Tour, infortuni e sofferenza: lo stallo alla messicana di Chris Froome

Soffrire, soffrire, soffrire. Scritto tre volte ma forse non basta. Quanta banalità all'apparenza - sembra sempre la solita solfa – dietro questa parola ripetuta come una nenia, ma è da qui, all'occorrenza, che parte ogni corridore.

D'altra parte cos'è il ciclismo se non atletismo, fantasia e sofferenza? Se vi siete mai allenati in bicicletta sapete di cosa parliamo, se avete mai provato a mettere vicino qualche chilometro magari condendolo con qualche salita, magari avete beccato la pioggia, magari vi siete districati su un tratto di lastricato, non potete che immedesimarvi in questo stereotipo.
Il soffrire per un corridore professionista con un passato importante è spesso finalizzato al tornare (o a provare) a essere quello che è stato, riassaporare la vittoria o arrivarci vicino. Soffrire per superare quella soglia, arrivare in cima e dire: ce l'ho fatta. Maledire – a tratti - quei momenti in cui si sale in bici, o si sceglie quel mestiere; ripensare al passato, gettare le basi nel presente per ricostruire il futuro, anche quando ti analizzi e pensi: ho quasi trentasette primavere, dove posso andare in un ciclismo dove si vincono i grandi giri appena superati i vent'anni?
Chris Froome riparte proprio da questi pensieri, si riempie d'orgoglio raccontando la propria sofferenza. Parole sue, testuali. La sofferenza l'ha messa al centro del discorso in una lunga intervista rilasciata a Cyclingnews nei giorni scorsi.

«La sofferenza - racconta Froome che tra 2011 e 2018 ha vinto 4 Tour, 2 Vuelta, 1 Giro - ha dato una nuova prospettiva alla mia carriera e alla mia vita». Dice che soffrire gli ha fatto capire quanto debba essere grato per i privilegi che ha vissuto e vive; che vuole sfruttare questa seconda occasione che ha avuto come ciclista professionista. «So che molti non lo capiscono – aggiunge - e questo mi dà ancora più forza per tornare al mio vecchio livello»
E riparte da una sorta di stallo alla messicana, cliché cinematografico che dagli anni '90 è stato riproposto in maniera assidua da Quentin Tarantino: Froome, infortuni, sofferenza e Tour de France come quattro temerari dal linguaggio un po' sboccato e magari dalla battuta piccante e fuori luogo e che si puntano la pistola addosso, l'uno verso l'altro, e sembra non ci sia modo di uscirne.

Ma ci crede Froome. Ha intenzione di uscirne. Che ce la faccia o no, ha intenzione di fuggire come Mr Pink o Mr Blonde, col bottino in mano o come voleva una certa parte di narrativa messicana: con i soldi o con la vita. «Non c'è alcuna garanzia di poter vincere un altro Tour, dopo quello che è successo e quello che ho passato. Lo so, ma rimane il mio obiettivo. Questo è ciò che mi spinge a dare il 100%» riflette il corridore della Israel.

Da giugno 2019 a giugno 2021, dall'infortunio al Delfinato alla preparazione verso il ritorno al Tour, racconta di aver sentito finalmente la gamba ferita mettersi alla pari con tutto il resto del corpo. «L'incidente nella prima tappa di quest'anno però ha nuovamente ribaltato i miei piani. Non fossimo stati al Tour mi sarei ritirato. Ero ferito dall'anca fino al gluteo, sentivo tanto dolore fino alle costole». E invece ha stretto i denti, fino all'ultimo giorno: «Arrivare a Parigi è stata una vittoria personale fondamentale».

E quei giorni di gara a fine stagione sono diventati 68, mica pochi. Da questi numeri riparte come base per essere al meglio in vista del futuro.
Froome insiste e insisterà per provare a vincere di nuovo il Tour (sic): «Nel 2022, l'anno dopo, o l'anno dopo non importa. Ciò che conta è che continuerò a lavorare fino a quando non mi renderò conto che non sarà più possibile. Questo è ciò che mi fa salire sulla mia bici ogni giorno».

Questo è ciò che intende Froome per uscire dallo stallo in cui si trova. Questo è ciò che lo spinge ogni giorno a superare i limiti imposti dalla sofferenza. Ce la farà?

Foto: A.S.O./Bruno Bade


Mai voltarsi indietro: intervista a Thomas Gloag

Thomas “Tom” Gloag è così giovane che voglia di guardare indietro quasi non ne ha. Non ammette rimpianti e anzi, quando gli chiediamo se il 4° posto all'ultimo Giro Under 23 (a soli 12" dal podio) gli ha lasciato l'amaro in bocca, si scuote: «Ho fatto la miglior gara possibile, più di così non potevo».
È uno dei maggiori talenti del ciclismo britannico: fisico e caratteristiche da scalatore («anche se vorrei avere spalle più strette per essere maggiormente aerodinamico»), di quelli che quando scatta sa fare male e con limiti tutti da scoprire.

Ha 20 anni compiuti da poco, è nato a Londra ed è cresciuto nel velodromo locale di Herne Hill: «Ho iniziato a pedalarci a 8 anni e non ho più smesso! Le ore passate lì dentro e il supporto dei volontari che ci davano una mano sono state fondamentali per farmi diventare un corridore».

Corre tra i dilettanti con la Trinity Racing, «almeno fino al Giro Under 23 del 2022, poi si vedrà» e negli anni ha avuto modo di stare a fianco di un certo Pidcock. Viene da chiederci se l'anno prossimo le loro strade a un certo punto si incroceranno di nuovo, magari proprio in maglia Ineos. Lui non ne fa accenno.

Di Pidcock ciò che lo colpisce di più è la competitività: «Quando si mette in testa una cosa farà di tutto per ottenerla e poi con lui, sceso dalla bici non ti annoi mai»; mentre nella stagione appena passata ha diviso i galloni di capitano con l'irlandese Ben Healy, corridore che esalta il pubblico per le doti da attaccante e che dal 2022 lo vedremo in maglia EF. «Quando lo trovi nella starting list stai per certo che non sarà mai una gara normale». I due divideranno la stanza a Girona da quest'inverno.

E la normalità Gloag prova ad aggirarla: nel periodo della pandemia si è trasferito in Colombia, vivendo a casa della famiglia Chaves. «Ho corso in Spagna per un breve periodo e sono diventato grande amico di Brayan (il fratello di Esteban, NdA). Quando è scoppiato il Covid tra stare fermo a casa e allenarmi ho scelto la seconda possibilità e sono andato a vivere in Colombia da loro, allenandomi con loro, perdendo la testa per l'incredibile disponibilità, gentilezza e dolcezza del popolo colombiano: hanno fatto di tutto per farmi sentire a casa».

E che posti meravigliosi in mezzo alle Ande! «Per allenarsi, poi, è favoloso: altura, montagne di 50 km e poi magari 200 km senza una salita. E il cibo? Mai mangiata frutta o verdura così buona e fresca». E resta così legato ai due corridori colombiani tanto da voler contribuire in qualche modo alla "Fundación Esteban Chaves", ente benefico creato per aiutare bambini in difficoltà.
Se deve pensare a un riferimento gli viene in mente Bradley Wiggins: «Anche lui è cresciuto nel velodromo di Herne e i suoi successi sono stati il catalizzatore per l'esplosione del ciclismo britannico», mentre la Corsa per lui è: «Il Tour de France ovviamente: l'apice della carriera per ogni corridore».

Tifa Arsenal («ma sono anni difficili per noi tifosi gunners») e Phoenix Suns, e uno sgarro che farebbe volentieri è il waffle caldo belga con gelato alla menta e topping al cioccolato. «Ma la vita di un corridore è fatta di sacrifici: a volte non riuscire a fare tutto quello che si vorrebbe per un ragazzo della mia età è complicato».

Dice che non c'è un vero e proprio segreto se oggi il ciclismo britannico si trova all'apice della sua ascesa: «ma il supporto da parte della federazione a livello locale e i loro investimenti danno la possibilità di scovare talenti e quei talenti hanno la possibilità di allenarsi e poi emergere».

4° al Giro Under, ritirato all'Avenir quando era in piena corsa per il podio, 3° alla Ronde de l'Isard con una vittoria di tappa in salita a Plateau de Beille, se guarda alla stagione appena trascorsa si vede cresciuto, mentalmente e fisicamente, ma convinto di avere ancora ampi margini: «Non eccello ancora in nulla e questo mi dà la motivazione per spingere a tutta e continuare a migliorarmi. Anche perché in fondo a guardare indietro non si guadagna proprio nulla».


«Vi ricordate da dove siamo partiti?» Intervista a Diego Bragato

«Vi ricordate da dove siamo partiti?», è questa la prima cosa che ha detto Filippo Ganna ai suoi compagni, dopo essere sceso dal podio dell’inseguimento a squadre.

Diego Bragato, preparatore degli azzurri dell'Italpista, ricorda bene quella serata in taxi, in Messico, dopo una prova di Coppa del Mondo in cui l'Italia non era entrata nelle prime otto. Accanto a lui c'era Liam Bertazzo: «Gli dissi che continuando a lavorare così saremmo andati lontano, mi guardò e: “Ma va! Dove vuoi che andiamo”. Ne abbiamo parlato l'altra sera».

Bragato lo ammette: all'inizio ci credevano solo i tecnici, la squadra sognava, ma la concretezza dei numeri era unicamente nelle mani dei preparatori. «Guardavamo gli altri quartetti e ci chiedevamo come facessero ad andare così veloci. I test, però, parlavano chiaro: avevamo i 1400-1600 watt che servivano per fare un buon lancio e anche i 500 watt che servivano per gestire una buona prova. Era solo questione di lavorarci, anno dopo anno perché risultati del genere li costruisci solo negli anni. Prima si parlava di qualche decimo di miglioramento, oggi si parla dell'Italia ai vertici alle Olimpiadi e ai Mondiali».

Diego Bragato sostiene che la marcia in più degli azzurri sia quella di essersi sempre sentiti tutti sulla stessa barca, anche quando le cose non andavano. «Marco Villa ha fatto sentire tutti parte integrante di questo gruppo. Nessuno si è mai sentito ai margini. Tutti i ragazzi sanno di contare. Spesso ci andiamo a scontrare con nazioni che si dedicano interamente alla pista, i nostri atleti, invece, sono atleti che vengono dall'attività su strada, come Ganna, Viviani, Consonni e lo stesso Milan. Questo accresce il valore dei risultati».

A Roubaix, non c'era troppa pressione, ma l'idea era chiara a tutti: «Non ce lo siamo detti apertamente, ma era evidente, che nessun risultato, tranne la vittoria, avrebbe potuto soddisfarci». Per questo, prima della finale con la Francia, Marco Villa ha chiamato a colloquio i ragazzi del quartetto. «La semifinale con la Gran Bretagna era filata anche troppo liscia. Intendiamoci: abbiamo fatto tutto quello che dovevamo fare, una prestazione ottimale. Solo che abbiamo vinto facilmente e, quando succede così, c'è sempre il rischio di rilassarsi. Villa ha ribadito che bisognava mantenere la stessa pressione, la stessa tensione contro la Francia». La Francia, tra l'altro, non aveva partecipato agli Europei, per preparare al meglio i Mondiali in casa. «Abbiamo stilato una tabella molto esigente. Sapevamo che la loro grinta avrebbe potuto metterci in difficoltà all'inizio, ma eravamo altrettanto certi che non avrebbero potuto reggere quel ritmo per tutta la gara. Ad un certo punto avrebbero ceduto e noi avremmo aumentato. E poi noi, alla fine, avevamo Ganna». Al posto di Lamon, che ha disputato le qualifiche, ha gareggiato Bertazzo: «Perché lo meritava avendo visto le Olimpiadi da bordo pista e perché era pronto. Le scelte di Villa sono sempre date da requisiti esclusivamente prestazionali. Per questo i ragazzi le accettano. Hanno visto dove possono portare».

Insieme a loro, la dedizione al lavoro di Simone Consonni, «Un ragazzo che sta crescendo sempre più, uno di quelli su cui puoi fare sicuro affidamento perché è schietto: se dice di essere pronto, dà tutto» e la freschezza di Jonathan Milan. «È il più giovane, come pensieri, come età, come atteggiamenti. Osserva sempre Ganna, lo segue e cerca di imitarlo, di imparare da lui. Filippo scherza su questa cosa, però la apprezza e prova a insegnargli tutto ciò che sa. Senza troppe parole, solo mostrandogli come fare. Nell'inseguimento individuale, Ganna era in finale per il bronzo, Milan per l'oro, avrebbero potuto essere avversari, eppure fino all'ultimo Filippo lo ha affiancato dandogli alcuni suggerimenti». Proprio quella finale per il terzo posto, a detta di Bragato, sarà molto utile a Ganna. «Ha mostrato professionalità fino all'ultimo, mentalmente era stanco, forse era anche una gara di troppo dopo la sua stagione, eppure ha dato tutto. I primi giri della semifinale sono stati un incidente di percorso, Ganna va più veloce anche in allenamento. È venuta fuori la sua umanità, è bello così». Nel post gara, Filippo Ganna ha parlato con Bragato: «Facile lottare per la maglia iridata, io lotto per il bronzo che è l'unica medaglia che mi manca. A parte gli scherzi: o esco di qui a piedi o con il record del mondo». Diego Bragato è restato ammirato dalla sua prova: «Avesse finito la finale, avrebbe frantumato il record del mondo. Secondo me, è partito anche troppo veloce».

Dall'altro versante, Marco Villa parlava con Milan: «Era entusiasta, sentiva, però, il peso di essere nella finale in cui tutti aspettavano Ganna. A bordo pista lo abbiamo applaudito. Marco glielo ha detto subito: “Comunque vada, devi essere fiero di ciò che hai fatto”».

Quando sabato sono scesi in pista Consonni e Scartezzini per la madison, Villa non c'era, e a bordo pista era appostato Bragato. La prima evidenza è rassicurante: Consonni e Morkøv, Italia e Danimarca, sono i più forti. L'Italia, però, non si monta la testa: fa una gara intelligente, guadagna punti agli sprint, guadagna due giri e «A posteriori, per un cambio sbagliato, non ci siamo giocati l'oro». Bragato va subito da Consonni a fine gara: «Questa è la dimostrazione evidente che non siamo da oro solo nel quartetto, possiamo essere a quel livello in qualunque disciplina, se continuiamo a lavorare». Il rammarico c'è, soprattutto per Scartezzini perché «Per come ha lavorato avrebbe meritato anche lui una maglia iridata. Michele sa che serve pazienza, il suo idolo è Viviani: quanto tempo ha aspettato Elia?».

Con Viviani, Bragato ha un rapporto particolare. Il veronese è stato il primo a volerlo come preparatore, anche su strada, quando Diego era giovanissimo e questa fiducia, per Bragato, ha voluto dire molto. La fiducia di Viviani ha, poi, portato la fiducia dell'intero gruppo. «La gamba c'era. I risultati di Scratch e Tempo Race, nell'Omnium lo testimoniano. Però Elia non era tranquillo, da questo sono venuti alcuni errori tecnico-tattici, per esempio quello che lo ha portato a sbagliare nell'eliminazione. Quella è stata la scossa per andarsi a prendere il podio. Nella corsa a punti, abbiamo visto il vero Viviani che, in queste prove, resta uno dei primi tre al mondo».

Bragato, sabato sera, lo affianca all'uscita del velodromo: «L'eliminazione di domani non sarà una gara singola per noi, sarà una continuazione della prova di oggi. Riparti da qui. Gli alti e bassi ci sono stati e li hai superati, ora puoi prenderti quella maglia iridata». Glielo ha ripetuto più volte, Bragato. Anche la mattina a colazione. Oggi, tuttavia, ha la certezza che anche un altro passaggio sia stato fondamentale: "Mentre Elia faceva i rulli, c'erano Scartezzini e Consonni che si stavano prendendo l'argento. Vederli lottare così lo ha aiutato. Vedere il gruppo di cui è capitano giocarsela così gli ha dato forza».

Bragato conosce sin troppo bene Viviani, sa che ha bisogno di tranquillità. Così prima della gara torna a parlarci: «Elia Viviani resta un campione qualunque cosa accada adesso. Fallo per te, Elia. Solo per te e per nessun altro. Vai a prenderti quella maglia perché te la meriti». Il finale lo sappiamo tutti. «Gli ultimi due anni sono stati difficili per Viviani. Quando le Olimpiadi sono state rimandate, ha sofferto molto. Sapevamo a cosa stavamo lavorando, ma dovevamo aspettare. “Abbi pazienza- gli dicevo- farai una grande Olimpiade e torneranno anche le vittorie su strada”. È successo proprio così».


Le azzurre ai Mondiali di Roubaix

Vogliamo parlarvi di storia, mentre i Mondiali di Roubaix si sono avviati alla conclusione. Anzi, per la precisione, vogliamo parlarvi di storia e di storie.
Solo poche ore fa, Elisa Balsamo ha riscritto la sua storia personale nella disciplina dell'Omnium. Non era facile dopo l'Olimpiade, dopo quella caduta spaventosa nelle fasi conclusive dello scratch all'Izu Velodrome. Se ci pensiamo, rivediamo la bicicletta dell'egiziana Zayed Ahmed che le passa letteralmente sopra, mentre lei sbatte su quel legno a oltre 55 chilometri orari. Poco il danno a livello fisico, ma quella caduta ha fatto male alla ragazza di Cuneo. Ha fatto male perché l'Olimpiade era attesa, da tanto. Ce lo ha confidato un pomeriggio di febbraio, seduti al centro del velodromo di Montichiari e, si sa, più attendi, più desideri, più la delusione fa male. Così male che, tornata da Tokyo, Elisa non voleva più parlare di bicicletta, di ciclismo. Così male che, forse, nemmeno la vittoria al Mondiale delle Fiandre aveva ricucito quello strappo.
Emotiva, Elisa Balsamo. Quello stato per cui senti tutto più forte, emozioni, delusioni, felicità ma anche tristezza. Lo ha detto al termine della gara. "Dovevo superare la caduta di Tokyo. Questa medaglia è importante". Ancora di più proprio per il suo carattere che avrebbe potuto bloccarla, forse, invece è stata la spinta in più. Perché ogni cosa ha due facce, anche l'emotività. La sua si è trasformata in freddezza: quando avrebbe potuto giocarsi lo sprint con Archibald nell'eliminazione, invece ha accettato il secondo posto e ha continuato a rosicchiare punti alle avversarie. Quando c'è stata una caduta a pochi centimetri da lei ed è riuscita a tenere lontano quel ricordo, salda, ora più che mai. Persino quando Kopecki le ha soffiato l'argento a pochi giri dal termine. Avrebbe potuto innervosirsi e commettere qualche errore, invece no. Elisa Balsamo conosce la sua storia e sa che va bene così. Va bene il bronzo.
Martina Alzini, Chiara Consonni, Elisa Balsamo e Martina Fidanza conoscono anche la storia. Quella del ciclismo, quella che di tanti piccoli episodi si disinteressa, quella che parla per albi d'oro, statistiche e podi. Non quella che preferiamo, perché senza le storie, quelle singole, la storia sarebbe monca. Per questo sanno di aver fatto qualcosa di grande, qualcosa che viene da lontano, qualcosa che è testimoniato dalla storia e dalle storie. Dalla loro giovane età, dall'incredulità e anche dalla delusione che per qualche attimo ha occupato il loro volto dopo la finale dell'inseguimento con la Germania. Dopo l'argento. E anche quella delusione, del tutto momentanea, è da salvaguardare, perché le porterà a far meglio e meglio dell'argento c'è solo l'oro. Qualche anno fa sarebbe stata utopia, ora parliamo di tempi. Di una finale raggiunta con 4'11''978 contro la Gran Bretagna. Di una finale storica, del nostro miglior risultato in una rassegna iridata che resterà nella storia, quella grande, quella che tutti conoscono.
In quella piccola, invece, assieme al timore di Elisa Balsamo, resteranno le parole tra Chiara Consonni ed il fratello Simone, per farsi coraggio, perché per lei era una prima volta assoluta. Resteranno gli occhi lucidi di Martina Alzini che è riuscita anche a scherzare: "No, mi deve essere entrato qualcosa negli occhi". E Martina Fidanza che scrutava ogni centimetro del podio, quasi a memorizzarlo. Tutti ci auguriamo di ricordarci anche di questo quando fra qualche anno le elogeremo, sul tetto di mondo. Perché sarà anche questo a contare. Oltre all'argento e al bronzo che abbiamo festeggiato in questi Mondiali.


Bardet alla Roc d'Azur

"È arrivato il momento di staccare", il pensiero di molti vedendo il volto affaticato di Romain Bardet, ottavo sul traguardo di Bergamo al Giro di Lombardia. Una gara selettiva, lui protagonista, sì, ma più di contorno, meno di come si aspettava; sentiva le sue gambe che pulsavano al punto giusto, sì, ma allo stesso tempo non rispondevano fino in fondo ai segnali mandati dal suo cervello, scontrandosi tra realtà, desiderio e ambizione. «Nel momento cruciale della corsa ho sentito le gambe di legno».

Ed è stata la fine della stagione - almeno su strada - perché poi, terminata la corsa è salito in macchina in direzione ovest; verso la Provenza, verso il dipartimento del Var, a Fréjus, dalle parti della meravigliosa Roquebrune-sur-Argens. Eh, ma mica per anticipare le vacanze o che - anche se il posto merita.

In testa e nelle gambe, o in quello che rimaneva nel suo serbatoio di energie psicofisiche, Bardet aveva ancora un'idea che si tramutava nell'ultima corsa da disputare: la Roc d'Azur.
Roc d'Azur, ovvero la mitica gara di mountain bike che si corre dal 1984: quella volta al via ci furono 7 partecipanti, mentre il 10 ottobre 2021 nella sfida clou del week end oltre tremila tra uomini e donne a percorrere un tracciato selettivo di quasi 50 km.

Altamente spettacolare la Roc d'Azur, affascinante, con passaggi suggestivi dal mare alla montagna e i suoi punti focali tra il Col Du Bugnon preso d'assalto dai tifosi, Le Fournel con la sua celebre discesa (su internet esiste persino una guida - scritta tra il serio e il faceto - per affrontarla al meglio), estremamente tecnica, e lo spettacolare Sentier des Douaniers che arriva fino in riva al mare.

Ha vinto, per dovere di cronaca va detto, il giovane svizzero Filippo Colombo, in 2h 03'43'', tra i più forti interpreti della mountain bike (12° a Tokyo, 3°al campionato europeo e 9° al mondiale, nonostante la frattura del bacino a maggio, tanto per dire) davanti a un certo Julien Absalon (non ha bisogno di presentazioni, vero?) che la Roc d'Azur l'ha conquistata tre volte.
Spinto dal tantissimo pubblico (ma davvero tanto) lungo la strada, ecco anche la sagoma dai tratti sinuosi e spigolosi, il naso leggermente aquilino, la divisa della DSM, ecco Romain Bardet che nel 2018 alla Roc d'Azur arrivò 102°, anche quella volta si divertì da matti.

«Sono venuto qui perché amo la mountain bike - ha raccontato sorridente e impolverato a fine corsa, vittima anche di un incidente meccanico e con anche qualche graffio sul corpo che non guasta mai quando corri in bicicletta - sono venuto qui perché volevo divertirmi e senza prendere rischi soprattutto in partenza: mica avevo intenzione di passare l'inverno in barella?!»
Il tempo del corridore francese, che legge libri di politica e filosofia, che ama informarsi su temi come immigrazione ed economia, adora il buon vino e che se non fosse diventato un ciclista professionista sarebbe voluto essere un dj oppure uno scrittore, è stato di circa 6 minuti superiore a quello di Colombo e gli è valso l'11° posto. Ma non era l'unica star dello sport transalpino al via: al 439° posto è infatti arrivato Renaud Lavillenie, medaglia d'oro ai Giochi Olimpici di Londra nel 2012. Nel salto con l'asta.
Ora la stagione per Bardet è davvero chiusa, dopo aver rotto il ghiaccio vincendo per la prima volta in carriera fuori dal patrio suolo: prima con una tappa alla Vuelta a Burgos, poi con un'altra alla Vuelta España.

Nel 2022 lo aspettiamo, magari di nuovo al Giro d'Italia, per provare a rompere il ghiaccio pure da noi; non mancheremo di spingerlo certamente, probabilmente non vestiti da uomo di Cro-Magnon come i ragazzi in foto.


Si vince così, nonostante tutto

Cosa hanno fatto Simone Consonni e Michele Scartezzini nella Madison? È una domanda, ma anche un’affermazione. Ce lo chiediamo e lo ripetiamo da diversi minuti. Una prova entusiasmante coronata dalla medaglia d'argento, dietro la Danimarca di due colossi dell'americana, Michael Morkov e Lasse Normann Hansen, e davanti al Belgio di Kenny De Ketele e Robbie Ghys. I nostri due azzurri l'hanno fatta a nazioni altrettanto quotate come Francia e Gran Bretagna. L'hanno fatta anche alla sfortuna, perché la domenica pomeriggio non era iniziata al meglio.

Michele Scartezzini era caduto a terra a pochi giri dalla partenza e ci aveva messo del tempo per tornare in sella. Solo Consonni a girare in pista, a tutta, con gli occhi ovunque e la mente a cosa avrebbe potuto essersi fatto Scartezzini. Il primo respiro di sollievo è stato al suo ritorno in pista, il secondo quando l'abbiamo visto buttarsi negli sprint e lanciare Consonni nei cambi.

Il terzo respiro è felicità. Perché se dopo un inizio di questo tipo si ha la grinta di andare a fare lo sprint e vincerlo vuol dire che, alla fine, non è davvero accaduto nulla. C'è di più: perché la Madison di solito era terreno per la coppia Viviani-Consonni, una coppia rodata, dalla pista e anche dalla squadra che i due hanno condiviso negli ultimi anni. Non era scontato che con Scartezzini il meccanismo funzionasse. È accaduto, a riprova del fatto che c'è una formula vincente in questa nazionale che va oltre i successi: è il gruppo. Scartezzini lo disse in tempi non sospetti: "L'importante è che a Tokyo vadano i migliori. Il resto non conta".

Tenacia, resistenza e astuzia in una miscellanea esplosiva. Come esplosivo è il gesto del cambio, quella mano che prende e rilancia. Gesto di assenso e di equilibrismo, perché le sbandate sono all'ordine di ogni secondo, di ogni vibrazione d'aria. Scartezzini e Consonni che vanno in caccia per guadagnare il giro e prendere venti punti, Scartezzini e Consonni che non vogliono lasciare nulla a Roubaix, così rallentano prima di rientrare, vincono lo sprint e poi chiudono sul gruppo. Primi in classifica, sempre nel vivo della corsa, di una corsa più che mai viva, che sembra addormentarsi qualche istante e poi si risveglia con la suspence che la pista impone, soprattutto quando è sfida di eccellenze.

Il secondo posto è tutto da guadagnare perché si lotta su ogni centimetro. Scartezzini e Consonni sudati, stanchi, con l'acido lattico fin sopra i capelli, che digrignano talmente forte i denti da arrossire di dolore. Scartezzini e Consonni che sulla scia della Danimarca si prendono un altro giro e vanno a sprintare sul finale. Un finale sospeso, come sospesa è la pista, luogo in cui rette e angoli lasciano spazio a linee e curve. La curva, il momento della paura, della perdita di equilibrio, del cambio, talvolta del sorpasso per questi funamboli dei pedali.

Scartezzini e Consonni che salvaguardano il secondo posto. Consonni che a Tokyo aveva avuto problemi prima di questa gara, si era parlato di ansia, di panico. Non stava bene, ma volle scendere in pista. Come andò, lo ricordano tutti. Da oggi, ricorderemo meglio com'è andata questo pomeriggio. Nonostante la caduta, nonostante i ricordi, nonostante la coppia non fosse la solita. Forse proprio per questo. Perché gli esseri umani inseguono la perfezione nei velodromi, ma sanno bene che è utopia. Si migliora, si insiste e poi si vince. Si vince così, nonostante tutto.


Tutta la determinazione di Elia Viviani

Probabilmente non è stato un Omnium perfetto per Elia Viviani. Il valore di quella medaglia di bronzo è tutto in questa affermazione. Certamente non lo è stato se pensiamo che, alla vigilia della corsa a punti, ultima delle quattro prove previste, la sua posizione era più complicata di quanto ci si potesse aspettare. Eppure, la partenza era stata buona: terzo nello scratch, solo ottavo nella tempo race che abbiamo capito essere la prova più ostica per il veronese, Elia era quarto prima dell'eliminazione, perfettamente in linea con le aspettative di medaglia.
Ma l'imprevisto è una tappa ineliminabile nella vita di ogni sportivo e i fuoriclasse sono coloro che riescono a fronteggiarlo al meglio, senza alibi, senza scuse. Lo abbiamo detto più volte: basta poco per essere eliminati, l'eliminazione è una gara che tesse tranelli e li nasconde fra le pieghe del gruppo. Per Elia il tranello scatta per una questione di posizionamento, non di gambe, non di mancanza di condizione. Certo, non è Ethan Hayter che si mette in testa al gruppo e lo trascina per tutti i giri. Ma nessuno glielo chiede. Se la pista è diventata ciò che è diventata per l'Italia, è anche merito suo e di quell'oro a Rio, ormai cinque anni fa. Quasi inumano il britannico, per la forza e la freddezza che lo fa spostare a quattro giri dal termine, accettando un'eliminazione anticipata, che a molti sembra uno spreco, a lui la scelta più intelligente, tanto ha forza nelle gambe. Ma torniamo ad Elia.
Il segreto è lasciarsi un varco per poter sprintare liberamente sulla linea ed evitare di transitare per ultimo. Elia non può farlo perché è chiuso, imbottigliato. Non è padrone del proprio destino, deciso dagli altri che accelerano e lo superano, eliminandolo. Quelle bici, poi, non hanno freni. Solo nono. Ci si poteva aspettare di più? Certamente. Serve qualcosa di eccezionale per tornare sul podio, qualcosa che a tutti sembra lontano. Basterebbe pensare a Tokyo e a come si è preso quel bronzo che rischiava di essere argento. Ma di fronte alle difficoltà tendiamo a scordarci di ciò che è già accaduto. Forse perché non lo crediamo più possibile, forse perché temiamo la smentita o, più banalmente, perché non crederci è più facile che crederci.
È la determinazione che fa la differenza per Viviani. Chi vede quella determinazione si pregusta l'attesa. Non si può sapere se andrà come tutti si augurano. La certezza è che Elia Viviani proverà qualcosa. Lo ha sempre fatto nella sua carriera. Forse a Tokyo stava per rinunciarci e allora serviva Villa. "Cosa sta succedendo, Elia?" e Viviani ha ritrovato le risposte che da tempo non si dava più. Anche ieri Villa gli avrà detto qualcosa, non molto, perché non serve, ci ha confessato il tecnico. Avere fiducia, invece, è indispensabile: intendeva questo Ganna quando ha ringraziato il tecnico per averci creduto anche quando le finali si vedevano da casa, sul divano. Pazienza se qualcuno, nella notte, ha rubato venti biciclette agli azzurri, non ne sapeva niente di fiducia e comprensione, è inutile stare a spiegare.
Villa ci crede, Viviani ci crede. Quando un corridore parte all'attacco nella corsa a punti e conquista un giro, si usa dire che va in caccia. Non ce ne intendiamo di caccia, sappiamo che è anche mimetismo, silenzio, soprattutto attesa. Questa è la corsa a punti di Viviani, che dapprima si vede poco, appare e scompare. Sempre di più, fino a quando battezza la ruota giusta e parte. E quando parte non c'è nulla di diverso da cinque anni fa, siamo tutti ai bordi di quel velodromo, a voltare la testa come bambini increduli quando riprende il gruppo e torna in zona podio oppure quando, a due giri dal termine, si prende la posizione migliore per la volata e sono gli altri a faticare a tenere la sua velocità. Qualche secondo e la certezza: il portoghese Leitão non ha fatto punti, Viviani è bronzo. Ancora sul podio. Ancora nell'omnium.
Hayter è imprendibile, vince per questioni di matematica, ancora prima di vincere. Aaron Gate no e senza quell'errore nell'eliminazione Viviani poteva essere argento. Non crediamo sia questo a fare la differenza. A fare la differenza è il fatto che, ancora una volta, Elia ha dimostrato che fino all'ultimo si può cambiare qualcosa. È vero, non crederci è più facile. Crederci, però, fa la differenza. La fa preferire ciò che può cambiare qualcosa a ciò che lascia tutto uguale. Per questo ci sono i ciclisti, per questo ci sono le biciclette. Per cambiare.


La crescita e l'orgoglio

La giornata era iniziata con una mezza delusione perché, diciamocelo, ci aspettavamo Filippo Ganna in finale per l'inseguimento individuale. Magari in una finale tutta italiana con Jonathan Milan, ve la immaginate? Ma, alla fine cosa puoi dire a Ganna? Qualcosa si può dire: non toccategli l'orgoglio per quella finale mancata, perché si inventerà qualcosa di assurdo. E assurdo, parlando di Ganna, significa incredibile, bello. Basta guardare la prestazione che ha tirato fuori nella finale per il bronzo. Ha raggiunto Claudio Imhof, ha vinto e avrebbe tirato dritto per ribadire che stamattina è stato un errore ma lui, su quei tempi, non si batte. È stato fermato dalla giuria, mentre i compagni al centro della pista invitavano il pubblico alla standing ovation, altrimenti chissà che tempo avrebbe realizzato. Non ufficiale certo, ma è una gran bella risposta. Della classe nemmeno parliamo perché sarebbe scontato.
Erano in attesa Ashton Lambie e Jonathan Milan. Trenta anni contro ventuno, Usa contro Italia, Nebraska contro Friuli Venezia Giulia. I baffoni americani contro i 194 centimetri del ragazzo di Buja. Quei baffi che sembrano uno scherzo all'aerodinamica, quei centimetri che sembrano inconciliabili con l'armonia che Milan mostra su quella sella mentre spinge sul parquet.
I tempi parlavano chiaro: Lambie era favorito. Ex meccanico di biciclette, l'americano, che a forza di averle fra le mani si è deciso a provarle. Era partito con la gravel, poi ha provato la pista. Dalla polvere al velluto del velodromo, lisciato dopo ogni impatto che potrebbe rovinarne la superficie. Si prende la scala per lisciare il legno, perché l'inclinazione è tanta, perché a piedi non sali.
Milan è lì. Ieri ha lanciato il quartetto, oggi si è lanciato, forse anche troppo veloce nelle fasi iniziali. Villa glielo ha detto subito. È rimasto lì, perdeva qualche centesimo ma non naufragava, denti stretti, saldo in sella. Si è scomposto solo nel finale, quando ormai Lambie era lanciato verso l'oro. Si potrebbe dire che ha perso l'oro, vogliamo dire che ha vinto l'argento. Non era facile. Non era facile perché c'era Lambie, non era facile nemmeno a livello psicologico essersi guadagnati quel posto, sostenere la tensione di quella finale in cui tutti aspettavano Ganna. Alla fine, però, è così che si cresce: affrontando ciò che sembra più grande di te e che momentaneamente, magari, lo è anche. Lanciandosi nel velodromo e portando a casa l'argento mondiale.
Ashton Lambie sorride sotto i baffi, si avvolge nella bandiera americana. Ad agosto, in altura, aveva frantumato il record sui quattro chilometri, scendendo sotto il muro dei quattro minuti. C'è qualcosa in sospeso con Ganna, una sfida lanciata. Come, dopo oggi, c'è qualcosa in sospeso con Milan e chissà che nei prossimi anni la sfida non si ripeta e sia Milan a spuntarla. C'è la fantasia di una finale italiana e che bello sarebbe. Ci sono un argento e un bronzo in più nel medagliere ma non finisce qui. Nei velodromi, ogni sfida è un preambolo di altro che verrà, una motivazione, un pungolo di quelli per costruire qualcosa di migliore. E se le premesse sono queste...


Il ritorno di Letizia Paternoster

L'eliminazione ovvero il timore di quella luce che si accende sul casco, il tabellone che indica il tuo nome, la tua nazionalità, la ruota posteriore che taglia la linea bianca del velodromo in ultima posizione, l'atleta che scende a bordo pista: gara finita. Ogni due giri una spada di Damocle che pende su una ciclista. Nel mezzo la lotta per limare, per essere nella posizione giusta, per non stare nelle retrovie e dover continuare a rilanciare, ma anche per non stare troppo esposti, sempre davanti, evitando il timore, sprecando troppo e rischiando di restare svuotati quando è il momento di sprintare. Già, perché non ci sono storie: da ventuno si resterà in due e lì vince chi è più veloce, più scaltro.
C'era tutto questo, poco dopo le 21:00 di ieri, nella testa di Letizia Paternoster. Lei che aveva lasciato a Chiara Consonni il posto nel quartetto, per andarsi a giocare la propria possibilità, una possibilità a cui pensava dall'Europeo e forse anche da prima. È stata impeccabile Letizia: nelle posizioni buone del gruppetto, apparentemente senza alcuna fatica, qualche rilancio, ma con facilità, con leggerezza. Il brivido, il timore di quella condanna non ci ha sfiorato quasi mai.
Scendono a bordo pista Canada, Messico, Gran Bretagna, più avanti Giappone, Kazakistan, Spagna e Svizzera, poi il momento delle condanne eccellenti, quella della Francia, ad esempio. Sì, perché basta un attimo, una distrazione e chiunque può cadere in trappola. Diminuiscono le atlete e aumenta il rischio. Eppure Paternoster è sempre lì. Cinque, poi quattro e infine tre. Qualcuno potrebbe pensare che, in fondo, il podio c'è, che una medaglia c'è. Nella testa di Paternoster c'è altro: ci sono due anni difficili, tentativi a vuoto di ritornare quello che era, quello che è sempre stata ed è ancora. I momenti no accadono. Paternoster ha ventidue anni, anche se non sembra per quell'elenco di vittorie e di medaglie così ampio. Verrebbe da dire che si può sbagliare sempre, a ventidue anni forse ancora di più, perché c'è tutto il tempo. Spesso per gli atleti non è così, un continuo rimpallo dalle stelle alle stalle, anche per il minimo errore. Non è giusto, ma accade e non è il caso di imbastirci tante storie. Saperlo sì, rifletterci sì.
Jennifer Valente scende dalla pista. Restano Paternoster e Kopecky, Italia e Belgio. Letizia controlla, poi parte. È la più veloce, una velocità costante e rilanciata, che la proietta su quella linea bianca in prima posizione. Alza le mani, grida, guarda lo staff e poi piange. A dirotto. Dentro a ogni abbraccio, a ogni complimento. Le salviette asciugano gli occhi e le lacrime che tornano a scendere. Probabilmente Paternoster di qualche anno fa non sarebbe scoppiata in quel pianto, lei così forte, lei abituata a vincere su tutto e tutte. Ieri sì.
La sofferenza degli altri non si può capire, si può rispettare e forse intuire pensando alla propria sofferenza. Di certo bisogna sapere che la forza è fatta di fragilità e anche di debolezza. Per questo Kopecky la cerca e le dà una pacca sulla spalla. Letizia Paternoster che vince l'oro nell'inseguimento a squadre è più forte di prima. Perché ha visto e ha capito. "La dedico alla mia squadra, alla mia famiglia: solo loro mi sono restati accanto, tutti gli altri se ne sono andati in questi due anni". A queste condizioni non è facile tornare. Mai e a ventidue anni ancora meno, perché sei giovane, perché a certi tagli non sei abituato. Lei è tornata. Con quell'oro ha fatto felici tutti quelli che sono sempre restati lì ad aspettarla ma soprattutto si è fatta felice. Ed è questo l’importante.


Troppo bello per non essere vero

E adesso diteci chi non ci ha pensato sin dalla qualificazione per la finale per l'oro? Chi non aspettava da questa mattina le 19:30 per vedere il quartetto scendere in pista al velodromo Jean Stablinski contro la Francia? Perché sì, eravamo più forti, lo sapevamo, ma fino a quando non sei su quel parquet può succedere di tutto.
E il momento non arrivava più, nemmeno quando li abbiamo visti posizionarsi. Tre caschi d'oro, per ricordarci ancora una volta ciò che è successo a Tokyo, quella medaglia olimpica che ci ha fatto gridare di gioia in un'estate italiana che più di così non si poteva. Jonathan Milan, Filippo Ganna, Simone Consonni e Liam Bertazzo che a Tokyo era riserva, qui invece è parte di quella scia di suono che passa e se ne va, che puoi solo immaginare fino a quando non entri in un velodromo e la senti. Insieme all'aria che si sposta, all'attrito rovente delle ruote lanciate a tutta velocità sul legno. La pista è perfezione, in ogni dettaglio. E fuori da qui c'è il velodromo di Roubaix, c'è ancora sospeso l'urlo di Colbrelli.

Ci abbiamo pensato tutti e abbiamo osservato quei centesimi scorrere, girare vorticosamente, numeri su numeri. Qui è tutto fatto di numeri. Italia in testa, poi Francia, di nuovo Italia e di nuovo Francia. Si sono superati i francesi, perché correvano in casa, perché Roubaix è un tempio a cui non puoi resistere. C'è devozione, rispetto, timore.

E poi diteci chi, guardando, non ha scandito a voce alta i nomi degli azzurri che si alternavano in testa al quartetto. A tutta, quasi senza fiato. Come Consonni a ruota di Filippo Ganna, lui che strapazza il tempo. Potenza dirompente quella di Ganna, spettacolo di cinetica e aerodinamica. Come il quartetto che si riporta sul tempo della Francia e lo sopravanza. Un gruppo, il quartetto.
Ultimi cinquecento metri, siamo in testa. Ultimi duecentocinquanta metri, la Francia si sfalda, resta con tre uomini, basta gettare un occhio dall'altro lato della pista per vederli in difficoltà. Hanno fatto il possibile ma certi tempi, certe velocità, devi averli nelle gambe e i muscoli dei nostri azzurri li conoscono, li praticano, hanno con loro un'affinità rara. Anche a costo di sentire male, di rischiare di svenire, ma devi resistere. La linea bianca del traguardo è lì.

Abbiamo gridato anche noi, un'altra volta, come quel giorno d'estate, come ieri sera, perché ora è vero: siamo Campioni del mondo dell'inseguimento a squadre. Non succedeva dal 1997, ben ventiquattro anni fa. Perché siamo veloci, lo dice il tempo: 3'47"192. Perché siamo un gruppo che va oltre i quattro atleti in corsa. Lo dicono i ragazzi che, prima di festeggiare, hanno chiamato Lamon, l'hanno voluto lì con loro, l'hanno preso in braccio e fatto saltare. O semplicemente perché era troppo bello per non essere vero. Ora è vero. Ora è oro.