Quelle foto, quelle volte e poi domani
13 Agosto 2022Colbrelli,Trentin,Dainese,Viviani,Nizzolo,CorseCampionato Europeo
La prima immagine è del 2018, dell'estate del 2018. Quel giorno la pioggia era come un incessante ticchettio che rivoltò il percorso dell'Europeo di Glasgow: da semplice contesa per uomini veloci, ma resistenti, a gente avvezza a contesti più impegnativi, una sfida tra uomini - ragazzi - granitici.
Quell'immagine è del 2018, e quell'arrivo fu il primo a regalare i quattro titoli consecutivi che l'Italia di Cassani è riuscita a conquistare nelle rassegne continentali. All'epoca qualcuno forse si fece sfuggire l'importanza di quel podio - non del successo in sé. Davanti arrivò Trentin che, dopo una condotta di gara dai tratti somatici vicini a quelli della perfezione da parte dell'Italia, conquistò uno dei suoi successi più importanti in carriera (ah, maledetta volata di Harrogate poco più di dodici mesi dopo!), dietro di lui van der Poel e van Aert immortalati sul podio con delle facce poco convinte, poco sorridenti, a dimostrazione di quello che è da anni la loro fame, ma ancora con le sembianze di chi sembrava aver intrapreso da poco la strada dell'adultità. Primo Trentin, secondo van der Poel e terzo van Aert: a leggerlo oggi sembra qualcosa a cui si farebbe fatica a crederci.
2019, siamo ad Alkmaar, Olanda. È l'anno di Viviani e anche qui, la nazionale va che è una meraviglia; su strada è il migliore (o quasi) Viviani di sempre, ed è un Viviani che non si ciba di sole volate pure: l'arrivo con cui sconfigge Lampaert e Ackermann andati via nel finale è la dimostrazione. Ancora un percorso facile, sulla carta, ancora una nazionale che corre come si deve, ancora un successo. Poi arriva il 2020, a Plouay, Francia, ed è volata quasi vera e pura stavolta, e Ballerini che pilota Nizzolo, e poi Nizzolo che vince. Secondo Démare, terzo ancora Ackermann.
Infine a Trento è il giorno di Colbrelli, lo ricordiamo bene. Colbrelli che va via con Cosnefroy ed Evenepoel; Colbrelli che resiste agli affondi di Evenepoel; Colbrelli che batte Evenepoel davanti al Duomo di Trento e lo fa ammattire ma fa impazzire tutti.
E poi arriva domani in un lampo: Nizzolo - si è chiamato fuori dopo una caduta in gara in Belgio qualche giorno fa - e Colbrelli - ahinoi - non ci saranno, Trentin e Viviani sì, ma soprattutto non sarà più la nazionale di Cassani, ma quella di Bennati. Soprattutto non sarà la nazionale da battere - Belgio (Merlier), Germania (Bauhaus e Ackermann) e Olanda (Jakobsen) favorite, occhio alla Francia (Démare) e alla Danimarca (Pedersen). Ci sarà Dainese che sta andando dannatamente forte da mesi a questa parte. I favoriti sono altri, abbiamo detto, ma domani sogniamo lo stesso che tanto è gratis.
FLANDRIEN CHALLENGE, F.A.Q.
È una sfida ciclistica in cui il mondo digitale e quello fisico si scontrano. Bisogna percorrere 59 segmenti Strava, molto ben indicati anche sulla superficie stradale, delle più famose salite e strade in pavé delle Fiandre, in massimo 72 ore. Proprio Strava, una volta iscritti al challenge, certifica il completamento dei segmenti nel lasso di tempo previsto.
Ogni ciclista che riuscirà nell'impresa entrerà a far parte della leggenda. Il suo nome sarà inciso su un cobble e guadagnerà un posto nel Wall of Fame del Centre Ronde Van Vlaanderen di Oudenaarde: il museo dedicato agli Dei del ciclismo.
Il regolamento è molto semplice: basta connettere il proprio account di Strava al sito della Flandrien Challenge e mostrare il telefono al museo una volta completati tutti e 59 i segmenti.
Attenzione però! Il museo chiude alle 18 e, per avere il proprio cobble, è necessario arrivare non più tardi delle 17!
Sul sito vengono proposti tre percorsi per chi ha tre giorni pieni, oppure 4 percorsi più corti da dividere in pomeriggio, due giornate intere e mattina seguente, per un totale comunque di 72 ore (perfetto per chi vola in aereo e ha più tempo a disposizione). Non preoccupatevi se avete accompagnatori al seguito: in mezzora di treno si arriva a Gand e in un’ora e mezza a Brugge o Bruxelles. Meglio di così!
CHE BICI USARE?
Si sta in sella tante ore sobbalzando parecchio, quindi vi consigliamo prima di tutto comodità: copertoni minimo del 28, ma anche del 30 o 32 non guastano. Esagerate pure con la cassetta pignoni: 11-34 e non ve ne pentirete affatto.
Cambio meccanico o elettronico? Se potete, assolutamente elettronico! Nei tratti in pavé è molto comodo avere la possibilità di poter cambiare semplicemente sfiorando la leva: si trema così tanto che viene difficilissimo riuscire ad impugnare bene il manubrio e fare la giusta pressione sulla leva come accade con il cambio meccanico.
ATTENZIONE ALLE DISCESE
Sui muri si va pianissimo in salita… e velocissimo in discesa. Attenzione però! Siamo in campagna e le strade sono frequentate da trattori: è un attimo trovarsene uno dietro una curva mentre si sta scendendo a tutta. Nessun rischio inutile please: i segmenti sono solo in salita, ricordatelo!
Info: cyclinginflanders.cc
FLANDRIEN CHALLENGE
SFIDA TOTALE
Ovvero completare i 59 muri iconici delle Fiandre in meno di 72 ore. Siete pronti?
FOTO Paolo Penni Martelli
TESTO Stefano Francescutti
STARRING Davide Caccia, Matteo Serone
È tardi, tardissimo. Non bastavano la fatica, i muri, il pavé e gli oltre 400 chilometri in sella, ora ci si mettono anche le lancette dell’orologio che sembrano andare il doppio. Questi belgi hanno degli orari folli per noi mediterranei: come è possibile che un bar e un museo chiudano alle 18? Dobbiamo correre, se arriviamo anche solo un minuto più tardi non riusciremo a recuperare il nostro premio. Siamo venuti fin qua per questo, abbiamo guidato per oltre 1.200 chilometri, ci siamo letteralmente demoliti in bici su e giù per le Fiandre e ora rischiamo di tornare a casa a mani vuote? Non esiste.
Giù un dente, anzi due e via a menare. Raramente ricordo di aver fatto così fatica ed essere così provato e lo sguardo dei miei compagni conferma esattamente questa mia sensazione. Mal comune mezzo gaudio, si dice. La stanchezza fa brutti scherzi, tanto che inizio anche a chiedermi se davvero verremo ripagati a dovere, se realmente entrare a far parte di una stretta cerchi di ciclisti ci farà dimenticare tutti i dolori che stiamo provando. Vesciche, mani indolenzite, irritazioni varie: ne varrà davvero la pena?
È tardi, tardissimo, giù un altro dente. Cambi regolari, siamo una squadra ora. Non c’è tempo da perdere.
Sarò passato almeno un anno da quando ho letto per la prima volta del Flandrien Challenge e mi era sembrato da subito una figata, ma ho deciso di custodire questo segreto senza svelarlo a nessuno, nemmeno in redazione. Ogni tanto andavo sul sito, me lo studiavo per bene e quando ho sentito che il momento era propizio, sono passato alla carica.
«I tizi di Cycling in Flanders hanno mappato 59 muri iconici, quelli dove passano il Giro delle Fiandre, la Gent-Wevelgem, la Omloop e le altre gare della settimana fiamminga. Hai 72 ore di tempo per percorrerli tutti: se ce la fai, ti premiano e, come dicono loro, potrai definirti a true flandrien. Ho già pensato al team, Nerone (il nostro furgone, nda) è pronto: facciamo la classica macchinata e andiamo. Che ne dici?»
Sapevo che non ci sarebbe stata altra risposta che il classico affare fatto! tanto caro al nostro editore.
Metti insieme tre amici, dagli le chiavi di un furgone e un viaggio da dodici ore, ed è subito gita del liceo. Non importa quanti capelli bianchi tu abbia, in un attimo l’età mentale si attesta tra i 14 e i 18 anni, quando non c’erano responsabilità e la tua unica preoccupazione era avere in tasca cinquemila lire per la benzina dello scooter. E così via di cazzate, risate fino alle lacrime, sacchetti di patatine sparsi in ogni dove con briciole incastrate dappertutto, rumori osceni provenienti da ogni parte del corpo e un tormentone da pronunciare in ogni circostanza, che non ci abbandonerà mai più: eh amigo, i campioni sono così!
Il discorso è abbastanza semplice: bisogna pedalare su 59 settori in 72 ore complessive, ovvero in tre giorni. Il giudice che certifica il challenge è Strava, ogni muro è tracciato come segmento e anche segnalato con la vernice sull'asfalto, all’inizio e alla fine, una cosa che gasa in modo esagerato. Puoi farli in qualunque ordine e seguendo qualunque filo logico, se non vuoi impazzire ci sono già tre percorsi creati ad hoc scaricabili tranquillamente dal sito. Ti viene consigliata anche la sequenza, ma ognuno è libero di cambiarla: invertendo l’ordine degli addendi il risultato non cambia. Facciamo la nostra scelta davanti a un paio di pinte di Stella Artois ed è già ora di andare a dormire. Domani si inizia.
Dormire ad Oudenaarde è praticamente un must. Trentamila abitanti, arrivo del Giro delle Fiandre, luogo da dove partono e arrivano due dei tre percorsi ma soprattutto sede del Centrum Ronde van Vlaanderen: il luogo culto per ogni ciclista. C’è il museo, il Peloton cafè dove sono d’obbligo il caffè prima della partenza e la birra a fine pedalata, un negozio di gadget da cui è impossibile uscire a mani vuote, attrezzi vari per la manutenzione della bici e anche le docce, in caso ci si voglia dare una rinfrescata.
Primo giorno, si parte col botto: 190 chilometri per 2.400 metri di dislivello, la tappa più dura delle tre. Siamo fin troppo carichi e l’euforia ci fa prendere questa decisione che potrebbe sembrare folle, ma si rivelerà poi perfetta. Salutiamo la campagna fiamminga con i primi colpi di pedale, non sappiamo a cosa stiamo andando incontro e i silenzi tra di noi indicano una certa tensione che non abbiamo ben chiaro in cosa sfocerà, ma ci mettiamo poco a capirlo. Sono bastati i primi due muri per rendere tutto molto limpido: è un challenge, è una sfida con sé stessi, ma in un attimo si è trasformata in una sfida tra noi tre. Qui non c’è un pettorale da indossare, è vero, ma ogni volta che sul terreno si oltrepassa la scritta START e si inizia il segmento, le vene si chiudono e parte la bagarre. Se arrivare secondo non è una possibilità presa in considerazione, arrivare ultimo è quanto di più avvilente. Amici, amici… Amici un cazzo! è proprio il caso di dire: iniziamo a prenderci letteralmente a sberle su ogni muro, senza tregua. Senza dirlo apertamente, il tragitto tra un segmento e l’altro lo dichiariamo zona neutrale, approfittandone per riprendere fiato e scambiare qualche battuta per stemperare l’atmosfera competitiva. Stolti che non siamo altro, combattiamo tra di noi senza nemmeno immaginare quale sarà il vero nemico.
Se si gioca è giusto stabilire delle regole e creare una classifica. In questo caso è molto semplice, si scatta tutti insieme all’inizio di ogni segmento e il primo che arriva è il vincitore. Non ci sono secondi né terzi: uno vince, due perdono. È alla prima pausa di giornata che sigliamo ufficialmente questo patto e, onestamente, se ne avessimo parlato prima di partire non ci avremmo mai creduto.
Il più agguerrito è, come sempre, il Serone: competitivo sin dalla culla, con la fortuna di avere un gran motore. Se riesco a giocarmela con lui è solo perché sono molto più allenato, altrimenti non ci sarebbe storia. È uno di quelli che non ti lascia nemmeno la classica volata al cassonetto, non so se mi spiego. Fisico perfetto per questi terreni, soffre però maledettamente la carenza di cibo: più di una volta l’ho visto in crisi di fame e ho costruito il mio piano proprio su questa sua debolezza, devo sfinirlo e non dargli possibilità di nutrirsi. È così che riesco a inanellare una serie di vittorie inaspettate: quando sento che inizia a lamentarsi per la fame gli assicuro, mentendo, che da lì a poco ci fermeremo… Invece accelero e basta. Una giocata da vero fuoriclasse, d’altra parte amigo, i campioni sono così.
Quando la pendenza va in doppia cifra è invece il momento di Caccino, un peso piuma con alle spalle otto anni di vita a Tenerife e le salite al Teide come palestra. Agile e scattante, quasi imprendibile sui muri in asfalto, fa invece una fatica immane sul pavé. Sembra che non riesca a trasferire la forza, rimbalza senza quasi comandare la bici. Sono inoltre sicuro che pagherà le lunghe distanze: lo devo lasciar sfogare, fargli fare il suo gioco, io recupererò nella seconda parte di giornata dove il mio motore diesel come sempre darà il suo meglio. Quella che poteva sembrare una vacanza tra adolescenti si è trasformata in una battaglia a colpi d’orgoglio.
«Il pavé ti cuoce. Su un terreno normale la tappa di oggi sarebbe stata sicuramente dura, faticosa, stremante. Ma col pavé tutto è esasperato. Sono cotto, davvero cotto». Guardo il Serone e annuisco, mentre Caccino riesce a mala pena a proferire due parole. A fine giornata siamo letteralmente svuotati e non siamo nemmeno a metà della nostra sfida. Ci conosciamo da una vita e questo è il bello: si sotterra l’ascia di guerra, almeno per qualche ora, ed è finalmente il momento di dedicarsi al reintegro di tutte le sostanze perse. Sui muri ce la caviamo decentemente ma al bancone, senza falsa modestia, siamo davvero dei fuoriclasse. Eh amigo, i campioni sono così.
La seconda giornata è quella col trasferimento. Carichiamo le bici su Nerone e ci spostiamo ad Ypres, ad un’oretta di viaggio da Oudenaarde e raggiungibile molto comodamente anche in treno, da dove parte un loop da 75 chilometri per circa 1.000 metri di dislivello. Solo nove muri da affrontare nella zona più occidentale delle Fiandre, praticamente al confine con la Francia. Non ce lo diciamo apertamente ma siamo devastati da ieri. Facciamo fatica a stringere il manubrio a causa delle mani indolenzite a furia di pavé e anche il sedere non se la passa meglio: sappiamo bene che dobbiamo risparmiarci un po’ se vogliamo arrivare alla fine. Vinco un muro, poi è il turno del Serone e poi di Caccino. La scena si ripete ancora una volta e, di proposito ma senza esplicitarlo chiaramente, ancora una. Nove muri totali, tre a testa: un pareggio che va bene a tutti. Ci fossero stati i giornalisti avrebbero gridato allo scandalo. Consapevoli di questa sorta di gemellaggio decidiamo di festeggiare offrendo ognuno un giro di birra agli altri sfidanti. Un gesto di sportività talmente bello che anche Penni decide di mettere da parte la macchina fotografica per aggregarsi. Che ve lo dico a fare: eh amigo, i campioni sono così.
Oudenaarde mi è sempre piaciuta: né troppo piccola né troppo grande, sulle rive della Schelda, da dove parte una pista ciclabile bellissima che ti porta in trenta chilometri fino a quel gioiello di Gand. Se ne parla stanchissimi passeggiando per la piazza centrale prima di ritirarci nelle nostre stanze. L’appuntamento è per domattina, l’ultimo giorno, quello che decreterà il vincitore.
«Nulla è ancora deciso, mancano venticinque muri che potrebbero confermare o ribaltare completamente la situazione.» Per un attimo mi trasformo in Alessandro Broghese, con la differenza che, invece di quattro ristoranti, abbiamo 142 chilometri per 2.200 metri di dislivello davanti a noi. Non è la più lunga, ma è la tappa regina: Kwaremont, Koppenberg, Paterberg... Ci siamo capiti insomma. Oggi siamo gli attori di quel film di cui andiamo pazzi e anche se l’abbiamo visto decine di volte, quando capita, non riusciamo a skipparlo. Il percorso è un groviglio incredibile di strade, impossibile da tracciare autonomamente, tostissimo: un su e giù senza tregua dove, per darvi l’idea, il punto più lontano da Oudenaarde è a soli dieci chilometri di distanza. Provo ad utilizzare le mie solite tattiche ma dopo una decina di muri inizio ad essere veramente cotto. Non voglio far trasparire nulla, scruto il Serone e Caccino che sembrano non passarsela meglio. Ciò nonostante, continuiamo a sfidarci, dando fondo alle forze residue. So di essere in leggero vantaggio e so anche che da un momento all’altro potrei saltare. Arranco, perdo un paio di muri, ma sono sicuro che questo sforzo a loro sta costando parecchio. Beviamo un sorso, mangiamo l’ennesima banana, facciamo pipì in fila dietro a un albero proprio come in terza superiore. Mancano solo una decina di muri, ci giochiamo tutto in un paio d’orette.
«Cazzo è tardissimo! Se non arriviamo al Centrum Ronde van Vlaanderen entro le cinque e mezza è come se non avessimo fatto nulla. Tutto ‘sto sforzo per niente!».
Panico, imprecazioni, sconforto. Che si fa? Un minuto di silenzio, ma sono bastati uno sguardo e una risata per metterci d’accordo e farci sentire davvero stupidi. «Tre giorni a sfidarci, mentre erano i muri a sfidare tutti noi».
Giù un dente, anzi due e via a menare. È tardi, tardissimo, giù un altro dente. Cambi regolari, siamo una squadra ora. Non c’è tempo da perdere.
Ce l’abbiamo fatta. Ne è valsa la pena. Ecco i nostri nomi scolpiti all’interno del Centrum Ronde van Vlaanderen. E pare che siamo anche i primi italiani.
Eh amigo, i campioni sono così.
Servizio pubblicato su Alvento 22 di agosto 2022
FLANDRIEN CHALLENGE, SFIDA TOTALE
Prendete tre amici, appassionati di ciclismo, dategli un furgone nero, anzi, Nerone! Macinate 1.200 chilometri per raggiungere con brio le Fiandre, il tempio del ciclismo, e condite il tutto con delle barzellette anni ’80, qualche puzzetta e un sacco di risate. Aprite uno Strava fresco fresco e preparatevi a fare il pieno di muri… Ops, segmenti.
Annaffiate il tutto con dell’ottima blanche e ovviamente patatine fritte a volontà. Questa è la ricetta per la felicità, questa è The Flandrien Challenge…
Amigo, i campioni sono così!
Intervista: Claudio Ruatti
Ospiti: Davide Caccia, Stefano Francescutti, Matteo Serone
Sound design: Brand&Soda
Le idee che nascono in bici
10 Agosto 2022Maté,StorieVuelta
«La maggior parte delle idee mi vengono quando sono in bici», ha raccontato qualche giorno fa Luis Ángel Maté, l'ultima, dice, gli è arrivata mentre si allenava sulla Sierra Nevada in preparazione alla prossima Vuelta.
Luis Ángel Maté da un paio di stagioni difende i colori della Euskaltel Euskadi, i colori mitici del ciclismo basco, quelli arancioni, dopo aver corso per una vita intera con la Cofidis e aver condiviso anche un'esperienza biennale con l'Androni di Savio.
Maté non è mai stato un ciclista qualunque, conosciuto più per le sue fughe in terra spagnola, che per le vittorie, più per la sua sensibilità fuori dal gruppo, che per qualche scatto bruciante, amato per la disponibilità con i tifosi e i compagni di squadra, per la sua affidabilità in corsa. Molti se lo ricordano anche come grande amico di Michele Scarponi, ad altri gli viene in mente di quando lo scorso anno al termine della Vuelta intraprese un viaggio particolare.
Ogni cambiamento parte da una piccola azione, ogni idea che può sembrare ininfluente, può essere di ispirazione per qualcun altro. Il classe '84 spagnolo nel 2021 decise di percorrere, subito dopo aver concluso la corsa a tappe spagnola - 16° Grande Giro portato a termine in carriera - 1000 km su due ruote da Santiago di Compostela, dove si chiuse la corsa, fino a Marbella. «Volevo semplicemente prendere la mia bicicletta e tornare a casa senza usare l'auto o l'aereo, usando soltanto le mie gambe, in armonia perfetta con me stesso e con quello che mi circonda». Non un'idea rivoluzionaria magari, ma un piccolo contributo che il corridore andaluso ha voluto dare al racconto («Tutto quello che ho - disse - me lo ha dato la bicicletta. Non il ciclismo, non il mio lavoro, la bicicletta pura e semplice attraverso cui sto imparando a conoscere il mondo e anche me stesso») e alla mobilità sostenibile, alla vicinanza con il territorio e l'ambiente: «Noi ciclisti abbiamo il privilegio di correre negli stadi più meravigliosi e imponenti del mondo, immersi dentro scenari unici. È nostro dovere cercare in qualche modo, in ogni modo, di prenderci cura di loro».
Fra una decina di giorni Maté, che, come scrive un giornale spagnolo, è "Soprannominato la Lince Andalusa non tanto per la sua vista particolarmente portentosa, ma più che altro per la sua astuzia, la sua capacità di vedere oltre l'ovvio», prenderà il via della Vuelta e, come detto, allenandosi in altura gli è venuto in mente di donare un albero per ogni chilometro che passerà in fuga nella corsa a tappe spagnola al Parco Naturale Los Reales della Sierra Bermeja. "Il mio ufficio, la nostra casa" ha definito quel posto, che è la Sierra Bermeja andalusa, ma in realtà Maté parla di ogni luogo.
La Sierra Bermeja lo scorso anno fu devastata da un terribile incendio attivo per 46 giorni e che distrusse oltre 10.000 ettari e costrinse circa 3.000 persone a lasciare le proprie case. Luis Angel Maté ha fatto partire la sua iniziativa donando 100 alberi (altri 100 sono stati donati dalla sua squadra e altri 100 dagli organizzatori della Vuelta), con l'obiettivo di sensibilizzare; noi ci auguriamo possa avere le gambe migliori possibili alla Vuelta per riuscire a scappare ogni giorno dal gruppo, e magari farsi venire in mente qualche altra nuova idea. Piccola o grande che sia non importa, si inizia sempre da qualche parte.
Bizzarrie del ciclismo lusitano
9 Agosto 2022StorieVolta a Portugal
"Menos doping, mais vinho tinto", meno doping più vino rosso, prova a raccontarla così una ragazza che regge un cartello visto lungo la strada durante una delle prime tappe della "Grandissima", o meglio "A Grandissima", se volessimo dirlo in portoghese, il nome con cui è conosciuto la Volta a Portugal arrivata quest'anno all'edizione numero ottantatré e iniziata qualche giorno fa con il prologo di Lisbona.
La prova iniziale l'ha conquistata il più forte specialista contro il tempo portoghese, Rafael Reis, uno dei diversi corridori che assume un contorno quasi misterioso, perché spesso capita come, usciti da quel contesto, improvvisamente valgano di meno. Reis che di recente ha conquistato il titolo nazionale contro il tempo, dominando la prova davanti a Oliveira e Almeida, concedendo poi il bis ai Giochi del Mediterraneo.
Meno doping e più vino rosso, dicono i tifosi portoghesi che letteralmente impazziscono per la loro corsa di casa; meno doping, già, perché il ciclismo portoghese è nel caos. Alla vigilia, l'UCI ha ritirato la licenza alla squadra di riferimento del nord della regione, la W52/FC Porto, e secondo Cyclingtips senza questa squadra salteranno tutti gli accordi commerciali futuri per portare la corsa in alcune di quelle zone e, sempre come racconta la testata nordamericana, il capo dell'agenzia antidoping lusitana è stato minacciato con tanto di proiettile recapitato a casa; la W52/FC Porto è stata così esclusa dopo alcuni casi che hanno portato alla perquisizione e al ritrovamento di sostanze dopanti. Come spiegato da Cicloweb "sono stati sospesi per traffico di sostanze illecite e utilizzo di “metodi proibiti”"; un'indagine che va avanti da diverso tempo con arresti e perquisizioni di atleti e dirigenti del team. Altre squadre alla vigilia hanno dovuto fermare alcuni corridori e in un clima da crime story si è partiti lo stesso, nonostante si fosse arrivati non troppo lontani da una clamorosa cancellazione.
Si va avanti lo stesso per quella che è la festa del ciclismo portoghese, una corsa sentita dalle loro parti come, o forse anche più, del Tour de France e del Giro d'Italia, una corsa che fu un Grande Giro di tre settimane e che ora si corre in circa dieci giorni; che è nata prima della Vuelta a España e che ha avuto nell'albo d'oro il più grande corridore lusitano della storia, quel Joaquim Agostinho che l'ha vinta tre volte (recordman fino alle quattro vittorie di Chagas negli anni '80 e poi di Blanco più recentemente); quel Joachim Agostinho che morirà dopo aver investito due cani randagi in corsa (era la Volta ao Algarve del 1984), quel Joachim Agostinho, tanto brutto da vedere in bicicletta, quanto efficace, capace di chiudere due volte sul podio del Tour e di vincere pure un Trofeo Baracchi in coppia con Van Springel finendo davanti a Merckx (3° in coppia con un giovane Boifava) che al termine di quella gara venne insultato dalla folla al grido di "Droga! Droga!".
Joachim Agostinho era sgraziato come lo è il più forte ciclista portoghese di oggi, João Almeida: anche lui non fa della bellezza in bici il suo marchio di fabbrica, quanto l'efficacia. Almeida non ha mai corsa la Volta, e nei prossimi giorni sarà al via della Vuelta España in nome di un ciclismo che, purtroppo per loro, vede i migliori talenti (così è anche per Guerreiro, e così sarà per Morgado, segnatevi il suo nome), trovare slancio in campo internazionale emigrando altrove.
Ma la Volta a Portugal è questa: una corsa che di internazionale ha poco, hanno vinto praticamente solo iberici, tanto che in 82 edizioni si contano due successi italiani, Lelli e Serpellini, uno svizzero, uno britannico, uno danese, uno belga, uno polacco, uno russo e uno persino brasiliano e il resto diviso tra Portoghesi (59) e spagnoli (13, tutti arrivati dal 1999 in poi). Una corsa che lancia corridori che poi al di fuori di quelle strade - pensate ad esempio ad Alarcon o ad Antunes, nomi mitologici e vincitori di quattro delle ultime cinque edizioni - fanno fatica (eufemismo) a imporsi.
Una corsa che riesce a stupirti per alcune bizzarrie, come ad esempio il magnifico design del traguardo, due enormi braccia che reggono lo striscione d'arrivo; dove succedono cose al limite come il tifoso che scavalca, con un guizzo degno di un saltatore in alto di un'epoca pre Fosbury, le transenne, mentre il gruppo arriva a tutta velocità a giocarsi la volata - scopriamo, grazie a Leonardo su Twitter, che quello non era un tifoso, ma Candido Barbosa, vincitore di venticinque tappe in questa corsa, tra il 1999 e il 2010, altro nome che al di fuori di qui non si è mai imposto; oppure il capolavoro fatto dal corridore spagnolo Xavier Canellas, un gesto che è ormai leggenda.
Nella tappa di qualche giorno fa con arrivo in salita a Covilhã appariva attorno al suo nome la scritta DSQ, squalificato. Squalificato perché? Ha tagliato il traguardo - sorridente e divertito - con un cappello di paglia al posto del casco, sembrerebbe per protesta contro la direzione di corsa, per aver corso con un caldo quasi insopportabile. Tutto questo è Volta a Portugal.
Corsa difficile da non amare. Pensate all'uruguaiano Mauricio Moreira, che, vista l'esclusione dei W52 Porto, arrivava alla vigilia come il favorito assoluto. Forte in salita, si difende molto bene a cronometro, dotato di spunto veloce, attualmente, a poche tappe dal termine, è al secondo posto della classifica generale alle spalle del compagno di squadra Frederico Figuereido, altro mattatore assoluto quando si corre in Portogallo.
Un nome che potrebbe apparire esotico quello di Moreira, ma su cui qualche squadra del World Tour potrebbe scommettere per il prossimo anno, a patto di fidarsi delle stravaganti notizie che coinvolgono il ciclismo lusitano. Un circo meraviglioso, tra casi di doping e vino rosso, tra passaggi in mezzo agli incendi e caldo insopportabile. Una corsa da andare a seguire e raccontare almeno una volta nella vita.
Foto da: volta-portugal.com
Cosmopolitismo
Forse potrà sembrare qualcosa di poco conto. Come un gingillo di qualche tipo che, piazzato in casa, assume un significato solo per chi ce l'ha messo, perché gli fa venire in mente "quella volta in cui" o qualcosa del genere, pur non essendo particolarmente bello.
Leggendo "vittoria alla Vuelta a Burgos" c'è chi storcerebbe il naso, ma leggendo "vittoria alla Vuelta a Burgos" bisogna poi andare a interpretare lo spazio tra le righe o semplicemente ascoltare le parole di Sivakov: «Sono felicissimo, un successo mancava da troppo tempo. Ne avevo bisogno».
Arriviamo dalle settimane delle corse travolgenti al Tour de France, è vero, con una forza d'urto tale di emozioni che tutto il resto ci sembra sopraffatto da diventare così piccolo. L'eclettico gigantismo ciclistico di van Aert, il dinamico regolare rigorismo di Vingegaard, l'effervescente avanguardismo spavaldo di Pogačar, ingredienti che ci hanno riempito gli occhi e colmato le giornate di luglio. Di tutto luglio.
Poi è arrivata la Vuelta a Burgos - e altre corse d'agosto e altre ce ne saranno, per fortuna - ed è tornato al successo Pavel Sivakov. Non vinceva da tre anni esatti e in carriera ha vinto così poco da non crederci. Da ragazzo era un gioiello capace di splendere raccogliendo successi da prima pagina e quando cadeva - purtroppo cade spesso - si rialzava il giorno dopo per compiere l'impresa. Ci riferiamo a quel suo magnifico anno 2017 quando conquistò il Giro d'Italia Under 23, quello Ciclistico della Val d'Aosta e poi, quando si pensava potesse infilare una tripletta con l'Avenir, si accontentò (per modo di dire) di vincere in fuga da lontano la tappa di Albiez-Montrond.
Sivakov, che in quella stagione pareva un piccolo despota di quelli che fanno e disfano a proprio piacimento, alla Ronde de L'Isard - altra corsa a tappe di riferimento per la categoria - non passò un giorno senza attaccare da lontano: iniziò nella prima tappa - cancellata per condizioni meteo avverse; dominò la seconda con arrivo a l’Hospice de France lasciando Lambrecht a 1’17”; per finire l'opera da tramandare nella quarta frazione quando si prese il lusso di vincere come i dominatori del ciclismo passato. In maglia di leader attaccò in discesa a oltre cinquanta chilometri dalla conclusione vincendo davanti a Knox, Antunes e al terzetto belga Lambrecht, Cras, Vanhoucke con quasi un minuto di vantaggio; il settimo arrivò a oltre quattro minuti.
Vuelta a Burgos, corse a tappe, Pavel Sivakov e fuga da lontano. Uniamo i puntini. Ha attaccato da lontano per conquistare la classifica finale della breve corsa a tappe spagnola; ha attaccato, Sivakov, con quella mascella da divo dei film d'azione; è cresciuto, e che possa essere definitivamente esploso non è la breve (e piccola) corsa che ce lo deve dire, quanto forse quella più grande (la Vuelta, se lui ci sarà) tra un paio di settimane, o forse ce lo dovrà spiegare la INEOS se deciderà di fare di lui quell'atleta che abbiamo imparato a conoscere e ad apprezzare lontano da stratagemmi tattici volti a incatenarlo, ma lasciandolo libero di interpretare la corsa, magari attaccando un po' quando gli pare e sente, come il ciclismo di queste ultime stagioni, quello dei Pogačar, van Aert o van der Poel, ci sta insegnando.
Scorre il tempo, e noi ci sentiamo placidi sognatori a pensare una cosa del genere; scorre a volte lento come un temporale estivo che si avvicina e sembra non sfogare mai la propria forza sulla sua testa, scorre lenta la crescita di Pavel Sivakov, nato in Italia, prima russo e ora francese, cresciuto in una squadra svizzera e adottato da una inglese che ha spesso fatto dell'intransigenza tattica il suo mantra. Scorre il tempo di Pavel Sivakov, ma prima che possa schioccare le dita e dirsi già perso, lo attendiamo dove tutti pensavamo di trovarlo qualche stagione fa. In mezzo al mondo, in cima al mondo. Alla prossima Vuelta (Carapaz permettendo ) capiremo cosa sarà diventato, se uomo di classifica, se gregario di (extra) lusso, se attaccante ritrovato. L'importante però è vederlo di nuovo lì davanti.
IL TOUR A CASA ZILIOLI
Italo Zilioli è stato una delle figure più intriganti, misteriose e persino divertenti del ciclismo a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, gli anni del passaggio dall’epoca eroica alla contemporaneità, tra Coppi e Merckx. Lo scorso luglio siamo andati a trovarlo per farci raccontare la sua storia, dagli esordi in bicicletta alla forte amicizia che ancora lo lega ad Eddy Merckx. Una chiacchierata a 360°, nel salotto di casa sua, prima di accendere la televisione e guardare assieme la tappa dell’Alpe d’Huez (di cui potete leggere sul numero 22 di Alvento).
Intervista: Filippo Cauz e Gino Cervi
Sound design: Brand&Soda
Transaphar 2022: da Tel Aviv a El Cairo con mille matite
Niccolò, Lorenzo e Giovanni conoscono bene il valore degli appuntamenti. Niccolò sostiene che quando si parte, soprattutto per un viaggio lungo, che porti molto lontano, è bene avere un appuntamento con qualcuno nelle terre in cui si arriva. Così prima di partire per Transaphar Tel Aviv - Il Cairo 2022 questi tre ragazzi avevano già qualcuno ad aspettarli, qualche giorno dopo, ad Amman e avevano qualcosa da lasciare, da donare: mille matite, in un bar, una sera.
Questa storia parte con un volo per Tel Aviv, il lunedì appena trascorso, poi tre biciclette e via a pedalare verso Il Cairo, circa 1000 chilometri, dodici giorni per percorrerli. Non è facile, ma, alla fine, Niccolò e i suoi amici lo sanno bene e ce lo spiegano: "I problemi sono quello che sono, la differenza la fa il modo in cui tu li approcci. Possono atterrarti oppure farti scoprire qualcosa di te che non conoscevi. Senza scordare che la maggior parte dei problemi è risolvibile". Due mesi fa, quando questa idea è nata le cose belle sono balzate subito alla mente: "Abbiamo immaginato l'atterraggio, il momento in cui avremmo pedalato a Gerusalemme, l'Oasi di Fayyum e gli scheletri delle balene, le notti in tenda e i pasti dove capita. Insieme a queste, però, sono arrivate anche le cose difficili: passare in zone desertiche, il forte caldo, l'acqua che in alcune zone non si trova se non a distanza di molti chilometri, perché nulla è scontato come può sembrare e il bello e il difficile si affiancano.
"Viaggiare vuol dire capire questo, vuol dire studiare, conoscere e quindi rispettare ciò che incontri". Viaggiare, soprattutto, vuol dire capire che mentre si viaggia e ci si diverte si può fare qualcosa di utile. Niccolò, Giovanni e Lorenzo lo dicono spesso: "Non vogliamo passare per quello che non siamo, non vogliamo elogi perché questo è soprattutto un viaggio di svago, però, quando guardiamo quelle mille matite che trasportiamo sulle biciclette siamo contenti": Qui torna la questione degli appuntamenti: in quel bar, ad Amman, ad attenderli c'è il responsabile della Onlus "Terre des hommes" che farà avere le matite ai bambini dei campi profughi siriani.
"Se possiamo aiutare quei bambini, possiamo farlo grazie alla scuola, all'istruzione, da lì passa il loro futuro. Tante cose si potevano donare, noi abbiamo pensato a delle matite. L'oggetto con cui si impara a scrivere ma che si conosce sin da prima perché si usa per disegnare. Qualcosa che tutti hanno tenuto fra le mani da bambini e che li ha guidati nelle prime lezioni imparate: scrivere, sottolineare". Il punto, racconta Niccolò, è proprio questo: per noi avere in mano una matita è assolutamente normale, talvolta, invece, non si ha nemmeno una matita da stringere fra le mani.
Matite che hanno a che vedere con la crescita di questi bambini, con un viaggio in bicicletta e con le biciclette perché donate da Campagnolo e Selle Royal: una sorta di porta su un viaggio. Come qualcosa di questo viaggio, di questo "safari oltre i faraoni", resta in quei tre cappellini con copertura da deserto realizzati da Niccolò: un omaggio ai compagni e la dimostrazione di quante cose possa unire un viaggio, di quante cose possa fare un viaggio.
Gli uomini hanno la possibilità di adattarsi, una possibilità che spesso si dimentica nella comodità quotidiana e, in quell'adattamento fare qualcosa anche per gli altri. Tre ragazzi che pedalano da Tel Aviv a Il Cairo, provando a fare qualcosa di buono, ce lo ricordano.
Di Vincenzo Nibali o dell'estate e di un viaggio
L'estate piena, settembre dietro l'angolo, l'autunno che attende: l'ultima estate, l'ultimo autunno da corridore perché quelli come Nibali hanno qualcosa di antico a cui ben si abbina la parola corridore, come avrebbero detto i nostri nonni. Pensare che fra un anno, a Messina, Nibali potrà dire "un'estate fa" e parlare di quando ancora era corridore potrebbe mettergli malinconia; quella sensazione che si prova quando qualcosa finisce, quando i viaggi finiscono, che non è, poi, tristezza perché una parte di bellezza c'è anche nella malinconia. Il punto è che, in questa estate che è ancora, Vincenzo Nibali quel viaggio lo sta vivendo senza pensare alla fine o, per quanto, pensandoci in maniera diversa.
Vuelta a Burgos. Quinto nella prima tappa, all'attacco ieri, in un finale mosso con tutta l'intenzione di chi questo viaggio vuole goderselo. Proprio ieri qualcuno ci ha detto: «Certo che vedere scattare lo Squalo...», una frase sospesa che, però, non lascia dubbi. C'è una sorta di ritorno alle origini in Nibali: le proprie e quelle del ciclismo.
Le proprie ovvero quelle di un ragazzo che scattava sulle strade siciliane e faceva a gara con altri ragazzi come lui. Che, tempo dopo, nelle prime gare si affidava alle "vibrazioni" e agiva di conseguenza, talvolta sbagliando. Le origini di Nibali che sono, con tutte le differenze del caso, le origini di qualsiasi ragazzo che inizia a correre in bicicletta e che sono, forse, le origini stesse del ciclismo.
Anche Nibali, il campione che tanto ha vinto, sa che, quando si inizia a pedalare, si ha il sogno di vincere, indubbiamente, ma il ciclismo lo si sceglie per sensazioni genuine che appartengono a tutti e che tutti possono capire: una discesa veloce, il brivido in una curva, la vetta di una salita, gli amici che non tengono più la tua ruota. Vincenzo Nibali in questo non fa differenza: ha sempre fatto tutto questo, solo più in grande: al Giro, al Tour, alla Vuelta, alla Milano-Sanremo o a "Il Lombardia".
Un campione non scorda mai tutto questo anche se per le persone è colui che ha vinto due volte il Giro d'Italia e il Tour de France. Non lo scorda mai e quando tutto si fa più lieve torna a godersi questo viaggio. Anche ora, mentre le sagome dei ciclisti sull'asfalto si accorciano, come il tempo che manca. E quando scatta, chi lo vede, pensa sempre: «Certo che vedere Nibali scattare...»