E siamo solo all'inizio...

Forse basterebbe dire che Martina Fidanza, bergamasca, appena ventuno anni, ieri sera ha vinto la medaglia d'oro nello scratch ai Mondiali su pista di Roubaix. Ma noi non vogliamo fermarci qui. Vogliamo soffermarci su quanto sia bello il fatto che una ragazza di soli ventuno anni porti a casa un risultato come questo e sul bene che fa a un gruppo di ragazze altrettanto giovani che continuano a crescere e che in questi giorni sono attese da prove molto importanti. Non ci sbilanciamo, non facciamo pronostici, ma ci crediamo perché, prima del risultato, vediamo ciò che stanno costruendo. Crediamo a ciò che stanno costruendo. Da anni, non da ieri o da oggi.
La bellezza di un mondiale su pista a Roubaix, città che si intende tanto del liscio pavimento dei velodromi quanto delle pietre asimmetriche. Roubaix, città manifesto del ciclismo, come le Fiandre. Lì Elisa Balsamo davanti a tutti in linea, qui Martina Fidanza, in pista, in una gara in cui contano i nervi saldi, l'esperienza, la capacità di scegliere l'attimo. Non ci credeva Martina, non ci credeva e se qualcuno glielo avesse detto ieri sera non lo avrebbe ascoltato. Pensava di potersela giocare? Forse sì, forse nel finale, allo sprint. E già sarebbe stato un bel giocare.
Quello che ha realizzato, invece, è troppo bello per aspettarselo ed è meglio così perché chiunque veda una corsa vuole stupirsi, la pista, poi, è il regno ideale per sorprenderti perché nei metri di un velodromo c'è un universo e puoi vederlo tutto, sentirlo, viverlo tutto. Martina che a cinque giri dal termine incrocia la voce di Dino Salvoldi che le dice: «Vai a tutta». Si fida, si fida ciecamente e parte. Attacca, domina, non lascia scampo alle avversarie. Veloce, potente, inscalfibile.
Si è resa conto di quello che ha fatto a mezzo giro dal termine, quando ha visto che il gruppo più di tanto non recuperava: meglio così, perché quando fai qualcosa di questo tipo è giusto che tu abbia la possibilità di goderti il momento mentre si svolge. Non solo nei ricordi, non solo nei racconti. Come quando disegni e intuisci il risultato quando ancora mancano i dettagli. Lei di disegno se ne intende, come di pista.
Paziente, commossa, appassionata. Felice che questo oro sia arrivato dopo tanti sacrifici perché significa che è stato giusto farli, che è stato giusto crederci. Felice come era felice quando è volata a Tokyo, lì ha scoperto che non avrebbe preso parte ad alcuna specialità e le è spiaciuto, ma era felice lo stesso perché poteva essere di supporto alla sua squadra, alla sua Italia. Quella a cui ieri ha regalato un oro memorabile.
E i Mondiali, lasciatecelo dire e sperare, sono appena appena iniziati.


Giulio Ciccone, fra passato e futuro

Non è stata una stagione facile per Giulio Ciccone. Ma il ragazzo di Chieti è rimasto quello che abbiamo conosciuto anni fa: «Se dovessi trovare un modo per raccontarti come vivo il mio mestiere partirei da quel ragazzino che girava per Chieti con la sua bicicletta rossa e aspettava impaziente che i genitori gli comprassero una sella nuova, un tubolare particolare, un nuovo pezzo per quella bicicletta. Ricordo ciò che sentivo quando aprivo quei pacchetti e tutti i progetti che facevo. Bene, oggi accade la stessa cosa: appena c'è una novità per la bicicletta, ho la stessa curiosità, la stessa forma di entusiasmo». In realtà, Ciccone ha lasciato Chieti quando aveva solo diciotto anni e forse anche per questo è rimasto così legato a quei luoghi.
«Quando vai via presto succede sempre così. C'è un richiamo costante per tornare perché, in fondo, ti mancano le sensazioni che ti dava la tua terra e ti manca la quotidianità della tua famiglia. Il fatto di fare il ciclista accresce tutto questo perché appena arrivi a casa le persone ti cercano». Dice che lo ha salvato il fatto di restare grintoso e genuino come è la terra d'Abruzzo, in fondo, quella terra che torna a scoprire negli allenamenti: «L'allenamento perfetto è quello che tocca mare, colline e montagna. Se riesco a salire a Passo Lanciano, sono felice». Poi c'è il carattere: «Anche da quel punto di vista non sono cambiato e credo non cambierò mai: non so essere distaccato da ciò che vivo. Sono come tutti mi vedono, com'ero già da ragazzo».
È così anche se parla delle difficoltà della stagione trascorsa. «Al Giro ero soddisfatto perché stavo facendo bene al primo anno in cui provavo a far classifica. Quando sono caduto a Passo San Valentino e ho pagato dazio a Sega di Ala, ero deluso, ma vedevo il bicchiere mezzo pieno. In fondo, era stata la sfortuna a bloccarmi». Ciccone racconta che questa sensazione l'ha avuta per qualche tempo: arrabbiato con la sfortuna, però sereno perché con quello che aveva dimostrato la stagione lo avrebbe ripagato.
«Purtroppo, non è stato così: alla Vuelta un'altra caduta mi ha tolto di mezzo. È stato il momento più difficile di tutto l'anno perché a quel punto mi sono reso conto che non avrei più potuto fare nulla e la stagione stava finendo. Farsi male quando non ci sono più opportunità per rialzarsi è la cosa peggiore che possa succedere». Non è tipo da lamentele, Giulio Ciccone, anche perché sa sin troppo bene che lamentarsi non serve. Per esempio, rifiuta la nostalgia di ciò che è stato e del modo di vivere il ciclismo nei primi anni da professionista.
«Le cose cambiano perché passano gli anni e cresci. Ho sempre vissuto il ciclismo in maniera seria, anche quando avevo otto anni ed era solo uno svago. Volevo divertirmi seriamente, non so se mi spiego. Le pressioni che aumentano ti fanno gareggiare in maniera differente e vivi anche gli allenamenti diversamente, nei primi anni sei più leggero. Non ho nostalgie però vorrei dire a tutti i giovani che si affacciano al ciclismo di non avere fretta di crescere. Mi sembra che spesso abbiano troppa fretta di assomigliarci. C'è tempo, è inutile prendere la rincorsa». Suo padre gli ha sempre detto che avrebbe potuto fare qualunque cosa nella vita e, se avesse scelto il ciclismo, lo avrebbe aiutato ma «prima si finiscono le scuole». In Colpack il passaggio decisivo, perché lì ha capito che quella bicicletta stava davvero diventando un lavoro.
Nelle difficoltà che ha vissuto Ciccone nell'ultimo anno, un punto saldo è stata la famiglia che per lui è un concetto ampio. «Per me sono famiglia anche gli amici, le persone che ti sono spesso vicine e che ti conoscono bene. Quando le cose non vanno, la famiglia ne viene toccata per forza. Come atleti siamo fuori casa molti giorni all'anno e abbiamo bisogno di un punto saldo, per questo, nonostante la lontananza, tutto ruota attorno alla famiglia».
Da scalatore non resiste al fascino del Mortirolo, non solo perché lassù ha vinto, ma perché quella salita più di altre lo fa sentire a proprio agio. C'è anche una grande classica, però, nella testa di Ciccone: «Ho corso solo una volta la Liegi-Bastogne-Liegi e l'ho fatto con freddo e pioggia, vorrei ritornarci». Col tempo, chissà.
Ora, qualche giorno per staccare e poi pensare al 2022: «Non chiedo molto: vorrei solo avere una stagione libera da fattori esterni che la condizionino. Le prestazioni, secondo me, ci sono. Un po’ di tranquillità e ci divertiremo».


Jaco van Gass, solo un uomo

Jaco van Gass, in realtà, è nato a Middelburg in Sudafrica, nel 1986. Nel 2009 era da più di cinque mesi in Afghanistan, paracadutista delle forze armate britanniche. Non gli era mai successo nulla, mancavano sole due settimane a tornare a casa. Il momento in cui i soldati pensano che, anche questa volta, nonostante la guerra, sono ancora vivi, padri, figli, fratelli. Un'ora di scontro a fuoco con le forze nemiche: ha perso il braccio sinistro, si è ritrovato in ospedale con il polmone sinistro collassato, organi interni perforati, ferite da esplosione e da schegge, fratture ovunque. Lo hanno rimesso insieme con undici operazioni e da quel giorno Jaco è cambiato.
Nel fisico, certo, sarebbe assurdo negarlo, ma non solo. Van Gass è cambiato perché da quel giorno ha iniziato a fare ciò che forse non avrebbe mai fatto. Di più: ciò che forse non avrebbe mai pensato. Sciatore, maratoneta, ha scalato il Monte Denali e, per poco, non arrivava sulla vetta dell'Everest. Non c'è spiegazione, è la mente che reagisce, è la forza dell'essere umano, inspiegabile, assurda, a volte dannata, altre meravigliosa.
La storia di van Gass non è la storia di un eroe o di un superuomo e lui stesso non vorrebbe mai essere chiamato così, tanto è fiero di essere un uomo, solo un uomo. La storia di van Gass è la storia di un paraciclista britannico che a Tokyo ha vinto l'oro nell'inseguimento individuale sui 3.000 metri, battendo in finale il connazionale Fin Graham, trascorsi due giorni ha conquistato il bronzo nella prova a cronometro individuale sui 1.000 metri e per concludere si è aggiudicato lo sprint a squadre misto sui 750 metri insieme ai compagni di squadra Kadeena Cox e Jody Cundy. Il giorno in cui era partito per Tokyo lo aveva detto chiaro e tondo «Non vado per tentare, vado per vincere». Sentiva di doverlo alla sua nazione perché quando corri con i colori della tua nazione addosso ti sembra assurdo anche solo il pensiero di poterti risparmiare. Sentiva di doverlo alla sua famiglia, per tutto il tempo che le aveva sottratto per gli allenamenti, per perfezionare ogni dettaglio.
Ha vinto e potrebbe dire solo questo, perché questo voleva. Invece racconta di quel ciclista colombiano deluso fuori dalla camera d'albergo. Di quando gli si è avvicinato e ha ascoltato tutto ciò che non andava, perché la gente non lo sa, ma anche nell'Olimpo, certe volte, manca l'aria. Di quando lo ha guardato e ha iniziato a parlare: «Sai quante persone vorrebbero essere qui? La medaglia è un riconoscimento, importante, ma già esserci deve renderti orgoglioso, perché in molti vorrebbero essere qui, invece qui ci sei tu».
Jaco van Gass che dalla vita è stato cambiato, Jaco van Gass che, poi, ha cambiato la propria vita per viverla come desiderava ed esserne orgoglioso. Jaco van Gass che, oggi, rende orgogliosi molti uomini che, forse, ascoltandolo avranno ancora più chiaro quanto possa un essere umano, se solo lo vuole.


Battistella e le possibilità di sfruttare

Venezia è un pesce, scriveva Tiziano Scarpa, per raccontare la forma della città dei marinai e delle gondole. Venezia è una possibilità, all'alba della prima edizione della Veneto Classic. Può dirvelo Andrea Piccolo, che dopo un anno da dimenticare che gli ha impedito il debutto in Astana, in maglia Viris Vigevano, in questi mesi, sta cercando di riprendersi quella possibilità. A noi lo dicono le azioni di Federico Burchio e Matteo Zurlo che cavalcano i 330 metri de “La Tisa” come fossero agli ultimi chilometri, invece sono solo all'inizio di giornata. Ripida, nascosta, a tratti di paura, a tratti di sollievo, come tutte le possibilità. Quella di avere una squadra per il prossimo anno, quella di poter continuare a fare il proprio lavoro, a pedalare.
Bassano del Grappa è ancora lontana. Lì tutti fotografano un rinoceronte in acciaio fuori da Palazzo Sturm. Una signora ci affianca mentre lo ammiriamo e ci racconta una storia. Quella di un rinoceronte che nel 1515, dalle colonie orientali, fu portato a Lisbona. L'animale, legato da possenti catene, sarebbe dovuto arrivare anche a Roma: la nave, però, affondò in Liguria. Quel rinoceronte non riuscì a liberarsi dalle catene e nessuno lo vide mai. Com'era fatto, però, lo scoprirono presto tutti, grazie ad Albrecht Dürer, matematico e pittore, che da una lettera che lo descriveva trasse una xilografia. Per dire delle possibilità e di quanto, a patto di avere pazienza, non finiscano dove sembrano finire. Ve lo avremmo potuto dire con quella ragazza che sul ponte di Bassano, mentre ammirava un pianista, ha detto alla madre: «Oggi sembra impossibile, ma un giorno suonerò anche io un pianoforte come quello». Ve lo diciamo così.
Ma basterebbe andare a “La Rosina” per capire quanto in questa terra siano legati alle possibilità. Basterebbe conoscere la storia di Rosina che, in quelle vie, aprì una locanda per dare ristoro ai militari durante la guerra mondiale, quando un tozzo di pane era la possibilità. Oppure parlare con qualche ceramista della zona, per esempio con chi ci dice che la storia della ceramica è una storia di possibilità e libertà. Come quella dei pori della porcellana che lasciano traspirare il cibo: «I pori lasciano passare l'aria, per questo il cibo è più buono lì dentro».
Matteo Trentin e Samuele Battistella la loro possibilità l'hanno inventata sin dall'inizio della gara, insieme ai compagni. A Trentin non è bastato. È la legge della strada. A Samuele Battistella sarebbe potuto non bastare e ai due chilometri dal traguardo tutti avrebbero detto così perché gli inseguitori avevano aperto la caccia, quasi teso un'imboscata nel momento della sofferenza maggiore.
Per un attimo c'erano solo cento metri tra lui e gli inseguitori. Solo per un attimo. Poi duecento, poi l'ultimo chilometro. Ha vinto così Battistella. Non gli si sarebbe potuto dire nulla in ogni caso, del resto cosa vuoi dire a un ragazzo di ventitré anni che racconta di credere nel gregariato, nella necessità di partire dal niente e di fare più fatica degli altri per riuscire? Diversamente devi essere un fenomeno, ma Battistella non si sente tale. Si sente un ragazzo che crede nel lavoro e nelle possibilità. Perché ve lo dicevamo: le possibilità non finiscono dove sembrano finire. Crederci dopo le vittorie è semplice, noi, alle storie che abbiamo incrociato in questi giorni, auguriamo di essere così impregnate di libertà da crederci prima. Battistella insegna.


Un panino, un campione del mondo e le Granfondo che vorrei

«Ci siamo seduti al ristoro, sulle panchine, con i panini al prosciutto in mano e, togliendoci il casco e gli occhiali, ci siamo guardati negli occhi. Quando parli mentre pedali ti senti, ma non ti vedi mai completamente. Ai ristori ci si scopre». Ce lo racconta Alessandro Ballan: oggi, alla Granfondo VENEtoGO ha accompagnato un gruppo di ottanta persone lungo 112 chilometri, da Cittadella a Cittadella, passando per Asolo, La Tisa, La Rosina e Bassano del Grappa, prima di tornare a Cittadella. Noi lo abbiamo seguito, con qualche sosta sul percorso mentre qualcuno ci chiedeva del passaggio della corsa, «quella in compagnia», e altri se i ristori fossero accessibili a tutti, anche ai non iscritti, «perché un panino fra gente che pedala è sempre più buono». Ballan ha cercato di parlare con tutti loro, nelle quattro ore in sella.
«Quando qualcuno mi racconta delle Granfondo che ha corso chiedo sempre se ha visto il paesaggio, se si è reso conto dei posti che ha attraversato. Ci sono persone che scalano il Pordoi all'alba e non se ne accorgono. Com'è possibile? Sono stato professionista per molti anni, ho corso cinque Tour, e non ho mai visto nulla tranne il sedere del corridore che mi pedalava davanti. So cosa significhi, so quanto questa vita possa nausearti a lungo andare. Per questo trovo inconcepibile vivere così le Granfondo. Le Granfondo dovrebbero essere ciò che è accaduto oggi: un modo per divertirsi, stando assieme, senza gara». Ballan è certo che sia un'anomalia italiana perché negli altri paesi si è preservata la partenza alla francese e uno spirito diverso. «Da noi, il focus si è spostato sui risultati e le persone rischiano, in alcuni tratti su strade aperte al traffico, senza nemmeno essere completamente coperte dal punto di vista assicurativo. Magari senza cambio ruote che resta con i primi».
Oggi lo vedevi veleggiare nel gruppo, tranquillo, cercando di conoscere un po’ tutti. «Ad Asolo ho raccontato che quel versante è stata la prima salita che ho scalato in vita mia. A “La Tisa” di quando la scoprimmo con Pozzato e Tosatto e di quando la percorsi tre volte di seguito nel 2012, prima del Fiandre. Alla fine, c'era persino un gruppo di tifosi ad attendermi in vetta. “La Rosina” la facevo dietro macchina a trenta all'ora per il Mondiale. Raccontavo, raccontavo e loro mi ascoltavano». Il momento più bello, dice Ballan, è quando i tifosi capiscono che alla fine sei esattamente come loro, si fidano e ti raccontano del loro mondo. «Con un manager ho parlato della sua azienda, dei suoi e dei miei progetti ma anche delle difficoltà. Qualche genitore mi ha chiesto delle mie figlie e mi ha raccontato delle sue. Da professionista non hai molto tempo per stare con i tifosi e spesso ti vengono chieste le solite cose, invece è bellissimo vedere che sono interessati alla tua vita e interessarti alla loro. Scambiare pareri, anche chiederli».
In certi tratti Ballan testava la gamba e scherzava con chi gli era vicino: «Sì, i dati sono buoni, ma una volta quei dati li avevo dopo 200 chilometri di corsa. Appena smetti, hai sempre lo sguardo su quel computer perché, sotto sotto, ti interessano ancora i watt e i dati. Lo togli quando vedi che non fai più le prestazioni di una volta. Ecco: da quel giorno vivi la bicicletta. Ho parlato con Bennati e Pozzato: noi siamo cresciuti nell'agonismo, eppure questa cosa ci piace. L'ho detto anche oggi: non esco in bicicletta senza bel tempo, senza compagnia e senza pausa bar. C'è un piacere incredibile nel vivere così la bicicletta». Qualcuno, mentre lo vede passare, dice a un bambino che quello è il Campione del Mondo del 2008: «Ho ancora la videocassetta, anche se non posso più vederla». Chiosa un signore.
Ballan prosegue: «A distanza di anni, dopo migliaia di chilometri, anche oggi ho scoperto strade e salite nuove. Succede spesso e ogni volta mi meraviglio. Ti rendi conto di che mezzo sia la bicicletta? In Veneto, poi, c'è tutto: collina, mare, fiumi, montagne. Dovremmo avere fame di scoprirli questi luoghi, di conoscerli, come dovremmo avere voglia di conoscere la persona che pedala davanti a noi. C'è tempo e mettersi a discutere sui cinque minuti in più o in meno per una salita non ha senso».
Anche perché la vera differenza nel ciclismo la fa proprio questo. «Oggi era organizzato, ma in bicicletta può davvero succedere di incontrare il campione che ammiri in televisione e fare una parte di allenamento con lui. Certo, magari si farà fatica a resistere al suo ritmo, ma farete la stessa strada e almeno per un tratto fianco a fianco. Il ciclismo non è più uno sport, una bicicletta costa, costano i materiali, è diventato uno sport di nicchia, ma quando ci sali una volta, e impari a gustartela, difficilmente non vuoi tornarci». Perché, fra tutte le cose che ha raccontato a VENEtoGO, Ballan voleva soprattutto dire questo: godetevi la vostra bicicletta.


Alienazione

Venerdì sera, Arena Gigli in piazza Brancondi, centro di Porto Recanati. A due pedalate dal Castello Svevo. Un palco brandizzato Gran Fondo Nibali accoglie l’organizzatore della corsa, Andrea Tonti, lo stesso Vincenzo, due Beppe (Conti e Saronni) e alcuni comici locali. Questi ultimi parlano spesso e volentieri in dialetto, facendo molto ridere i marchigiani, ma rendendosi pressoché incomprensibili a tutti gli altri, che comunque si divertono nel vedere i marchigiani sganasciarsi dalle risate.

È uno dei tanti eventi organizzati a latere delle prove su strada: la rando di venerdì e le due Gran Fondo di domenica. Sono le undici e mezza e fa così freddo che, anziché una birra, al bar ordino un thè caldo. La mia rando è terminata circa cinque ore fa. Più di dieci ore in sella, quasi dodici ore di tempo totale, una settimana di tempo di recupero stimato. Due persone, invece, stanno arrivando adesso, e magari non sono nemmeno le ultime. Ricordo i loro volti alla partenza, ma non so come si chiamino né le loro storie. Hanno una luce sul casco, sono avvolti in mantelline una rossa e una gialla, con un piede staccato dal pedale si stanno dirigendo cadaverici verso lo stand dal quale ritirare un po’ di cibo. Dentro la busta dell’approvvigionamento, uguale per tutti credo: due paninetti, gel, un Kinder Bueno, una banana, una Heineken in lattina.

Un minimo comune denominatore accomuna chi arriva al traguardo dopo oltre duecentocinquanta chilometri e cinquemila metri di dislivello: il volto. Nascosti in casco, occhiali e scaldacollo, certo, senza capello a cilindro nero, tanti 5mila Marche finishers hanno un’espressione che ricorda quella delle persone che camminano sul marciapiede di “Sera sul viale” di Edvard Munch. Il viso è scavato, bianco, privato dei tratti distintivi di ciascuno. Tra le altre cose che il pittore norvegese annotò sul suo diario personale: «Voleva fissare un pensiero ma non gli riusciva, aveva la sensazione che nella sua testa non ci fosse nient’altro che il vuoto… il suo corpo era scosso dal tremito, il sudore lo bagnava».

La 5mila Marche ha chiesto tanto a coloro che l’hanno percorsa. Ha chiesto tutto, anzi: una persona che era con me negli ultimi venti chilometri non è stata in grado di parlare. Il percorso è così bello e la voglia di metterci meno di dieci ore, oppure la speranza di arrivare entro mezzanotte, così forti da prenderti totalmente. Tutti coloro che sono partiti all’alba da Porto Recanati e sono tornati sul lungomare di notte hanno dato tutto a questa rando. E la 5mile Marche, in cambio, ha dato qualcosa che capiremo appieno solo tra diverso tempo.


«Ai miei tempi zera così», ovvero la Serenissima Gravel

A Jesolo, Filippo Fiorelli scherza, salutandoci: «Non mi preoccupa molto la gara. Più che altro penso a come tornare a casa se foro lontano dal tratto in cui c'è il nostro meccanico. Mi tocca andare a piedi, sennò mi lasciano qui». Passano poche ore e radiocorsa annuncia: «Segnalato atleta Cofidis in località Portegrandi. In attesa di essere recuperato da un mezzo, ha avvisato i carabinieri». Insomma, pensiamo, l'indole scherzosa di Fiorelli non c'era andata molto lontano. La realtà è che alla Serenissima Gravel, prima gara gravel italiana per professionisti del World Tour, tra Jesolo e Piazzola sul Brenta, non c'è assistenza al seguito del gruppo: le stradine strette dello sterrato veneto non lo permetterebbero neppure. La soluzione sono tubeless da 40, e giù di lattice per chiudere qualche piccolo foro, ci spiega Andrea Fedi, meccanico della Bardiani CSF Faizanè. Anche il cambio è meccanico per non rischiare malfunzionamenti causati dalle sollecitazioni del terreno. Anzi dalla terra stessa.
È bugiarda qui la terra. Al passaggio del gruppo in questi rivoli vedi alzarsi una nuvola bianca e cerchi di coprirti gli occhi. Come la nuvola si abbassa e li scopri, ti accorgi che la terra è ancora lì, si appoggia sulla pelle e brucia ai lati degli occhi.
«Ai miei tempi zera così» dice un anziano signore rivolgendosi all'amico.
«Perché te si vecio» lo prende in giro il coetaneo.
Chissà cosa avrebbe detto vedendo Jan Petelin che si portava a spasso un tubolare sulla spalla alla partenza. Le persone sono curiose, perché è la prima volta ma non solo.
«È vero che le strade sono di tutti ma è anche vero che non tutti riescono a scalare il Mortirolo o lo Stelvio. Queste stradine sterrate può farle chiunque» ci racconta un tifoso. E giura di aver visto qui qualche avventuriero in Graziella. Gli crediamo? Non è questo a fare la differenza. La differenza la fa la voglia che ha la gente di sentirsi vicina ai professionisti nel modo di vivere e di pedalare.
«Poi in queste strade ti senti sicuro: fori, al massimo rompi la bicicletta ma non ci sono auto o altri pericoli. Le sbucciature guariscono» aggiunge Fedi.
Poi è questione di prospettiva. Chi diceva che la corsa sarebbe stata tranquilla fino agli ultimi giri, perché, come in tutte le prime volte, si va alla cieca e non si rischia troppo, avrebbe dovuto parlare con Alexey Lutsenko che, mentre si passa da Treviso, parte con la lancia in resta. In fondo, con la terra funziona come con qualunque altra cosa: devi conoscerla per affrontarla con sicurezza e non sbagliare troppo. Per questo non sorprende che i primi a inseguire siano i fratelli Braidot, Dorigoni e Cribario, loro di polvere se ne intendono. Ma puoi essere anche Taco van der Hoorn e ti diverti lo stesso, perché «Anche i professionisti vogliono divertirsi» come ci hanno detto. «Passavo gran parte del tempo sul letto, con gli occhi chiusi, al buio. Ero senza contratto» aveva raccontato Taco dopo la vittoria nella terza tappa del Giro d'Italia quest'anno. Pensate quanta voglia possa avere lui di divertirsi.
«Pensa se un giorno a Piazzola arriva van der Poel?» dice una voce vicino a Palazzo Contarini, imponente, maestoso, quasi un contrasto nel giorno del terriccio, del gravel, della bicicletta che torna all'essenziale, ai tempi dei nonni e dei bisnonni, coloro che poi spiegavano quelle giornate ai nipoti e si commuovevano all'idea di aver visto Fausto Coppi. Chissà, le prime volte sono belle anche per questo, perché puoi immaginare tutto quello che verrà. Hanno il fascino del foglio bianco, prima della scrittura del pezzo. Il fascino del sentiero gravel in cui il solco devi tracciarlo tu e sperare di non sbagliare. Alexey Lutsenko, Riccardo Minali e Nathan Haas dicono queste cose qui. Chi ha creduto di portare trentasette ciclisti fra le strade selvagge del Veneto dice queste cose qui. Persino quel ragazzo, che vorrebbe van der Poel a Piazzola, dice questo. Le prime volte conoscono l'illusione, magari, non la disillusione e, nella realtà quotidiana che di disillusioni vive, è un bene. Perché da queste esperienze nasce il futuro, come ci ricorda Lutsenko. Noi ascoltiamo: un giorno in gravel, in fondo, serve anche a ricordarsi questo.


La mia prima 5mila Marche

«Ciclismo». È la prima volta che rispondo così a un medico dello sport. Mi ha appena chiesto per quale sport sto facendo la visita medico-sportiva agonistica: evidentemente non ha notato il cappellino iridato con la scritta EDDY MERCKX che ho portato in testa fin dentro lo studio. Dopo avermi appiccicato elettrodi e fili su tutto il corpo, torace in particolare modo, inizia a farmi correre sul tapis roulant. Di recente ho letto che, agli albori della sua storia, il tapis roulant venne usato nelle prigioni come strumento di tortura, e avviso il dottore che per me sarà più o meno la stessa cosa. Da quando ho smesso col calcio e anche le partitelle tra amici si sono diradate, non corro sostanzialmente più. La mia unica attività sportiva è la bici.
Il dottore è soddisfatto del test, tutto in regola, idoneità conseguita. Salgo sulla city bike e torno a casa per la strada lunga: è poco che mi sono trasferito a Bologna e girare per una città ancora sconosciuta è un’esperienza unica. Passando su un cavalcavia, noto un murale firmato da un collettivo di donne peruviane. Che bello sarebbe, pedalare sulle Ande. È un breve tratto in salita, questo cavalcavia sui binari del treno, ma per superarlo un rider pieno di borse e zainetti deve spingere sui pedali con tutto se stesso. La salita non è sempre uguale per tutti.
L’idoneità agonistica è obbligatoria per la 5mile Marche: oltre 250 km sono uno sforzo enorme per amatori o dilettanti o cicloturisti. Oggi non solo faremo quella distanza, ma ci metteremo cinquemila metri di dislivello in mezzo: le salite hors categorie di Sassotetto e Monte San Vicino saranno le più dure. Se penso che partiremo a Porto Recanati, a due passi dal mare, e transiteremo ai 1.455 metri d’altitudine di una stazione sciistica, vado già in acido lattico. Dal buffet della fin troppo ospitale struttura in cui trascorro il week-end marchigiano, che culminerà domenica nella GF Nibali, ho sottratto un paio di vasetti di marmellata in più, qualche fetta biscottata, miele, succo di frutta. Non dovrebbe fare caldo, anzi, ma serviranno tantissimi zuccheri.
Spero non piova, non faccia brutto, non ci sia nebbia nemmeno lassù: vorrei riempirmi gli occhi col parco dei Monti Sibillini per alleviare la fatica. Sono pazzo? È la prima volta che attacco un qualsiasi numero alla bici e lo faccio per una gara di oltre duecentocinquanta chilometri. C’è quella telecronaca, «A molti corridori dopo duecentocinquanta chilometri si spegne la lampadina invece la sua luce irradia il circuito di Varese», che riascolto almeno una volta al mese perché è perfetta. Racconta un momento storico mentre accade e lo fa con grazia e precisione. Solo ieri notte - quando non si dorme, bisogna premere play sui video a cui si è più affezionati - ho realizzato che è la stessa distanza che mi toccherà oggi. Altro che lampadina, qua potrebbe saltare un intero impianto d’illuminazione.
Non devo dimenticare i tre punti di ristoro, Tolentino, Sassotetto e San Vicino. Non devo dimenticare di bere costantemente, anche a costo di fermarmi e ricaricare le borracce tramite fontanelle a bordo strada. Non devo mai andare troppo in su coi bpm (non ho la fascia cardio, come la controllo ’sta cosa?), mai sotto le sessanta/settanta pedalate al minuto (non ho il contapedalate, come la controllo ’sta cosa?). Non devo dimenticare di abbassare la luminosità del Garmin, che se si scarica nella prima metà di gara poi come ci torno a Porto Recanati?
Un’ultima considerazione, che sono quasi le sei del mattino e stanno aprendo il ritiro pettorali: avrei voluto un numero figo, il #100, il #91 di Rodman, il #71 con cui Colbrelli ha appena vinto la Roubaix, che ne so. Mi bastavano anche numeri sotto il 230 circa, così avrei guardato le ultime startlist di Giro o Tour e mi sarei immaginato di essere il ciclista corrispondente. Perlomeno, avrei desiderato almeno numeri che finiscono con zero o cinque, perché danno un’idea di rotondità, o numeri divisibili per tre (feticismo ereditato dal prof del liceo). Invece: 1057. Molto deluso, cerco qualcosa su questo inutile numero a quattro cifre e scopro che nel 1057 morì Macbeth, il re di Scozia su cui Shakespeare ha basato la famosa tragedia. Non è un’opera nuovissima ma non l’ho mai letta e non voglio spoiler. Nemmeno voglio paragonare la vita di un reale britannico dell’undicesimo secolo alla faticaccia ciclistica che mi aspetta. Ditemi solo: finisce bene Macbeth, vero?


Gli antichi mestieri

Padova è tutta nelle mani di Alfredo che intorno all'ora di pranzo impasta il pane su un tavolino di legno sporcato di farina, lui che è stato panettiere e oggi che è in pensione continua a provare piacere nell'infornare panini. Padova è tutta nelle sensazioni di Kalì che, in Prato della Valle, ha una bancarella con la frutta e mentre guardiamo al cesto delle albicocche avverte: «Vi spiego come fare a capire se la polpa è buona. Però ricordate: dovete sentire, non guardare». E inizia a maneggiare un'albicocca, come a modellarla. Padova è in una rosticceria in cui torna una ragazza dopo la scuola e il padre chiede come sia andata la giornata. «Tornavo qui anche io dopo le lezioni: lasciavo la bicicletta appoggiata ai vetri e uscivo nel cortile a giocare».
Padova che non si è mai scordata gli antichi mestieri e oggi, col ritorno del Giro del Veneto, si è ricordata di uno dei più antichi: il ciclismo. «Il treno su cui saltare in cerca di fortuna» diceva Gianni Mura e citava Zavattini e il suo «i poveri sono matti» aggiungendo «anche i ciclisti lo sono». Per esempio, è da folli partire in fuga dopo cinque giorni in cui non si è toccata la bicicletta e altrettanti di antibiotico, eppure Giacomo Garavaglia lo ha fatto. Come Kalì resta in piazza pure quando d’estate ci sono quaranta gradi anche se non vende nulla e Alfredo impasta il pane nonostante l'artrite. Assomiglia a loro Marco Marcato, di San Donà di Piave, che avrebbe voluto correre il Giro del Veneto, non ha potuto farlo a causa di ripetuti episodi di aritmie, l'anno prossimo si ritirerà, ma questo pomeriggio era lì, in ammiraglia con la UAE Team Emirates e non se lo sarebbe perso per nulla al mondo questo giorno.
Rovolon, Castelnuovo e poi Il Roccolo, dove tutti dicevano che la corsa si sarebbe accesa e dove la corsa si accende. Dove impazza Lutsenko che da ragazzino praticava karate, che non parla molto, come la gente degli antichi mestieri e soffre con dignità, in silenzio. Così in Prato della Valle ci siamo ricordati di quelle lacrime nascoste per i due gemelli che sua moglie aveva perso, per tutto quello che si sarebbe dovuto spiegare all'altra figlia che, già da bambina, doveva affrontare questa sofferenza. Certe cose non c'è mestiere che te le insegni, anche se nel tuo paese sei un eroe.
Gli antichi mestieri, invece, insegnano la concretezza. Non è un caso che a Prato della Valle vinca Xandro Meurisse che «non sa cosa sognare», che ha provato a dire di «non avere sogni», ma tira dritto e beffa Trentin che non ne ha più. Musicista, tastierista e batterista, Meurisse, perché anche la musica, in fondo, si fa con le mani e non lascia spazio a bugie. Non è un caso che in questa città si ritiri Fabio Sabatini, uomo di fiducia di Elia Viviani, lui che pilotava il treno dei velocisti. Quello stesso treno che serve per andare altrove e su cui saltavano i più poveri, i disperati.
Gli antichi mestieri, soprattutto, insegnano la genuinità dell'indignazione. Cruda come la fatica. Accanto a noi, all'arrivo c'è un ragazzo con addosso una maglia Trek-Segafredo. La Trek non è qui, ripensando a Trentin secondo, dietro Meurisse, quel ragazzo spiega: «Non è giusto, è sempre lì, merita di vincere». Sincero, sinceramente dispiaciuto, non perché non abbia vinto il suo beniamino o perché Meurisse non meriti la vittoria, ma perché avrebbe voluto un finale più giusto per la fatica e i tentativi. Lì vicino c'è Dainese con gli occhi lucidi, tradito dalla fatica di uno dei mestieri più antichi. Poco più in là, una voce grida «Forza, sei un ciclista». E solo questo, forse, spiega davvero tutto.


Evaldas Šiškevičius o del rimanere fedeli a se stessi

Evaldas Šiškevičius ne è sicuro: quando ti trovi bene in un posto, sei rispettato e hai la tua libertà, devi restituire qualche cosa. Una in particolare: la gratitudine. Per questo, nonostante le offerte ricevute negli anni da diverse squadre WorldTour, non se ne è mai andato dalla Pomme Marseille, diventata poi Delko Marseille, la sua squadra, quella di cui fa parte da tredici anni, anche se, come dice lui, non sembra essere passato tutto questo tempo.
Certamente sono cambiate molte cose: nel 2008 la Pomme Marseille era uno dei migliori team nel ranking delle squadre amatoriali, successivamente è diventata Continental e poi Professional. Il WorldTour, però, non è mai arrivato. Ma Evaldas continua a vedere il buono e dal modo in cui lo guarda lo fa sembrare ancora più buono. «Ora abbiamo uno staff specializzato, tutti i materiali e persino due bus. Soprattutto in ogni gara abbiamo un traguardo da raggiungere, sappiamo cosa fare e come farlo» ha raccontato a Procycling.
Perché a Marsiglia non manca nulla, in primis il fatto di sentirsi libero di interpretare il proprio lavoro come meglio crede, di essere un capitano sulla strada, uno di quelli che ci vede lungo ed è un esempio per tutti i compagni.
Tutti o quasi ricorderanno la Parigi-Roubaix in cui arrivò al velodromo André Pétrieux di Roubaix dopo le diciotto, fuori tempo massimo, con un velodromo già deserto ma soprattutto con quel cancello di accesso chiuso. Evaldas dovette mettersi a gridare perché gli aprissero. Qualcuno, alla fine, quel cancello lo aprì e lui riuscì a finire quello che aveva iniziato. Anche quella fu una questione di rispetto. Il suo direttore sportivo glielo disse in partenza: «Non si viene per caso a questa corsa. Ha una storia importante a cui ogni partecipante deve rispetto. Bisogna saperlo». Nemmeno lui sa come abbia fatto a insistere così, cosa gli sia passato per la mente, sua moglie continua a dirgli che si chiede perché, ancora oggi dopo tre anni. Era il 2018 e solo un anno dopo, nel 2019, Evaldas riuscì, dopo una giornata incredibile, ad arrivare nono alla Roubaix.
Šiškevičius è nato a Vilnius, in Lituania, il penultimo giorno dell'anno del 1988 e della Lituania ricorda sempre il modo che hanno le persone di andare in bicicletta. Sono felici, lo fanno con piacere, è difficile da spiegare, ma basta osservarle per capire ciò che Šiškevičius vuole dire. Questo non vuol dire che in Lituania vada tutto bene, almeno non nel ciclismo professionistico. Basti pensare che gli unici professionisti lituani, al momento, sono Ignatas Konovalovas e lo stesso Šiškevičius.
Certo la sua carriera non resterà memorabile a livello di risultati, ma a suo modo il corridore lituano è un vincente, per l'orgoglio con cui difende le sue origini e le sue scelte, per il fatto che, nonostante non abbia mai avuto le caratteristiche per essere un vincente, facendo la cosa giusta al momento giusto, qualche risultato l'ha portato a casa. E perché, anche oggi, che è in scadenza di contratto e l'idea del passaggio nel WorldTour lo attrae dice che vuole pensare, riflettere, perché il luogo in cui ha vissuto una vita, non è come un bagaglio che può essere spostato con buona pace di tutti.
Perché alla fine, quando resti fedele a ciò che sei e a chi ti lascia la possibilità di esserlo, hai già vinto anche se nessun albo d'oro ne parla.