Storie di scelte: intervista a Enrico Battaglin

C’è stato un momento in cui i pedali di Enrico Battaglin sembravano non girare più. Era il 2019 e nella testa di Enrico cominciavano a tornare le domande. «Quando vedi che le cose non vanno e non ne capisci il motivo, non sai più cosa raccontarti. La spiegazione è essenziale, almeno per accettare la situazione. Qualche giorno me lo sono anche detto: “Chissà forse non vado più. Magari è arrivato il momento di smettere”».

Non era quello il caso, per Enrico, infatti, tutto cambia dopo un’operazione al naso. Quel periodo, però, gli lascia molta consapevolezza. «Di persone pronte ad aiutarti, nella vita non solo nel ciclismo, ce ne sono poche. In compenso molte aspettano di sostituirti, di prendere il tuo posto. Non è il mio caso ma spesso succede così. Alla fine capisci che i problemi devi provare a risolverli da solo, ad uscire da solo dal fango in cui sei rimasto bloccato, altrimenti non c’è via. Ma forse è anche giusto così, non possiamo chiedere ad altri di semplificarci la vita. Si tratta di una nostra responsabilità».

Il ritiro diventa così per Enrico Battaglin l’occasione per conoscere al meglio i compagni e soprattutto per farlo in tranquillità: l’adrenalina delle gare spesso non lo permette ma la conoscenza non è un aspetto trascurabile per stare in gruppo.

Frequentare i luoghi e le persone, per conoscerle e migliorarsi. «So di un ragazzo che ha un preparatore che non ha mai incontrato personalmente. A me sembra impossibile. Vero è che questa realtà tecnologica tende ad annullare le distanze, ma la fiducia è anche questione di conoscenza diretta. Se c’è una cosa che cerco di portare ai giovani in Bardiani è la mia esperienza. Anche Giovanni Visconti fa lo stesso, ma abbiamo caratteri diversi. Lui è più estroverso, io più discreto, più timido. Non mi piace stare al centro dell’attenzione. Come provo ad aiutare i più giovani? Raccontando ciò che è capitato a me. Io credo che gli esempi restino più in mente. Per portare esempi, però, devi esserci, devi essere presente anche fisicamente, farti vedere, metterti in gioco. Come fai da uno schermo?».

Le esperienze estere di Battaglin, prima del ritorno in Bardiani, gli hanno reso evidente il valore della comunicazione. «Quando ho scelto la Jumbo-Visma, ci ho visto lungo. Non era la squadra di adesso. Poi ho avuto fretta e per non restare nell’incertezza sono passato subito in Katusha. Lì credo di avere sbagliato. C’è una costante: avrei dovuto conoscere meglio le lingue, l’inglese almeno. All’estero considerano molto questo aspetto, puoi avere tanti numeri ma, se si accorgono che non riesci a comunicare, iniziano a nutrire dubbi. So che nella nostra squadra è difficile perché siamo tutti italiani, ma credo serva lavorarci. Impari molto e stai certo che ti servirà».

Comunicazione che può e talvolta deve essere schietta, anche molto schietta. «Prendi Roberto e Bruno Reverberi: il primo è più diplomatico, il secondo più schietto. Alcuni dicono che il modo di Bruno è da vecchio ciclismo, io non credo. Ognuno ha la sua sensibilità ma personalmente se hai qualcosa da dirmi, voglio che tu lo faccia nel modo più diretto possibile. Senza troppi giri di parole. Dritto al punto». Sui Reverberi, Enrico è chiaro: «Bardiani è cresciuta, migliorata da quando io sono andato via. La Bardiani di adesso ha il livello di alcune World-Tour. I Reverberi mi hanno lasciato andare via e mi hanno lasciato tornare. Sono tanti anni che fanno questo lavoro, potrebbero anche stancarsi no? Può accadere a tutti. Invece con la loro parsimonia, vanno sempre avanti. E ogni anno qualcosa di buono lo fanno».

Al ciclismo Enrico Battaglin è arrivato quasi per caso. Praticava anche sci di fondo e gli piaceva, crede che le due discipline siano complementari. Ogni tanto si sofferma a guardare il Biathlon, in televisione. «Il punto è che con questi sport sei in mezzo alla natura, usi tutto il tuo corpo, lo conosci, ti conosci e in questo modo ti senti libero». Battaglin ha anche scelto il ciclismo, all’inizio come negli anni a venire. Dice che del ciclismo ha imparato ad accettare la distanza che, se all’inizio può essere avventura e scoperta, con gli anni, e con una famiglia al proprio fianco, può diventare faticosa da accettare. Poi riprende il filo del discorso e, lentamente, precisa: «La testa è fondamentale. Non devi tralasciare nulla, devi dare tutto ciò che hai ed anche di più. Non sono frasi fatte, lo capisci anno dopo anno. Così diventi consapevole e hai meno paure. Ti alleni meglio e sai esattamente cosa puoi fare. Arriva il giorno in cui puoi anche non gareggiare ma sei tranquillo, sai come hai lavorato e sai quanto puoi fare. Credo sia il momento migliore. Si cresce continuamente: bisogna saperlo per continuare a fare quello che si fa e per continuare a crederci».

Foto: Paolo Penni Martelli


Fem van Empel e la filosofia olandese

Un calcio al pallone non si rifiuta mai, figuriamoci in Olanda, terra dove il calcio assume da un secolo significati persino filosofici. È vero che, come afferma il giornalista inglese David Winner, si iniziò a scrivere di Totaalvoetbal nel 1974, ma le basi furono gettate diversi decenni prima grazie a Jack Reynolds, allenatore inglese che guidò l’Ajax, a fasi alterne, dal 1915 al 1947.
A lui pare si debba una certa impostazione del gioco palla a terra, una struttura di scuola calcio basata sull’insegnamento dello stesso metodo di allenamento e di gioco a ragazzi appartenenti proprio al settore giovanile dei lancieri. Non ultimo, a Jack Reynolds si attribuisce il celebre aforisma calcistico “l’attacco è la miglior difesa”.
Se poi il grande Ajax negli anni ’60 e ’70 perfezionò il metodo e lo strutturò in una vera e propria armonica filosofia di gioco, beh sappiamo tutti chi sono stati alcuni tra i grandi artefici: Rinus Michels e Ștefan Kovács, o come non citare poi Johan Cruijff. La loro idea è arrivata fino ai giorni nostri, fino a Pep Guardiola, il suo più importante (e vincente) rappresentante contemporaneo, catalano di nascita, ma olandese dal punto di vista della filosofia calcistica.

Tuttavia questa è una digressione, concetti semplificati allo stremo – d’altra parte si parla di ciclismo. Un volo pindarico per introdurre la veloce e recente ascesa di Fem van Empel, diciottenne di Sint-Michielsgestel, Brabante olandese, Brabante del Nord, che domenica scorsa ha conquistato il titolo iridato nella prova Under 23 femminile del ciclocross a Ostenda, in Belgio.

Fem van Empel inizia a muovere i primi passi – davvero in questo caso – proprio giocando a calcio, nonostante una famiglia che nel ciclismo si distingue non solo per passione, ma anche per lavoro. Suo zio Ad van Empel è un noto costruttore di bici – le Empella, mezzi sui quali negli anni sono stati vinti diversi titoli mondiali proprio nel ciclocross – ma a Fem, figlia della tradizione descritta sopra, inizialmente piaceva di più giocare a pallone – anche se siamo pronti a giurare che a lei della filosofia del calcio totale e della sua architettura, poteva interessare il giusto. Fino a 13 anni, Fem si misura con i ragazzi, poi, a causa della differenza fisica che si faceva via via più marcata, si adatta a giocare con le sue coetanee.

Leggiadra e talentuosa col pallone tra i piedi e come più tardi lo si scoprì vedendola in sella a una bici, van Empel sfruttava le sue qualità come ala destra del club di Neunen, squadra della piccola cittadina dove Vincent van Vogh visse una brevissima parte della sua breve vita e vi trovò ispirazione per dipingere una delle sue opere più conosciute: “De Aardappeleters”, “I mangiatori di patate”. Neunen, città dove è nato e vissuto anche Steven Kruijswijk.

Van Empel, però, a suo dire si divertiva molto più con le due ruote che col pallone. E difatti la scelta non tarda ad arrivare: a un certo punto doveva decidere se diventare calciatrice, da piccolina sognava di vestire la maglia del Bayern Monaco, oppure iniziare a praticare uno sport che vede l’Olanda come una delle nazionali sportive più forti e dominanti in assoluto. Dopo buoni risultati in mountain bike, nel 2019 si indirizza verso il ciclocross entrando a far parte di quel mondo che oggi vede gente come Alvarado, Betsema, Brand, Worst, Kastelijn, senza dimenticare l’eterna Vos o le altre rampanti emergenti come van Anrooij, Pieterse, van Alphen, Bakker, governare in modo assoluto. Aggiungendoci proprio il nome di van Empel farebbero undici, proprio come una squadra di calcio. Aggiungendoci, poi, quello che fa van der Poel, o il titolo conquistato sempre a Ostenda da Ronhaar davanti a Kamp – altri due olandesi – tra gli Under 23, e la tripletta tra le donne nella prova élite, fanno otto medaglie su dodici totali nel recente mondiale: se questo non è dominio totale figlio di una filosofia vincente, ditecelo voi cos’altro può essere.

Domenica scorsa, mentre tutti aspettavano il duello van Aert contro van der Poel, un dualismo che ha fatto parlare anche il Wall Street Journal e che è stato seguitissimo in televisione sia in Olanda – a dispetto di alcuni match di Eredivisie in contemporanea – che in Belgio, Fem van Empel era una delle favorite nelle gara delle Under 23, ma alla fine poteva essere un nome tra i tanti da pescare in mezzo al mazzo delle pretendenti in arancione. A un certo punto della gara cade con la faccia in mezzo alla sabbia. Si rialza e invece che difendersi, attacca, inizia a macinare, raggiunge e supera le avversarie sulla spiaggia prima di mantenere il distacco necessario a vincere, nel tratto in erba. Quando sta per tagliare il traguardo un sorriso appare finalmente sulla faccia tonda da adolescente, quasi incredula, così acerba da vedere persino spuntare ancora qualche brufolo.

«Il fatto principale» dicono di lei i suoi tecnici «è che avendo cominciato a correre da pochissimo, nessuno conosce i suoi limiti». Un altro nome da appuntarci non solo per il prossimo inverno di ciclocross, ma prima o poi anche su strada. In Olanda la filosofia recente più che al bel gioco sembra virare spedito verso il concetto di vittoria. Almeno sulle due ruote.

Foto: Dion Kerckhoffs/PN/BettiniPhoto©2021


La nuova vita di Sevilla

Chissà se anche a Medellín sarà lo stesso. Se quell’eco arriva fino a lì. I nomi dei ciclisti sono evocativi. Riportano indietro di anni e si collegano quasi automaticamente ad altri nomi, come nella ricostruzione di un puzzle. Succede per il ciclismo come per tutti gli altri sport. Chi non ricorda a memoria la formazione dell’Italia campione del mondo nel 1982? Alcune volte quei nomi sono persino associati alla particolare cadenza nella loro pronuncia da parte di un cronista. Quasi sempre a ricordi o pomeriggi estivi davanti al televisore. Magari nell’infanzia o nell’adolescenza. Per questo se vi nominiamo Óscar Sevilla, è come se vi nominassimo anche Santiago Botero, Juan Manuel Garate, Beat Zberg, José Maria Jiménez, Santiago Blanco, Igor Gonzàlez de Galdeano e molti altri. Solo alcuni fra gli atleti che hanno fatto parte del gruppo a cavallo fra gli anni novanta e il duemila.

Magari eravate ragazzini e seguivate il Tour de France durante le vacanze estive, oppure eravate già adulti e per sapere qualcosa dell’andamento della Grande Boucle aspettavate di infilarvi in macchina e di accendere la radio. Sevilla ebbe il suo anno migliore proprio in quel 2001 ed il racconto apparterrebbe agli annali, non fosse che il ”ragazzino” nato ad Albacete, in Castiglia-La Mancia, il 29 settembre 1976, è ancora sulla breccia e a quasi quarantacinque anni, qualche settimana fa, si è imposto nella prova a cronometro della Vuelta al Tàchira, in Venezuela, chiudendo poi secondo in classifica generale.

Óscar Sevilla arriva in gruppo nel 1998. Esile, non molto alto, ha il classico fisico da scalatore ed il sorriso tipico degli spagnoli. Corre per la Kelme marchio di abbigliamento divenuto noto in Italia per quella maglia a strisce verdi e bianche. Squadra di scalatori e fuggiaschi: Roberto Heras e Fernando Escartìn i più celebri, Alejandro Valverde tra i volti noti lanciati nel professionismo. Al Tour del 2001 chiude settimo, Sevilla. Ha quasi venti minuti da Lance Armstrong, non tiene il passo dell’americano ma è sempre nel gruppo dei migliori e prova anche a giocarsela. A Parigi vestirà la maglia bianca di miglior giovane e solo poche settimane dopo rischierà di vincere la Vuelta, superato dal connazionale Ángel Casero. Sarà la sua migliore annata, negli anni successivi stenterà a riconfermarsi a quel livello. Ma la batosta non è questa, la batosta deve ancora arrivare ed inizia a serpeggiare a fine giugno del 2006 fra le pagine dei giornali e il villaggio di partenza del Tour de France a Dunkerque. È l’Operación Puerto.

Sevilla non è coinvolto personalmente, ma come compagno di squadra di Jan Ullrich alla T-Mobile. «Ho sofferto molto- racconta a Cyclingnews- non potevo fare nulla. Non potevo neanche difendermi perché non ero accusato personalmente. La federazione ci ha lasciato in un limbo: non potevamo tornare e non avevamo nemmeno una giusta pena da scontare». Il ricordo più doloroso per Sevilla è legato alla sofferenza che respirava in casa, la paura di aver deluso. Se vuole andare avanti, deve cambiare qualcosa. Una delle possibilità, è cambiare terra. «Non fosse stato per l’Operaciòn Puerto correrei ancora in Europa. Avrei guadagnato più soldi e sarei anche stato più famoso. Ma non sarei mai stato felice come lo sono ora». Sevilla parte, va in Colombia.

Lì trova la vita vera: «La verità è che sono contento di aver superato quelle difficoltà e di essere qui. Nonostante tutto sto ancora facendo ciò che ho sempre voluto fare. Ho trovato un’altra vita, me la sono costruita. Perché? Perché ho trovato un’altra nazione, dove la vita è considerata per ciò che è e per quanto vale. Spesso in Europa non apprezziamo quello che abbiamo e abbiamo tantissimo. In Colombia hanno molto ma molto meno però danno un valore enorme ad ogni cosa. Si godono la vita e si godono ogni giorno. Non sono arrivato qui in un periodo facile, ma sono riusciti a farmi sentire a casa, a farmi sentire felice».

Così, a chi si chiede perché Óscar Sevilla corra ancora, a chi si meraviglia e non capisce come faccia ad essere così competitivo e a sfidare ragazzi che potrebbero essere suoi figli, lui risponde spontaneamente, quasi non percependo la profondità di ciò che va a dire. Sempre quel suo sorriso, a metà tra lo spavaldo ed il timido e quella cadenza impastata di spagnolo. «Alcune volte la vita ti toglie delle cose. Alcune volte molte cose, ma sappi che te ne restituirà altre. Cose che nemmeno ti immagini. Se ho avuto l’opportunità di ricominciare da capo, dovevo sfruttarla fino in fondo. Con tutto il bene e con tutto il male».

Foto: BettiniPhoto©2020


La scalata di Omar Di Felice all'Everest

Quando squilla il telefono, Omar Di Felice sta sistemando i bagagli per la partenza ed è proprio di questa idea legata al viaggio che inizia a parlarci quasi confidenzialmente. «Ogni volta che si parte o si riparte si rivive la stessa storia. C’è entusiasmo per la carica di avventura che ti aspetta ma hai paura perché, alla fine, cosa realmente ti aspetta lo sai quando lo vivi». Del resto Di Felice non sta partendo per un viaggio qualunque: in circa tre settimane, senza supporto, raggiungerà il Campo Base dell’Everest a quota 5364 metri. Il 6 febbraio, dopo essersi sottoposto a un tampone molecolare per il Covid, Omar volerà verso il Nepal, verso Kathmandu. Da lì, il 15 febbraio, dopo un periodo di quarantena e un altro tampone, aggancerà i pedali e ripartirà, questa volta in sella. «Devo dire la verità, con il periodo che stiamo vivendo mi riesce sempre più difficile essere certo di ciò che farò. Anche in questo caso, credo che la certezza vera e propria non l’avrò fino alla prima pedalata».

L’idea viene da lontano, dall’autunno. «L’ultracycling è qualcosa di solo apparentemente individuale, in realtà dietro devi avere delle persone competenti, che credano in te, che credano alla tua idea e che ti aiutino a realizzarla. Certe cose sono possibili solo grazie a loro, anche se poi a pedalare sono io. Alcune idee mi vengono durante le sgambate invernali, poi c’è la realizzazione. Sono queste persone che ti aiutano ad attrezzare tutte le vie di fuga possibili, le uscite di sicurezza, tutto ciò che ti rende più sicuro e rende più tranquille anche loro che magari ti vogliono bene e ti sanno su qualche passo himalayano nel mezzo della notte. Non è facile».

Da Kathmandu, Omar pedalerà verso nord-ovest sino alla suggestiva regione del Mustang. Di Felice spiega che i primi trecento, quattrocento chilometri per quanto difficili saranno su strade percorribili. Il problema arriverà quando si inizierà a salire verso Kora La Pass, 4660 metri, Annapurna e Thorung La, 5416 metri. Da qui, infatti, si giungerà al Campo Base del Tilicho Lake, 4919 metri, e successivamente al Campo Base dell’Everest.

«In molti tratti dovrò per forza procedere a piedi, con la bicicletta in spalla. Per esempio sull’Annapurna, un passo che in inverno non percorre nessuno. Io mi aiuterò con ramponi e scarponi per oltrepassarlo. Sarò l’unico lì in quei giorni. Nello zaino avrò l’essenziale, gomme chiodate, attrezzatura da bikepacking e vestiti adatti, il più compattabili possibile. Non potrò portare molte riserve di cibo o di acqua. Mi affiderò all’ospitalità dei villaggi locali. Le popolazioni asiatiche sono molto accoglienti, lo sappiamo. Chiederò aiuto a loro». Il problema sarà il freddo. «La possibilità di congelamenti non è data tanto dalle temperature di meno venti, meno trenta gradi, è la quota a fare la differenza. Sarò per molti giorni a 4000, 5000 metri, col rischio di rimanere bloccato e di passare lì la notte, magari in mezzo a una bufera di neve».

In questi casi Omar monterà la sua tenda ed utilizzerà il sacco a pelo, il resto delle notti, invece, lo passerà nei villaggi. «In Mongolia mi trovavo in un deserto, qui no. Credo che gli abitanti del Nepal non siano abituati a vedere ciclisti, però si relazionano con alpinisti ed escursionisti. Chissà. Di sicuro stare con loro mi aiuterà a recuperare. Dovrò avere molta pazienza per l’acclimatamento ed in alcuni casi dovrò anche tornare indietro per aiutare il mio fisico». Di Felice si è confrontato con un medico che gli ha sottoposto un protocollo per il freddo. «L’altitudine è imprevedibile. Noi europei non siamo abituati a confrontarci con queste altitudini. Si può andare incontro a edemi polmonari, a edemi cerebrali. Ho dei medicinali che potranno aiutarmi. Spero di non averne bisogno».

Se Di Felice dovesse trovare una chiave di lettura per questo percorso di circa 1300 chilometri e 40000 metri di dislivello, parlerebbe di visione: «Se chiedi a cento persone se sia il caso di affrontare un viaggio come questo, almeno novanta ti daranno del pazzo. Io mi fido dell’appoggio di chi ho accanto e mi scordo il consenso delle persone. Questo ha voluto essere sin dall’inizio un viaggio “verticale”, un’ascesa al tetto del mondo. Quante possibilità c’erano di realizzarlo? Poche, abbiamo visto tutti cosa è successo con questa pandemia. Credo, però, che le possibilità dobbiamo anche essere bravi a crearcele da soli. Essere visionari, in questo senso. Ed io sono visionario».

Omar chiude la cerniera di uno zaino e torna a parlare. «L’istinto è solo la prima fase. Ti immagini un qualcosa e decidi che vuoi provare. In realtà, quando inizi a camminare dentro ciò che hai immaginato, capisci che l’istinto non basta più. Servono persone che non frustrino le tue idee e che ti aiutino a ritrovare i migliori pensieri anche quando non ne hai più. Soprattutto serve la paura. Non sono un uomo invincibile, non sono un supereroe. Posso sbagliare, posso farmi male. Può accadere di tutto anche a me. Per questo una buona dose di paura la avverto sempre. Non è qualcosa di cui vergognarsi. La paura mi ha sempre salvato, la paura mi ha fatto capire quando dire basta, quando fermarmi, quando tornare indietro. Alla paura devo un grazie».

Foto: @6Stili/Luigi Sestili


Ekar by Campagnolo

Questo è il primo live talk di Parole Alvento!
Un format diverso rispetto allo storytelling, con ospiti intervistati.
Di tanto in tanto riproporremo questa formula, fateci sapere se vi piace!

Siamo andati nella sede di Campagnolo, a Vicenza, per scoprire tutto di Ekar, il nuovo gruppo 1×13 dedicato al gravel che oltre ad essere il più leggero nel settore, è anche estremamente innovativo. Abbiamo registrato un live talk con il product manager di Ekar, Giacomo Sartore e con il responsabile marketing Nicolò Ildos.
Nella chiacchierata viene approfondito ogni dettaglio della ricerca e sviluppo e delle caratteristiche tecniche di Ekar, ma saltano fuori anche dettagli da ‘insider’ di cosa vuol dire vivere e lavorare in un’azienda storica per il ciclismo come Campagnolo.
Il tutto nello stile easy e amichevole di Alvento.

Intervista: Claudio Ruatti
Ospiti: Nicolò Ildos, Giacomo Sartore
Montaggio/editing: Brand & Soda

 


Il suono caldo del ciclocross

Il sottofondo che accompagna ogni evento a Ostenda ci piace immaginarlo con la voce calda di Marvin Gaye. Sembrerebbe quanto mai fuori luogo scomodare il cantante americano, non fosse che qui ci sono diversi ricordi legati alla sua presenza. Trent’anni fa, più o meno esatti, sbarcò da Southampton per cercare redenzione: i debiti lo stavano divorando, come la cocaina; ai ferri corti con moglie e con la Motown – la celebre casa discografica che lo aveva lanciato – Marvin Gaye trovò ispirazione e purificazione proprio in questa città nel nord Europa grazie all’aiuto di Freddy Cousaert, produttore musicale belga.

Chiuso in un piccolo appartamento vicino la spiaggia, osservando la schiuma del mare del Nord e i bagnanti intenti a prendere sole scavando buche nella sabbia per ripararsi dal vento, Marvin Gaye compose una delle sue più celebri canzoni “Sexual Healing”, che gli valse un grammy un anno prima di venire ucciso a colpi di pistola dal padre. Visse il suo momento di pace in questo posto freddo e grigio come solo un luogo affacciato sul mare del Nord può esserlo. Un posto nato per i pescatori, e che pochi chilometri più a sud, a Oostduinkerke per la precisione, vede ancora attiva la pratica della pesca a cavallo di piccoli gamberetti grigi chiamati “rikze garnalen” e che pare siano buonissimi da mangiare con la salsa rosa, oppure pastellati.

A poche centinaia di metri dalla partenza delle prove iridate di questi giorni, all’interno del Kursaal Oostende, edificio simbolo della cittadina belga, campeggia una statua in oro del cantante americano raffigurato mentre suona il pianoforte: è uno dei piatti forti del turismo del luogo e quando si è da quelle parti appare quasi d’obbligo farsi fotografare di fianco a lui, come fosse il Duomo a Milano o il Colosseo a Roma. Oppure, per entrare in argomento: sarebbe come cercare di farsi fare una foto con van der Poel o van Aert.

Schierati in attesa dello start di fronte all’Ippodromo, ecco gli artisti tanto attesi: abbondiamo di retorica, ma non si potrebbe fare altrimenti. D’altra parte: come chiamereste questi funamboli delle due ruote, capaci di guidare con tale tecnica tra i solchi sulla sabbia, abili a sprigionare forza e allo stesso tempo a prestare delicata attenzione nello stare in piedi, o a superare indenni il passaggio sul ponte al 21% di pendenza? O, “quasi come se nulla fosse”, a passare con tale leggerezza dal tratto iniziale della pista in cenere a quello in erba, capaci di scendere e poi di risalire al volo dalle loro biciclette?

Ma: “What’s going on”? Eccolo il caldo ritmo di Marvin Gaye in sottofondo, subito prima del via. Parliamo della corsa: cosa sta succedendo? Succede che Van Aert e van der Poel sono i due attori principali di questo spettacolo. Partono appiccicati e sembra possono esserlo fino alla fine dell’attesa ora di gara. Dopo centottanta secondi sono già da soli. Succede che Mathieu van der Poel è un organo caldo, di quelli che basta toccarlo un attimo per scottarti, mentre van Aert è una gran cassa che picchia sulla sabbia e quando è sul bagnasciuga sembra poter spostare, oltre che il suo avversario, anche le onde del mare. Quelle onde che si infrangono sulle ruote dei corridori e danno al quadro generale un tocco ai confini del reale.

I freni strombazzano a ogni curva come auto in centro all’ora di punta, mentre i due se ne vanno, salutano, non li rivedono più, e dopo un giro hanno già lasciato tutti gli altri distanti a fare un’altra corsa. Dietro Pidcock è un solista in mezzo a un’orgia fiamminga: proverà a rimontare, rimontare, giro dopo giro, per un attimo sembra farcela, sarà quarto alla fine, a un tiro da un incredulo Toon Aerts.

Ma davanti, di nuovo: cosa succede? La temperatura si alza, nonostante il freddo, ma l’atteso testa a testa dura pochi giri. Non si può sbagliare nulla: la sbavatura di uno, lancia davanti l’altro, la caduta di van der Poel sembra mettere le ali a quel ragazzo tutto testa e potenza con la marca di una bevanda energetica stampata sul caschetto.

Sono danzatori sulla sabbia, osano l’impossibile, sbattono sul terreno come se la loro fosse una danza tribale. E al terzo giro la temperatura è bollente. Van der Poel insegue a causa della caduta, van Aert e lì davanti che non si scompone, una sfinge, pochi secondi di vantaggio, poi d’improvviso vacilla. Van der Poel gli arriva sotto a una velocità che definiremmo doppia, quasi tripla avessimo gli strumenti per misurarla. Van Aert ha forato e viene superato dal rivale.

Il belga lo tiene a tiro ugualmente, tornata dopo tornata, dopo solco, dopo barriera, passaggio dopo passaggio verso la meravigliosa galleria veneziana, mentre alle spalle ci si lascia il mare del Nord tinteggiato sempre più di un colore cupo, quasi marrone.

Poco dopo metà gara, ogni piccola azione, ogni piccolo movimento, ogni piccola nota suona a favore dell’olandese; la sua taranta sulla sabbia lo infiamma, le curve sono come il bollente bacio di un innamorato, quello che era solo forza e talento oggi è anche acume e disciplina: otto secondi di vantaggio al quarto giro, tredici al quinto, ventidue al sesto, ventinove al settimo e penultimo.

Ora ci immaginiamo una musica che arriva da qualche parte, un po’ distante, sembra suonare un ritmo caldo: “Brother, brother, brother there’s far too many of you dying”. Accompagna l’ultimo giro di van der Poel, fa da cornice al breve rettilineo finale: van der Poel si inchina sul traguardo, mostra i muscoli, ritto verso un rito che lo porta al suo quarto titolo mondiale. Un successo reso ancora più grande da un grande avversario come van Aert che chiude a trentasette secondi.

P.S. Una postilla sulla divertente gara delle Under 23 femminile andata in scena poche ore prima: vince Fem van Empel, diciotto anni, che solo pochi anni fa giocava a pallone e sognava un giorno di vestire la maglia del Bayern Monaco. Quinta Francesca Baroni: un risultato di spessore, il migliore della spedizione azzurra.

Foto: Dion Kerckhoffs / BettiniPhoto © 2021


Si parte? (Ma si arriva?) - Tra maglie iridate (tre) e superstizioni

Come finisce, tutto prima o poi ha un inizio, logico meccanismo sul quale non serve nemmeno stare troppo a ricamare. Passano, ahinoi, le stagioni, scandite irrimediabilmente dagli eventi sportivi. Domani ci sarà una sorta di incrocio tra strada e cross, una sorta di fine che coincide con una specie di inizio: non chiamiamolo passaggio di consegne per carità, non lo è, ed è anche brutto da dire.

Nella sabbia belga andrà in scena l’atto principale – non quello conclusivo, ma ci siamo vicini – della stagione del ciclocross. Il Mondiale, a Ostenda, in Belgio, con quel tratto in spiaggia dove van Aert e van der Poel possono sprigionare potenza inaudita e più che pensare al gelo che arriva dal mare del Nord si prenderanno a biciclettate nei denti per l’ennesimo atto di una rivalità che parte da lontano nel tempo e che si riversa in strada e nel fuoristrada: il desiderio massimo, ma non diciamolo troppo ad alta voce, per questo 2021, sarebbe vederli contro sul pavè della Roubaix. Magari in una Roubaix (come un sogno) bagnata.

Tre a tre è il conto delle loro maglie iridate (tra gli élite), e, ironia della sorte, al via c’è un altro ragazzo che di titoli ne ha vinti tre, ma che ormai col ciclocross ha poco a che fare, Zdeněk Štybar. I tre oltretutto sono gli unici in gara ad aver vinto il mondiale nella massima categoria. In questa stagione del cross, Štybar, per “gli amici” Štiby, non si è mai visto, ma raccontava nei giorni scorsi di essersi allenato spesso in questo periodo con van der Poel, anche in mountain bike. Un privilegio. Ha aggiunto anche che è al via pagando tutta la trasferta di tasca sua e che invece di portarsi dietro venticinque coppie di ruote come ai (suoi) bei tempi, ne avrà soltanto sette. A proposito di numeri e di numeri tre: esiste una lista di terzi incomodi, anche abbastanza lunga e che difficile possa includere il ceco e lo diciamo con rammarico: stuzzica molto Sweeck su un percorso del genere, Pidcock è uno che sa esaltarsi nei grandi appuntamenti, ma il percorso potrebbe vederlo tagliato fuori, mentre occhio a Vantourenhout che è stato uno dei più continui in stagione.

Tra le ragazze al via oggi, andrà presumibilmente in scena il Festival della Pedalata Olandese, nulla di nuovo, nulla a cui non siamo abituati, chi si veste di arancione ha una certa affinità con le vittorie. Sorte simile domani nella gara delle Under 23, qualche nome extra c’è: Vas, che non è Vos e arriva dall’Ungheria, Kay, sono nomi che stuzzicano la fantasia anche in chiave vittoria, occhio a loro per un pronostico nederlandifferente. Un accenno pure alle italiane, Lechner e Arzuffi, tra le élite (oltre a Teocchi, Gariboldi e Persico): un risultato nei primi dieci per le due azzurre sarebbe un traguardo da sogno. Qualcosa simile si può sperare anche con il trio in campo tra le più giovani: Baroni, Casasola, Realini in rigoroso ordine alfabetico. Anche se questa sabbia è dura da digerire.

Foto: ©️Red Bull Content Pool

Ma domenica si apre – in un certo senso – la stagione del ciclismo su strada, un po’ stampo anni ’90 con il Gp d’Ouverture – La Marseillaise. Anni ’90 perché a quei tempi quando leggevi il nome di quella corsa sapevi che finalmente si alzava il sipario. Poi le cose sono cambiate, Australia, Sudamerica a dare il là e a spostare altrove l’attenzione; è vero che si è già iniziato a correre (pochissimo per la verità) anche quest’anno ma è altrettanto vero che dalla rumorosa e multietnica Marsiglia si proverà a dare uno scossone al freddo torpore di un ciclismo che non si sa quando sarebbe iniziato e non si sa quando finirà, né come continuerà.

Intanto per il momento corse su corse vengono spostate a maggio, altre cancellate e ci rivediamo nel 2022. Anche il calendario giovanile è ancora una volta martoriato e – quasi sotto traccia – perde appuntamenti su appuntamenti, ed è un mezzo disastro su tutti i fronti.

Gp Marseillaise: ci sono sempre strane voci attorno a questa corsa, si parla di superstizione, e si sa che gli sportivi, i professionisti, ne sono sempre affascinati – proprio in senso etimologico, da fascino, fascinum – “maleficio”, oppure “amuleto a forma di…” e ci fermiamo qui. La si definisce “La maledizione della Marsigliese”. Si dice che chi vince questa corsa vivrà una stagione negativa. Lo scorso anno, per dire, primo fu Cosnefroy, poi in realtà è stato protagonista al Tour di tante belle fughe e di una buona stagione, ma il suo 2021 invece inizierà in ritardo per un problema al ginocchio.

Nel 2019 ha vinto Turgis che è l’ultimo superstite della dinastia di fratelli che hanno abbandonato il ciclismo giovani e giovanissimi. Jimmy si è ritirato a 29 anni, Tanguy, che pareva un talento super, a nemmeno 20 dopo aver ben figurato al Fiandre e alla Roubaix. Vichot che ha vinto nel 2017 si è ritirato quest’anno per problemi fisici legati all’overtraining.
A togliere ogni dubbio ci pensa tuttavia Bernard Hinault che nel 1982, terza edizione della corsa, vinse Marsigliese, Giro e Tour. Nell’albo d’oro figura anche Justin Jules che vinse qui nel 2013 e che nel 2008 fu condannato a 5 anni, poi ridotti a 3, di prigione per l’omicidio del patrigno. Justine una sera nel 2004 reagì fatalmente stufo di vedergli alzare le mani per l’ennesima volta su mamma e fratello. Il padre naturale di Justin invece era una buona speranza del ciclismo francese, nel 1984 vinse una tappa al Tour, due anni dopo morì a 26 anni in un incidente stradale. Ma queste sono storie sulle quali ci ritorneremo magari più avanti. Ora godiamoci nuovamente un po’ di ciclismo con van Aert contro van der Poel e speriamo persino che il destino possa farsi beffe della superstizione e che da Marsiglia in avanti (a proposito: Trentin e Vendrame tra i favoriti) si possa vivere una stagione di ciclismo. Avevamo scritto “piena di ciclismo” corretto e cancellato viste le ultime: a febbraio sta saltando una corsa dietro l’altra. Il problema è che poi svoltato l’angolo la stagione da marzo in avanti partirà a tutta. Si spera, almeno, perché non c’è molto altro da fare oltre che attaccarsi alle speranze. D’altra parte i tempi sono questi.

Foto: Nico Veereken/PN/BettiniPhoto©2021


Patagonia Alvento: in viaggio con Willy Mulonía

Alvento vi porta dove nasce il vento, in Patagonia.

Ora lo possiamo dire: il viaggio è confermato. Sono bastati poco più di cinque giorni perché il vostro entusiasmo per questa avventura ci invadesse. La conferma del viaggio è delle ultime ore: diverse persone hanno ufficializzato la propria partecipazione al viaggio #alvento con Willy Mulonía e sono rimasti davvero pochi posti disponibili, quindi se siete interessati a partecipare fatevi avanti!

Ma non si tratta di viaggio come altri, che avete affrontato nella vostra vita; ce lo spiega Willy con la sua solita contagiosa energia: «Dodici tappe, ventiquattro ore su ventiquattro. Non si tratta solo di pedalare, anzi, a tratti quella potrebbe anche essere la parte più semplice del percorso. Sei allenato e sai dove stai andando, in fondo devi solo pedalare. Qui si tratta di accamparsi, di prepararsi il proprio giaciglio, di prendersi cura di se stessi, di badare al cibo e all’acqua, di volersi bene. Forse è questa la parte più difficile, quella a cui non siamo abituati».

E la parola chiave per Willy non è impresa, ma consapevolezza. «Non lo nascondo, quando ho iniziato a fare questo tipo di viaggi anche io parlavo di epicità, di condizioni estreme e di imprese. Avevo addirittura il mio sito web che faceva riferimento al concetto di extreme. Non c’è voluto molto perché mi rendessi conto dell’errore colossale che stavo commettendo e lo cancellassi. Sai la verità? Ero talmente preso dall’agonismo che non riuscivo a custodire nemmeno un ricordo. Quando ho fatto il viaggio nelle Americhe sono arrivato a Santiago del Cile senza quasi rendermi conto di ciò che avevo visto in quei primi tremila chilometri. Dentro mi era rimasto davvero ben poco».

Ed è in quel momento che è arrivata la consapevolezza. «Sarà un viaggio di gruppo, sì, ma ognuno potrà permettersi il lusso di compiere un viaggio dentro se stesso, nel proprio io. Consapevolezza significa sapere perché sei lì in quel momento. Significa rendere lo straordinario ordinario. In fondo è straordinario solo perché non lo hai mai fatto prima. Quando lo fai per due, tre giorni, inizia a trasformarsi in un rituale, cominci ad abituarti e a capire che la routine non è poi così negativa, quando sei stato tu a sceglierla per davvero. Io vorrei portare questo fra le quattordici persone che verranno con me».


Solo ad una domanda Willy Mulonía non vi risponderà: «Non chiedetemi che tappa ci sarà il giorno seguente. Non deve interessarvi: ora state facendo la tappa di oggi e vi interessa questa. A sera, a cena, vi dirò del giorno dopo. Prima non saprete nulla. Perché? Perché dovete gustarvi quello che state facendo adesso e se iniziate a pensare al domani, una volta a casa non vi ricorderete più quel che stavate facendo ieri, ovvero oggi. Quando tornate a casa, dovete portarvi un ricordo che vi segni, che vi faccia venire voglia di tornare, qualcosa di dolce, di piacevole».

In quei giorni, Willy racconta che ciascuno potrà scoprire qualcosa di se stesso. «Si proveranno emozioni forti, diverse per ognuno. Ogni persona si porta qualcosa dentro, ciò che è, che sente o che prova. Una sorta di inquilino che le abita il corpo. Per alcuni un coinquilino, per altri un estraneo. Si dice “in vino veritas”, in realtà anche “in fatica veritas”. Quando soffri, scopri qualcosa di te. Da un viaggio del genere si torna cambiati, chi più e chi meno. Ma tutti cambiano. Alcuni cercheranno una sorta di serialità in questo tipo di avventure, altri si soffermeranno su ciò che hanno capito. Spesso non è così importante sapere cosa si vuole ma può essere oro colato capire quel che non si vuole più».

Per Willy il cambiamento è, in realtà, una delle poche costanti della vita. E qui non c’è filosofia, c’è la quotidianità di ognuno di noi. «Accettare il cambiamento è difficile. Spesso si tende a lottare contro il cambiamento o a rinnegarlo, perché cambiare fa sempre paura. Può ribaltarti la vita per come la conosci. Non tutti hanno il coraggio o la voglia di cambiare. Ma il cambiamento resta una costante ed, in un modo o nell’altro, influisce sulle nostre giornate».

Ma il viaggio più bello rimane quello che possiamo fare all’interno delle persone. «Non è un viaggio di due anni, ma anche con dodici giorni una persona può ritrovarsi con la corazza spezzata. Dodici tappe che tirano fuori tutte le tue fragilità, le tue debolezze, anche i tuoi difetti. Vale per chi fa ventimila chilometri all’anno, come per chi ne fa cinquecento. Non ci sono differenze. Una persona conosciuta anni fa in un viaggio, con famiglia e figli, uno di quelli tosti, all’undicesima tappa scoppiò a piangere pedalando accanto a me. C’ero solo io. Qualcosa si era rotto e lui volle rendermi partecipe di questo suo momento così intimo. Mi fece questo regalo. Quando ci scrivevamo prima della partenza, avevo avvertito delle tensioni. Se vuoi, una persona puoi capirla anche da come scrive, da come parla, perché c’è qualità anche nell’ascolto oltre che nel comunicare. Quel regalo, quella confidenza, mi è restata addosso talmente tanto che abbiamo continuato a scriverci e, qualche giorno fa, di fronte ad un periodo complesso lui mi ha detto: “Sono fatto proprio male, Willy”. No, non sei fatto male. Non siamo fatti male. Siamo semplicemente fatti così. Dobbiamo imparare a conoscerci, ad accettarci e a chiedere aiuto. In questi viaggi, io ho imparato anche questo: a chiedere aiuto alla gente senza timore o vergogna».

Julio Cortázar scriveva: “Nulla è perso se si ha il coraggio di dichiarare che tutto è perso ed iniziare nuovamente daccapo”. Questa è la consapevolezza di cui ci parla Willy.

Scheda tecnica del viaggio in Patagonia

Sito ufficiale

Foto: Paolo Penni Martelli


Tutto il tempismo del mondo

Heinrich Haussler a quasi 37 anni correrà per la prima volta un mondiale di ciclocross, lo farà domenica difendendo i colori della nazionale australiana e ammette candidamente: «Spero di non farmi doppiare da Mathieu van der Poel. Se riuscirò a evitarlo per me sarà il più grande successo».

Ma quello che Haussler racconta – e anche come lo racconta – rispecchia il suo carattere, estroso, ma genuino, e anche il suo bizzarro talento: è uno che si fece battere alla Sanremo da Cavendish, superato al fotofinish sulla linea d’arrivo – era il 2009 – e che quando corre la Roubaix e il Fiandre lo fa guidando senza guanti e con risultati eccellenti.

Nella sua vita Haussler ha dovuto superare problemi di natura personale di una certa rilevanza, incidenti automobilistici causati dall’alcol, problemi fisici che sembravano irrisolvibili, e anche psicologici, ma oggi Haussler è cambiato e dice di sentirsi felice come un bambino nel prendere parte a questa esperienza e che si picchierebbe forte in testa per non aver scoperto il ciclocross vent’anni prima. Era il 2019 e lo convinse un amico e collega, Sascha Weber, che lo invitò a partecipare a una gara dalle parti di Friburgo, vicino dove Haussler vive. «Ho due gemelli di cinque anni. Se un giorno mi chiederanno di iniziare a pedalare, li manderò a praticare ciclocross».

Racconta che in questa stagione ha fatto tutto da sé, senza l’aiuto di un team, si è pagato da solo le trasferte, non ha uno staff o un camper al seguito, né un meccanico («Quando può la ragazza di Sascha Weber mi passa la bici di scorta, sempre che non sia impegnata a pulire la sua bici») , si sistema il mezzo da solo al termine di una gara o ricognizione, sentendosi come uno che lo fa per hobby in mezzo ai professionisti. «A volte mi fermo lungo il tracciato per osservare come si muovono van Aert e van der Poel». Resta ammaliato dalla loro maestria nello scegliere le linee, nel guidare la bici, nel prendere determinate traiettorie in discesa. «Sono due gladiatori: vinceranno tutto anche su strada».

Dice, Haussler, che fare ciclocross già lo scorso anno gli ha permesso di svolgere un’attività in strada di maggiore qualità grazie a quell’esplosività e reattività che solo il fuoristrada ti può dare e che i colleghi del ciclocross per lui hanno un motore superiore agli stradisti. «Pensavo fosse perlopiù qualcosa di tipicamente belga, un po’ di cross nel fango e ragazzi che non sarebbero capaci di fare granché su strada. E invece li ho visti da vicino: i migliori crossisti hanno un motore superiore alla maggior parte dei professionisti». E non parla solo dei soliti noti. «Per diventare un grande corridore devi passare da qui».

Domenica avremo un motivo in più per seguire il mondiale di Ostenda, soprattutto perché quel motivo ha la faccia simpatica di Heinrich Haussler, tedesco d’Australia, che pare avrà a disposizione due meccanici mandati dalla sua squadra, la Bahrain Victorious, appositamente per sostenerlo. Peccato che, difficilmente lo vedremo inquadrato – in stagione il miglior risultato è stato un 47° posto e non c’è mai spazio per gli ultimi secondo la regia – ma di sicuro qualcosa di interessante da tramandare ci sarà.

Foto: Anton Vos/BettiniPhoto©2020


I sogni leggeri di Umberto Marengo

Umberto Marengo ricorda molto bene i giorni d’estate della sua infanzia. Nonno usciva presto con la bici, andava in edicola, comprava il giornale, faceva un giro in paese e poi tornava a casa. Dopo pranzo si sedeva con lui sul divano e aspettava la sigla d’inizio del Giro. «Vedevo quella macchia di colore sulle strade e mi immaginavo di essere lì». Marengo ricorda come le volate di Mario Cipollini riuscivano a tenerlo incollato allo schermo. «Da ragazzino avevo i suoi poster in camera. Chi avrebbe mai pensato di poterlo incontrare? Mi piacerebbe passarci una settimana assieme, solo per stare ad ascoltarlo. Avrei tante cose da farmi raccontare».

Quando invece pensa alle salite, pensa allo Stelvio e ad Alberto Contador. «Forse non dovrei nemmeno dirlo perché non sono uno scalatore puro e quando la strada sale faccio abbastanza fatica. Ma credo sia per questo che Contador mi ipnotizzava con la sua pedalata. Lui non saliva, lui danzava sui pedali. E poi aveva tanta fantasia, di quella fantasia leggera, da potersi permettere di inventare qualsiasi cosa». La famiglia di Umberto è appassionata di ciclismo, papà operaio e mamma maestra, ma, quando si tratta di scegliere uno sport, il ciclismo è la scelta più difficile. «A otto anni sono entrato nella mia prima squadra. Forse i miei avrebbero voluto facessi altri sport».

Nonno c’è sempre e, se non può seguirlo nelle trasferte più lontano da casa, appena Umberto è vicino corre a vederlo. «Mi chiamava a fine gara e riusciva a farmi star bene anche quando ero deluso. Purtroppo è mancato due anni prima che diventassi professionista. Ero il suo orgoglio, il suo nipote ciclista».

Il fratello di Umberto ora è un cuoco ma, per un anno, ha corso assieme a lui. I loro caratteri sono diversi e, forse, Umberto non poteva che avere il suo carattere per diventare professionista. «Un conto è ciò che vuoi fare, un conto è quello che ti accade. Ci ho creduto solo quando ho firmato, in alcuni momenti, per quanto mi intestardissi, mi sembrava impossibile». Sono tempi difficili: Marengo resta dilettante e torna a casa alla sera deluso, amareggiato, talvolta con l’idea di rinunciare. Gli amici gli dicono che forse dovrebbe cambiare strada, lui non vuole ma capisce che così non si può andare avanti. «Ho provato ad andare a letto con l’idea di buttare tutto all’aria, certo. Ma al mattino mi alzavo più convinto di prima».

Se Marengo parla in un certo modo della fuga è anche per il suo vissuto. «È la mia chiave di lettura del ciclismo: un modo per migliorarsi e mostrare che ci sei». Certo, perché quando ci metti tanto a conquistare qualcosa e sembra sempre che ti sfugga via, poi hai più paura di chiunque altro all’idea di svegliarti di nuovo a mani vuote. L’altro sostantivo per parlare di ciclismo è la furbizia. «Sono furbo. Riesco a risparmiarmi e ad attaccare nel momento giusto. Nelle volate ristrette questa dote è fondamentale».

L’altro giorno parlava con Giovanni Visconti e si dicevano che ormai è il loro terzo anno assieme. Marengo ha fame di imparare e appena parla di un compagno più esperto questo sentimento torna forte, per Enrico Battaglin ad esempio. «La Bardiani Csf Faizanè condensa tutto ciò che potevo immaginarmi del ciclismo. Ora so come ci si sente, mi immedesimo in ogni corridore quando vedo una corsa. Ora comprendo la fatica oltre l’impresa». Sorride quando gli chiediamo di proiettarsi in avanti e di immaginarsi fra cinque o sei anni e ritornano tutti i sogni semplici di un ragazzo alla mano. «Ho sempre sognato di correre la Milano-Sanremo e l’ho già corsa più di una volta. Sì, forse vorrei far bene al Giro d’Italia, magari vincere una tappa. Ma non chiedo poi molto. A me basterebbe restare qui, in questo ambiente. Ed essere una di quelle maglie colorate in mezzo al gruppo. Chissà quanti altri bambini a casa vedono le corse con i nonni e vogliono immedesimarsi. Non voglio altro. Davvero».

Foto: Paolo Penni Martelli