Un campione, un fuoriclasse

Oggi è una di quelle giornate che elevano i campioni a fuoriclasse. Dove si sposta l'asticella, dove resti con il fiato sospeso e vedi Evenepoel e ti chiedi: "e ora chi lo batte?". Dove vedi i polpacci di van Aert tiratissimi che pensi nessuno possa fermarlo; il belga spinto dal pubblico di casa in delirio a ogni curva e sembra che oggi si possa finalmente festeggiare con lui. E invece.
Oggi non era facile. Per nessuno. Perché la rassegna iridata iniziava nel peggiore dei modi: ieri Chris Anker Sørensen, ex professionista e inviato ai Mondiali come commentatore tecnico per una televisione danese, ha perso la vita sulle strade del Belgio, pedalando, come ha sempre fatto e come ha voluto fare ieri, fino al tragico epilogo quando un furgone lo ha investito.
Ma c'è stata la corsa, oggi: si sa, va così. E allora per un attimo dimentichiamo quei pensieri, anche se quel groppo in gola resterà per sempre, lasciandoci il fragore del mare a Knokke-Heist che si infrange alle spalle dei corridori in partenza.

Lasciamoci alle spalle i due intertempi dove van Aert era sempre davanti a Ganna. Chiudiamo gli occhi e pensiamo solo a quel rettilineo finale a Bruges, a quella spinta ideale, all'exploit, al "ce la fa, non ce la fa", al conto alla rovescia fatto a mente, ai riferimenti presi meno di un minuto prima, a quella maglia blu, a quelle gambe enormi, a quei 5 secondi e 37 centesimi che sono bastati a Filippo Ganna per diventare di nuovo campione del mondo della cronometro. Quei pochi secondi che bastano per cancellare il nome di campione di fianco a quello di Ganna e cambiarlo con il termine: fuoriclasse.

Lasciamoci alle spalle l'urlo strozzato dei belgi: le cronometro non vanno mai come si pensa. Scrivi un codice e premi invio, ma dall'altra parte c'è un firewall che ti blocca.
Lasciamoci alle spalle tutto e godiamo per Filippo Ganna, che corre la sua miglior cronometro della carriera, nel giorno più importante (l'ennesimo giorno più importante) della sua carriera. Lui che si lascia alle spalle quella piccola delusione all'Europeo o le critiche per quella medaglia sfumata a Tokyo.

Lasciamoci alle spalle tutto e anche questo racconto un po' a metà; perché se si potesse, oggi la medaglia d'oro la meriterebbero pure van Aert ed Evenepoel. Perché per chi scende dalla bici è stato un urlo un po' strozzato, negli occhi di tutti i protagonisti una gioia non goduta fino in fondo, un groppo in gola che rimarrà per sempre, perché avremmo sognato una giornata diversa questa mattina, anche se l'epilogo, per certi egoistici versi, ha funzionato come un palliativo.

Lasciamoci alle spalle tutto, almeno per un attimo. Tranne quella maglia iridata che, diciamolo francamente, su Ganna sta terribilmente bene.


Il viaggio di Luis Ángel

Luis Ángel Maté ci scrive intorno a mezzogiorno: «Sono a casa con il bambino e sta dormendo. Vi scrivo più tardi, così non lo svegliamo». Passano pochi minuti e a squillare è il nostro telefono.
Luis sa bene che vogliamo parlare de “La Vuelta de la Vuelta" ovvero del suo ritorno in Andalusia in bicicletta da Santiago de Compostela, luogo di conclusione della Vuelta e meta di pellegrinaggio per molte famiglie. Ci sono voluti sei giorni e poco più di mille chilometri. Nel frattempo, Luis è tornato a respirare.
«Eravamo alla Parigi-Nizza, dopo una tappa stressante, al traguardo c'era la solita folle corsa alle borracce, ai massaggiatori e ai pullman. Le nostre corse non finiscono al traguardo, bisogna saperlo. Sfrecciai accanto a Michele Scarponi e lui mi richiamò: “Luis, fermati”. Michele mi fissò e prese un forte respiro invitandomi a fare lo stesso. Scoppiammo a ridere, però, come spesso accadeva con lui, dietro la battuta c'era una profonda serietà. Mi invitò a prendermi il tempo di respirare, almeno all'arrivo. Non siamo abituati a farlo». Da quel giorno, Luis ci ha pensato spesso e, soprattutto, ci ha pensato quando ha immaginato questo ritorno in bicicletta da Santiago de Compostela.
«Se guardassi solo al mio lavoro, non riconoscerei più la bicicletta, non saprei più perché l'ho scelta e perché, ancora oggi, quando qualcuno mi dice che la bicicletta è il mio lavoro rispondo che è molto di più». Per un professionista il ciclismo diventa stress, watt da sviluppare, allenamenti, grammi da perdere, pasti contati e ansia di controllare sulla bilancia che il peso non sia aumentato. Luis Ángel non può adeguarsi a questa idea, per questo ha progettato questo viaggio. «Voglio raccontare alle persone una storia diversa. Voglio dire che la bicicletta è il primo mezzo di emancipazione di un bambino, che in bicicletta hai il diritto di avere tempo per guardarti attorno e vedere ciò che ti circonda, che è un modo di vivere, incontrare persone e comunicare. Tutte le informazioni e l'attenzione alla performance di cui il ciclismo si è circondato hanno aiutato a formare altri campioni, ma siamo certi che non ci si perda più di quanto si guadagni? Noi non ci rendiamo nemmeno conto di dove siamo».
Maté ne è certo. Ha attraversato tutta la Spagna e sa descriverne i minimi dettagli: dal verde e dall'umidità della Galizia e del nord del Portogallo, al clima mediterraneo del sud della Spagna. Il percorso, Luis l'ha studiato nei dettagli, prima di partire: «Normalmente quando viaggiamo scegliamo il percorso più comodo o più veloce per andare da un punto all'altro. In questo modo mi sono allontanato dalle strade conosciute e ho percorso stradine nascoste, spesso deserte perché nemmeno la gente del posto, presa dalla quotidianità, sa che esistono. Ci sono monumenti e viste rare».
E poi la possibilità di fermarsi a un bar e raccontare al barista da dove si viene e dove si sta andando. Di pranzare e cenare senza fretta o di visitare un piccolo negozio locale. Di vedere ragazzi e ragazze che in Portogallo cercano strade nuove da percorrere. Qualche volta di chiacchierare con un contadino. «Ho capito che è proprio vero: tutto quello che ho, me lo ha dato la bicicletta. Non il ciclismo, non il mio lavoro, la bicicletta pura e semplice attraverso cui sto imparando a conoscere il mondo e anche me stesso».
Luis ha viaggiato con Antonio Ortiz, ex professionista di Mountain Bike e suo amico da tempo. «Quando fatichi senti la necessità di avere vicino qualcuno che ti conosca e ti capisca. Qualcuno con cui parlare di tutto o di niente alla sera». Magari insieme a qualcuno che hai appena conosciuto perché la bicicletta è anche un mezzo di socializzazione. «Non importa che tu parta da solo o con amici. Lungo la strada conoscerai persone e storie». E, ci viene da dire, la vera ricchezza sta tutta qui.


A piccoli passi: intervista a Filippo Zana

Mancavano pochi chilometri all'arrivo della prova in linea per Under 23 dell'Europeo di Trento, quando Filippo Zana rompeva gli indugi. In Piazza del Duomo la gente si affollava davanti al mega schermo e si sentiva il boato della folla: tutto questo per aver visto le maglia azzurre davanti.

Il suo scatto faceva saltare la corsa come quando lo spumante cerca di uscire dalla bottiglia. Gli spagnoli, fin lì padroni del gruppo come cattivoni di un b-movie, si facevano da parte. Davanti restavano in sette.

«Baroncini e io stavamo bene» mi racconta Zana giorni dopo, soddisfatto per come è andata la corsa, nonostante il piazzamento finale: Baroncini 2° e Zana 6°. «Ho fatto il forcing: meno corridori fossimo rimasti lì davanti e più possibilità di medaglia avremmo avuto. Io non sono molto veloce, sono un passista scalatore e amo fare la differenza su salite di massimo 6/7 chilometri. Ho provato di nuovo la sortita arrivando in città. Alla fine non è andata male, una medaglia che ci dà fiducia per il futuro».
A sorprendere tutti Thibau Nys, che fa base nel ciclocross, ma mostra da tempo eccellenti qualità su strada e allo sprint. «Fare ciclocross ti dà qualcosa in più - afferma sempre Zana – l'ho praticato da ragazzo e quest'inverno tornerò anche io a sporcarmi nel fango. Parteciperò a qualche corsa per fare fatica e prendere freddo; per affinare il motore quell'ora che fai fuori soglia è tutto un guadagno quando riprenderai l'attività su strada».

Arriva dalla provincia di Vicenza, Zana, fa parte di quella classe '99 che tanto pare possa dare al ciclismo italiano. I suoi genitori hanno una birreria e lui ama i cavalli. Un doppio binomio: birra-fatica, cavalli-ciclismo che pare scritto apposta. «In realtà io sono la pecora nera degli Zana: da noi ha sempre dominato il calcio. Però i cavalli sono stati una parte della nostra famiglia. Me ne sono comprato uno qualche anno fa con i risparmi, le paghette, i premi vinti da ragazzo. Si chiama Vior; l'ho preso che si chiamava così e gli ho lasciato il nome: dicono che ai cavalli non vada cambiato». D'inverno, racconta, va nei boschi a fare legna per mantenere la forma fisica e Vior è sempre con lui.

Se scrivesse un programma politico, il suo impegno avrebbe un motto: "A piccoli passi". Dice di aver scelto di restare un altro anno in Bardiani-CSF-Faizanè perché è la realtà perfetta per uno come lui, perché se avrà la possibilità di passare nel World Tour vorrà essere pronto al 101% e qui trova lo spazio giusto per crescere con calma. «Se fai il passo più lungo della gamba rischi di bruciarti. Guarda tutti quei ragazzi che passano da junior a professionisti. Te lo puoi permettere se sei Evenepoel, ma se non sei un fenomeno cosa fai? Sbagli un anno e rimbalzi indietro e magari nemmeno una Professional ti vuole più».

Sesto all'Europeo, terzo all'Avenir, vincitore della classifica finale del Sazka Tour in Repubblica Ceca, risultati tutti ottenuti con la nazionale Under 23: la maglia azzurra lo gratifica, e lui vuole portarla in alto. «A inizio stagione con Amadori (il CT della nazionale Under 23, N.d.A.) ci siamo parlati e abbiamo programmato la stagione così. Che dite, secondo voi ho ripagato la fiducia?».
Vorrebbe far scorrere tutto il possibile sotto le sue ruote: ama la Roubaix, sogna la classifica in un Grande Giro («devo migliorare a cronometro e sulle salite lunghe, ma mi sono accorto di avere buone doti di recupero»), ma quest'anno l'infatuazione più grande è arrivata alla Strade Bianche. «Sullo sterrato e sugli strappi mi sono divertito un mondo. Certo che van der Poel ha fatto quello che voleva».

Racconta di non avere un proprio punto di riferimento in gruppo, ma di captare segreti da ognuno: «Ma soprattutto cerco gli errori per non commetterne in futuro io stesso». Si allena guardando watt e dati, ma in gara si lascia trasportare dalle sensazioni. Se pensa al ciclismo pensa al sacrificio, agli allenamenti, al “non si molla mai un metro”: freddo, pioggia o caldo che sia. Ma soprattutto, sostiene, il massimo è la soddisfazione che ti dà una vittoria. E prima o poi, a piccoli passi, arriverà anche quella importante.

Foto: Bettini


"Finalmente ho vinto"

Seduto sulla poltroncina - in (finta?) pelle grigia - che spetta al leader della cronometro dello Skoda Tour Luxembourg, Cattaneo ha visto passare avversari su avversari: gli finivano regolarmente dietro e nemmeno di poco.

Ha pennellato e spinto. Ha tagliato il traguardo ed era primo, ha battuto il danese Skjelmose, vent'anni, una carriera davanti che gli sorriderà dopo un passato che lo ha visto fare tempi à la Remco e poi l'ombra di una squalifica per doping.

Ma Cattaneo, dicevamo. Si è seduto su quella specie di trono di plastica. Ha visto scorrere i tempi: nessuno gli si avvicinava nemmeno lontanamente, e quando è stato il turno del compagno di squadra Almeida, quello che fino a ieri pomeriggio ha difeso come fosse una porta da tenere inviolata, ha tremato.

Abbiamo, poco sportivamente, ma ogni tanto capita, sperato che Almeida tirasse con meno precisione una curva, che rilanciasse con meno forza, perché i due erano vicinissimi. Quando ha chiuso la sua prova, il verdetto: due secondi di ritardo per il portoghese. O ribaltando: due secondi di vantaggio per l'italiano. Quanto bastava per vedere Cattaneo incredulo, felice e poi commosso. «Finalmente ho vinto». Le sue prime parole.

Cattaneo corre tra i professionisti ormai da quasi dieci anni. Prima promessa, poi dimenticato. Con Savio si è rilanciato e ora, in maglia Quick Step, vive una seconda parte di carriera che dà il giusto tributo al suo talento.

A Trento lui c'era a farsi in quattro per la Nazionale; quando è con la squadra di club l'atteggiamento non cambia: lo chiami e lui interpreta al meglio il suo compito.
Al Tour ha sfiorato la vittoria che oggi è arrivata. Ieri per Modolo erano tre anni e mezzo di digiuno, oggi per Cattaneo poco più di due. Ha vinto poco (tre volte) e proprio per questo ci pareva giusto omaggiarlo.

Foto: Bettini


La lezione di Mattia De Marchi a Badlands

Pochi giorni dopo Badlands, a Rimini, un ragazzo ha avvicinato Mattia De Marchi solo per dirgli che gli sarebbe piaciuto essere come lui. «Gli ho risposto che poteva farlo: avrebbe dovuto solo allenare la mente più che il fisico ma poteva fare tutto ciò che avevo fatto io. Molte persone si fanno intimorire dall'idea di non essere all'altezza; sono sciocchezze. Un viaggio come questo lo consiglierei a chiunque. Non come ciclista, come uomo». De Marchi è certo che la sua vittoria in terra di Spagna, i 750 chilometri percorsi in 43 ore e 30 minuti siano solo una parte del racconto che Badlands merita. «Per esempio, vorrei raccontare che mi mangio ancora le mani per i tratti percorsi di notte, perché avrei voluto vedere quei paesaggi e giuro che ci tornerò. Non solo: potrei dire del rammarico che ho per essermi perso anche la paura del vuoto, le vertigini che ho da sempre, in un sottile tratto di deserto a precipizio nel nulla. Sono andato così veloce perché non me ne sono reso conto, altrimenti probabilmente mi sarei attaccato alla roccia per diversi minuti. È il prezzo da pagare per aver vinto».
Ora che è trascorso qualche giorno dal suo arrivo a Granada si rende conto di quanto Badlands sia stata la gara che non immaginava. Una gara assurda che a pochi chilometri dal centro ti porta in un deserto, poi in una palude e ancora in un deserto, fino al mare e di nuovo alla città. Una gara che ti fa scoprire la Spagna nascosta, quella silenziosa, dai contorni mai visti. «Immaginavo Girona o Barcellona e ad ogni curva mi chiedevo: e adesso dove finiremo? Discese tecniche, sterrati, salite ripide e chilometri nel nulla». Dopo tante gare, la gara in cui ha sconfitto una delle sue fobie: pedalare da solo la prima notte di una corsa. «Non so perché, l'idea mi ha sempre terrorizzato. Al tramonto ero a ruota di Sebastian, un ragazzo tedesco. Ero tranquillo, quando lui ha iniziato a staccarsi. Pur di non restare solo, l'ho anche aspettato: non arrivava. Non è stato facile ma ci sono riuscito. Ho superato una paura che altrimenti non avrei mai superato».
Il segreto, in fondo, non è così complesso. Mattia De Marchi lo dice a tutti, ciclisti e non: nei momenti difficili bisogna ricordarsi sempre che succederà qualcosa che cambierà la situazione. A lui è accaduto l'ultima notte. «Avrei dovuto arrivare intorno all'una, in realtà sono arrivato dopo le cinque. A un certo punto non volevo più pedalare, ero talmente stanco da non sentirmela più. Ha cambiato tutto un messaggio di Federico Damiani, compagno in Enough Cycling. Sono bastate poche parole rivolte al gruppo di Enough: “Guardate cosa sta facendo Mattia! Ci vorrà tempo prima di capire la grandezza di quello che ha realizzato”. È tornato il coraggio, è tornata la forza per pedalare».
Quella forza che è anche piacere. Mattia ne parlava pochi giorni fa con Alessandro De Marchi, suo cugino. «Alessandro ha ancora tanta fame, perché nessuno gli ha mai regalato nulla. Forse anche per questo ha capito che bisogna imparare a godersi la bicicletta senza aver sempre e solo la testa sulle tabelle. Altrimenti ti stanchi, ti stufi e smetti. I professionisti devono capire che liberare la testa fa bene come allenare il fisico». Anche a Mattia De Marchi capita di non aver voglia di allenarsi, allora prende la bicicletta da gravel e va sugli sterrati, nei boschi: basta staccare per qualche ora dalle strade d'asfalto, dalle auto e ci si rigenera. In autunno ha programmato un viaggio di due giorni proprio con Alessandro. «Ho provato anche a portare dei giovani ciclisti con me. Tornano a vedere il mondo e si stupiscono, così faccio notare che quelle cose ci sono sempre state, erano loro a non avere occhi per guardarle».
Anche per questo Mattia si sente fortunato, lui che ha sempre voluto essere un esempio e ci è riuscito. «Nelle fasi finali di Badlands ero rimasto senza cibo, aspettavo di arrivare in un paese per recuperare qualcosa. Ad un certo punto, in fondo a una strada bianca, noto un furgone rosso e una famiglia che mi chiama. Mi avevano preparato un panino e dell'acqua fresca. Avrò perso qualche minuto ma ho voluto fermarmi con loro. Capisci? In Spagna, qualcuno teneva così tanto a incontrarmi che è venuto a cercarmi in gara. È stupendo». Sì, perché come dice Mattia De Marchi, alla fine, tutto torna.


Anche se ti chiami Valverde

Il finale di stagione di Alejandro Valverde non era quello che lui si immaginava, quello che i suoi tifosi sognavano, quello che i suoi colleghi pensavano - o temevano - vedendolo (in crescita di condizione) da vicino, alla Vuelta.

Poi una caduta, brutta, anzi, orrenda. In testa al gruppo a fare le linee giuste, ma di conserva, come gli sarà accaduto centinaia di migliaia di volte; la bici prende una buca, le mani perdono il controllo per un attimo, decisivo, del manubrio. Valverde va giù e, come ha raccontato pochi giorni fa sul sito ufficiale di Fizik: «La cosa che più mi ha colpito, dopo aver rivisto le immagini, è stato rendermi conto di quanto poco spazio fosse rimasto tra il punto in cui mi sono fermato e il burrone. L'incidente è stato molto peggio di quello che sembrava». Gli è andata male, sì, gli poteva persino andare peggio.

Il finale di stagione di Valverde era stato prestampato con caratteri diversi: senza quella caduta avrebbe continuato a tirare forte in Spagna, forse una vittoria (l'ultima l'ha conquistata al Delfinato e gli mancava da quasi due anni), l'avrebbe trovata; senza forse lo avremmo visto al via del mondiale nelle Fiandre, quelle Fiandre dove lui ha corso così poche volte che ci rimarrà un po' di amaro in bocca. Il percorso gli piace, ha detto, ma diplomaticamente sostiene come i suoi compagni siano più adatti di lui. La realtà è che cadere a 25 o a 30 anni è un conto, quando ti succede a 41 recuperare diventa più difficile, anche se ti chiami Valverde.

E quel Mondiale, strano dirlo, non vedrà Valverde per la sesta volta in vent'anni di carriera. Quel Mondiale che lo ha visto vincere nel 2018 e altre sei volte sul podio. E a quel Mondiale non ci sarà nemmeno Rojas che in quella caduta alla Vuelta lo ha soccorso. «Ho visto la sua bici - racconta Rojas, amico e compagno di squadra da una vita, dal 2006, di Valverde - e poi ho visto Alejandro che cercava di risalire tenendosi la spalla. “Fa male, molto male” mi ripeteva. La prima sensazione che ho provato è stato dolore per lui: perché prima di essere un grande corridore, Alejandro è un grande amico».

E lui, proprio perché si chiama Valverde, nonostante la caduta e la frattura, pochi giorni dopo era già in sella e lo rivedremo a breve. Niente Mondiale, sarà sulle strade italiane con poco allenamento però con l'obiettivo, difficile, ma mai scommettere contro gente come Valverde, di provare a vincere quella corsa che ancora gli manca: il Giro di Lombardia, che lo ha visto tre volte secondo. A Bergamo chiuderà la sua stagione, ma non la sua infinita carriera.

Foto: © PHOTOGOMEZSPORT2019


La responsabilità di Anna

Non era facile fare quello che ha fatto Anna van der Breggen. I più diranno che i campioni sono capaci di questo: certo, ma resta difficile. Rinunciare ai Campionati Europei di Trento e alla prova a cronometro mondiale perché non al top della forma, all'ultima stagione da professionista, è un gesto che richiede una responsabilità che, talvolta, sotto la pressione di chi sei e di chi tutti si aspettano tu sia, rischia di sfuggire. Se poi fai parte di quella macchina da guerra che è la nazionale olandese ancora di più.

«Correre una cronometro è qualcosa che puoi fare solo se sei al 100% concentrata sull’obiettivo e con una grande motivazione. Una motivazione che io non ho più perché mi sento già molto soddisfatta per le cronometro che ho corso nella mia carriera e mi sono posta degli obiettivi diversi per questi Mondiali: per la mia ultima volta voglio essere io ad aiutare le ragazze che in questi anni hanno sempre corso per me, per aiutarmi a raggiungere i miei traguardi» van der Breggen lo ha spiegato sui suoi canali social proprio negli scorsi giorni.
Van der Breggen, lo aveva raccontato in un’intervista a Velonews qualche mese fa, già da tempo meditava sulla possibilità di ritirarsi dalle corse per allargare la famiglia: «È stato molto confortante vedere l’esempio di atlete come Marta Bastianelli e Lizzie Deignan, che sono tornate a correre dopo aver avuto un figlio. Per gli uomini questo tipo di problema non si pone: possono tranquillamente portare avanti la loro carriera da professionisti e avere dei figli. Per noi donne si tratta di una questione molto importante, qualcosa che ti cambia la vita. Certo si può sempre pensare di tornare a correre, dopo aver avuto un bambino, ma occorre avere una grande motivazione per farlo. In questo momento per me il desiderio di maternità, soprattutto considerando che mio marito è di nove anni più vecchio di me, è il fattore determinante per cui ho deciso di ritirarmi dal ciclismo professionistico».

Il suo obiettivo, appena scesa di sella, sarà quello di aiutare a crescere una nuova generazione di cicliste, infatti Anna vorrebbe salire in ammiraglia come direttore sportivo nel Team SD Worx, la squadra con cui corre ormai da cinque anni. Anche se in realtà la van der Breggen pare già ragionare da direttore sportivo in corsa, basterebbe vedere il lavoro che ha fatto quest'anno alla Liegi-Bastogne-Liegi per Demi Vollering che poi ha vinto quella Liegi. Nessuno spazio per il protagonismo anche in quell'ultima volta.

Apparentemente timida, indecifrabile, non ha mai temuto di sbilanciarsi parlando di ciclismo. Tempo fa ha placato gli entusiasmi per Cherie Pridham, prima direttore sportivo donna nel WorldTour maschile. Non perché non apprezzi Pridham ma perché ritiene che uomini e donne abbiano competenze e capacità diverse e sia un errore esaltare qualcuno solo sulla base del sesso. Così Pridham non è speciale perché donna, lo è perché competente e perché smentisce quella voce, tipicamente maschilista, secondo cui le donne non capirebbero di ciclismo o di sport. Ed è proprio perché le donne di sport capiscono che auspicano un continuo mescolarsi di competenze e di persone, uomini o donne che siano, nel ciclismo, per vederlo crescere forte.

Foto: Bettini


Il motore della polivalenza

Tra i vari spunti nati durante l'Europeo appena concluso, il discorso sulla multidisciplinarità che coinvolge i protagonisti di (quasi) tutte le gare ha un'importanza centrale.
Volendo stringere il campo ai medagliati fa impressione come molti di loro abbiano in comune la pratica di altre discipline, o un passato che non si è cibato di sola strada e in alcuni casi nemmeno di solo ciclismo. Su 36 medaglie assegnate nelle prove individuali ben 22 affondano le radici altrove - e da questo dato abbiamo tenuto fuori Evenepoel, ex calciatore.
Si parla di corridori di elevata caratura, senza ombra di dubbio, ma un talento non è tale se non è coltivato e allenato, ed è così che grazie al lavoro al di fuori della strada (ciclocross, mtb, pista) migliora l'esplosività, la capacità di esprimersi fuori soglia, l'abilità nella guida del mezzo, il colpo d'occhio, persino la qualità della pedalata. E la capacità di portare nelle varie specialità ciò che si è assorbito altrove, e in alcuni casi non per forza solo nel ciclismo, è un'importante tema di dibattito.

Il podio della gara juniores maschile è formata da due che in inverno praticano ciclocross: Grégoire e Martinez. Se Grégoire - un predestinato assoluto del ciclismo mondiale - sceglie il fango più per allenarsi in inverno e non perdere il colpo di pedale, Martinez è attualmente vice campione nazionale nel cx tra gli junior. Carente ancora nella capacità di guida, è proprio insistendo nel fuoristrada che riuscirà a limare i propri difetti. Dello stesso avviso è Uijtdebroeks (argento nella crono), da molti considerato il più grande talento tra i 2003: l'anno prossimo salterà direttamente da junior al World Tour, ma prima di farlo ha già detto che gareggerà nel ciclocross per migliorare le sue capacità di guida.

In mezzo ai due francesi è arrivato il norvegese Hagenes, uno che d'inverno fa sci di fondo e lo ha fatto anche a buon livello tanto da dominare una gara di coppa di Norvegia lo scorso anno. Alla domanda se continuerà con entrambe le attività ci ha risposto che l'impegno su strada con la Jumbo-Visma Development Team l'anno prossimo sarà centrale, ma che d'inverno continuerà a infilarsi gli sci ai piedi per mantenere la forma. E aggiungiamo noi: per staccare, rilassarsi e poi tornare a divertirsi in bici, altro punto focale del discorso.
L'ungherese Vas tra tutti è l'esempio più eclatante: il suo motore è impressionante, le sue caratteristiche sono un vero trattato sulla multidisciplinarità. Vas è stata battuta da Zanardi (a proposito: campionessa europea su pista), ma poche settimane fa arrivava quarta a Tokyo nella prova di Cross Country di MTB dietro le dominatrici svizzere, mentre in inverno è una che, seppur giovanissima, un po' alla volta mette con profitto la sua bici in mezzo o davanti alle élite olandesi.

Due terzi del podio della crono maschile under 23 arriva da pista (Price-Pejtersen, Danimarca) e ciclocross (Waerenskjold, Norvegia). Se il danese continua l'attività nei velodromi, il norvegese, dopo aver vinto diversi titoli nazionali, ora nel ciclocross si cimenta più per tenersi allenato che per un fatto puramente agonistico.

Il podio della crono maschile non ha bisogno certo di presentazione: Ganna e Küng su pista hanno giusto qualche risultato importante, mentre tra le donne élite, Reusser (oro nella crono) arriva da Triathlon (come anche Segaert, oro nella crono junior maschile) e Bike Marathon, Muzic (bronzo in linea) la puoi trovare gareggiare, a volte, nel ciclocross.

Una delle vittorie più imprevedibili della rassegna europea, quella di Thibau Nys, nasce proprio dalle brughiere, infangate o polverose a seconda del momento.
Di che leggenda del CX parliamo quando parliamo di suo padre Sven inutile dirlo, ma anche Thibau qualcosa ha fatto prima di sorprendere tutti nello sprint ristretto davanti al Duomo, incuriosendoci non tanto per la vittoria - fosse veloce si sapeva - quanto per essere riuscito a rimanere attaccato ai migliori: i limiti del classe 2002 belga sono ancora inesplorati e su strada potrà fare una carriera ancora superiore di quella accennata nel fuoristrada. Che continuerà comunque a praticare con profitto portando poi sull'asfalto tutto quello che avrà assorbito e imparato.

E ancora: Ivanchenko, oro nella crono junior femminile, ha dominato i recenti mondiali su pista di categoria con tre ori; Niedermaier, seconda, arriva dallo Sci Alpinismo, un mondo che continua a frequentare, mentre Uijen, terza, si difende bene anche su pista, come Le Huitouze, bronzo nella crono junior maschile, e Brennauer, bronzo élite femminile sempre contro il tempo.
Infine van Dijk, un oro e due argenti a Trento e un palmarès da favola a cronometro, ha iniziato la sua carriera sportiva nello speed skating praticato a buon livello - e buon livello per lo speed skating in Olanda significa avere una certa rilevanza.

 

Vuol dire poco o nulla, magari, in taluni casi, soprattutto se parliamo di attività svolte in età precoce, ma è evidente come questi motori abbiano iniziato a svilupparsi non solo lontano dalla strada, ma anche dalle due ruote. E così, all'apparenza, sembra male non faccia.

Anche l'Italia mostra qualcosa in ambito multidisciplinarità, pur rimanendo la pista ciò che dà maggiore impulso al movimento. Zanardi l'abbiamo già nominata, mentre Guazzini, campionessa europea a cronometro tra le Under 23 punta a diventare una big assoluta nei velodromi. E ci siamo fermati alle medaglie altrimenti l'elenco sarebbe sterminato.
Si iniziano anche a intravedere anche alcuni giovanissimi che partendo da esperienze maturate nel ciclocross (tre nomi: Realini, Masciarelli e Olivo, il quale va forte anche su pista) provano a ottenere risultati anche su strada. Qualcosa si muove anche da noi ed è arrivato il momento di investire ulteriormente e di spingere sull'acceleratore della polivalenza (che significa proprio il contrario dell'abbandonare un'attività a discapito dell'altra, soprattutto nel caso del ciclocross) che come abbiamo visto, può dare solo buoni frutti.

Foto: Bettini


Per tornare in sella

Per Tom Dumoulin non ci voleva, ma la strada non guarda in faccia a nessuno. Qualche giorno fa, un incidente mentre era in allenamento sulle Ardenne ha messo a repentaglio il proseguimento della stagione che per la farfalla di Maastricht sembra davvero terminata qui.

Siamo certi che la frattura al polso, che pure è la causa dell'infrangersi degli obiettivi di fine stagione, dopo che un automobilista l’ha investito, sia, in fondo, il minore dei problemi per Dumoulin che sin da subito si è mostrato molto deluso. «Ero appena tornato, non ci voleva» ha detto e qui dentro c'è già tutto ciò che non serve dire ma che è necessario capire, soprattutto in un mondo come quello sportivo che richiede freneticamente risultati. Il dolore vero è essere nuovamente fermi, bloccati.

A gennaio, Tom Dumoulin aveva scelto di fermarsi a tempo indeterminato «per scrollarsi una zavorra dalle spalle, per capire cosa effettivamente volesse, per scoprire chi fosse davvero l’uomo Dumoulin» spogliato della maschera di campione e di ciclista esemplare. Era tornato con i suoi tempi, in punta di piedi. Era tornato soprattutto a osservare il ciclismo da bordo strada come un tifoso qualunque prima di tornare a far girare i pedali, quasi gli servisse avere una visione d'insieme del proprio sport, quella che si perde quando si è a tutta, concentrati sulla linea d'arrivo. Gli era servito, se è vero che, al rientro, al Tour de Suisse, a giugno, aveva ben figurato e, poco dopo, aveva vinto il titolo nazionale a cronometro.

Mesi in cui tutto era sospeso, perché non basta tornare, bisogna esserne convinti e quando c'è di mezzo la passione, quella che porta un ciclista a scegliere il proprio mestiere, si può sbagliare, si può tornare per paura, non per volontà. Poi il progetto Tokyo 2020 e quell'argento che vale oro. Abbiamo tirato tutti un sospiro di sollievo quando l'abbiamo sentito dire: «Ho avuto seri dubbi, ma ora so che voglio continuare: penso ancora che il ciclismo sia uno sport molto bello». Perché il ciclismo ha bisogno di persone come Dumoulin.

Veniva dal Tour del Benelux in cui era tornato a mettersi in mostra in buone condizioni di forma. Questa caduta non gli permetterà di partecipare alle gare di fine stagione e al Mondiale, gare in cui sperava, ma siamo certi che lo restituirà al suo mondo ancora più forte. Perché a cadere, sia realmente che metaforicamente, si impara col tempo. Come a medicarsi le ferite e ripartire. Tom Dumoulin ha imparato e oggi è certo di una cosa: tutte le cadute gli hanno solo insegnato come rialzarsi. Per tornare in piedi, anzi in sella.
Foto: Bettini


Sopra Trento e poi brindare - TRENTINO 2021 - DAY 6

Sopra Trento c'è questo paesino, Povo, che ci arrivi a piedi uscendo dal centro storico. Si sale ed è facile all'apparenza anche a farlo in bici, eppure, giro dopo giro, mette a nudo forma e difetti dei corridori in gara. I margini, poi, sono accecanti: tifosi ovunque come una di quelle feste che ti aspetti in Belgio e che invece ritrovi in un paesino sopra Trento.
In cima, una decina di minuti prima del passaggio della corsa, arriva un bimbo vestito da piccolo ciclista. Spinge un rapportino, mulina le gambe e tutta quelle gente in festa lo acclama come una gradinata esultante: siamo sul punto più alto e «dopo la curva spiana». Mai modo di dire fu appropriato.

È il tratto più duro, dove Evenepoel cercherà in tutti i modi senza riuscirci di staccare Colbrelli, e lì è parcheggiato da un po' di giorni un camper con una bandiera rossocrociata.
Appartiene ad amici e parenti di Gino Mäder, ma quando passa il gruppo è un colpo al cuore per mamma e sorella: lui è già staccato. Fa nulla, la corsa è esplosa, la corsa è folle, la corsa è corsa. Mäder fa segno "tutto ok" con la mano ai suoi tifosi. Pochi chilometri dopo si ritirerà.

La gente acclama chiunque e comunque. Fan club si sprecano: Sagan, Aleotti, un gettonatissimo Moscon, Colbrelli. Ci sono anche i tifosi di Covi con parrucche tricolori che mi raccontano di seguire tutte le edizioni del Mondiale di ciclismo dagli anni '80. «Tranne quelle che disputano oltre oceano» specificano. E in una di queste gare è nato pure un gemellaggio con un fan club norvegese.

Oggi Covi non è presente, è riserva, ma sperano di vederlo al Mondiale, la forma c'è mi dicono: nei giorni scorsi ha battuto il suo record personale su una salita test vicino casa. Loro comunque in Belgio, Covi o non Covi, ci saranno, ci tengono a precisare sorseggiando una birra in lattina: «Perché Taino è sempre presente».

Un signore con la maglia della nazionale di rugby australiana mi racconta di aver preso le ferie per venire a godersi lo spettacolo di oggi. Sua moglie lo raggiungerà domani e si fermeranno una settimana da queste parti. È belga, figlio di immigrati, dice di essere di origini della Val di Cembra, e secondo lui l'atmosfera che si respira qui oggi è come quella della Freccia o della Liegi.
Pogačar, quando passa, fa una boccaccia verso telefoni che lo filmano come fossero occhi usciti da un racconto di fantascienza; il giro successivo proverà un allungo portando via una fuga che si rivelerà quasi decisiva. Gli islandesi chiudono la corsa, ma non solo. Dopo qualche passaggio seguiranno il camion scopa salendo insieme ad alcune ragazze della loro squadra. Sorrisi, borracce distribuite, foto con i tifosi: il ciclismo è pure questo.

Il ciclismo è tavolini imbanditi di ogni sorta di cibo: ci sono insalate di riso, panini, salsiccia, patatine, ma soprattutto birra e vino. Tendoni con impianti stereo: alcuni mettono musica, altri sparano la Rai a tutto volume e si sente la voce di Ballan che racconta quello che sta succedendo in gara.

In mattinata invece c'è silenzio in zona pullman, un po' di tensione nell'aria. Sonny appare nervoso, me lo rivela un membro del suo fan club. È suo papà, che quando lo vede passare spiega: «lo vedo tirato, forse un po' troppo teso». Poche ore dopo, quando la corsa prenderà la piega giusta per lui, scaricherà quell'impressione di tensione dominando la volata a due con Remco. Diventa campione europeo accompagnato dal boato di tutta Piazza del Duomo.

Alla partenza, invece, un tifoso ferma Trentin e gli dice: «oggi si brinda», in barba alla scaramanzia. Trentin risponde, sorridendo: «brindiamo due volte, stamattina, ok. Ma l'importante sarà farlo stasera».

Foto: Bettini