La corsa di casa per un francese: intervista a Ben Thomas

Pochi giorni fa abbiamo intervistato, alla partenza della prima tappa del Giro d'Italia, Benjamin Thomas, il vincitore della tappa di ieri. Questo è quello che ci ha raccontato.

Il Giro è la tua corsa di casa, possiamo dirlo.
Sì, però stranamente è solo il secondo per me. E a dire il vero non ho un bel ricordo del primo, nel 2020, quando mi sono dovuto ritirare alla quinta tappa perché ero ammalato. Però mi piace sempre correre in Italia, spero che questo Giro vada meglio. Ho fatto tante volte la Tirreno e la Sanremo, mi piace.

Qual è la cosa più bella dell’Italia, di cui non puoi più fare a meno.
Il cibo, ovviamente. Quella è una cosa che mi piace. È difficile a volte arrivare a fine gara, in certi alberghi, e trovare la pasta stracotta o cose simili. Sto diventando un po’ difficile sul cibo, ma quando torno a casa è qualcosa che apprezzo davvero. E poi il ritmo di vita. E il clima: sul Lago di Garda, dove vivo, anche in inverno raramente mi prendo pioggia o freddo. Sono cose che a un corridore fanno piacere.

Ma cucini anche tu? Qual è il tuo piatto forte?
Non ho un piatto speciale, ma faccio la pasta, i risotti, mi piace anche cucinare la carne. Mi piace tutto! Anche i dolci…

E Martina Alzini, la tua collega e compagna, quali tuoi piatti apprezza?
Mah, ti direi il risotto… ma da quando Martina ha preso il Bimby in realtà non cuciniamo più, fa tutto il robottino! So che è diverso dal risotto di un cuoco ma va così, anche perché il tempo è sempre poco.

C’è qualcosa che devi ancora capire dell’Italia? In cosa non sei italiano?
Lasciami pensare… magari il caffè. Pensa che quando sono arrivato qua non avevo mai bevuto un caffè in vita mia. Adesso sì, inizio a berlo, ma senza zucchero proprio faccio fatica, non riesco. Per il resto mi sono davvero abituato all’Italia.

Tu in bicicletta fai tante cose diverse: pista, crono, sei forte in discesa, lanci le volate. Qual è la cosa che ti piace di più?
Le fughe. Mi piace andare in fuga. Giocare con il gruppo. Provare a battere le squadre dei velocisti. Non mi è capitato tante volte, ci ho provato anche al Tour de France o in altre grandi gare. Però è una cosa che mi piace. Anche aiutare i compagni mi piace, ma giocarmela in fuga è la mia cosa preferita del ciclismo su strada.

Come si fa ad andare in discesa come vai tu?
Mah, bisogna non pensare troppo ai rischi. Comunque oggi in gruppo vanno forte tutti. Bisogna essere consapevoli, prendere un po’ di anticipo sulle curve più pericolose perché se sbagli una curva puoi perdere anche 20-30 posizioni e per rimontare poi devi aspettare un momento tranquillo.

Una caratteristica dei ciclisti francesi è l’essere intellettuali: scrivono, leggono, dicono cose un po’ filosofiche. Anche tu hai questa tendenza o il tuo essere ormai italiano ti rende diverso?
Non sono tanto così. Prendo il mio compagno Guillaume Martin, che pure è appassionato di filosofia… A me piacciono queste cose, ma non è la mia passione. Leggo poco, ma penso che sia un modo di staccare la testa dal ciclismo e avere una visione diversa del nostro sport. Lo apprezzo, ma devo dire che non è il mio modo di fare. A me piace di più ascoltare la musica, anche italiana. Ascolto di tutto, dai Måneskin fino al rap. Le cose più classiche, come Vasco Rossi o Toto Cutugno, non le ascolto tanto.

Facci qualche nome.
Gué Pequeno, Club Dogo. Martina è un’appassionata e io ascolto con lei, siamo anche andati ai concerti di Marracash, di Gué. Mi piacciono. Ma poi io amo anche i Måneskin, mi piace la loro musica (l’esultanza a Lucca è stata un tributo a “Zitti e Buoni”, ndr), anche se al loro concerto non sono mai stato. Anche perché sia io che loro viaggiamo in tutto il mondo, è difficile coincidere, e non puoi andare a un concerto il giorno prima di una gara!

L’intervista integrale a Benjamin Thomas è andata in onda nella puntata di GIRONIMO del 4 maggio. Il nostro podcast sul Giro d’Italia, realizzato in collaborazione con Shimano, va in onda ogni sera su Spreaker, Google podcasts, Deezer, Spotify e Apple podcasts.

Foto: Sprint Cycling Agency


Milan e "la mar"

Eravamo in apnea, abbiamo respirato forte, profondamente, siamo tornati in apnea e quel respiro, catturato e fatto proprio, nascosto nel torace, ci è bastato per vedere come andava a finire. Sono trascorsi quattro chilometri, tre uomini, fra i tanti, Filippo Ganna, Simone Consonni e Jonathan Milan: il resto è storia. La strada è vicina al mare e, solo qualche istante fa, tra le gallerie, le rocce, il blu e la vegetazione, la mente era tornata a Sanremo, alla Milano-Sanremo, regno di tutto ciò che ha a che vedere con la velocità e pure con la fantasia. Avremmo potuto essere ancora al primo giorno di primavera, il ciclismo è una macchina del tempo.

A Cosseria, in provincia di Savona, sul percorso, al Museo delle Biciclette, c'è l'eco di quella frase che un signore di nome Luciano Berruti diceva spesso, mentre sistemava la sua bicicletta, antica, rovinata, per cui aveva un'attenzione particolare ed il fatto che fosse "vecchia", del 1907 per la precisione, di più di cent'anni, accresceva solo la cura necessaria per starle vicino: «Non so, forse avrei dovuto nascere in un'altra epoca, in un altro tempo, invece sono nato in questo mondo e qui ho fatto le mie cose». Era un ragazzo vispo "il Berruti", raccontano che, ogni tanto, andava a scuola nascondendo una biscia in tasca oppure sotto il banco, catturata nella natura: i compagni lo vedevano, gridavano e la maestra lo rimproverava, magari lo spediva a casa, mentre sua madre non sapeva più cosa fare. Era, poi, un anziano signore con lunghi baffi, a fare da cornice ad una bocca che scandiva lentamente racconti che ti saresti fermato ad ascoltare solo per sapere come andava a finire. Perché il finale vogliamo saperlo.

Eravamo in attesa, a quattromila metri dall'arrivo, quando Filippo Ganna ha squarciato un cielo già pieno di domande e di fremiti, quelli che precedono il caos di qualunque volata: se ne è andato, in un'armonia perfetta con quello che aveva attorno. Perché Filippo Ganna in bicicletta sta bene, da qualunque prospettiva lo si guardi, dall'alto di un elicottero delle riprese, da una telecamera fissa, in un'inquadratura rubata, al volo, dietro una colonna di una galleria. Il Capo Mele è stata l'occasione per uno sforzo assoluto: altri hanno provato a seguirlo, qualche metro e sono "rimbalzati", accolti dalla stessa pancia del gruppo da cui cercavano di fuggire. Per dire di cosa sia un'azione del genere, per dire di quel che serve a stare da soli, al vento, pancia a terra, mentre dietro è tutto un rumore, una rincorsa senza tregua. Berruti si innamorò così delle biciclette; sentendo il loro suono, persino lo stridere dei freni, l'odore di bruciato che rilasciavano, su quelle vecchie bici: avrebbe capito. Sì, ma quando il gruppo insegue è tutta un'altra storia. Circa 3500 metri così. Poi la fine, a circa 500 metri dal traguardo. Non è strano il suo sguardo amaro, non è strano quel continuo guardarsi attorno, mentre parla: la delusione si manda via anche così dagli occhi, quasi potesse tornare indietro e scendere da qualche parte, in gola, nello stomaco e poi via. Invece no, deglutire non vale contro il rammarico. Respiro profondo, boccata d'ossigeno e ancora apnea.

I baffi sono quelli di Simone Consonni. Scherzerà: «Ad un certo punto, non sapevo più se tirare per Milan, oppure non tirare per Ganna. Mi hanno messo in mezzo». Si dice "lanciare la volata" e non sappiamo chi sia stato il primo a coniare questo termine, ma pare perfetto: quasi fosse un lancio nello spazio, in un'altra dimensione, su una navicella con cui bisogna avere una conoscenza totale. Jonathan Milan è l'astronauta, in questo caso. Lui che "maltratta" la bicicletta tanto la porta al limite massimo: dall'alto pare una danza nervosa, in cui tutto trema, a ritmo variabile, ma in un crescendo incessante. Fino all'arrivo, ai pugni che si stringono, ai muscoli che si gonfiano nel gesto della felicità, alla voce che si libera ed al petto che si espande. Dopo il secondo posto di ieri, la vittoria era accanto al mare di Andora. Ganna, Milan e Consonni: Tokyo, un velodromo, una pista, i Giochi Olimpici, l'estate che ballava nei campi e la gioia. La macchina del tempo è già tornata indietro, come ogni giorno, ad ogni Giro d'Italia.

Pare che, in spagnolo, il mare diventi "la mar", quando lo si ama, gli si vuole bene, si ricordano i favori che ha fatto e gli si perdona tutto il resto, i torti e qualche cattiveria, magari nascondendoli dietro una scusa: le bizze della luna che farebbe girare la testa a chiunque. Il vecchio de "Il vecchio e il mare" di Ernest Hemingway aveva questa teoria e stasera noi ci sentiamo d'accordo con lui. Per qualcuno sarà "la mar", per altri solo il mare, un rivale, un nemico. Qualcuno canterà una canzone, anche Luciano Berruti lo faceva, "ma dove vai, bellezza in bicicletta", così più o meno, altri tireranno le tende di una camera d'albergo, come le coperte su di un letto, tanto fuori resta solo la notte e domani è un altro giorno.

Foto: SprintCyclingAgency


Una tappa da ritornarci

Pioviggina nelle Langhe. Siamo appena usciti dalla serata più piacevole che si possa fare al Giro d’Italia: in un agriturismo in collina, uno di quelli con le camere grandi e rustiche, dove ti preparano cibo fatto in casa sul momento, e per un attimo smetti di pensare pure a Girmay e Merlier.

Il luogo preciso in cui abbiamo alloggiato si chiama Santo Stefano Belbo, neanche 4.000 abitanti in provincia di Cuneo. Non è famoso se non per i vini e per aver dato i natali a Cesare Pavese: comunque mica male. Sfruttando una tappa logisticamente complicata, con la squadra di Gironimo – il podcast di alvento dalle strade del Giro – abbiamo deciso di fare una sosta alla Fondazione Cesare Pavese. Qui abbiamo incontrato Silvia, che ci ha segnalato qualche riga ciclo-letteraria. Si possono leggere in “Feria d’agosto”, il racconto è “Il campo di granturco”, e ha un incipit meraviglioso.

«Il giorno che mi fermai ai piedi di un campo di granturco e ascoltai il fruscìo dei lunghi steli secchi mossi nell'aria, ricordai qualcosa che da tempo avevo dimenticato. Dietro il campo, una terra in salita, c'era il cielo vuoto. “Quest'è un luogo da ritornarci”, dissi, e scappai quasi subito, sulla bicicletta, come se dovessi portare la notizia a qualcuno che stesse lontano. Ero io che stavo lontano».

Ogni tanto il Giro d’Italia ti fa sentire così. È talmente travolgente, la volata di Jonathan Milan è stata così potente, che porta tutto quanto con sé. Comprese le anime di chi lo segue. Oggi ho deciso di no, voglio tornare un po’ in me. Mentre Marta guida il furgone in direzione Andora, lungo una riviera assolata, guardo fuori dal finestrino e leggo pagine a caso di “La luna e i falò”.

Per una volta, mi forzo a non lavorare. Leggo senza cercare paragoni col Giro, senza pensare a possibili punti di contatto. Leggo e basta. Torneremo a parlare di ciclismo domani: oggi ero io che stavo lontano.

"Voleva fare il boss"

Sia dopo la Milano-Sanremo che al termine della tappa di Oropa, Tadej Pogačar ha usato sui social la canzone “Boss” di Tony Effe, trapper romano. È una cosa rara, di questi tempi, che un ciclista dimostri così tanta passione per una canzone diversa da “Sarà perché ti amo”: figuriamoci se il ciclista in questione è il più forte del mondo, figuriamoci se la canzone è questa. La base è identica a “In da club” di 50 Cent, una delle più famose del rapper newyorkese. Anche il testo della canzone di Tony è semplice: le rime vanno e vengono e i temi sono quelli classici della trap contemporanea italiana, come spendere soldi, donne, oggetti di lusso, la descrizione di varie azioni più o meno inutili.

Mi interessava capire perché Pogačar fosse così attratto da questa canzone, quindi gliel’ho chiesto. Un po’, lo ammetto, l’ho fatto per pararmi il sedere: a due domande più ciclistiche della mia, Tadej aveva già risposto «no comment» e «di questa ho già detto», per cui chiedendogli di parlare di musica ero certo del fatto che avrei generato maggiore interesse da parte sua. Insomma, gli ho chiesto di Tony Effe, e lui ha risposto: «Mi piace molto, mi piace ascoltare canzoni con un bel flow. Mi piacciono rap e hip-hop. Anche in italiano ci sono diverse canzoni che mi piacciono, questa ha un ottimo beat».

È evidente che, come suona la canzone, Pogačar ieri voleva fare il boss. Quando la Ineos Grenadiers si è messa davanti a tirare sulla salitella a circa 3,5 chilometri dal traguardo di Fossano, lui era lì nelle prime posizioni del gruppo che mordeva il freno. Gli serviva solo un allungo, di chiunque fosse, è stato Mikkel Honoré, per poter avere una scusa. È stato uno slancio d’animo, una pulsione interna che solo lui ha abbinata a quelle gambe, ad avergli permesso ciò che ha fatto. Se n’è andato, ma come nella prima tappa non è riuscito a cavarseli tutti di ruota.

Stantuffando, Geraint Thomas è tornato su Pogi. Come cantava Gué in “Pappone”, ha conosciuto – una volta di più – il boss mentre fuma un Cohiba. Il cagnaccio gallese poteva dargli un cambio ma ha preferito stare a ruota e farlo impazzire ai -300 metri. Mister G ha scritto dopo la tappa che i ragazzi, al giorno d’oggi, sono così: non si può mai stare tranquilli. I due hanno preso il via uno contro l’altro a 78 giorni di gara: per 73 volte Pogačar ha finito la corsa davanti. Compreso ieri, ma non come sperava lo sloveno. Vuole sempre vincere, sempre usare le barre più estreme sul beat che ha cucito attorno a questa corsa. Ah, non lo fa per finta, lo fa per davvero: «Fila sotto casa come se fosse normale / Completo Loro Piana quando vado in tribunale».

Nella lingua di Tony Effe/Pogačar, significa che ogni giorno è buono per provare a fare il boss. È un atteggiamento quasi da cattivo, e quant’è bello da vedere.


Sforzo d'immaginazione

Com’è andata l’abbiamo visto, lo avete letto negli altri due pezzi che aprono questa newsletter, ed è stato bellissimo. Immaginiamoci per un momento che Ben O’Connor sia riuscito nel suo disperato tentativo di seguire Pogačar: ci ha provato, ma come ha ammesso lui stesso a GCN dopo la tappa «quando navighi troppo vicino al sole, vieni punto» (questo modo di dire a metà tra il marinaresco e l’apistico sarà famoso in Australia, non saprei). Fatto sta che O’Connor si è definito «il corridore più scemo della corsa» per essere andato «molto oltre la mia capacità di lattato».

Ecco, facciamo finta che tutto questo non sia successo e che O’Connor sia riuscito a seguire Pogačar. Se il giorno prima abbiamo visto Jhonatan Narváez tenere la scia dello sloveno su un muretto nella collina torinese, non è impossibile immaginarselo là Ben O’Connor, con la sua andatura sgraziata ma efficace, quasi 190 centimetri di cristiano da Subiaco, cittadina dell’area metropolitana di Perth. Pesa solo 67 chili Ben O’Connor e anche per questo è un buon uomo da classifica generale: il suo miglior risultato è un quarto posto al Tour de France 2021, dieci minuti e due secondi dietro Tadej Pogačar.

A ogni accelerazione di Pogačar, O’Connor sembra potersi spezzare da un momento all’altro, ma – non si capisce come – l’australiano non molla. È tignoso, sta digrignando i denti storti, dà di spalle. Forse veramente da un momento all’altro cederà di schianto, e invece no. Mancano due chilometri e tiene duro. Pogačar si spazientisce: dammi un cambio che andiamo via entrambi, tu anche potresti guadagnarne, sembra dire con la mano. Si apre la maglia, sbuffa, è l’ombra di Pogačar. Quando lo sloveno si alza sui pedali anche Ben O’Connor lo fa, quando si siede anch’egli si siede. Forse a fine tappa, quando Pogi andrà in zona mista per le interviste, anche O’Connor andrà alle interviste. Gli chiederanno "O’Connor ma lei non ha mai vinto nulla?", lui risponderà che "magari è vero, ma oggi gli sono rimasto incollato come un francobollo".

Quando entrano negli ultimi 250 metri, col santuario di Oropa lì, O’Connor ha l’apice dei polmoni in fiamme. Le nuvole coprono il cupolone blu della basilica, l’ultima rampa sul ciottolato non è tale da impensierirlo. Vince la tappa e prende la maglia Pogačar, va bene, ma anche oggi non è riuscito a staccare nessuno. Anche oggi è sembrato umano.

No, occorre uno sforzo d’immaginazione troppo intenso per pensare a tutto questo.


Il questionario cicloproustiano di Davide Piganzoli

Il tratto principale del tuo carattere?
Determinazione.

Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
Altruismo.

Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
Capacità di far stare bene.

Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
Simpatia e capacità di aiutarti nei momenti più difficili.

Il tuo peggior difetto?
Testardo.

Il tuo hobby o passatempo preferito?
Ascoltare musica, camminare.

Cosa sogni per la tua felicità?
Essere felice tutta la vita.

Quale sarebbe, per te, la più grande disgrazia?
Perdere la mia famiglia.

In che paese/nazione vorresti vivere?
America.

Il tuo colore preferito?
Verde.

Il tuo animale preferito?
Cane.

Il tuo scrittore preferito?
Primo Levi.

Il tuo film preferito?
Mamma ho perso l'aereo.

Il tuo musicista o gruppo preferito?
Vasco Rossi.

Il tuo corridore preferito?
Tadej Pogačar

Un eroe ed una eroina nella vita reale?
Non ne ho uno in particolare.

Il tuo nome preferito?
Luca.

Cosa detesti?
Le persone false.

L’impresa storica che ammiri di più?
Scoperta dell'America.

L’impresa ciclistica che ricordi di più?
Pantani a Oropa.

Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
Giro d'Italia.

Un dono che vorresti avere?
Immortalità.

Come ti senti attualmente?
Felice e spensierato.

Lascia scritto il tuo motto della vita:
Non preoccuparti di fallire. Preoccupati di non averci provato.


Viaggio dietro le quinte di Gironimo: il podcast di alvento

Gironimo è, alla fine, un nome che contiene un destino. La parola Giro, infatti, non poteva che riferirsi al Giro d’Italia, alle sue strade e alle sue storie, piccole o grandi. Gironimo potrebbe anche essere, e, forse, in qualche modo è, uno di quegli indiani che il gruppo dei ciclisti vede da lontano, quando si appresta a scalare una vetta: semplici persone in attesa della corsa, che paiono tribù indiane schierate. Un richiamo al viaggio, agli spazi sterminati ed agli spostamenti infiniti che il ciclismo esplora. Gironimo è tutto questo ed è, soprattutto, un podcast, giunto quest’anno alla sua seconda edizione: quello di Alvento sulla via del Giro d’Italia. Quattro voci, Filippo Cauz, Michele Pelacci, Leonardo Piccione, Marta Bacigalupo, il nostro furgone Nerone, e tanti aspetti da scoprire alla vigilia della puntata zero, che avrete la possibilità di ascoltare questa sera. Abbiamo pensato ad un’intervista diversa, una chiacchierata di redazione, potremmo dire, in cui mettere sul tavolo progetti e pensieri. A farci compagnia proprio Leonardo Piccione e Michele Pelacci.

Le voci e la voce sono il primo elemento su cui soffermarsi, perché quello di Gironimo sarà un racconto da ascoltare, non da leggere: «Credo questo sia il settimo Giro d’Italia per me e Filippo Cauz. Sei consecutivi, uno più indietro nel tempo- racconta Leonardo Piccione- ed in questi anni abbiamo capito come il Giro, meglio di qualunque altra gara, si presti ad un racconto diverso da quello scritto. Perché è una corsa fresca, con tante storie: la trama secondaria, diciamo così, è interessante quanto quella principale. Non sempre accade: il Tour de France, ad esempio, pone al centro il racconto primario. Al Giro abbiamo tanti atleti esordienti, tanti corridori da incontrare, voci mai sentite da ascoltare per la prima volta, con cui familiarizzare. Non solo le voci degli atleti, quelle dei tifosi, di chi lavora in un museo, di chi vi capita per caso. Ogni storia ha una voce, come ogni luogo: Gironimo vuole provare a dare spazio alla voce delle storie». Allora, anche se il Giro d’Italia è alla sua edizione numero 107, la noia non fa parte del viaggio, non è un rischio che si corre, perché si incontrano luoghi mai visti, le sedi di partenza e di arrivo cambiano, lo spirito della scoperta turistica si mantiene sempre vivo e, anche qualora si torni in città già visitate, è maggio ad essere l’incognita: la natura che rinasce, il clima ed il cielo a fare scherzi, a sorprendere. «Pensiamo al Giro come ad un romanzo: la quarta di copertina può già svelare una qualche anteprima, ma il libro va letto, altrimenti non si saprà davvero mai come si risolve il mistero. Quest’anno abbiamo un favorito d’obbligo, inutile negarlo: è Tadej Pogačar. Potrebbe essere un Giro senza storia? Certo ed in quel caso saranno ancor di più le storie. L’analisi tattica o tecnica non sono mai state al centro del podcast, pur essendo importanti perché raccontiamo un evento sportivo, se il dominio dello sloveno dovesse ridurre ancora il tempo per questo tipo di analisi, quei minuti saranno destinati a nuove storie e nuovi incontri. La noia non si annida qui, semmai può annidarsi nella routine, negli spostamenti, nelle code. A noi non è successo, perché il mondo del Giro assorbe completamente e la bellezza fa persino dimenticare di essere stanchi».

Michele Pelacci ascolta attento la riflessione di Piccione, poi interviene: «Sono d’accordo. Tuttavia introduco una differenziazione: se il dominio di Pogačar dovesse limitarsi alle tappe finali, anche uno stradominio, non vedrei grandi problemi. Se, però, dovesse “ammazzare” la gara già ad Oropa, avrei qualche dubbio in più. Penso che una gara “spenta”, in qualche modo, rovini la storyline, pur centrale. Perché tutti ricordano il Giro dell’anno scorso? Per un finale drammatico, non per il podio o per una posizione di rincalzo, ma per la vittoria. Il Giro del 2022, ad esempio, è ricordato molto meno: l’esempio è quello del ragazzo invitato al ballo, che, però, resta in un angolo, nascosto. L’anno scorso il volto della corsa è cambiato presto: Ganna ed Evenepoel con il Covid, Tao Geoghegan Hart ritirato per una caduta. La trama non può non risentirne».

Spiega Pelacci che, per lui che ha scoperto il ciclismo nel 2019, essere sulla strada ha significato comprendere realmente cosa sia il ciclismo: «Uno sport senza senso per la fatica che ha dietro, per i sacrifici che lo compongono. Vivere il Giro d’Italia dal vivo permette di meglio ponderare i giudizi e di evitare quelli inutili». Già, ma come si racconta Tadej Pogačar? La domanda sembra inevitabile visto che a parere unanime sarà il protagonista. Leonardo Piccione confessa di non averlo mai incontrato dal vivo e questo sarà un punto non poco importante nell’evoluzione del podcast: «Potrò parlargli per la prima volta, anche solo attraverso una domanda in conferenza stampa, se vincerà una tappa od indosserà la maglia rosa. Il racconto sarà legato all’evoluzione della nostra conoscenza del campione, un’angolazione differente, una sfida diversa rispetto a quella di Giri con pronostici serrati». Il tono dovrà restare leggero, senza però scadere nel linguaggio o nelle idee.

L’abbiamo nominata prima ed è, senza dubbio, la novità più importante di questa seconda edizione: Marta Bacigalupo, nuova voce del racconto, a cui, tra le altre cose, sarà affidato proprio il compito di scovare nuove curiosità su Pogačar. L’idea della sua partecipazione nasce, in qualche modo, dopo un incontro a Gattorna, durante l’undicesima tappa dello scorso anno: «Marta è entusiasta, allegra. In più, ha uno sguardo maggiormente da tifosa- spiega Pelacci- e non credo nemmeno desideri lavorare nel mondo del ciclismo: questa leggerezza porta una prospettiva che arricchirà le nostre chiacchierate. In più- Michele si lascia andare ad una risata- anche Marta guiderà Nerone e si dividerà con me i tanti chilometri giornalieri».

Sì, Marta sarà la prima voce femminile nel nostro podcast, aspetto importante, assieme alla freschezza che saprà portare, ed è proprio parlando di lei che iniziamo a svelarvi qualche pillola: il suo interesse per il mondo dei tarocchi farà sì che il Giro di Gironimo verrà anche interpretato attraverso le carte. Intanto, a proposito di interpretazioni, un pronostico sul podio di questo Giro 2024 l’abbiamo già chiesto ai nostri inviati: Pogačar, Thomas, Bardet, il tris di Piccione, Pogačar, Daniel Martinez, Valentin Paret-Peintre, quello di Pelacci. Ma non ci siamo fermati qui, Piccione e Pelacci si sono anche sbilanciati su altri aspetti: la tappa “sorpresa”, quella che, pur non indicata dai più come decisiva, potrebbe incidere sulla gara: Piccione segnala quella degli sterrati di Rapolano Terme, «potrebbe non accadere nulla, come potrebbe essere addirittura più incisiva di quella di Prati di Tivo. Ricordiamo tutti Pogačar alla Strade Bianche», Pelacci, invece, indica la prima perché «l’ho pedalata ed il finale di San Vito non è per nulla semplice».

Tour of the Alps 2023 – 46th Edition – 5th stage Cavalese – Brunico 144,5 km – 21/04/2023 – Giulio Pellizzari (ITA – Green Project – Bardiani CSF – Faizanè) – Foto Ilario Biondi/SprintCyclingAgency©2023

Leonardo Piccione introduce il tema legato agli italiani in corsa: Pellizzari, Piganzoli e Tiberi, i più attesi. Si aspetta Andrea Vendrame vincitore di “almeno una tappa” ed è curioso di conoscere Andrea Pietrobon, da quanto sappiamo appassionato di musica e musicista che si diletta con chitarra e pianoforte. Michele Pelacci si sbilancia in un pronostico: «Secondo me, possiamo vincere almeno sei o sette tappe. Gli atleti italiani sono in varie squadre, questo è il bello. Personalmente farei attenzione a parlare di ciclismo italiano in crisi, perché il ciclismo non è solo il ciclismo su strada e bisogna considerarlo a tutto tondo. Credo sia necessario mantenere, però, un profilo basso e continuare a lavorare». Due domande le ha già preparate: a Giulio Pellizzari, che condivide con lui la fede milanista, vorrebbe domandare una sua idea rispetto ad un cambio di allenatore del Milan: «Io sì, ed il più presto possibile». Da Zambanini, invece, vorrebbe sapere se ha mai lavorato nell’agriturismo di famiglia. E se invece parlassimo di nome a sorpresa? C’è accordo: Florian Lipowitz, più per le tappe, secondo Leonardo Piccione, in particolare, per le prime frazioni, che per la classifica.

Michele Pelacci ci confessa qualcosa che ancora non conoscevamo: «Ma tu sapevi che ho altri due nomi? In realtà, sono Michele Florindo Callisto Pelacci. Di Lipowitz mi piace anche il nome particolare: Florian e Florindo hanno qualche assonanza». Vorrebbe mantenere l’incognita, ma la nostra domanda lo fa cadere in tentazione: «Michele, sveliamo ai nostri lettori gli altri tuoi nominativi?». Qualche secondo e: «Ma sì, scrivi tutto, scrivi tutto».

Giro d’Italia 2023 – 106th Edition – 6th stage Napoli – Napoli 162 km – 11/05/2023 – Mads Pedersen (DEN – Trek – Segafredo) – Jonathan Milan (ITA – Bahrain – Victorious) – Fernando Gaviria (COL – Movistar Team) – photo Luca Bettini/SprintCyclingAgency©2023

Si torna seri. Non mancherà l’improvvisazione, «qualcosa che noi italiani sappiamo fare, nel bene e nel male», ma allo stesso tempo lo studio e le scalette saranno preparate con cura e precisione, «una curatela che vorremmo non arrivasse all’ascoltatore sottoforma di “peso”, ma di qualità del prodotto». Anche per i luoghi, prosegue Piccione, vale un poco quello che vale per la conoscenza delle persone, che si arricchisce tassello dopo tassello: «Consideriamo Napoli, dove il Giro fa ritorno: la prima volta, con il sole e la festa, ricordo una sorta di stordimento, di sbalordimento. L’anno scorso abbiamo pensato ad un altro racconto, quest’anno parleremo di geologia, di quello che accade sotto quella terra e quel mare, dell’attività tellurica costante, della scienza». Anche per Leonardo Piccione il Giro d’Italia è un ritorno a casa dall’Islanda, dove trascorre molto del proprio tempo, proprio quando là il clima inizia ad addolcirsi e le ore di luce si ampliano, mentre il sole non tramonta. I suoi amici islandesi gli chiedono se sia matto ad andarsene proprio adesso, lui risponde solamente: «C’è il Giro». La curiosità, da parte sua, è per Prati di Tivo, un lato del Gran Sasso che non ha mai visitato, ma che molti gli dicono assomigli all’Islanda, nei colori e nelle sfumature. Chissà. La stessa curiosità Michele Pelacci la nutre per Livigno, dove il Giro trascorrerà il giorno di riposo, e per il Monte Grappa ed il suo santuario: «Avrò la bicicletta con me, al mattino qualche sgambatina la farò, perchè è bello pedalare al Giro. Ovviamente pedalo volentieri con i nostri lettori, però mettiamo le cose in chiaro: chi vuole pedalare con Pelacci deve svegliarsi presto. Non ci sono sabati e domeniche che tengano. Massimo alle sette e mezza».

Proprio Michele Pelacci, in queste tre settimane, proverà ad imparare qualche parola di giapponese legata al ciclismo, con il supporto di Shimano: «Non riuscivo nemmeno ad imparare il francese al Tour de France Femmes, non so come finirà con il giapponese, in ogni caso, sarò studioso». Mentre Domenico Pozzovivo narrerà il percorso delle tappe: «Si tratta- spiega Piccione- di un qualcosa in divenire, ma Pozzovivo conosce veramente quasi ogni strada d’Italia, ogni curiosità, ogni museo. Sarà un racconto differente dalla classica ricognizione». Il Museo della Magia ed il Museo del Calcio Balilla sono già sul taccuino. Chissà, tra le altre cose, che anche Lisa Vittozzi, la campionessa di Biathlon, non faccia un’incursione nel viaggio.

«Abbiamo parlato delle cose che cambiano e di quelle che restano uguali- prosegue Piccione- bene, l’accoglienza del Giro nelle città non è mai cambiata. Dalla televisione non si colgono molti aspetti, ma basta osservare il volto sorpreso di adulti e bambini, quando il plotone giunge anche in un piccolo paese, in un borgo, per non avere dubbi. Basta leggere i cartelloni e gli striscioni che vengono preparati per comprenderlo. Non sempre queste persone aspettano qualche atleta in particolare, spesso attendono solo il Giro». Michele Pelacci è impaziente, scalpita: «Del Giro si inizia a parlare molto presto e sembra lontano, molto lontano, in realtà si avvicina in un attimo. Allora i pronostici, le tattiche, le squadre, i favoriti, le possibilità. Ora basta, bisogna partire perché il Giro inizia davvero». Così sono partiti e stasera inizia anche Gironimo.


Mulinvélo, Pastrengo

Il vecchio mulino di Pastrengo era lì, fondamenta ben salde nel terreno, incurante dei secoli che passano, bastione possente su cui il cielo rovescia pioggia, vento, neve d'inverno e cappa di aria calda, canicola soffocante, d'estate. Dal 1800, anno della sua costruzione, erano duecento anni di intemperie e volti e voci che solo ciò che è di pietra e resta nel tempo può conoscere. Dagli inizi del 1900, quando, effettivamente, iniziò a macinare farina finissima e finemente curata, era già trascorso quasi un secolo e, per la parte di produzione, quel mulino era inattivo da un buon periodo. All'interno, vi lavoravano le figlie del proprietario: curavano una piccola porzione relativa alla vendita di farine che, altrove, non si rintracciavano. Il resto della struttura non era visitabile dai più, la meraviglia della sua artigianalità, dei suoi segreti, nascosta proprio da tutto il tempo che era ormai trascorso, come una fotografia, protetta dalla copertina, in un album.

Sulla sponda orientale del lago di Garda, a pochi chilometri da Verona, i cittadini di Pastrengo conoscevano quel mulino, come i quattro forti austriaci racchiusi in poco più di un chilometro e mezzo, il vecchio telegrafo e l'aeroporto per velivoli super leggeri: sapevano della loro esistenza per sentito dire, per qualche transito su quella strada, al mattino presto o alla sera tardi, per caso. Così accadeva anche a Massimo Gaiardelli, mentre, dapprima, lavorava in un'azienda di elettronica e, successivamente, in bicicletta accompagnava le persone in Toscana oppure sulle Dolomiti: era una delle prime guide in sella, qualcosa che precorreva i tempi e che lo portava lontano da casa per molte, forse troppe, settimane. A ben guardare, qualcuno che aveva visto oltre, seppur per quello stesso caso, c'era ed era proprio a casa sua: si trattava di Antonella, la sua compagna, in un giorno in cui cercava della farina di Kamut, non così diffusa agli inizi degli anni 2000. La porta dello spaccio per la vendita, poi, il resto in denaro che manca e quelle ragazze che le aprono le stanze abbandonate. La copertina dell'album è tolta, la fotografia è esposta. «Dovresti vedere quanto è bello, peccato sia in parte abbandonato»: frammenti di conversazione tra Massimo e Antonella. Parole che fuggono via, almeno per quel momento.

La realtà è che Mulinvèlo ha radici in quel dialogo e casa in quel vecchio mulino abbandonato. Massimo Gaiardelli gestiva un negozio di biciclette, a Sant'Ambrogio, divenuto ormai piccolo e con una comunità di persone sempre più grande a frequentarlo, l'idea era di un nuovo luogo in cui porre le fondamenta. Nel frattempo, un cartello su quel mulino, con la scritta "in vendita", un passaggio in auto su quella strada, a cinquecento metri da casa, un sabato pomeriggio a visitarlo e l'acquisto per trasferirvi tutte le biciclette ed il fulcro del mestiere di Massimo e Antonella. «La maggior parte dei lavori sono fatti a mano, con l'intenzione di mantenere e, se possibile, proteggere l'anima del mulino. Ecco la tramoggia, guarda i tubi che portavano su e giù la farina, l'officina, invece, era un vecchio bunker della guerra. Puoi toccare il sasso, sentirne l'antichità, ammirare gli accessori realizzati con materiale recuperato dalla vecchia struttura del mulino, osservare la cantina, l'interrato sotto, il bianco ed il nero, la sala macchine, attraverso i vetri, le malte colorate che, da gennaio del 2023, hanno dato sostanza alla ristrutturazione di questo gioiello dimenticato». Oltre a questo, vi sono spazi appositi dedicati all'abbigliamento, alle collezioni di bici, fino ad una sorta di appartamento, un luogo intimo, in cui accompagnare il visitatore, bere un bicchiere del pregiato vino della Valpolicella e fare un aperitivo, a pedali fermi, a ruote immobili, dove, comunque, la bicicletta resta lo sfondo, l'idea generatrice. Proprio al movimento delle ruote si riallaccia il nome: nei mulini è tutto un ruotare ed il verbo "mulinare", per riferirsi al rapido girare dei pedali mentre si corre in bicicletta, deve avere qualche legame con queste antiche strutture. "Vélo", invece, è bicicletta in lingua francese, ma non solo: ha lo stesso suono di velocipede e di velocità, un binomio affascinante sin da quando si è bambini. Gli stranieri che giungono a Pastrengo si guardano attorno incuriositi e si chiedono se davvero può esistere un mulino pieno zeppo di biciclette.

La risposta potrebbe fornirla un signore coi capelli bianchi che, pur avendo sempre pedalato, ora inizia ad avere mal di schiena, a far fatica in quella posizione, eppure, al pensiero di rinunciare alla "sua" bicicletta si sente più vecchio che mai e gli occhi diventano lucidi: «Quando un signore gentile e canuto arriva qui, ho la chiara percezione della bellezza del poter risolvere un problema per qualcuno, del sentirsi utili. Poi li rivedi quei signori: forse faranno solo il tratto da casa all'edicola in bicicletta, ma, grazie al consiglio giusto, alla posizione corretta, a una piccola modifica sulla bicicletta potranno continuare a farla e allontanare di qualche tempo l'idea della vecchiaia e la sua malinconia».

Massimo Gaiardelli ha vissuto ogni minima sensazione su una bicicletta, in anni e anni di pedalate controvento, come in quelle che continua a fare oggi, la domenica oppure il mercoledì mattina, quando il mulino è chiuso, per questo conosce perfettamente qualunque piccolo fastidio che può provocare questa esperienza: dalle scarpe strette, alla sella, al soprasella, alla posizione del collo e della schiena. «Il gesto della pedalata mette assieme molti movimenti e molti fattori per cui è sufficiente davvero poco perché da qualcosa di piacevole, pur nella fatica che si sperimenta, a un momento di fastidio e sofferenza. Credo che il nostro compito sia quello di predisporre tutto affinché le persone stiano bene in bicicletta». Le persone, sì, le donne e gli uomini a cui si rivolgeva già quando vendeva i primi cellulari, i vecchi portatili a valigetta, gli stessi che, quando lo incontrano, gli ricordano che il primo telefono mobile gli venne consigliato proprio da lui: «Decisi di abbandonare l'elettronica proprio quando capii che, per come si erano messe le cose, avrei dovuto lasciare da parte la mia attenzione per il lato umano: non avrei mai potuto. Resta, però, il fatto che, in ogni caso, si parla di un qualcosa più "freddo" rispetto alla bicicletta: il ciclismo permette tutta una contestualizzazione, sin dal primo momento in cui ci si conosce, pur essendo estranei. Questo avviene perché si svolge all'esterno, nella natura, ci si può chiedere da dove si proviene, dove si abita, qual è il luogo in cui ci si reca quando si vuole osservare un panorama, magari scoprirlo. Bastano queste poche domande per sentire di avere qualcosa in comune, no?».

Si spazia dalla disciplina su strada, al gravel oppure alla mountain bike dove è necessaria anche una base tecnica e qualcuno che ne illustri i dettagli: Gaiardelli si muove attraverso dei video per registrare gli allenamenti e, successivamente, mostrarli a chi si sta cimentando in quella pratica, affinché, rivedendosi, possa prendere coscienza degli errori commessi e cercare di migliorarsi, sempre attraverso il dialogo, il confronto, evitando a priori l'informazione calata dall'alto che non mette a proprio agio chi la ascolta e vuole assimilarla.

La bicicletta mette sullo stesso piano, sullo stesso livello, quello della strada, del sacrificio, della velocità e del vento, Gaiardelli cerca quel piano attraverso un invito a pedalare assieme, a guardarsi, a commentare quel che si vede e le sensazioni che si provano, le emozioni di quando dallo stupore per quel che c'è «quasi ti butti per terra e piangi», persino a prendere la sua bicicletta e a mettersi in gioco, prima di qualsiasi giudizio, perché la missione della bicicletta, unica pur in tante declinazioni, è, fra le altre, per Gaiardelli, dare il giusto tempo ed il giusto ritmo al tempo ed alle cose: allora il mulino a cinquecento metri da casa non è più normale, ma speciale, vale anche per i forti austriaci e per il telegrafo, vale per i profumi e per i sapori, di cui la zona di Pastrengo è ricca. Libertà, esperienze assieme, viaggi, borse da preparare: ecco gli ingredienti che, dopo tanti anni, sono antidoto all'abitudine e stimolo costante per l'entusiasmo anche in Gaiardelli stesso, che è stato maestro di sci ma la "goduria" di un giro in bicicletta non sa dove altro scovarla. Se di fronte ad un anziano signore il bello è risolvere un problema, permettere la continuazione delle pedalate, di fronte ai più giovani la sfida è suscitare interesse, lasciare un seme, che saranno, poi, loro a coltivare. La costante è la tematica legata alla sicurezza, connessa a una filosofia ben precisa: «Sento diverse persone che non usano la luce o non mettono il casco e si nascondono dietro al fatto estetico. La mia idea è netta: io ti procuro la luce più bella che c'è, il casco più bello, più comodo, ma tu lo indossi. Così togliamo alibi. Poi ognuno deve fare la propria parte e gli utenti della strada sono molti».

In una realtà in cui le grandi aziende dominano ed il prodotto, anche la bicicletta, è sempre più depersonalizzata, c'è un ritorno di fiamma per l'artigianalità, per quel che è su misura, un vestito pensato per la persona e la bicicletta è un mezzo che ha bisogno di questo adattarsi a chi dovrà salire in sella e pedalare. Allo stesso modo, il mulino di Mulinvèlo è un'esperienza, oltre ad essere un locale, un negozio, sulla scia di esperimenti simili a Girona, a Londra, con l'innovazione data, proprio, dall'essere un mulino, da tutti gli anni che ha trascorso a produrre farina, dal caso di quel giorno in cui vi è capitata Antonella, dalla ristrutturazione, dall'ospitare biciclette. Soprattutto dall'essere sempre stato il posto giusto, al momento giusto. Una sorta di magia realizzata dagli esseri umani.


La prospettiva di un casco

I giardini di marzo si vestono di nuovi colori a Chiuduno, nei pressi di Bergamo, sull'eco di una canzone di Lucio Battisti che, chissà perché, si affaccia alla mente stamani. Pure la luce ha cambiato abito: la vetrata che riveste la parete alla sinistra del tavolo attorno a cui stiamo dialogando con Angelo Gotti, fondatore e CEO di Kask, proietta un chiarore differente, ombreggiando e rischiarando, pittrice esperta, i contorni delle sue mani mentre ruotano in ogni direzione un casco, indicando le linee e le asole, accarezzando con l'indice la rivestitura interna e stringendo e allargando il regolatore, con un cenno lieve di soddisfazione, al modo dei timidi.

 

«È necessario osservare il casco da ogni possibile prospettiva, rotearlo, inclinarlo, indossarlo e continuare a muoverlo sulla testa. Non devono emergere blocchi, in un punto o nell'altro: la sua reale essenza non è raccontata dall'apparenza di uno scaffale, ma dall'esperienza di mani artigiane che imparano a conoscerlo ed esplorarlo». Quello che intende Gotti l'abbiamo intuito pochi minuti prima, transitando da un piccolo laboratorio in cui un ragazzo dell'ufficio tecnico, muovendosi fra varie calotte, accanto a scansie ed attrezzature specifiche, ricerca le soluzioni migliori per plasmare il prossimo casco. Sembra di tornare indietro nel tempo, quando per fare il casco si partiva solamente da un pezzo di legno pieno che, colpo di scalpello dopo colpo di scalpello, iniziava ad essere scontornato sulle linee laterali, poi scavato, a cercare l'anima del disegno già impresso sui fogli, in uno schizzo e nella mente. Un processo che, in parte, resta costante tutt'oggi, anche se la tecnologia ha portato le elaborazioni in tre dimensioni, ma «il casco non è, se non nelle mani e sulla testa e – prosegue Gotti – la conformazione della testa è simile per tutti, ma in realtà molto differente nelle sfaccettature.

Il casco, prima nelle mani, ora è tornato, per qualche istante, ad essere poggiato sul tavolo, con gli occhi che ancora lo cercano, lo scrutano, fino a che si fermano sui pois rossi che lo macchiano, ricordo del pomeriggio del 17 luglio 2007, a Briançon, al Tour de France. Era la prima volta che Angelo Gotti respirava dal vivo l'atmosfera della mirabolante carovana gialla: se ne stava dietro una transenna, a pochi metri dal traguardo, dove non c'era nulla se non un grande schermo, non aveva niente, in fondo, nemmeno una bottiglietta d'acqua, eppure sentiva di avere scoperto una terra nuova. Le immagini continuavano a trasmettere Mauricio Soler all'attacco, i suoi pochi secondi di vantaggio, che solo qualche minuto prima parevano troppo pochi, quasi inutili, ora si sapeva, si sentiva, sarebbero bastati per vincere. «Osservavo il nostro casco a proteggere un ragazzo nel mezzo di un'avventura folle. Non capivo più nulla, ma ricordo distintamente che, dopo la linea bianca dell'arrivo, non lo tolse: era il mio punto di contatto con lui, un segno di riconoscimento dall'alto, mentre camminava verso il podio o si recava alle interviste. Se penso da dove sono partito, alle notti sveglio, nel buio, per fissare ogni dettaglio. Se penso come era grande quel casco nel megaschermo, il primo realizzato da Kask nel ciclismo».

Gli occhi diventano lucidi, liquidi, una risacca di ricordi: l'azienda in cui iniziò a lavorare a sedici anni e i caschi per l'equitazione, poi Mistral, dal nome di un vento, il maestrale che spira da nord ovest, il casco da ciclismo che lo fece discutere con il suo principale, dice così Gotti, «l'avevo progettato in maniera differente da tutti i caschi che già esistevano, ma gli esseri umani sono fatti da idee e istinti a preservarle. Non si rinuncia a un'idea per conformarsi agli altri». Fino ad un giorno in cui in un ufficio, simile a quello in cui stiamo conversando, calò il buio: Gotti vuole lasciare l'azienda, la nuova direttrice lo convoca. «Mi sono seduto che fuori era ancora giorno, sono uscito che era sera e il buio era anche dentro il locale perché, intenti a discutere, non avevamo nemmeno acceso la luce. Me ne andai». Il 18 marzo 2004, a Chiuduno, fra altri giardini di marzo, nasce Kask. Un paese dove tutto è a portata di bicicletta: made in Italy, dicono, made in Bergamo, sottolinea Angelo Gotti, che i primi caschi da lavoro li fece provare a un suo fratello, «il classico muratore bergamasco». Tutta la produzione qui, a portata di mano, per controllare ogni passaggio, per eseguire, se possibile, controlli aggiuntivi: «I caschi andrebbero battuti, in gergo, in due punti al momento del test, per verificarne la resistenza. Noi li battiamo ovunque: sono l'unico dispositivo di sicurezza che indossa un ciclista, se il punto fragile fosse il terzo? Non possiamo permetterci di affidarci alla fortuna, la coscienza non ce lo consente».

 

Ci sono voragini che Angelo Gotti rivive ancora adesso: l'incidente di Fabio Casartelli al Tour de France del 1995, quello di Andrej Kivilëv alla Parigi-Nizza del 2003 e quel «se il casco fosse già stato obbligatorio» che fa male. Ci sono lettere di ringraziamento con foto di caschi rotti nell'impatto di una caduta e frammenti di caschi spezzati conservati, «perché resteranno delle cicatrici, ma queste famiglie hanno ancora un figlio, un padre, un fratello». Allora ogni elemento del casco deve essere declinato nella prospettiva della sicurezza: dal polistirolo interno, ancora la miglior soluzione in termini di protezione dagli impatti, al comfort, «quel non sentirlo addosso», che accresce le possibilità che le persone lo indossino, all'aerazione e, per gli atleti, anche all'aerodinamica. «Si sono fatti passi enormi in questo senso: nel 1996 ricordo dei test in galleria del vento in cui su una pedana era posizionata una falsa testa e l'aria veniva sparata su dei cordoncini di cotone per verificarne il flusso. Si credeva che il casco dovesse essere allungato, ora sappiamo che è meglio sia corto e compatto e copra le spalle. C'era un casco unico, ora abbiamo caschi da pianura, aerodinamici e veloci, leggeri e areati da salita, polivalenti per tappe miste e ancor più aerodinamici per la cronometro. Ma un casco nasce dalla parte interna, proprio perché senza la sicurezza non ha senso di esistere».

A pochi chilometri dalla sede principale, in un capannone, operaie e operai, in piedi accanto a un lungo tavolo, eseguono ognuno una piccola operazione: chi toglie la sottile pellicola che riveste il casco, chi posiziona all'interno le protezioni prima riscaldate su un forno, chi sistema il regolatore e chi, con cura e un panno, pulisce la superficie dopo tutti questi passaggi. Operazioni di precisione e di mani pazienti. Ci si ferma ad osservare, ci si avvicina per vedere bene, e di fronte allo stupore per tanta attenzione di noi intrusi viene spontaneo esclamare: «No, niente, è solo bello vederti lavorare». In un altro capannone scopriamo i fogli da cui, attraverso l'arte della serigrafia, si sviluppa il casco vero e proprio. Saranno quei fogli a essere inseriti in una macchina, una sorta di demiurgo, che, attraverso degli stampi e il calore, li restituirà in pochi secondi con la sagoma perfetta del casco vero e proprio. Diego Zambon è il General Manager dell'azienda: alla stretta di mano, si è subito raccomandato sul fatto che «qui tutti si danno del tu, non è il lei a trasmettere il rispetto. Qui tutti visionano i caschi, danno un parere, partecipano, insomma, al lavoro di squadra. Parlo di Ineos, ma anche del contabile». Più tardi, davanti ad un caffè, ha confessato di essere abituato a parlare di numeri, di cifre, ma, in fondo, scaldato da ben altro. Dal pensiero che nonno, già agli inizi del Novecento, usava la bicicletta e, per lui, andava bene qualunque casco, bastava fosse della taglia corretta, tuttavia «se gli esseri umani non avessero questo desiderio di sperimentare, di guardare da altre prospettive, anche a costo di sbagliare, saremmo ancora lì e, chissà, forse non useremmo nemmeno più la bicicletta. Fare un casco ti ricorda che basta un passo di lato per vedere le cose in maniera differente e quel passo dobbiamo compierlo, anche se rischia di stravolgere tutte le convinzioni a cui ci aggrappiamo».

Il nostro giro ci porta verso un'esposizione di caschi, tra cui notiamo subito quelli usati da Chris Froome e, poco più in là, quello di Filippo Ganna, indossato al Mondiale a cronometro. Da qualche parte deve esserci anche quello del Record dell'Ora: noi indaghiamo con lo sguardo, finché veniamo avvertiti: «Angelo, ogni tanto, scende, ne prende qualcuno e lo porta nel suo studio. Sarà lì, senza dubbio. Quel signore che non dorme la notte ha questo vizio». La precisazione di Zambon suscita ilarità, è lui stesso a riprendere il filo del discorso, come dopo un respiro profondo che alleggerisce: «Froome non stava mai fermo in sella, continuava a muovere la testa, al contrario, Kiryenka era immobile. Noi siamo imperfetti, non possiamo farci nulla. Il casco è un oggetto e deve essere studiato anche per rimediare le imperfezioni umane. Nel momento in cui un atleta lo indossa, entra in rapporto con i suoi movimenti, con il body, con le condizioni meteo esterne. La performance risponde a questo equilibrio». Già, il lato umano: Froome che, non appena riceve il casco da Laura Butera, addetta alla comunicazione in azienda, a Monaco, resta qualche secondo a osservarlo «come fanno i bambini, ed era felice, davvero felice», oppure Filippo Ganna che, dopo il Record dell'Ora, restituirà quel casco all'azienda, mentre Gotti si raccomanderà «la visiera è sporca di sudore, guai a chi la lava». Pare sia uno dei caschi di cui va più orgoglioso: la visiera è dotata di alettine che favoriscono uno scorrere dell'aria più rapido. Le due componenti combinate hanno migliorato di 15 watt la prestazione, dieci per il casco, cinque per la visiera. Fino ad Alex Zanardi e all'unico contratto che non esiste: solo una stretta di mano e una telefonata a Gotti, in Sardegna, il giorno in cui vinse ai Giochi paralimpici.

 

Saliamo le scale, Angelo Gotti apre la porta del suo ufficio, sulla scrivania diversi caschi, altri sono posizionati su un mobile, lì dietro. «Ora mi rimetto al lavoro», afferma. La porta del suo ufficio si chiude, noi ci voltiamo verso la scala che ci accompagna all'uscita, sicuri che, prima di continuare a progettare, Gotti, almeno per qualche secondo, starà osservando uno di quei caschi, roteandolo, esponendolo alla luce, fino a dirsi, a bassa voce, rimettendolo al proprio posto, che fare i caschi gli piace ancora, come il primo giorno.

Foto: Eloise Mavian / Tornanti.cc


Lost Road, Ferrara

Nelle campagne della Vallonia, in Belgio, vicino alle fattorie dove lavoravano i braccianti, intorno al 1700, i contadini dell'epoca preparavano la birra con ogni tipologia di cereale a disposizione in quei territori, non solo l'orzo, anche l'avena e la segale. Quella bevanda, caratterizzata da una modesta gradazione alcolica e da un gusto che non stancasse, doveva servire a dissetare i lavoratori agricoli nel caldo e nel sudore delle loro fatiche: l'acqua, a quel tempo, era meno salubre della birra che, post ebollizione, veniva depurata da batteri e microrganismi. La birra Saison, infatti, nasce in questo modo. Altrove, precisamente in Boemia, nella città di Plzen, in Repubblica Ceca, la birra Pilsener, abbreviata in Pilsner o anche semplicemente Pils, vedeva la propria origine ed il proprio peculiare sapore da un'acqua povera di sali minerali: non c'era alcuna lavorazione per ottenere l'effetto che tutti conosciamo, solo la terra le conferiva queste qualità. Birre chiare e birre scure: le seconde sono state, a dire il vero, in alcuni luoghi, le prime in ordine cronologico, in quanto ancora non si sapeva come cuocere l'orzo a temperature tali che non lo imbrunissero così tanto, consegnando, poi, il suo colore alla bevanda. Allo scendere delle temperature è corrisposto l'ingiallire della birra, le cosiddette bionde. Storie di terre e popoli, di culture? Ne eravate a conoscenza? Noi no, non così dettagliatamente almeno e la ragione per cui, ora, possiamo narrarle ha essenzialmente a che vedere con l'ignoto, le strade che si perdono, che si scelgono nel vuoto, al posto di quella battuta, in cui già ci si orienta perfettamente, portandosi dietro il dubbio, la paura, ma pure il coraggio e l'entusiasmo di quel che si può ancora inventare.

La nostra scoperta è partita da uno spazio difficilmente catalogabile, a Ferrara, in via del Mercato 6: l'osservazione scorge un bancone, dei dischi in vinile, molte lattine appese, un telefono ed una televisione vintage e diverse biciclette appese al soffitto. Si tratta, come aggiungerà Michele Massellani, di uno spazio unico, non di un birrificio, ma di un birraio itinerante, che ha studiato, progettato e costruito autonomamente ogni singolo dettaglio dell'arredamento di quei locali, fino ai tavolini dove ci si siede, appoggiando un boccale di birra, in attesa del primo sorso. "Lost Road" è il nome di questa struttura, anche se, per tutto ciò che c'è dietro quelle due parole in inglese, potrebbe essere il titolo dato a una storia, quella di Michele, in primis, quella di chiunque voglia ispirarvisi, in secundis. Fino a quattro anni fa, Michele Mascellani era lontano da qui. Aveva studiato economia all'università e, successivamente, era stato assunto in banca in qualità di consulente fiscale e normativo: giacca e cravatta, uno stipendio certo e un futuro già delineato. «Per dieci anni, quello era il mio mondo e, almeno all'inizio, credevo potesse esserlo per sempre. Ero un esecutore: mi veniva detto ciò che dovevo fare ed io agivo. Alla lunga, è diventato un peso. Dove avevo lasciato le mie idee? Dove era finita la mia creatività? Quell'incasellamento che, da una parte, era tranquillizzante, dall'altra era una gabbia che mi precludeva la realizzazione della parte più intima di me».

Da quel momento, la prima strada persa: Massellani trascorre vari giorni, vari mesi, in giro per l'Italia, frequentando corsi specializzati per diventare "birraio", al ritorno, in un piccolo impianto a casa prova a mettere in pratica tutte le nozioni apprese, qualche tempo e si licenzia. Perde tutto, raccoglie solamente la buonuscita che gli spetta per legge e, con quei fondi, inizia ad ideare quel locale che vi abbiamo descritto. «La prima reazione di chi si ha accanto, in questi frangenti, tira in ballo la follia di un cambiamento simile, senza alcuna certezza, senza alcun appoggio su cui cadere se non dovesse funzionare. I miei genitori, mia sorella, anche alcuni amici: "Hai studiato per questo, cosa ti salta in mente?". La volontà e l'idea sono difficili da capire per chi non sta vivendo quel che vivi tu, però, chi ti vuole bene può capire la motivazione, la spinta interiore che ti porta ad un salto nel vuoto di questo tipo. Chi ti vuole bene, alla fine, appoggia questa spinta». Qui il discorso si amplia ed esplora il termine cambiamento: spiega Massellani che, in fondo, tutti subiamo il fascino del cambiamento e tutti, almeno una volta, abbiamo pensato di stravolgere la nostra vita e ripartire da capo, in maniera differente. Poi, spesso, ci siamo fermati: «Normale, umano, direi. Gli esseri umani tendono a essere conservatori, anche se non stanno bene nelle loro scarpe. Lost Road è un invito a perdere la strada, ad accettare il rischio di perderla per ritrovarsi».

Sì, da quella "follia" la creatività ha continuato ad espandersi. Dapprima negli assaggi casuali in tutta la sua esperienza, che «permettono una memoria su cui fare affidamento per scegliere come strutturare la tua ricetta, dagli assaggi nella cucina della nonna, da bambini, noi riconosciamo le spezie, i profumi», all'osservazione della birra nel bicchiere, «quanto rimane la schiuma, se la sua grana è fine o pannosa», alle note olfattive, all'assaggio, «lì comprendiamo se ci sono sapori assonanti o dissonanti, coerenti rispetto al profumo», sino al lato tattile, «se lascia la bocca pulita, se restituisce pienezza, se è vellutata o acquosa», il tutto nell'introspezione di un momento di solitudine e silenzio in cui sono coinvolti tutti i cinque sensi: questa è l'arte di un birraio. Prendiamo in mano una lattina ed il suo design, all'improvviso, ci riporta al ciclismo, all'epoca di Coppi e Bartali, più avanti di Merckx, a tante imprese, al ricordo delle maglie storiche: saranno le due bande colorate e lo sfondo bianco, l'eco della maglia Bianchi, ad esempio. Le due bande cambiano colore a seconda della tipologia di birra, nello spazio bianco, invece, una scritta a raccontare come siano i lunghi giri in bicicletta a Ferrara, nella grande pianura e nei luoghi più sperduti, accanto allo scorrere del Po, alle sue acque, a ispirare birre «fresche, equilibrate e pericolosamente facili da bere». Il legame tra le birre di Lost Road e la bicicletta è stretto e ricco di sfaccettature: si nota non solo per la cargo bike di Michele Massellani, il mezzo che usa per le consegne, sempre parcheggiata davanti alla vetrina, vicino alla distesa di tavolini, non solo per la vecchia Cinelli appesa all'interno del locale, ma si definisce bene anche in relazione alla città, a Ferrara, che, da sempre, dedica una particolare cura alla ciclabilità e alle persone che pedalano, oppure in relazione a tutti i ciclisti che, di tanto in tanto, si fermano qui a bere una birra, mentre prendono fiato e leggono un giornale, una rivista. I giri in bici di cui parla l'etichetta sono quelli di Michele che, sin da ragazzino, ha conosciuto la città attraverso i pedali.

«La birra è una sorta di prolungamento, di continuazione di quel che si vive in un giro in bicicletta: un modo, insomma, per conservare quel che si è appena vissuto, parlandone con gli amici, davanti ad una bevanda dissetante e beverina, prima della doccia finale, al rientro a casa, magari. Una bevanda studiata appositamente per non stancare ed essere adatta a quella circostanza: non troppo corposa, non troppo alcolica, ma appagante, come un premio, una ricompensa». Michele Massellani riflette spesso sul fatto che, in Italia, non ci sia una vera e propria cultura della birra, maggiormente sviluppata, semmai, è quella legata al vino: questa mancanza, in realtà, si traduce in diversi aspetti che tutti possiamo osservare e che Massellani ben analizza: «Spesso parliamo di birra bionda o birra rossa, di "bevanda gialla più conosciuta al mondo”, parliamo di alcune caratteristiche, il fatto che sia dissetante o meno, conosciamo, forse, la zona d'origine, nemmeno sempre, ma non finisce lì. Ci sono enormi differenze tra le birre industriali e quelle artigianali, soprattutto una birra è sempre e in particolare modo legata da uno stile, ad un'interpretazione, alla cultura di un popolo, ai suoi costumi, alle sue usanze. A quel punto si apre davvero un mondo».

Accade molte volte: Michele Massellani racconta le proprie birre in eventi pubblici, con molte persone ad ascoltare, prova ad esaudire le loro curiosità. Ad esempio, rispetto alla prima birra da lui prodotta, elaborata sullo stile di quella bevuta a Colonia, in Germania, dopo vari assaggi da bevitore curioso. Al rientro a casa, ha iniziato a provare a ricostruirne il gusto, avvicinandosi sempre più, ad ogni modifica, fino al gusto che voleva sentire, quello giusto, perfetto, desiderato. Ma c'è di più, perché molte domande, molto interesse è proprio per la storia di Michele, per quella vecchia vita sicura abbandonata e per l'incertezza scelta per riprendersi la creatività e la possibilità di realizzare pienamente ogni sua capacità come persona: «Le persone vogliono sapere, si immedesimano e magari trovano il coraggio per intraprendere la loro strada del cambiamento, per avventurarsi su una via sconnessa che potrebbe accompagnarli a quel che davvero vogliono». Qualche volta Massellani si fa prendere dalla timidezza, si sente imbarazzato nel racconto, poi, pensa che è necessario, che a chi è venuto alla degustazione può servire e inizia a narrare, come ha fatto oggi, con noi. In questo spazio non definibile a priori, immerso nel fascino di quel che è necessario esplorare, nel profumo e nel sapore di una birra, nel vento e nella velocità di una bicicletta, per le strade di Ferrara.