Moto Continuo

La Black Snake ha bisogno di manutenzione. È la più affascinante e temuta pista del circuito di downhill, ma non si cura da sola. Un funzionario dell’Unione Ciclistica Internazionale, parlando metà spagnolo metà inglese, cerca di dare istruzioni a volontari del posto riguardo le fettucce che contrassegnano il tratto più difficile della pista: The Hell.
Appena dopo il primo intertempo il problema è di tutt’altra natura: il ramo di un pino a centro pista (sì, un ostacolo niente male) minaccia di staccarsi ed è a cinquanta centimetri dalla testa dei rider. In quel segmento, la traiettoria più seguita prevede un salto di circa tre metri, spiccando il volo da una roccia appuntita. Guardandolo da sotto si prende paura.
L’addetto alla pista affila l’accetta con un cacciavite, sta per sfruttare un momento di calma apparente per andare a potare l’albero. Ma eccoli che già scendono: bestemmia e indietreggia. Missione compiuta qualche minuto dopo, quando un paio di colpi ben assestati fanno cadere ciò che impacciava la vista dei rider.

Il finale della Black Snake è sabbia e polvere. Sono in due coi rastrelli per livellare le buche, togliere lo sporco non necessario. Attorno a loro, si sta assegnando la maglia iridata nell’E-MTB. La corsa femminile è stata dominata in lungo e in largo da Nicole Göldi, la più giovane in gara, nonostante un problema al motore elettrico all’imbocco dell’ultimissima salita. Cos’è successo lo ha spiegato lei stessa: «Mi si è spento. Per qualche secondo ho dovuto fare accendi-spegni-accendi-spegni, poi per fortuna il motore è ripartito». Osservata da fuori la scena stava per diventare drammatica: considerato il peso di una bici elettrica spenta, Göldi riusciva a malapena a pedalare.

Chi non si stanca mai è Ella Myers, una giovanissima ciclista canadese. Ieri nel cross-country juniores è arrivata nella top 30, risultato di cui è molto felice. Oggi tutto il Team Canada è con le gambe all’aria: chi si riposa in vista delle gare di domani, chi si riprende dalle gare di ieri. Lei proprio non ce la fa a stare ferma: ha risalito la Black Snake e incita i canadesi che escono a bomba dal cancelletto di partenza. «Scusami ti devo lasciare», dice dopo due chiacchiere «sono qui in Italia ancora per pochi giorni e non ce la faccio proprio a stare ferma».

Foto: Giacomo Podetti


Ci sono vittorie e vittorie

Ci sono vittorie che volano via col tempo, quasi effimere e vittorie che lasciano il segno, e per capire il perché siamo particolarmente contenti di quella di Florian Sénéchal oggi, basta scoprire la storia che coinvolge lui e il suo ex compagno di squadra ai tempi della Cofidis, Loïc Chetout.

Lo ha raccontato lo stesso Chetout a GCN France dove attualmente l'ex corridore basco lavora. Rimase senza contratto a fine 2019 e Sénéchal ne parlò con la Quick Step proponendo di pagare metà dell'ingaggio direttamente dal suo stipendio. Alla fine non se ne fece nulla: la Quick Step era già in parola con Sam Bennett e completarono la rosa con l'acquisto del velocista irlandese.

Florian Sénéchal non è solo forte sul pavé o veloce abbastanza da vincere, oggi, una delle volate più strane degli ultimi tempi, dove la Quick Step ha demolito il gruppo tra pianura, un leggero vento trasversale, rotonde che facevano perdere la ruota e anche la bussola un po' a tutti, Jakobsen compreso. «Non avevo gambe e allora ho urlato alla radio "Vai Florian, fai tu lo sprint"» racconta Fabio a fine tappa.

Veloce abbastanza, Florian oggi, da battere Trentin e Dainese. Veloce abbastanza da salvare la vita a Fabio Jakobsen lo scorso anno al Giro di Polonia. Quando Fabio fu vittima di quel grave incidente, il suo compagno di squadra era lì in quel momento e il suo intervento fu tempestivo, forse decisivo: «Non ricordo molto di quel giorno - racconta Jakobsen - solo che che stavo soffocando nel mio stesso sangue. Ero paralizzato, Florian vide il panico nei miei occhi; la gente intorno era terrorizzata, lui mi sollevò leggermente la testa in modo che il sangue potesse scendere».

Mentre Jakobsen era in convalescenza, e non si sapeva neppure quando avrebbe ripreso una vita normale, Sénéchal non ha mai fatto mancare la sua vicinanza, andando a trovarlo ogni volta che poteva a casa sua in Olanda. Più che compagno di squadra: amico fraterno.

Oggi, mentre Fabio Jakobsen arrancava e si staccava nel rettilineo sotto le furibonde trenate dei suoi compagni di squadra, Sénéchal restava a ruota coperto, pronto a lanciarsi verso la volata.
Oggi non ha vinto Jakobsen, ma per Fabio fa lo stesso. Oggi ha vinto Sénéchal ed è stata una bellissima vittoria, per lui, per Fabio, per noi, per tutti.


Limiti

Salendo con l’ovovia di Daolasa, il sottofondo non è cicale o freni a disco. È più fastidioso e stride col resto del paesaggio. Sono i fischietti degli steward: quando passa un atleta, nelle prove generali del downhill, un sibilo ne annuncia l’arrivo. La Black Snake si sviluppa nel bosco sotto l’impianto e tra salti, rocce, paraboliche e radici si arriva in fondo distrutti.

Se si arriva. Ogni duecento metri circa, volontari della croce rossa assistono eventuali cadute. Mentre chiacchiero con la mental coach della nazionale italiana di downhill, Elisabetta Borgia, uno juniores austriaco vola per terra. Non si vede, si sente però: da terra si lamenta dal dolore. Uno steward perde qualche secondo di troppo a fissarlo e avvisa in ritardo il rider successivo dell’ingombro, tanto che quest’ultimo – un atleta svizzero – deve inchiodare e cade a sua volta.

Continuando a scendere – la prova di cross-country femminile juniores è appena cominciata – si vede, sdraiato in disparte, lo svedese Oliver Zwar. Una persona lo sta toccando in tutte le giunture, caviglie e spalle, per verificare che sia intero. Un tecnico degli Azzurri, Simone Tartana, rivela che un discesista italiano ha cartellato (si dice così in gergo, quando si cade male) e gli è stata asportata la milza.

Sta arrivando la prima medaglia italiana in questi Mondiali. Lo si capisce dall’ottima posizione in cui Sara Cortinovis inizia l’ultimo giro – sembra addirittura possa attentare ai primi due posti, occupati da due francesi – ma soprattutto dall'entusiasmo delle sue amiche. Sono arrivate in zona traguardo con una bandiera e diverse trombette, sono di Bergamo ma in bici non ci vanno manco per sogno, pensano che Sara sia solare e testarda.
Cortinovis tenta lo sprint per l’argento, ma sceglie probabilmente la parte sbagliata, quella vicina alle transenne. Ha meno spazio ed è bronzo. Quando le chiedo della volata finale, è in pace con se stessa: «Sì forse ho sbagliato, ma ero al limite».


Il decalogo di Magnus Cort

Ai 350 metri dalla vetta del muro di Valdepeñas de Jaén, Magnus Cort Nielsen ha avuto ancora una volta la certezza di non essere uno dei tanti. Proprio mentre il mondo gli crollava addosso e la gravità sembrava la più bizzarra delle leggi. Magnus, dopo una giornata in fuga, contro tutto e tutti, era un corpo trascinato verso il basso, incapace di fare la più normale delle cose in sella a una bicicletta: andare avanti. A destra, poi a sinistra e di nuovo a destra per non cadere a terra. Lo sorpassano Roglič e Mas, lo sorpassano López e Haig, lo sorpassano ventiquattro corridori e passano quarantanove secondi prima che arrivi in vetta. Lo speaker inizia a incitarlo, lo stesso fa la gente. Un mondo che si capovolge e ti riempie di lividi quando sei il più vulnerabile e non te lo meriteresti. «È ingiusto» direbbero i più.
Magnus Cort ha imparato da troppi anni che imprecare è inutile. Da quell'isola aspra quasi quanto una strada che sale. A Bornholm, quarantamila anime, nel mar Baltico, c'era posto solo per l'immaginazione. La stessa che ha convinto il danese ad andarsene a sedici anni per fare il mestiere del ciclista.

Veloce, certo, non a caso vorrebbe somigliare a Peter Sagan, ma non solo. A Magnus piace complicarsi la vita e, col tempo, ha avuto la certezza che le migliori possibilità provengano proprio da lì. «Forse in condizioni normali non posso battere i migliori, ma esistono anche la pioggia, il freddo e il vento...». Quasi una provocazione, come le fughe dell'uomo del nord. Ha vinto tappe alla Vuelta, la corsa degli scalatori: quest'anno persino all'Alto de Cullera, proprio mentre Roglič lo stava raggiungendo, una settimana fa. «Ai 150 metri ho temuto, per fortuna non mi ha ripreso». Parole che sembrano quasi uno sberleffo a sentirle oggi.
Orica, Astana e Education First, senza rincorse, rispettando lo scorrere del tempo che riconosce la fatica, il sacrificio. Poi, nei momenti liberi, si prende una tenda, gli sci, si imballa la bicicletta e si parte in spedizione sui Pirenei. Oppure si torna a Bornholm, dalla famiglia, e si va in campeggio. Magnus Cort ha un decalogo di regole: usa solamente ciò che hai, impara una cosa semplice alla volta, rispetta le regole, non portare mai due cose uguali, quando fa notte guarda un film sotto le stelle e riposati su un materassino che hai già provato a casa. Soprattutto non partire mai con scarpe che tu non abbia già indossato: in mezzo al bosco non potrai cambiarle.
Ha in mente una spedizione sul Kilimangiaro e vorrebbe fare bene alle Classiche del Nord. Ci riuscirà? Chissà. Di certo Magnus Cort è riuscito a inventarsi una vita neanche lontanamente immaginabile. Per questo è Alvento, come chi vede ciò che manca e, invece di lamentarsi, lo inventa.

Foto: Jered Gruber


Sguardi, volti e staffette

Per ritirare gli accrediti c’è più fila del previsto. È il primo giorno in cui si assegnano medaglie ai Mondiali di mountain bike della Val di Sole e tanti sono arrivati al race village di Daolasa stamattina.
Sui cartelli un generico "accreditation" non definisce chi debba mettersi in fila per quali pass: il belga davanti a me non ne ha idea, la ragazza alle mie spalle nemmeno. È un’atleta, scopro nell’attesa: si chiama Spela Horvat e per la Slovenia parteciperà alla prova del downhill. Non è alta, ha occhi azzurri e ciglia curatissime. Corre in una squadra privata («I manage my own team») ma non si mette tra le favorite definendosi realista.
In attesa della prova iridata del Team Relay, prova generale del cross-country, notiamo l’iraniana Faranak Partoazar: sotto il casco ha i capelli raccolti e coperti, come vuole l’ershad. Si ferma per gonfiare una gomma al box americano, ma sul rock garden – una ventina di metri scoscesi nei quali si rimbalza sulle pietre – cade rovinosamente. Riprende la bici, sorride a tutti quelli che vogliono aiutarla, la porta su a spinta: vuole riprovare quel segmento. Ha uno sguardo fiducioso e concentrato e alla seconda volta trova la linea giusta, sulla sinistra, dove le rocce tendono meno trappole.

Il Team Relay, dicevamo. Dopo aver passato l’estate a vedere staffette in cui i vari atleti si passano un testimone (atletica leggera) o non si toccano proprio (nuoto), fa impressione notare come, per dare il là al proprio compagno di squadra, oggi basta toccarlo. In ogni modo, con qualunque grado di forza: chi finisce il giro passa a sinistra delle transenne, manata a chi sta dall’altra parte e via, si parte.
La prima e l’ultima frazione italiana, firmate da Luca Braidot e Juri Zanotti, sono di altissimo livello, il resto un po’ meno. Una staffettista, poco prima di partire, chiede a un membro dello staff italiano «oh ma dove siamo?». La verità, nonostante i tecnici facciano un ottimo lavoro nel tentare di rimanere positivi, è che siamo indietro.

Là davanti c’è la Francia, che dopo cinque staffettisti ha circa un minuto di vantaggio e il suo pedone migliore, il campione del mondo di cross-country in carica Jordan Sarrou, parte per ultimo. Quando arriva sul traguardo è bellissimo: non ha nemmeno una ruga di fatica sul volto.

Foto: Michele Mondini


Nonostante tutto

Niente male Luca Colnaghi che in queste condizioni oggi ha sprintato al Tour de l'Avenir e ha rischiato pure di vincere. Francamente se lo meriterebbe pure dopo tutto quello che ha passato negli ultimi anni: un'altalena di situazioni da far venire il capogiro, tra squadre che lo mettono sotto contratto e chiudono ancora prima di aprire, vittorie al Giro Under che lo rilanciano, e poi una squalifica con assoluzione e riabilitazione.
Si va forte in questi giorni al Tour de l'Avenir, si cade, perlopiù: maledetto ciclismo con la sua imprevedibilità. A farne le spese, tra gli altri, Ayuso, il grande favorito: caduto e ritirato, malconcio e sanguinante; Umba, il piccolo puncheur che corre in Italia con Gianni Savio, si è rotto un braccio: pare abbia colpito uno spartitraffico.

E che dire di Ben Turner. Il talento inglese, il primo giorno di gara, dopo 5 km ha colpito con violenza un cartello: fratture multiple al volto con il rischio di perdere un occhio - ora rientrato. «Ti alleni con un obiettivo e poi dopo nemmeno dieci minuti di gara finisce tutto. Per fortuna avevo il casco che mi ha salvato la vita».

Oggi, tra ritiri e mancate partenze il conto dei corridori fuori dalla corsa ammonta a tredici, ma fra questi non c'è Colnaghi che forse un pensierino negativo lo avrà anche avuto ma ha tenuto duro nonostante le botte e si è lanciato allo sprint.

«Considerando la brutta caduta che mi ha quasi messo fuori dai giochi due giorni fa, le botte, escoriazioni ovunque, il poco sonno, il morale un po' giù, forse, nonostante tutto, devo ammettere che son contento di questo terzo posto» ha scritto sui suoi profili social, poco fa.

Terzo, dietro due olandesi che in questi giorni stanno facendo la controparte al maschile delle dominatrici orange del ciclismo femminile, monopolizzando podi e maglie di leader. Nonostante tutto, come direbbe lui, un buon risultato. E domani un altro bel giorno per riprovarci.


La Transibérica e il rispetto per la fatica

Il cielo di Bilbao era impazzito il 14 agosto, come a prendere a schiaffi chiunque vi si trovasse sotto: pioggia fitta, vento, nuvole nere e sole. Bruno Ferraro era lì per partire per la Transibérica, gara di ultracycling attraverso la penisola iberica. Qualche mese prima, Bruno si era rotto la clavicola cadendo in bicicletta e, quel giorno, si accontentava di partire perché aveva temuto di non arrivare proprio sotto le bizze di quel cielo che fissa l'oceano.

La partenza è alle ventuno nella piazza del museo Guggenheim. Ad attendere gli iscritti circa tremila chilometri. Al dislivello si prova a non pensare, fa quasi paura. «Mi è sempre piaciuto guardarmi attorno - racconta Bruno - e non ci ho mai rinunciato anche quando ho gareggiato. Credo sia uno spreco, se si ha la fortuna di pedalare». Così di Bilbao ritorna subito la parte vecchia della città e il fiume che l'attraversa. Di ogni passaggio in un luogo, Bruno ha custodito qualcosa in più della fatica.

 

Devono trascorrere ben ventidue ore per arrivare al Mont Caro, a sud della Catalogna. «La vegetazione si dirada e l'ossigeno viene meno. La cima è a 1.441 metri, ma potresti pensare di essere a oltre duemila metri». Fa caldo e le falesie che si stagliano ai fianchi di Ferraro accrescono la sensazione di soffocamento. La scelta, però, è chiara: «Ho deciso che non mi sarei mai fermato a dormire prima di una salita. Meglio partire in pianura al mattino e faticare di più la sera». A Ordesa, la luce del tramonto rimpalla sui minerali delle rocce e confonde. «L'ultimo tratto era su terra, ghiaia. Ricordava il Colle delle Finestre. L'aria era quella dei Pirenei, le gambe iniziavano a chiedere tregua».

Il Deserto di Bardenas Reales arriva a mezzogiorno del giorno seguente. «In Spagna l'escursione termica è molto elevata. Di notte si sta bene e al mattino l'afa è tollerabile, qualche tempo dopo sarebbe stato impossibile pedalare in mezzo a quelle guglie di sabbia e argilla che ti seccano la gola solo a guardarle». Dopo Albarracìn, “un borgo toscano trapiantato in Spagna”, Bruno arriva alla Sierra De Guadarrama. «Avevo prenotato una camera a Segovia: sono arrivato dopo la mezzanotte e sette ore a pedalare all'insù, dovevo dormire. Prima di ripartire ho fatto un giro nel centro di Segovia, circa venti minuti». Verso il confine portoghese, si sale a Peña de Francia. «Sembrava il Mont Ventoux. C'era solo la luna a rischiarare i contorni di un monastero in cima. Pedalare di notte è una scoperta».
Bruno fa rifornimento dalle stazioni di servizio e dai benzinai, solo tramezzini: per un giorno ne servono quattro. «Bastava il sapore del formaggio di capra per darmi coraggio o il profumo dei pomodori accanto alla fesa di tacchino per risollevarmi il morale. In avventure di questo tipo scopri che basta ben poco». Da lì non manca molto. El Morredero “è un trampolino pronto per lanciare una navicella nello spazio”, la salita più dura che Ferraro abbia mai visto. «Rampe da togliere il fiato e pochi tornanti. Ho abbassato la testa per non vedere. Dall'altro versante, le ombre delle pale eoliche che si accostavano alla luna sembravano quasi la sceneggiatura di un film di fantascienza».

I laghi di Covadonga, in Asturia, sono l'ultimo sforzo, prima di tornare a scendere verso Bilbao. «Il primo cartello lo si vede a ottanta chilometri dalla città: è un'illusione. I continui saliscendi sono velenosissimi. Ero quarto, dietro di me c'era Simon de Schutter ma ormai non poteva più riprendermi. Non mi sembrava vero». Sono passati più di sette giorni, è domenica 22 agosto. A vincere è Ulrich Bartholomos, un ragazzo che sorride anche quando è stremato.

C'è una morale particolare in questi uomini della fatica. Justinas Leveika, lituano, arriva terzo e a Bruno dice subito che senza quelle due ore di sonno in più lo avrebbe ripreso. «Gli ho detto che rispetto la fatica e che non lo avrei mai superato a così poco dal traguardo. Mi sarei accostato al suo fanalino e saremmo arrivati assieme. Terzo o quarto non cambia nulla, il rispetto, invece, fa sempre la differenza».
Bruno, stasera, atterrerà in Italia e tornerà a guardarsi in giro, con calma, serenità, cercando di ricordare ogni dettaglio. In fondo, è questo a contare.

Foto: Transiberica


Chris Froome e i leoni da tastiera

Nei giorni scorsi Chris Froome ha pubblicato sul suo canale YouTube un video per raccontare l'esperienza all'ultimo Tour e tra le varie cose ha voluto prendere posizione sui sempre più numerosi e violenti attacchi che gli atleti subiscono da parte del pubblico dei social network.

Abbiamo deciso di riproporre i punti salienti del suo discorso, che condividiamo nel suo senso e nelle sue finalità.

«Dopo la fine del Tour de France mi sono preso qualche giorno di pausa perché avevo davvero bisogno di staccare. Dopo l’incidente del primo giorno è stato molto pesante per me portare a termine la corsa; ci siamo scontrati a più di 60 km/h: c’erano corridori e biciclette sparse ovunque, io ho sbattuto violentemente la parte alta della coscia contro qualcosa, credo fosse la bici di un altro corridore e il dolore era talmente forte da non riuscire nemmeno ad alzarmi in piedi e permettere ai soccorritori di aiutarmi a tornare in sella. Nonostante questo, sentivo che per me era fondamentale terminare il Tour de France, anche se pieno di lividi e con il dolore alle ossa che mi sono portato fino a Parigi; dopo tutto quello che mi era successo avevo bisogno di mettere quei chilometri nelle gambe e sono orgoglioso di esserci riuscito.
L’aspetto che mi ha colpito di più di questo Tour de France è stato il sostegno del pubblico: mai, neppure negli anni in cui ho portato la maglia gialla fino a Parigi o lottavo per riuscirci, la gente mi aveva sostenuto in questo modo. Nonostante fossi per la maggior parte del tempo in fondo al gruppo, le persone non smettevano di incitarmi, di spronarmi e di farmi sentire la loro vicinanza e il loro affetto. Avere il loro incoraggiamento mi ha aiutato a non mollare e per questo mi sento di ringraziarli di cuore.

Proprio questo sostegno da parte delle persone in un momento molto difficile per me mi ha fatto riflettere su un tema di cui hanno parlato alcuni atleti durante le Olimpiadi e che penso sia di fondamentale importanza, ovvero l’impatto che le eccessive critiche hanno sulla serenità psicologica ed in definitiva sulla salute mentale degli atleti.
A livello generale pare ci sia l’aspettativa, da parte del pubblico, di trovarsi di fronte non a delle persone normali, seppur eccellenti nel loro sport, ma a dei veri e propri extraterrestri in grado di reggere qualsiasi tipo di pressione e di attacco. Io credo che questo sia profondamente sbagliato perché non tutti gli atleti riescono a gestire questo tipo di stress.
Ci sono sempre più atleti che soffrono a causa di quello che gli utenti dei social network scrivono su di loro; i social media consentono a chiunque di sedersi dietro a uno schermo e insultare un atleta, con un linguaggio che le persone non si permetterebbero mai di avere se incontrassero lo stesso atleta, la stessa persona, per strada o al supermercato.
Io sono convinto che essere un atleta significhi lavorare duro per dimostrare le proprie capacità sportive nelle corse e negli eventi, ma non è incluso anche il fatto di avere questo carico ulteriore di energia per sopportare questo tipo di pressioni e di critiche, spesso eccessive e gratuite.

Quello che vorrei dire alle persone è di pensarci due volte prima di scaricare il loro odio e insultare o criticare ferocemente un atleta. Siamo tutti qua fuori per dare il meglio di noi, per ottenere i risultati migliori possibili quando rappresentiamo il nostro Paese o il nostro team. Provate a mettervi al nostro posto e magari abbiate un po’ più di pazienza quando non risultiamo all’altezza delle vostre aspettative, perché i primi a dispiacersi e a soffrire se i risultati non arrivano siamo proprio noi atleti».

Foto: Bettini


La sfida a Pogačar viene dal Nord

Il ciclismo del nord Europa vive, senza ombra di dubbio, il momento migliore della propria storia. A vittorie sporadiche e a volte isolate, nell'arco dei decenni, fa seguito un vivaio sempre più prolifico e di qualità da cui attingere.
Chiariamo: ciclismo del nord non con riferimento a Belgio e Olanda, ma ancora più su, Danimarca e Norvegia per la precisione.
I risultati dei danesi, recenti, sono sotto gli occhi di tutti, dal Mondiale di Pedersen all'esplosione di Vingegaard, passando per le monumento di Fuglsang e il Fiandre di Asgreen fino alla definitiva maturazione di corridori come Cort Nielsen, di recente vincitore di una tappa alla Vuelta, e diversi risultati di peso qua e là. E tanto altro arriverà grazie a interessanti giovani in rampa di lancio.
In una direzione simile (verso il vertice) si muove la Norvegia, che ai soliti noti (vedi Kristoff, e dove Hushovd e Arvesen sono stati un po' pionieri di questa nuova generazione, tanto che Arvesen ora è direttore sportivo della squadra norvegese UNO X-Pro Cycling Team, compagine emergente del ciclismo mondiale) affianca alcuni fra i maggiori talenti da seguire a livello assoluto: Foss, Leknessund e da quest'anno anche Tobias Halland Johannessen.
Il giovane "norge" Tobias, grazie anche all'aiuto del gemello Anders, è stato l'autentico dominatore del Tour de l'Avenir, concluso, pochi minuti fa, con due vittorie di tappa (che per la Norvegia diventano cinque su dieci se contiamo quella di Anders e le due di Wærenskjold) e la vittoria nella classifica generale, conquistata davanti a due corridori già presenti nel mondo del professionismo: lo spagnolo Carlos Rodriguez (INEOS Grenadiers) e l'italiano Filippo Zana (Bardiani). Rodriguez che oggi sfiora un'impresa clamorosa, rimontando 2'11 dei 2'18'' che aveva di distacco, con una fuga solitaria di quasi 50 km.
Tobias Halland Johannessen (per farla più breve: THJ), corridore esplosivo più che scalatore puro, è alla sua prima vera e propria stagione su strada dove si è diviso tra squadra Continental e Professional; arriva da mountain bike e ciclocross, vive vicino a Oslo e in alta montagna non si è mai praticamente testato: alla conquista del Tour de l'Avenir mette vicino anche il podio al Giro Under 23 alle spalle di quel fenomeno che porta il nome di Ayuso.
Nelle scorse settimane, THJ ha prolungato di tre anni il contratto con la Uno X Pro Cycling Team, la squadra, si diceva, rivelazione, della stagione, che a suon di investimenti vuole crescere a dismisura facendosi portavoce del movimento nordico.
In pochi anni, UNO X ha creato due squadre - prima la Continental, poi quella Professional - e ha lanciato diversi corridori sia norvegesi che danesi (i già citati Foss e Leknessund, ma anche Hindsgaul, il campione europeo U23 Hvideberg, il vice campione olimpico su pista Larsen, e poi Andersen, Wærenskjold, eccetera), si è messa in grande evidenza in diverse corse in Belgio, dal 2022 avrà la sua squadra femminile (già chiesta la licenza per far parte del Women's World Tour) e dal 2023 l'idea è chiara: Uno X vorrà entrare nel mondo del WT.
Uno X che lo scorso anno ha tesserato simbolicamente Johannes Klæbo, il fondista più forte del mondo.
Nella giornata di ieri, poi, al termine della fatica fatta sulle Alpi francesi dai ragazzi del Tour de l'Avenir, il CEO di Uno X, Vegar Kulset, tra il serio e il faceto (ma nemmeno troppo) scriveva così su Twitter: «Uno X Mobility (progetto fondato proprio da Kulset e improntato a diverse soluzioni per la mobilità sostenibile N.d.A.) e Uno X Pro Cycling Team invitano LEGO™ a unirsi con i propri mattoncini all'avventura norvegese-danese. Vingegaard e i fratelli Halland Johannessen nella stessa squadra potrebbero diventare dei seri avversari per Pogačar in un paio di anni».
Il vento del nord spira e sembra davvero fare sul serio.


Quanto bene vogliamo a Damiano caruso?

Il cuore dell’Andalusia è terra secca, fatta di salite aspre, poca vegetazione, sole a picco sulla testa. E a fine agosto fa un caldo terribile. È terreno per imboscate e alla partenza da Puerto Lumbreras l’atmosfera è di quelle tese. Almeno tre della banda Ineos pronti ad attaccare Roglic. Manca solo la musichetta da western. Luogo designato per lo scontro: l’Alto de Velefique, salita durissima che conduce al traguardo.
Ma c’è qualcuno che se ne frega dei progetti degli altri, viene da Ragusa e si chiama Damiano Caruso. Da quelle parti non è meno secco e aspro l'ambiente d'estate. Parte con un gruppetto, con Bardet, Majka e Amezqueta, tra gli altri, sulle prime rampe del secondo colle, l’Alto Collado Venta Luisa. Poi in un tratto di falsopiano a metà salita rompe gli indugi e quando mancano 71 km all’arrivo, se ne va #alvento, da solo. Pedala bene Damiano, sembra quello del Giro. Regolare, ritmo altissimo. Passa per primo sul Venta Luisa, inizia la discesa e non molla. Il suo vantaggio sul gruppo della Roja supera i 5 minuti. La Jumbo non spinge troppo e Damiano ne approfitta.

Il caldo non da tregua. Quando attacca la rampa dell’Alto de le Velefique pedala bene, rilancia la sua Merida, maglietta aperta e bocca spalancata. Damiano è a tutta. Fa caldissimo, è secco tutto attorno. Probabilmente Damiano si sente come in Sicilia, quando pedalava da ragazzo. Lo aspettano 11 km e mezzo da fare fuori soglia. E mentre lui conta le gocce di sudore che cadono sull'asflato, ecco iniziare le sparatorie dietro di lui: Adam Yates prima, risponde Roglic, rientra Bernal. Ci riprova Carapaz, ma niente da fare. Ancora un allungo di Yates. Cedono tutti, cede anche Bernal. Se ne vanno Mas e Roglic, a tutta. Una serie di attacchi feroci. Ma Damiano è là davanti, sempre a maglietta aperta, sempre a bocca spalancata. E pedala sempre bene. E fa sempre un caldo maledetto.

Nessuno sconto per lui, alle sue spalle se le danno di santa ragione. Ma Damiano vede l’ultimo chilometro e a quel punto non molla più. Fa in tempo a chiudersi la maglietta, ad esultare come avesse segnato un goal in finale, a tagliare il traguardo con più di un minuto su Primoz Roglic ed Eric Mas.

Una giornata di ciclismo eroico, un Damiano Caruso d’annata, che sembra migliorare sempre di più. Maglia a pois di miglior scalatore da portare con orgoglio.
«Sono andato via da solo a 71 km dall'arrivo perché ho sentito che la Ineos voleva chiudere il buco e allora mi sono sentito di provarci da solo» ha detto subito dopo la gara.

Quanto ti vogliamo bene, Damiano!