale, organizzata dal negozio, che ha avvicinato molte persone in un momento no, è questo che intende: ritrovarsi e stare meglio. Ognuno con una propria lettura del ciclismo, per questo in "Tracce" ci sono quattro diverse generazioni a lavorare, sino ai più giovani, perché ciascuno traduce a proprio modo l'esperienza dei pedali e così la trasmette.
Ora la sera è davvero calata: "Genova città intera. Geranio. Polveriera. Genova di ferro e aria, mia lavagna, arenaria. Genova città pulita. Brezza e luce in salita". In una camera, appena spenta la luce, qualcuno starà prendendo sonno e chissà che non pensi a un viaggio in bici, come Marco Bragagnolo da tanti anni a questa parte.
Il questionario cicloproustiano di Matteo Fabbro
Il tratto principale del tuo carattere?
Diretto e deciso.
Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
Onestà.
Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
Il carattere.
Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
Umorismo.
Il tuo peggior difetto?
Testardo.
Il tuo hobby o passatempo preferito?
Cucinare.
Cosa sogni per la tua felicità?
Il benessere mio e della mia famiglia.
Quale sarebbe, per te, la più grande disgrazia?
Perdere qualcuno.
Cosa vorresti essere?
Vorrei essere il vento.
In che paese/nazione vorresti vivere?
Italia.
Il tuo colore preferito?
Blu.
Il tuo animale preferito?
Mangusta.
Il tuo scrittore preferito?
Tolkien e Coelho.
Il tuo film preferito?
American Pie.
Il tuo musicista o gruppo preferito?
883.
Il tuo corridore preferito?
Peter Sagan.
Un eroe nella tua vita reale?
Nessun eroe.
Una tua eroina nella vita reale?
Nessun eroina.
Il tuo nome preferito?
Fari (soprannome).
Cosa detesti?
Scarafaggi.
Un personaggio della storia che odi più di tutti?
Nessuno.
L’impresa storica che ammiri di più?
Annibale e gli elefanti.
L’impresa ciclistica che ricordi di più?
Sagan al Fiandre.
Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
Giro d'Italia.
Un dono che vorresti avere?
30 cm in più di altezza.
Come ti senti attualmente?
Bene ma non benissimo.
Lascia scritto il tuo motto della vita:
"Volere è potere".
Un fattore esaltante, catalizzante
Lo conosciamo così e in nessun altro modo. Quando sta bene, in bicicletta vuole solo andarsene. Il gusto dell’avventura solitaria è il motore che lo spinge, le sue azioni sono paragonabili alla sete di conoscenza. Conosce e ama questo sport, Tadej Pogačar, assorbe e ogni anno si rimette in gioco. Ogni anno e in ogni corsa. Conosce il piacere che provocano le sue azioni, anche qualche prurito, si sa; è ben cosciente di come lui e pochissimi altri abbiano in questo momento in mano il potere di trasformare l'idea in forza catalizzatrice per rimettere il ciclismo al centro del discorso. In Italia è complicato, se non impossibile, ci si può provare, ma i risultati sono scarsi: sono ormai più di vent’anni e non sono bastati un paio di ottimi corridori come Nibali e Ganna a rilanciare, il dopo Pantani è questo. Noi Pogačar, dalle nostri parti, lo abbiamo visto - Strade Bianche - lo vedremo fra qualche giorno - Milano-Sanremo - e poi ce lo godremo tutto al Giro d’Italia, dove, imprese come quelle di settimana scorsa alla Strade Bianche saranno gioia e dolore della Corsa Rosa. Rischierà di ammazzarla, ma allo stesso tempo sarà un fattore esaltante, catalizzante, sarà un gesto di spessore vedere il suo atto carnale in sella alla bicicletta. Il suo sorriso, anche, come successo verso Siena, anche perché la sua sofferenza l’abbiamo già percepita al Tour contro Jonas Vingegaard Hansen: avrà pensato come sia meglio prendersi tutto il prendibile da subito, poi al resto ci penserà, ci penseremo. Lui, van der Poel, Evenepoel, van Aert, nessun altro (non ce ne vogliano il pur fortissimo Pedersen, il ritornante Bernal), sono loro che bramiamo vedere correre, sono loro che hanno spinto il ciclismo di nuovo in alto, che ci fanno maledire le dirette che partono alle 14 invece che tre ore prima. Abbiamo pensato: vi sareste immaginati se il gruppo fosse andato un po’ più forte alla Strade Bianche prima di imboccare Sante Marie? Ci saremmo persi l’attacco di Pogačar, per l’anno prossimo bisogna porre rimedio in qualche modo. Tuttavia, Pogačar. Uno che ama e rispetta il ciclismo, che a volte sembra prenderci per i fondelli, che scherza così tanto da sembrarci quasi costruito, ma in realtà lui è questo. Uno che fra qualche giorno, alla Milano-Sanremo, potrebbe pure inventarsi qualche diavoleria atta a negare il canovaccio. Uno come Pogačar. Unico. Come quando prende e parte, se ne va.