Costruttori: Cicli Drali

Fare bici è un’arte. Ne sanno qualcosa i vari telaisti e protagonisti delle diverse fasi di realizzazione di una bicicletta: progettazione, disegno, saldatura e montaggio.

La forma attuale delle biciclette nasce intorno al 1860, anche se la paternità del brevetto non è chiarissima. Ma alla fine chi se ne importa, sono passati quasi due secoli. Quello che ci importa è che, da quel momento in poi, la forma della bicicletta si è evoluta, sono nati nuovi materiali, ingranaggi e la meccanica è migliorata, ma la sostanza non è cambiata. Le biciclette accompagnano i milanesi attraverso le diverse epoche fino a quella attuale, in cui pedalare è diventato sinonimo di scelta intelligente. Saranno nate forse meno di due secoli fa, ma abbiamo tutti in mente quelle biciclette con i freni a bacchetta e i sellini larghi in cuoio, parcheggiate nei cortili di Milano che ne hanno fatto la storia.

Con una città pianeggiante che sorge in pianura e con qualche secolo di ritardo, i milanesi si stanno rendendo conto che muoversi in bicicletta dovrebbe essere la soluzione più intelligente per chi ci vive.

Grazie a una crescita esponenziale di piste ciclabili e servizi di bike sharing, negli ultimi dieci anni si inizia a concepire una città su misura di ciclista, per la gioia dei vari produttori di biciclette, che, nel frattempo, non hanno mai smesso di lavorare per una rivoluzione a due ruote.

L’innalzamento del target di chi sceglie di utilizzare una bicicletta nel quotidiano, e non solo per allenamenti, gare o uscite domenicali, ha avvicinato i più al mondo del telaio artigianale, prodotto su misura e in pochi numeri.

Nonostante la criticità del periodo post covid – in italia non siamo ancora pronti a recepire il ciclismo in massa anche perché, come mi racconta Gianluca Pozzi, amministratore delegato di Cicli Drali “bonus e ciclabili non sono sufficienti a fare del nostro paese un mercato ciclabile” e questo lo avevamo intuito anche dalle parole di altri rappresentanti della bicicletta milanese.

La storia di Cicli Drali, formata da soli tre soci più il Signor Drali, è però una di quelle che merita di venire raccontata, soprattutto oggi, in un momento in cui la maggior parte delle produzioni, ciclistiche, ma non solo, sono state dislocate.

Questo trasferimento delle fabbriche di prodotti sportivi, outdoor e attrezzatura in Oriente, Taiwan o Cina, ci fa dimenticare che anche noi italiani sappiamo fare, che abbiamo sempre fatto e che possiamo continuare a farlo. E’ vero, i costi saranno un po’ più alti di quelli delle grosse produzioni, però valore, cura e personalizzazione che emergono in un prodotto costruito al 100% dietro casa, hanno sicuramente un altro sapore.

Carlo Drali, insieme al figlio Giuseppe, ha fatto strada nella storia delle bici. Maestro costruttore di telai da corsa, il Signor Drali, come ho scoperto viene chiamato dai suoi collaboratori, ha dedicato alla bicicletta vita e ingegno, costruendo biciclette magiche che hanno pedalato le più iconiche strade lombarde.

Giuseppe Drali ha imparato il mestiere dal padre Carlo, il quale realizzò telai che regalarono vittorie a icone del ciclismo come Fausto Coppi.
Oggi, alla rispettabile età di 90 anni – passati – il signor Drali ha accettato di rimettersi in gioco e di ricominciare con entusiasmo l’avventura, rinnovando il mito con nuovi telai e modelli.

In uno spazio rinnovato, la cui vetrina è ora a in zona Milano sud in Via Palmieri, dietro la “grande classica” ciclabile del Naviglio Pavese, Cicli Drali ricomincia l’attività. Giuseppe e Alessandro, assistenti e apprendisti del Signor Drali, riprendono la produzione di telai secondo l’arte originale dei maestri dell’acciaio.

L’area espositiva ospita le prime biciclette che testimoniano la storia del marchio Drali e le nuove biciclette prodotte negli ultimi mesi.

Abbiamo bisogno di ridare valore all’italianità e se questo significa passare da negozi di bici con prodotti di alta qualità, ben venga. Entrando da Cicli Drali, la loro scelta di optare per un mercato ad alta qualità si nota fin da subito nella selezione dei marchi accessori che entrano nel negozio come caschi firmati Poc, navigatori Garmin e abbigliamento di alta gamma di durevole fattura.

Passando un po’ di tempo con i pochi, ma buoni soci di Cicli Drali, sentiamo subito quell’aria di italianità che si respira a tutto tondo, assieme alla tradizione artigiana che ha fatto la storia ciclistica del nostro paese. La storia, infatti, che è parte attiva della formazione del marchio, rivela una costante apertura ed evoluzione fino ai giorni nostri, come si evince da quell’albero genealogico presente anche sul loro sito internet, simbolo di una crescita continua che vive però del suo passato, come nelle migliori famiglie in cui ci si tramandano le tradizioni di generazione in generazione.

Non è però oggigiorno pensabile di essere naïve e scollegati dal contesto in cui si opera limitandosi a guardare indietro: per portare avanti le proprie idee, bisogna essere pienamente consapevoli di come si debba stare sul mercato e capendo quali sono le azioni necessarie per non farsi travolgere o rischiare di soccombere. È questa duplice valenza e posizionamento del marchio che ha colpito il loro modo di fare azienda.

La paura e il timore della competizione con la concorrenza cinese sono vive e razionali nelle parole di Gianluca la cui formazione ingegneristica è tangibile, soprattutto quando si parla del nascente e in costante espansione mercato delle e-bike. Nonostante dovremmo essere aggiornati e informati su ciò che stiamo comprando, le persone che vanno in negozio spesso non sono preparate in materia e quindi spiegare loro le ragioni che sottostanno a visibili differenze di prezzo finale, non è facile, specialmente quando si tratta di ciclisti che si sono da poco avvicinati al mondo delle due ruote.

Possiamo spendere cifre molto diverse quando si tratta di biciclette, elettriche e non, ma capire verso cosa è meglio puntare in base a cosa ci serva veramente e gli eventuali costi di manutenzione, non sono fattori da sottovalutare quando ci si approccia ad una bicicletta.

Mi è piaciuta moltissimo la tematica sollevata da Gianluca durante la nostra chiacchierata legata ai suoi dubbi sulla mancanza di tecnici specializzati, formati per assistere il nascente settore delle bici elettriche. Un conto è fare manutenzione a motori Bosch, Shimano, Yamaha o di altri marchi più rinomati e diffusi, un’altra questione è invece gestire in officina le biciclette elettriche con i motori più diversi, magari assemblati direttamente in Cina o integrati nel telaio che ci arrivano senza istruzioni e senza indicazioni su come vadano trattati. «I nostri meccanici, sono specializzati in biciclette, non in motorini», dice lucidamente Gianluca.

Per sopperire a questa mancanza e con uno sguardo decisamente lungimirante, il team di Cicli Drali si è subito impegnato per formare i propri dipendenti sulle ultime tendenze della meccanica ed elettronica ciclistica; così facendo si crea un organico sempre preparato sulle nascenti necessità dell’universo ciclistico capace di lavorare al meglio anche sulla loro linea di biciclette elettriche tutte spinte da motori Polini, 100% made in Italy.

 

L’importanza di investire nella formazione del personale è ancora sconosciuta e poco praticata in Italia. All’estero si è capito anni fa che fare didattica ai propri dipendenti non sia tempo perso, ma un tempo prezioso che avrà un ritorno visibile e sul lungo termine faciliterà il lavoro di tutti.

Dovremo aspettarci di vedere un’evoluzione nei prossimi anni, sia dal punto di vista di chi pedala biciclette, ma anche dal punto di vista di chi le produce.
I ciclisti sono più esigenti, i telaisti sono più esperti. La combo può portare a risultati sorprendenti a livello di tecnica e performance.

Milano è cambiata e molti dei suoi ciclisti si vogliono distinguere rispetto ad anni fa non accontentandosi più di biciclette prodotte in serie assemblate da operai senza nome. Il mondo della customizzazione e del “su misura” è il futuro per una crescente fetta di mercato con un’elevata capacità economica e un’alta preparazione tecnica. È normale vedere dei fenomeni di disaffezione quando le cose sono troppo diffuse, ma la forza di una piccola azienda, come quella di Drali, è certa. Ovviamente i loro numeri e fatturato non possono essere paragonabili a quelli delle grandi aziende, ma aspettando di vedere se in Cina rallenteranno mai la produzione, dobbiamo dare una possibilità a chi non ha voluto mollare e ha continuato a produrre biciclette valide qui dietro casa.

«Dobbiamo ancora capire come si evolveranno le cose – dice Gianluca – e se ancora in molti verranno ammaliati dai più bassi costi di produzione e abbandoneranno il nostro paese in nome del risparmio offerto dalla Cina: il carbonio lo abbiamo inventato noi. Non possiamo mollare proprio adesso».

Le sue parole un po’ mi commuovono e mi fanno rivivere l’anima vera che ha mosso il nostro paese nel settore della bicicletta, quella bicicletta lì, che era dei nostri nonni, dei grandi campioni che da qui sono partiti e arrivati lontano.

Non possiamo rischiare di dimenticarci tutto questo.

Oggi Cicli Drali si impegna nella sponsorizzare di una squadra corse, DRALI MILANO  che svolge attività agonistica per rinnovare quelle emozioni e quei successi conquistati da diversi campioni del passato in sella a biciclette Drali.

Per non restare indietro con le ultimissime tendenze in fatto di esplorazione, Drali ha anche scelto di fare ingresso nel mondo delle biciclette gravel, ovvero mezzi da strada in carbonio realizzate su misura e personalizzate, ma adatte a terreni fuoristrada e sterrati che convivono con le prestigiose bici a scatto fisso artigianali. L’obiettivo è quello di svolgere attività fixed a livello nazionale e internazionale partecipando ai più importanti eventi come Criterium Italia, Reed Hook Crit e Rapha Nocturne permettendo un test continuo ai loro mezzi.

Molte delle biciclette realizzate da Drali sono progettate su misura, ma vengono fatte anche e-bike o altre tipologie di biciclette più accessibili. Per riposizionarsi al meglio su un mercato competitivo come quello del ciclo, i Drali si sono impegnati in un progetto di re-branding intenso, marketing e comunicazione, ricercando agenti e distributori anche all’estero. Va bene produrre in casa, ma poi è necessario guardare oltre confine, dove la nostra manualità e storia possano venire apprezzate pienamente.

Il grande problema, mi spiega Gianluca, è nel montaggio e nella componentistica. Come facciamo a far capire che due biciclette, solo apparentemente identiche, sono assemblate con componenti, cambio e altre parti del tutto differenti e che saranno quelle a rendere una bici molto più performante, reattiva e fluida dell’altra influenzando la qualità del prodotto finale e quindi anche del suo prezzo? Come far capire che la differenza di prezzo rivela bici qualitativamente “diverse” e non solo migliori o più “belle”? Come evitare di diventare dei moderni Don Chisciotte del ciclismo parlando la stessa lingua della domanda senza suonare “venditori” o propagandisti, ma cercando di educare e comunicare alla cultura delle due ruote?

La questione delle differenze peculiari delle biciclette è estremamente difficile da comunicare ad un pubblico sempre più ampio e meno specializzato. Viviamo tutta la fatica di chi cerca di raccontare, descrivere e vendere biciclette di valore in un periodo in cui i prezzi si tendono ad abbassare sempre a scapito della qualità.

Anche quando non c’è concorrenza, bisogna impegnarsi a comunicare ed educare le persone in merito.

Artigianato significa valore e know-how. Peccato ce lo siamo persi.

Sorprendente invece la reazione del Giappone per quello che riguarda il mondo delle biciclette per il quale ha sempre avuto grande conoscenza e consapevolezza e comprendendo pienamente il valore di ciò che si stava comprando.

Sarà quindi necessaria, secondo Gianluca, una formazione a tutto tondo – sia dal punto di vista del target e di chi lavora nel mondo del ciclismo – andando di pari passo alle necessità nuove e alla fondamentale educazione del ciclista al rispetto delle regole, all’utilizzo del casco e alla stipula di assicurazioni.

Bisogna creare un mondo nuovo attorno alle necessità della bici se la si vuole vedere come oggetto di trasporto e non economico – sviluppare un sistema di infrastrutture ampie e dedicate aiuterà ad eliminare i conflitti inserendola armonicamente nel contesto in essere.

Molto spesso la paura che venga rubata limita la diffusione e l’acquisto di biciclette di qualità, ma se ci fossero più azioni concrete rivolte al rispetto e tutela del mezzo e dei suoi proprietari, forse potremmo davvero muoverci in una direzione nuova. Le premesse ci sono, concretizziamole.

Foto: Valeria Rossini

 


Moda e stile anche in bicicletta

Milano e la sua attitudine in tema di stile e design hanno sicuramente influenzato il modo di concepire la bicicletta, anche se è normale che ci siano città più o meno adatte all’utilizzo delle due ruote.  Milano, piano piano, si sta evolvendo ed eventi a tema moda o l’immancabile salone del mobile hanno influenzato attività che hanno scelto la bici come core aziendale. Il fatto che la bici sia anche una moda è un bene se pensiamo ad una più ampia di diffusione del mezzo: l’obiettivo sarà quello di cercare di viverla come qualcosa di sempre più stabile e presente nelle nostre giornate con benefici comprovati.

Non serve limitarsi a leggere le varie statistiche o ricerche sugli effetti miracolosi delle due ruote, ma vedere come l’oggetto stesso sia stato numerose volte scelto come protagonista dell’arte o stimolo per progetti culturali ci dà la conferma del suo ruolo sociale. Le varie mostre a tema bici, come quella più recente, la Steel is Real di Columbus presso la galleria Antonio Colombo, quella in Triennale nel 2018 o la New Craft del 2016 hanno visto non solo la partecipazione di grandi telaisti, come Cinelli o il grande Dario Pegoretti, ma anche di designers, artisti, influencer e giornalisti di svariati settori rendendo la bici un fenomeno sempre più radicato.

Mi piace vedere come la bicicletta sia riuscita, a partire da Duchamp, arrivando fino ad oggi, a consolidarsi sempre più nel contesto artistico e di ricerca e come gli avvenimenti culturali abbiano il loro peso nella formazione di una coscienza nuova.

Se vogliamo avvicinarci all’ambito più legato alla moda stile in bici, possiamo considerare l’esperienza di Milly de Mori, art director e fondatrice di un brand femminile di abbigliamento ciclistico. Milly ci racconta com’è nato il suo progetto di disegnare i capi di No Gods No Masters, il marchio fondato principalmente per indossare dei capi che potessero soddisfare le esigenze delle donne in bici, avendo lei stessa notato un buco di offerta di un prodotto di alta gamma che fosse performante e bello da indossare. «Vado in bici ormai da 15 anni – racconta – e quando ho iniziato le proposte per donna non solo erano limitatissime (bici, selle, accessori e abbigliamento), ma soprattutto entry level perché la donna in bici rappresentava per il settore un campione non significativo. Così ho afferrato quest’opportunità per andare contro corrente e vedere cosa succedeva. Negli anni la situazione è cambiata e il mercato ha cominciato a notare che finalmente ci siamo anche noi. Dietro al brand però vive anche una mission che va oltre al puro capo tecnico che ha come obiettivo quello di sostenere e promuovere l’emancipazione della donna anche attraverso la bici. Da qui il nome del brand No Gods No Masters (senza dei e padroni) che risuona come un inno alla libertà per poter praticare questo favoloso sport lontano dai condizionamenti nell’affrontare una dimensione di fatica ed incertezza come quella che il ciclismo ci mette davanti».

Dietro lo slogan No Gods No Masters c’è una bellissima storia che ci riporta indietro al movimento delle suffragette a New York all’inizio del Novecento, impegnate nell’emancipazione della donna nella società di allora in cui i diritti erano azzerati sia in casa che nelle fabbriche. Le donne si battevano reclamando parità di diritti e stipendi, cose su cui si sta ancora lottando un secolo dopo.

Vediamo sempre più ragazze andare in bici in città o nei weekend in percorsi più lunghi in bici da corsa. Forse abbiamo finalmente superato la comunicazione generale della bici come mezzo sportivo legata solo alla figura dell’uomo e ci sono le basi per far cadere questi stereotipi di genere.

Sicuramente l’essere milanese e l’aver lavorato per tanti anni nella moda per marchi del lusso ha portato Milly ad apprendere l’arte del mestiere affinando il suo gusto su canoni estetici di un certo tipo, che ritroviamo in NGNM, capace di competere per qualità e stile con i più grandi marchi internazionali di abbigliamento ciclistico.

NGNM ha recentemente sviluppato una collaborazione con un noto marchio di bici italiano e milanese, Cicli Drali, essendo le loro due realtà partite più o meno allo stesso tempo hanno voluto aiutarsi vicendevolmente e fare sistema. «L’unione fa la forza, dice Milly, specialmente tra le realtà piccole ed indipendenti come le nostre. Essendo NGNM molto attivo nell’organizzare uscite in bici per donna in varie città come Milano, Londra, Bristol, Amsterdam e ora anche Berlino, mi piaceva l’idea di formare un piccolo team amatoriale di donne con base a Milano sotto il brand NGNM per poter organizzare delle uscite e partecipare a qualche granfondo. Ho chiesto agli amici di Drali se erano interessati ad una divisione femminile della loro ASD, visto che oltre al team Drali Steal impegnato nei criterium, hanno una divisione amatoriale. Così è partita la NGNM / DRALI con una maglia che porta entrambi i marchi. Il fato vuole che con il Covid-19 tutte le manifestazione che avevamo in programma siano saltate, perciò sarà il 2021 il vero battesimo di questo piccolo team».

Restando in tema donne, moda e ciclismo ho chiesto a Milly come fosse cambiato il modo di vedere il ciclismo e di praticarlo da parte di sempre più ragazze e ci ha confermato i numeri crescenti presenti nelle varie statistiche.

«Oggi non c’è uscita in cui non incroci almeno due o tre donne in bici, da sole o in gruppo. Diciamo che la massa critica è aumentata e questo a sua volta ha mille ripercussioni. Il mio sogno è quello di vedere sempre più gruppi di ragazze e donne che escono assieme. Nelle uscite tra donne si vive un altro modo di andare in bici, si è alla pari e i ritmi e velocità da sostenere sono più umani. Ma il cameratismo e lo spirito di squadra che s’instaurano sono poi la chiave di volta: la sensazione di poter essere completamente autosufficienti è già di per sé una grande conquista».

Oltre ad avere a cuore il comfort in sella, NGNM si impegna anche nella creazione di una community – motore pulsante dell’attività ciclistica come collante sociale e soprattutto stimolo di autostima e aggregazione per numerose donne, spesso timide o sole o che non sanno bene come iniziare ad approcciarsi al mondo delle due ruote. «Siamo stati fin da subito molto attive su questo fronte organizzando delle uscite solo per donne in varie città europee, come Londra, Bristol, la Provenza, Amsterdam, Milano e la Versilia grazie ad una rete di ambassador e amici del brand. Siamo riusciti anche a coordinarle lo stesso giorno creando così un evento internazionale, oltre ad una community remota e un senso di appartenenza a qualcosa di più grande di una semplice uscita nella propria città. Da inizio anno abbiamo iniziato una collaborazione con Zwift organizzando un’uscita ufficiale che si chiama NGNM Women Crush Wednesday e che attrae ormai una solida base di cicliste dal Sud Africa alla Colombia, Canada, US e tutta l’Europa. Semplicemente magico poter pedalare ed interagire con così tante ragazze, a volte i nostri gruppi sono anche di ottanta presenze. Il gruppo Facebook creato proprio per le nostre “Zwifters” è molto attivo e vibrante, oltre alla community su Strava che conta oggi più di 500 iscritte dove vedere le attività’ di ognuna, sostenerci a vicenda e potersi scambiare informazioni su percorsi, allenamenti eccetera».

Anche la comunicazione di No Gods No Masters è incentrata ad offrire informazioni utili alla pratica della bici, in modo che ognuna possa conoscere meglio la materia e rendersi indipendente come per esempio i Tech Fridays, venerdì in cui si parla della meccanica della bici e come risolvere piccoli problemi tecnici oppure i mercoledì in cui si parla di nutrizione, con ricette e info per l’alimentazione sana prima-durante-dopo l’allenamento, mentre il giovedì è incentrato sul corpo con consigli di allenamento, stretching, potenziamento… insomma un impegno informativo e formativo a tutto tondo per aiutare chi si approccia alla bici.

Foto: NGNM


Gravel del Duca

Gravel del Duca

62km nella Zona Est di Milano che mi sono stati suggeriti da un grande amico e compagno di avventure in bici, Francesco Piccoli, nonché amante di questo giro che non sarà il più fortunato per paesaggi e strade, ma è una bella sorpresa. E il Duca è un mattacchione, passaggi segreti e curve inaspettate.

Si parte da una cascina con torre molto bella dove c’è anche un museo etnografico, di cui forse il nome è sconosciuto, vicino a Rodano. Il primo pezzo è su uno sterrato che si alterna in continuazione con l’asfalto. Non mancano i luoghi per un vero e proprio sightseeing agricolo: cascine, chiesette, le muzze (i canali agricoli del milanese) con relativi ponti e un paio di piccoli paesini tutti molto carini. Sul tracciato si trovano rogge, marcite, fontanili, ma il pezzo forte è senza dubbio il Sentiero del Duca una strada alberata lunga un paio di chilometri che ti riporta a Rodano: dulcis in fundo!

Unico possibile problema: raggiungere la traccia da Milano bisogna uscire da Via Corelli – zona Ortica – e fare alcuni pezzi senza ciclabile, ma se stiamo bene sulla destra, single file, fila indiana, come dicono all’estero, all good.

«Prima di partire per un viaggio in bici in Austria, ho seguito un’altra traccia di un amico, dice Francesco, che potrebbe unirsi e rendere più piacevole uscita e rientro a Milano» ma si sa, la bici è anche improvvisazione. Quindi non abbiatene se alcuni pezzi non vi sono congeniali, ma ci sono sempre opzioni per allungare, tagliare, scorciatoie, pause caffè o gelato nelle location più varie.

Link Strava Gravel del Duca

C’è anche la traccia delle Terre di Mezzo che passa anche da Mordor…ma quella è un’altra saga.
Foto: Stefano Losco


Ciclofficine: la bicicletta si fa social

Dovete sistemarvi la bici ma non sapete come iniziare? Volete farlo da voi, ma nessuno vi ha mai insegnato a cambiare una camera d’aria, regolare il cambio o sistemare i freni? Avete mai provato ad andare in ciclofficina? A Milano, il movimento delle ciclofficine è vivo, alimenta e supporta una grande porzione di ciclisti urbani da quasi vent’anni.

Spesso ciclofficina non significa solo biciclette, ma anche impegno sociale, infatti al loro interno, come per Comunità Nuova in zona Giambellino, ci si occupa anche di formazione lavoro con cooperative che seguono progetti di aiuto e recupero di ragazzi o laboratori per bambini e adulti. Ed è qui che esperienza e sapere, tramandati e appresi, possono fare la differenza.

Il mantra principale di tutte le ciclofficine è il fai-da-te, ovvero impara l’arte e mettila da parte: insegnare ad un uomo a pescare ha molto più valore che dargli un pesce per mangiare. Allo stesso modo le ciclofficine, spazi spesso autogestiti da volontari e appassionati, hanno come scopo quello di insegnare a giovani e meno giovani l’arte della meccanica ciclistica, rendendo più persone possibili autonome e consapevoli nell’utilizzo e manutenzione della bici.

Foto: Eros Mauroner

Normalmente i pezzi di ricambio posso essere vostri o forniti dalla ciclofficina, ma dovete tenere presente che le ciclofficine non sono negozi e non sempre hanno a disposizione ciò che potrebbe servirvi, in quel caso potranno indirizzarvi su attività commerciali che possono fare al caso vostro.

Prima di cominciare a lavorare si firma una liberatoria e molto spesso alla fine potete lasciare un contributo libero a favore del progetto. Le ciclofficine si occupano anche di recuperare, restaurare, ridare vita e mettere in vendita vecchi telai o pezzi di biciclette abbandonate e dimenticate nei cortili o nelle polverose cantine milanesi.

Le ciclofficine, come ricordano i ragazzi di Ciclofficina Sociale, sono laboratori di manutenzione, riparazione e realizzazione biciclette: nel caso loro, uno spazio di socialità permanente rivolto anche a persone in condizione di disagio, dove promuovere l’uso della bicicletta,  la cultura dei pedali  e l’integrazione. La manualità intorno a una bicicletta nell’attività ciclo-meccanica è un gesto di cura e attenzione che dall’oggetto si trasferisce e viene condiviso tra le  persone  coinvolte come scambio di saperi e di esperienze concrete che diventano profonda relazione.

Le ciclofficine, come racconta Gabriele di Ciclofficina Balenga, si impegnano nella creazione di una community – motore pulsante dell’attività ciclistica, autostima e aggregazione per numerose persone, spesso timide e sole che non sanno bene come iniziare ad approcciarsi al mondo delle due ruote, rivelandosi un potente collante sociale.

Lo scopo della ciclofficine è quello di essere gratuite o comunque tenere i prezzi bassi per poter portare avanti progetti di piena sostenibilità in cui l’acquisto di pezzi nuovi venga ridotto al minimo in un’ottica di recupero e gestione degli sprechi e scarti. Diventa quindi importante saper ridare vita a copertoni, manopole, manubri e altri componenti ancora ampiamente utilizzabili ma che, magari per pigrizia o noncuranza, si tende a buttare o pensare come non più idonei. La chiusura del cerchio è il recupero del ferro presso magazzini di riciclaggio del metallo.

Secondo i vari attivisti nel mondo delle ciclofficine, esse devono dare l’idea di un luogo in cui si faccia didattica della bicicletta e non un posto in cui si va perché non voglio andare dal ciclista e spendere dei soldi – così come la meccanica della bici va imparata e fatta propria. Ci sono infatti delle responsabilità dietro a ciò che si sta riparando, ed è quindi importante fare una pedagogia a pedali contribuendo a risolvere quelle contraddizioni sulla mobilità interne alla città, occupandosi di promuovere una ciclabilità più sicura ed accessibile.  Questo è ciò che emerge parlando con le varie realtà autogestite milanesi: valorizzare sia la bicicletta che la componente umana.

“Un’impresa esemplare sostenuta e finanziata da chi ha a cuore il futuro della città.” Cit.

Come raccontano i ragazzi della Ciclofficina Balenga, noi balenghi siamo in molti, tutti con una storia e un lavoro diverso alle spalle impegnati in diverse categorie professionali, dall’elettricista al designer, dall’ingegnere all’impiegato e studente. Ci sono anche persone che collaborano con la ciclofficina mentre si “godono” la calma della pensione e cosi via Per molti di loro avvicinarsi alla ciclofficina è diventato praticamente un lavoro; per gli anziani fondatori è rimasto un hobby organizzare e partecipare a eventi aperti a tutti: campionati di ciclomeccanica, grazielliadi, cronoscalate, carnevale dei fantaveicoli, Milano Bike City oppure ascoltare le richieste delle persone del quartiere e partecipando a iniziative con una ciclofficina itinerante e organizzando laboratori per bambini a tema ciclabile.

«Durante questi anni la ciclofficina si è distinta per il suo carattere inclusivo e di apertura verso l’esterno; proponendo le aperture del sabato, le lezioni di ciclomeccanica, partecipando attivamente agli eventi sul territorio e sostenendo i progetti più meritevoli come gli accompagnamenti verso scuola di Massa Marmocchi o le lezioni di ciclomeccanica a scuola, siamo diventati con il passare del tempo un punto di riferimento sia per gli amanti della bicicletta in generale che per i più sensibile ai temi del riciclo e riutilizzo ed infine, più semplicemente, per gli abitanti di Corsico e di Milano», racconta Gabriele.

Le ciclofficine sono state sempre molto reattive per quello che riguarda le richieste dei quartieri in cui operano partecipando a iniziative come le ciclofficine itineranti oppure organizzando laboratori per bambini a tema ciclabile.

Uno dei vari progetti a tema è quello della Ciclofficina Cuccagna che prende vita nel 2007 dalla volontà di un gruppo di amici, tutti ciclisti, già impegnati in altre realtà ciclo-meccaniche milanesi e attivamente coinvolti nell’esperienza di Critical Mass. Erano anni di fermento a Milano e il movimento a pedali che ogni giovedì sera univa in maniera “non organizzata” ciclisti di ogni sorta per un giro notturno per le strade della città stava prendendo sempre più piede gettando le basi per una città diversa, più pulita, sostenibile e con meno auto.

Come possiamo leggere dagli archivi del progetto di riqualificazione, nel 1722 la cascina era di proprietà dei Padri Fatebenefratelli che nei terreni di pertinenza vi coltivavano le erbe officinali per l’Ospedale Maggiore. Alla fine degli anni ’90, un gruppo di cittadini e associazioni della Zona 4 di Milano inizia a interessarsi di questo bene pubblico rimasto in disuso e abbandonato, e fonda la Cooperativa Cuccagna promuovendo una serie di iniziative volte recupero dei preziosi e grandi spazi della cascina settecentesca. Nasce così il Progetto Cuccagna con lo scopo di trasformare la cascina in un luogo di incontro e aggregazione, un laboratorio attivo di cultura e un punto di riferimento per la ricerca sociale e di qualità della vita.

In un momento storico-sociale in cui il valore della bicicletta ha sempre più importanza nella nostra vita e in cui il fai-da-te è sempre meno una moda e più una necessità, la Ciclofficina Cuccagna interpreta lo spirito di questo cambiamento, spingendo a prendersi cura degli oggetti di nostra proprietà, e quindi anche delle nostre biciclette, in un cortile cittadino di una Milano che vuole farsi notare nel vasto del panorama della ciclabilità urbana.

Un laboratorio, un orto, un ristorante, un mercato agricolo, un ostello e una ciclofficina: è questa la realtà polivalente di uno spazio condiviso e vissuto a tutto tondo dai cittadini in pieno centro a Milano in cui non poteva mancare un angolo dedicato alla bicicletta nella sua anima più vera, una ciclofficina in cui poter riparare, imparare, rifare, sistemare, acquistare, noleggiare e vedere la bicicletta sotto ogni punto di vista.

Ciclofficina Cuccagna non esisterebbe senza Paolo Malara, ciclista e meccanico con una formazione psico pedagogica, un passato attivo nelle officine meccaniche milanesi e con alle spalle progetti sociali di educazione e didattica.

Foto: Matteo D’Antonio

Fin dal 2007, momento in cui Paolo e i suoi amici vinsero il bando della Fondazione Cariplo a tema “Disagio del quotidiano”, la Ciclofficina Cuccagna sostiene una formazione e didattica continua in cui portare avanti un più ampio progetto di riqualificazione sociale grazie alla promozione della ciclabilità.
Mettendo a disposizione attrezzi ed esperienza si cerca di avvicinare i ciclisti metropolitani alla manutenzione fai-da-te: consigli e tecniche semplici, ma efficaci e low-cost. L’autoriparazione è dunque concepita come parte di un più ampio progetto culturale che ha l’ambizione di entrare nel quotidiano delle persone e renderle protagoniste del cambiamento.

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Vi elenchiamo alcune delle principali ciclofficine milanesi nella speranza che possiate trovare quella più vicina a voi e appassionarvi all’incredibile mondo della riparazione e manutenzione della vostra bici!

Ciclofficina Stecca
Lo zoccolo duro dei ciclisti urbani dove chi vuole può riparare la propria bici usufruendo di attrezzatura  semi-professionale e dell’aiuto di meccanici più esperti.
dove: via G. De Castillia,  26 Milano

Ciclofficina UnZa
Fondata dall’Associazione Culturale UnZA!, è una ciclofficina popolare per l’auto-riparazione di bici.
dove: via Bianchi d’Espinosa angolo Graziano Imperatore, Milano

Fucine Vulcano
La ciclofficina Vulcano é un’attività aggregativa e sociale da non confondere con un ciclista dai prezzi popolari. I soci che volontariamente offrono il proprio aiuto sono persone accomunate dalla passione per il muoversi sostenibile, che condividono le proprie esperienze e saperi con chi volesse imparare qualcosa di più sulle biciclette. Fucine Vulcano è una associazione di promozione sociale la cui vita interna è regolata da uno statuto, che informa dei diritti e dei doveri, della possibilità di partecipare alle assemblee ed esprimere opinioni sulla vita sociale ed economica del circolo.
Per accedere alle attività‘ o ai servizi bisogna essere socio.
dove: Via Fabio Massimo 15, Milano (parco delle rose)

East River Martesana
Un laboratorio aperto a tutti, dove ciclomeccanici esperti ti aiutano nella riparazione e manutenzione delle bici, offrendo anche servizio di noleggio in una carina location sul Naviglio della Martesana che mette a disposizione kayak, organizza classi di yoga e brevi escursioni ciclabili in zona alla scoperta dei birrifici o delle realtà milanesi dimenticate.
dove:  Via Jean Jaurès, 22 Milano

Ciclofficina Balenga
Da quasi dieci anni si prendono cura dei vecchi bici-cancelli nascosti tra discariche, cortili e cantine di tutta Milano. Se vuoi sporcarti le mani e godere dell’atmosfera Balenga della ciclofficina, questo è il luogo giusto.
dove: Piazzale della Cooperazione 1, Milano

Ciclofficina PonteGiallo
Grazie alla disponibilità dei tanti meccanici volontari che si sono dati il cambio nel corso degli anni, un numero imprecisato di biciclette e di ciclisti hanno qui ritrovato la propria felicità a pedali. Se la tua bici cigola, non frena, frena troppo, va piano, non cambia più le marce o comunque non ti emoziona come un tempo, passa da loro prima di abbandonarla per una bici più nuova!
dove: Anfiteatro della Martesana, nel parco Martiri Libertà Iracheni, tra via Agordat, Via Stamira d’Ancona e via Bertelli, Milano

Ciclofficina RuotaLibera
All’interno della facoltà di agraria una ciclofficina gestita su base volontaria da studenti e promuove la manutenzione autogestita della bicicletta, non eseguono riparazioni su commissione, ma ti aiutano e ti invitano a fare da te con gli strumenti messi a disposizione grazie alla condivisione di saperi ed esperienze.
dove: Via Celoria 2, Milano

CiclOfficinaPopolareGallarate
La Ciclofficina  nasce nel 2014 dalla passione per la bicicletta in tutti i suoi aspetti e voglia di trasferire le proprie competenze e capacità.
L’obbiettivo principale è quello di far tirare fuori dalle cantine le numerose bici impolverate, arrugginite bisognose di operazioni di recupero integrale per recuperare mezzi destinati alla discarica dando loro una seconda vita.
dove: via Marco Polo, 8 Gallarate
sito: https://ciclofficinapopolaregallarate.wordpress.com

Foto: Ciclofficina Cuccagna


Eventi: Milano BFF, Milano Bike City e Milano Bicycle Coalition

MILANO BICYCLE FILM FESTIVAL

Atmosfera stimolante di ricerca e voglia di andare oltre alla semplice visione “sportiva” della bicicletta, sapeva di questo l’aria che si respirava nella Milano del Bicycle Film Festival. Ammetto una certa nostalgia per questo avvenimento culturale e artistico a tema due ruote che, con la sua prima edizione italiana e milanese nel 2006, era finalmente riuscito ad abbattere le varie differenze di genere ciclistico portando tutti gli amanti delle due ruote dentro una stessa sala, mossi dalla medesima passione, guardando gli stessi incredibili filmati.

Con la sua atmosfera internazionale e imprinting culturale, il BFF aveva trasmesso l’immagine della bicicletta come un oggetto artistico, apolitico, e che potesse aiutare e illuminare i più, indipendentemente da credenze e provenienze, portando verso una nuova concezione del concetto di ciclismo come ricorda Giovanni Morozzo, fondatore di Ciclica e produttore dell’edizione milanese del festival nel 2012 e 2013. Nonostante l’evento abbia subito un’interruzione per qualche anno, mi piace ricordare come sia stato un momento nevralgico nella creazione di una community delle due ruote.

Non dobbiamo dimenticare che il BFF era un festival cinematografico nato prima di internet e quindi vantava ancora il privilegio di avere proiezioni e filmati visibili solo lì, in quelle sale, in quel momento. Questo fu un contributo in più nella costruzione di un’attenzione attorno alla comunità ciclistica aumentandone il valore e mantenendo il focus sul festival. Numerosi eventi collaterali erano stati pensati, infatti, con l’obiettivo di costruire un evento a trecentosessanta gradi.

Founding director Brendt Barbur racing gold sprints

Milano diventava, per una settimana, capitale mondiale della bicicletta grazie ad un’idea, nata 20 anni fa a New York, di Brendt Barbur. Oggi il Bicycle Film Festival è presente in quattro continenti e rappresenta un volano di quella rivoluzione a pedali che, come abbiamo visto, sta arrivando anche a Milano. Le emozioni vissute durante le proiezioni serali al Cinema Mexico o i vari eventi collaterali organizzati, assieme al party finale, erano uniche nel loro genere e anche Brendt Barbur, ideatore e fondatore del festival, ancora ricorda con nostalgia, come mi ha raccontato in una recente telefonata.

Il Bicycle Film Festival è stato da sempre sinonimo di quella celebrazione di ogni genere di ciclismo, attraverso i film, l’arte e la musica rivelandosi un momento particolare e irripetibile in cui si era stati in grado di percepire concretamente la comunità della bicicletta a Milano. Come ricorda Marco Mucig, videomaker, appassionato ciclista, papà e motore della parte di comunicazione del festival per molti anni. «Il concetto di community non era così sdoganato come lo è adesso, ma il festival ha unito le persone grazie al suo obiettivo culturale, di ricerca, indagine, stimolo e parte attiva del fenomeno della bici come catalizzatore di una subcultura che trovasse in essa il suo mezzo di espressione, così come lo era a lungo stato lo skateboard».

BFF Milano Alleycat

Esplorare la città in bici influenza il modo in cui la si racconta: crescita e apprendimento continuo tipici della bicicletta sono tangibili nei lavori di Marco. Smarrimento, esplorazione e scoperta sono più facili grazie alla dimensione della bicicletta che ci regala ogni volta una prospettiva diversa di un qualcosa che normalmente non vedresti.

Marco, non essendo nato a Milano, vive e scopre la città in bici, grazie ad un mezzo vintage assemblato con pezzi di recupero da Jacopo Volpe (che è stato a lungo l’anima di Dodici Cicli) – perché allora i componenti d’epoca erano i più economici dato che non erano ancora diventati di moda – riuscendo così ad entrarne subito nell’animo. La collaborazione con il BFF è nata tramite un amico, anche lui ciclista, che lo ha messo in contatto con loro. Non è stata solo la passione per la bici a creare il seguito del Festival, ma una visione comune su un modo diverso e nuovo di vivere la città condividendo valori che hanno creato una subcultura. «Conoscevo già il BFF e la scena newyorchese attraverso un documentario che avevo visto e che mi aveva ispirato e affascinato, ma è entrando in contatto con questa community che mi sono poi appassionato al progetto. Così come il design, anche la moda, ha preso molto dal mondo del ciclismo: vediamo infatti molti grandi nomi del fashion che hanno creato nel tempo linee di abbigliamento dedicate alla bicicletta con la ripresa di una subcultura nata proprio in seno al periodo del BFF».

Il festival ha unito molte delle realtà milanesi e le ha messe in contatto con un movimento internazionale, che da New York a Tokyo ha unito molte persone contribuendo a creare quel legame capace di superare i confini. In alcuni anni le istituzioni avevano remato contro la realizzazione del festival non recependole il valore di forte collante sociale per comunicare e vivere un nuovo modo di stare in città.

MILANO BIKE CITY

Foto: Francesco Rachello/Tornanti.cc

Ci sono anche altri pareri legati a questo evento, come sostiene Roberto Peia. «Il bellissimo Bicycle Film Festival è stato, a mio parere, soprattutto un momento di autocelebrazione: ci si trovava tra di noi, la casta degli eletti, a vedere rari filmati che mai sarebbero passati nelle sale cinematografiche, a scorrazzare per la città, a scolarsi tante birrette e mangiare caldarroste. Altro respiro invece quello di Milano Bike City dove gli eventi erano a trecentosessanta gradi, organizzati dalle varie “tribù” di ciclisti, imprenditori del mondo bici e giornalisti».

Milano Bike City, organizzato in collaborazione con Ciclica e svoltosi ad ottobre 2019, é riuscito a coinvolgere il Comune, una radio importante e l’intento di arrivare a chi delle bici conoscesse ancora poco o nulla. MBC voleva comunicare a chi ancora avesse paura di usare la bici in città, che un altro mondo era possibile che esisteva un reticolo di realtà ed esperienze attive a Milano che da anni si battevano per far crescere idee, spazi ed eventi che muovessero culturalmente ed economicamente la città. Sono attive da anni diverse aziende di bike messenger, artigiani, negozi e marchi di biciclette, associazioni per la promozione della mobilità sostenibile, gruppi di attivisti, società di bike sharing, realtà industriali, tour operator cicloturistici, squadre e manifestazioni sportive che aspettano solo il momento di farsi conoscere.

Non sempre si è riusciti, ma il tentativo c’è stato e qualcosa sembra abbia prodotto. Milano Bike City contemplava un ricco programma di eventi sparsi in varie location dedicati alla bicicletta, al ciclismo e alla mobilità sostenibile promossi dall’Assessorato al Turismo, Sport e Qualità della Vita del Comune di Milano.

Per due settimane le due ruote sono state il mezzo prediletto dai cittadini milanesi, cogliendo l’occasione per esplorare la città in ogni suo quartiere, incontrare persone, assistendo ad eventi dal centro alla periferia. Il tutto pensato in concomitanza con la Settimana Europea della Mobilità Sostenibile in cui la bici veniva spinta come mezzo di trasporto, proseguendo con Bike Up parlando della bici del futuro, quella a pedalata assistita, che oramai sembra essere divenuta parte attiva del nostro presente.  Anche Regione Lombardia si era fatta promotrice dell’evento organizzando tour in bici alla scoperta delle bellezze del territorio.

Foto: Francesco Rachello/Tornanti.cc

E’ importante fermarsi un attimo e ripercorrendo questa breve panoramica che coinvolge due avvenimenti apparentemente molto diversi, ma animati dalla stessa passione: la celebrazione della bicicletta in tutte le sue forme. Entrambi i momenti avevano come scopo quello di far vivere la bici, i suoi luoghi e protagonisti a chi non li conoscesse e solidificare il legame con gli addetti al settore.

Abbiamo visto Milano cambiare e così molte città grazie alla bicicletta ed è stato un cambiamento positivo. Sicuramente il festival ne è stato un catalizzatore importante per quello che può venire considerato uno dei movimenti più significativi di questo secolo: un punto di incontro e un’occasione di scambio e allo stesso modo Milano Bike City lo ha fatto in maniera più organizzata e supportata anche dall’alto.

Qualcosa si sta muovendo e lo stiamo vivendo sulla nostra pelle.

Ovviamente i fattori che hanno contribuito alla crescita del ciclismo urbano sono molti, come abbiamo già visto, partendo anche dalle persone che chiedono di poter spostarsi in città senza essere costrette a guidare l’auto per una o due ore al giorno.

MILANO BICYCLE COALITION

15 Ottobre 2018 SuperMi100 una pedalata di 100 km attorno a Milano nell’ambito di “Super – il Festival delle Periferie a Milano” Foto Francesco Rachello / Tornanti.cc

A dar voce a tutte le realtà che utilizzano già la bici ogni giorno in città ci pensa Milano Bicycle Coalition, una piattaforma di contenuti e servizi dedicati alla mobilità sostenibile attiva nell’area di Milano che vuole contribuire alla diffusione di una “cultura alta della bicicletta” in cui il le due ruote vengano usate e viste come occasione di integrazione sociale, crescita culturale ed economica, amicizia e consapevolezza.

Milano Bicycle Coalition ha l’ambizione di contribuire alla pacificazione dei rapporti sulle strade, uscendo dalla logica delle categorie contrapposte, come citano i vari sostenitori sul loro manifesto. Inoltre, assieme alle numerose comunicazioni sui social, newsletter e canali di informazione, Milano Bicycle Coalition si propone di attivare una serie di progetti e iniziative che facciano crescere la quantità e la qualità dei ciclisti urbani, trasformando il tema della ciclabilità in una grande opportunità per tutta la città.

Fra le loro iniziative più importanti e significative possiamo citare il bollettino ciclistico milanese e AbbracciaMI. Il bollettino consiste in una serie di aggiornamenti e introduzione ai fatti a tema due ruote da Milano e dal mondo mentre AbbracciaMI è un tracciato attorno a Milano pensato da La Città Intorno.

Red hook Crit Milano at BFF. Foto: Alessio Baù

La Città Intorno è un programma triennale di intervento partecipativo sul territorio, che coinvolge in prima persona gli abitanti dei luoghi individuati e che ha come scopo il processo di rigenerazione urbana che valorizzi la multidisciplinarietà lavorando su tempi medi, esprimendo una nuova visione sulle città che ne rimetta al centro le periferie. Sulla scia di questo intento è stato quindi creato un percorso circolare, una circonvallazione allargata che corre attorno alla città e unisce persone, attività e luoghi, attraversando gli spazi urbani abitati e in trasformazione.

AbbracciaMi è un’azione dedicata a una mobilità nuova, sostenibile e ciclopedonale, per migliorare la qualità della vita di tutti nei quartieri della città che permette di unire vari quartieri, parchi e zone di Milano senza mai passare dal centro. Pedalare sul percorso di AbbracciaMI, sostengono gli organizzatori, serve oggi a rendere questo itinerario una buona pratica che stimoli la realizzazione della circle line. AbbracciaMI è il sogno di un percorso ciclistico attorno alla città di Milano, un vero e proprio abbraccio in bicicletta. L’itinerario è già in gran parte percorribile, quasi sempre su ciclabili, attraverso parchi e giardini, su strade a basso traffico.

Un altro esempio di grande riqualificazione delle periferie è il progetto del “boschetto” di Porto di Mare, collocato nella zona sud di Milano confinante con il parco della Vettabbia e la vicina abbazia di Chiaravalle, riqualificato dal Comune di Milano assieme a Italia Nostra e il centro di Forestazione Urbana regalando ai cittadini anche una pista di mountain-bike.

Esiste una mappa disponibile online che illustra i principali ambienti del parco e che spiega come orientarsi e muoverti lungo i vari sentieri a piedi o in bici.

Il processo di rigenerazione dell’area di Porto di Mare è uno dei vari esempi di riqualificazione ambientale, urbanistica, edilizia, economica e sociale attuati dal Comune di Milano per comparti periferici e degradati che ci aiuteranno a riappropriarci di una città in cui le bici saranno il nuovo motore pulsante.

Foto in evidenza: Tornanti.cc


Corrieri in bicicletta

Le professioni in bici a Milano sono le più diverse, ma vivendo in città il grande mito dei bike messenger è stato uno dei primi motori che hanno avvicinato sempre più persone alla bicicletta.

Io stessa sono stata vittima del fascino delle bici a scatto fisso e della sotto cultura dei messenger nordamericani che popolavano video e momenti dell’espansione del fenomeno delle bici da pista utilizzate fuori dai velodromi, per la loro semplicità di manutenzione e leggerezza.

Lavorare in bici, sempre di fretta, pianificando itinerari, modalità di carico e trasporto è come una piccola sfida quotidiana e togliersi il più possibile l’eventualità di problemi meccanici, è già un grande aiuto.

Negli ultimi anni la consapevolezza dei ciclisti urbani e di chi ha scelto di muoversi in bici a Milano è cresciuta notevolmente. Sicuramente i corrieri hanno rivestito un ruolo chiave in questa consapevolezza e nel modo di approcciarsi al pedalare in città, non solo come mezzo per spostarsi, ma più come un sistema nuovo di vivere e scoprire Milano, di far crescere una sottocultura variegata che continua ad evolversi e prendere sempre più spazio ed importanza, come ci spiega Matteo Castronuovo, uno dei soci di UBM, la prima società di corrieri in bici milanese.

Più persone inizieranno a popolare le strade in sella alle due ruote, più tutto il sistema dovrà agire di conseguenza.
Le consegne in bici possono essere uno dei vari modi per aiutare a migliorare la qualità della vita delle persone che vivono in una città come Milano perché, oltre ad essere ad impatto zero, sono veloci e il segno visibile di un ingresso della bici anche in quei settori in cui si pensava che i mototaxi o furgoni fossero i soli possibili protagonisti. «Ci vorrà ancora un po’ di tempo, ma sono sicuro che siamo nella direzione giusta e le persone lo stanno iniziando a capire» – racconta fiducioso Andrea Lardera, fondatore di Milano Bici Couriers, un’altra grande società di corrieri, nata un po’ per caso  dopo un’alley-cat e poi diventata una realtà che muove cinquemila consegne al mese con venticinque corrieri.

Mi piace sentire il senso del dovere e che emerge in persone giovani, ma estremamente capaci e consapevoli del loro ruolo all’interno della società.
Spesso mi emoziono un po’ quando sento altre campane risuonare un eco fermo e motivato sull’importanza sociale delle professioni del ciclismo. «Oltre all’aspetto green, il vero valore aggiunto dei corrieri in bici credo sia stato quello di pensare ad un modello sostenibile da un punto di vista aziendale nei confronti dei propri dipendenti e dell’offerta verso i propri clienti. Avere dipendenti assunti ed assicurati, in un mercato grigio come quello delle consegne espresse, è stata una scelta etica e di valore che nel corso degli anni ci ha premiato, ma che allo stesso tempo rimane una sfida costante per provare a dimostrare che un modello diverso di fare azienda, in questo settore, esiste.

Foto: Tito Capovilla

Se ci mettiamo a confronto del nord Europa ci sono delle differenze abissali. Il vero grande problema sono delle scelte strutturali non solo legate alle infrastrutture, ma ad una rivoluzione culturale, da troppi anni attesa, che metta al centro della mobilità i più fragili, a partire dai pedoni. Manca una seria e strutturata visione di futuro e di conseguenza delle scelte pragmatiche che ne permettano lo sviluppo.

«La sfida/possibilità creata da questa pandemia può essere un’enorme chance in questo senso, ma solo se si avrà la forza, la visione e il coraggio di guardare lontano, mettendo in conto di fare scelte impopolari (come la drastica diminuzione dell’auto privata in ambito urbano) per garantire alle nuove generazioni un futuro più vivibile» queste le parole di Matteo mentre descrive il ruolo fondamentale dei messenger nella creazione del tessuto urbano della città.

I modi per migliorare e costruire qualcosa sono tanti e possibili e si è vista negli ultimi anni una parte di opinione pubblica che ha capito l’importanza di scelte a favore di una mobilità dolce e sostenibile, nonostante la strada da fare. «La qualità della vita dei cittadini non può essere ancora vincolata ad una diatriba tra guelfi e ghibellini o pensare che il bene comune abbia un colore; come è follia pensare che dare spazio alla ciclabilità voglia dire fare una guerra alle auto. Le strade sono di tutti, a partire dal più fragile e se non si metterà questo principio alla base delle scelte dei prossimi anni a pagarne le conseguenze saremo tutti noi in termini di morti sulle strade, di costi altissimi della sanità e di una pessima qualità della vita. Non so pensare ai miei spostamenti quotidiani se non in sella ad una bici o a piedi.

Questa cosa mi permette di mappare e di vedere Milano in maniera del tutto diversa rispetto a chi preferisce rinchiudersi in una scatoletta a motore.
Ho imparato ad apprezzare il passare delle stagioni pedalando quotidianamente, ho avuto la fortuna di conoscere centinaia di persone unite da questa stessa passione, ho avuto l’opportunità di lavorare con persone uniche che quotidianamente mi permettono di continuare a credere che un modo diverso di vivere e vedere Milano esista».

A tutti quelli che dicono che Milano non è una città per le biciclette e la risposta è chiara e all’unisono: “Vi state perdendo qualcosa.”
Ebbene sì, ci stiamo perdendo la possibilità di poter vivere e conoscere una città diversa, a misura d’uomo, percorribile da una parte all’altra in pochissimo tempo, non essendo costretti in delle scatolette a motore. Pedalare a Milano vuol dire ri-mapparla in funzione delle proprie necessità, rispettando gli altri e godendo di angoli di Milano che in auto non si possono ammirare.

Foto: Bici Couriers di Andrea Lardera

Una persona che adora conoscere strade, nomi di vie e scorciatoie, tanto quanto la sottoscritta, non può che apprezzare l’esempio fatto da Matteo chiedendomi quale fosse (in macchina) la strada da piazza Gramsci per arrivare in porta romana? Un incubo!

Tra semafori, ingorghi e lavori. Chiedo qui scusa a tutti i non milanesi alla lettura, ma se volete divertirvi potete provare a vedere che effetto fa cercare questo itinerario su qualsiasi navigatore per auto e poi fare il confronto con la sua versione pedonale e capite subito di cosa stiamo parlando.

«In bici – spiega Matteo – vi basterebbe tagliare parco Sempione per trovarvi in Piazza Castello per poi accedere a Piazza del Duomo, ovviamente off-limits alle auto, essendo gran parte del percorso all’interno di zone a traffico limitato o a pagamento. Continuando per vie poco frequentate dalle auto, come piazza santo Stefano potreste scegliere di evitare il pavè e il traffico di Porta Romana. Ci sarebbero mille di questi esempi e spero che tanti milanesi capiranno che una città a dimensione d’uomo, che dia importanza ad una mobilità dolce, è quanto di meglio possiamo auspicare per il bene di tutti».

Scegliere di utilizzare la bici a Milano vuol dire dare a tutti la possibilità di vivere una città più sicura, meno inquinata, più vivibile e libera dalla congestione provocata dalle auto e di chi ne fa un uso improprio.

Lavorare in bici non è facile, non è sempre estate e gli inverni milanesi sono lunghi, umidi e piovosi e spostarsi sul pavé, affrontando binari del tram e automobilisti rinchiusi in veicoli dai vetri appannati e magari disattenti è estremamente stancante, ma non c’è niente di più gratificante che lavorare per se stessi.

«La mia vita, da quando ho aperto BiciCouriers, è cambiata tanto, in primo per le responsabilità e poi ovviamente non è facile stare sempre sul sellino per otto ore sotto pioggia e freddo», però si sa, i cambiamenti, soprattutto quelli più grandi, non sono mai delle passeggiate.
Più le persone modificheranno le loro abitudini più la città si adatterà. «È stato fatto molto negli ultimi anni e sono sicuro che continuerà cosi, ma siamo noi che dobbiamo aiutare il cambiamento – ribatte Andrea – più useremo la bici, più cambieremo le nostre abitudini, più sarà facile creare infrastrutture per permetterci una migliore ciclabilità».

Il fatto che la bici unisca e renda tutti incredibilmente più vicini è quanto viviamo ogni giorno, fermi al semaforo o spostandoci in posti più lontani.

Foto in evidenza: Tito Capovilla

 


Milano Bike Polo

Non sono mai stata così piacevolmente stupita da una realtà e da un modo di vivere la bici come quella del bike polo. Venire accolta, ospitata e introdotta dai ragazzi di Milano Bike Polo è stato davvero un grande regalo e ripenserò sempre piacevolmente alle loro parole e ai racconti in momenti in cui sconforto o delusioni potranno prendere il sopravvento, facendomi dimenticare le numerose realtà positive e inclusive che alimentano la cultura sociale e ciclistica milanese.

Lunedì e giovedì sera, tutto l’anno, presso lo Spazio Pubblico Autogestito Leoncavallo: sono queste le coordinate per assistere alle partite delle varie squadre della comunità milanese del bike polo, al momento la più grande e attiva sulla scena italiana.

A Milano questo sport si diffuse grazie ai primi corrieri che dal 2008 iniziarono a consegnare in bici per una città più pulita. Viaggiando in Europa, i bike messenger entrarono in contatto con questo sport nuovo e particolare e cercarono di replicarlo da noi, con i mezzi che avevano a disposizione. Inizialmente usavano bici a scatto fisso, le stesse che utilizzavano ogni giorno per lavorare, con lo stesso rapporto scelto per fare consegne, sfruttando come campi alcune tranquille piazzette della città, come ad esempio Piazza San Fedele, proprio dietro Palazzo Marino, in pieno centro. La location non era proprio ideale, ma funzionava perché era equidistante dai vari quartieri milanesi ed era raggiungibile abbastanza in fretta dai primi appassionati, che provenivano anche da Bergamo o dalla remota periferia.

Iniziando a frequentare i tornei in giro per l’Europa, i primi rappresentanti di Milano Bike Polo si resero conto della necessità di un campo con sponde idonee a non perdere la pallina ad ogni tiro mancato, vere porte per segnare e di una dimensione delimitata del campo, identico a quello da street hockey.

L’inventiva portò i ragazzi a costruirsi le mazze con vecchi bastoncini da sci, giocare con palline e coni da street hockey come porte, ma l’impossibilità di disputare delle vere e proprie partite iniziava a diventare un problema per la crescita delle abilità e del livello tecnico della squadra.

Possiamo dire che galeotto fu il BFF. Infatti, in occasione del Bicycle Film Festival del 2010, tenutosi presso lo Spazio Pubblico Autogestito Leoncavallo, i ragazzi di Milano Bike Polo vennero accolti al suo interno. Non trovando altri posti adatti, organizzarono il primo torneo indoor come evento parallelo alle proiezioni.

La collaborazione risultò interessante per tutti e i volontari del Leoncavallo si offrirono di ospitare in maniera continuativa le squadre del bike polo, facendo utilizzare ai giocatori gli spazi del grande salone concerti, dando così il via al cosiddetto Mercoledì da Leon… Cavallo.
L’appuntamento settimanale per gli allenamenti venne spostato poi al giovedì, giornata in cui venivano organizzate anche proiezioni cinematografiche al bar del Leo, accompagnate da un’ottima cena preparata dalla Cucina Pop (confermo di averci mangiato più volte e il menù è sempre vario, prezzi competitivi e attenzione alle esigenze alimentari di tutti).

Dopo anni passati a giocare un po’ in giro, finalmente i ragazzi di Milano Bike Polo avevano una casa e questo consentì di dare il via ai primi tornei ufficiali, con risonanza internazionale. Inverni umidi passati giocando al freddo e al gelo erano solo un lontano ricordo: da quel momento MBP aveva un campo regolamentare, con sponde, porte e finalmente liscio (forse fin troppo, al punto che per renderlo più grippante si adottarono le soluzioni più diverse – girano voci che durante i tornei europei si sia diffusa la tecnica Milano Style che consiste nell’agitare una bottiglia di soda gassata e spruzzarla sul pavimento per evitare scivolate inaspettate).

Avere un vero campo di gioco per migliorare sempre più la tecnica è stato il motore per investire anche sulle biciclette utilizzate per giocare: non ci si doveva più accontentare di quello che si aveva, ma ci si poteva finalmente creare la propria vera bici da bike polo.
Per giocare serve infatti una bici veloce, scattante, con un rapporto agile, un telaio con una geometria compatta e delle ruote di un diametro leggermente più piccolo (per molto tempo si è giocato con ruote del 26”, anche se adesso lo sport è in continua evoluzione a livello di tecnica e tipologia di mezzi) e solamente il freno anteriore montato sulla ruota libera, mentre la ruota posteriore è senza freno per permettere dei funzionali pivot.

Nonostante il bike polo sia uno sport molto fisico, il fair-play è l’elemento principale in tutte le partite, da quelle tra amici più informali in allenamento, ai momenti ufficiali dei tornei. Esiste anche un regolamento internazionale ben dettagliato, che rende il gioco fluido e vieta le azioni violente e scorrette, con tanto di arbitro e che stabilisce i vincitori su una differenza di 5 punti rispetto alla squadra avversaria.

L’ospitalità del Leoncavallo è preziosa per i ragazzi di Milano Bike Polo: avere un campo indoor è un privilegio non solo in città, ma per tutta la scena europea, anche se sarebbe bello vedere altri spazi pubblici in giro per la città adibiti a questo sport, in modo da poter avvicinare sempre più persone ad una disciplina altamente tecnica, educativa e allenante. Alla fine servono dei semplici campetti o aree come quelle dedicate al pattinaggio, perfette anche per giocare a street hockey, roller derby e chi più ne ha, più ne metta. È strano che Milano sia quasi priva di spazi simili, dato che sarebbe un ottimo propulsore sociale e di integrazione.

«Spesso in preda alla disperazione, vado ad allenarmi da solo sotto casa al Parco Ravizza – racconta Pietro, giovanissimo e preparatissimo presidente di Milano Bike Polo – mi prendo un pezzo di passaggio asfaltato al centro, piazzo due coni utilizzati per formare una rudimentale porta e provo i vari trick di equilibrio, il controllo palla e i tiri. Vengo fermato spesso da curiosi: ogni tanto qualcuno capisce cosa sto facendo e scambiamo quattro chiacchiere in semplicità. Il mio obiettivo, oltre al puro allenamento, è quello di far vedere che esistiamo, diffondere e mostrare come funziona questo gioco. Parlando con passanti curiosi, un giorno è saltata fuori l’esigenza di una mamma che non sapeva dove portare la figlia ad allenarsi con i pattini, aveva provato in qualche posto in città, ma senza un campo adibito con sponde, alla fine ha lasciato perdere… e pensare che aveva comprato i pattini anche lei per imparare con la figlia. Insomma, le nostre esigenze non sono distanti da quelle di altri sportivi e anche di tante famiglie».

L’inclusività è un tratto distintivo di questa disciplina che solo apparentemente è difficile e di nicchia: il bike polo ha le carte in regola per diventare un gioco diffuso e praticato da persone di tutte le età.

Se pensate di non avere la bici o le skills adatte, nessun problema, andate un giovedì sera al Leoncavallo, cercate Pietro, Bozo, Ricky o chiunque si stia allenando e troverete un gruppo di ragazzi e ragazze sorridenti e disposti a spiegarvi tutte le regole e anche, ovviamente, a prestarvi una bicicletta adatta a provare!

Foto: Tytenko Dmytro


Intervista a Paolo e Pinar Pinzuti

Abbiamo parlato con Paolo Pinzuti CEO di Bikenomist e con Pinar Pinzuti di Fancy Women Bike Ride.

Ciao Paolo, qual è la tua storia?
Laureato in Scienze Internazionali e Diplomatiche, Master in Scienze del Lavoro, nel 2007 mi sono sposato con Pinar. Nel 2011 partiamo per un viaggio di quattro mesi in bicicletta in Sud America e apro un blog per raccontare la nostra esperienza. Nel 2012 a partire da quel blog lancio la campagna #salvaiciclisti. Nel 2013 il blog diventa Bikeitalia.it e nel 2015 Bikeitalia.it diventa un’azienda, Bikenomist, che eroga corsi di formazione e consulenze a pubbliche amministrazioni in materia di ciclabilità. Nel 2020 lanciamo la prima fiera del cicloturismo, ma veniamo stoppati dalla pandemia.

Com’è nata questa passione e impegno diventato poi un lavoro? 
Dopo l’università sono andato a vivere in Germania dove ho scoperto che era possibile muoversi in modo sicuro e veloce in città, ma anche di fare turismo usando la bicicletta. E mi sono chiesto: “perché in Italia non è possibile?”. Ho studiato le riviste tedesche che parlavano del tema e ho cercato di replicarle in Italiano.

Secondo te com’è cambiato il modo di vedere il ciclismo e di praticarlo da parte dell’utente medio nato e cresciuto in città? 
Difficile dirlo. Sicuramente ci si è resi conto che la bicicletta non è più una cosa da poveri, ma anzi è uno strumento per chi non ha tempo da perdere, per chi dà un valore altissimo al proprio tempo. I giornali di tutto il mondo scrivono da tempo che “cycling is the new golf” perché ha abbandonato la propria immagine di sport delle classi popolari.

Paolo Pinzuti di Bikeitalia

In che modo Bikeitalia si impegna nella creazione di una community – motore pulsante dell’attività ciclistica come collante sociale e motore di autostima e aggregazione per numerose persone, spesso timide o sole o che non sanno bene come iniziare ad approcciarsi al mondo delle due ruote?
Con Bikeitalia cerchiamo ogni giorno di alzare l’asticella su quelle che sono le conoscenze in materia di mobilità urbana e anche sul cicloturismo. Nel corso degli anni abbiamo condotto diverse campagne per la realizzazione di infrastrutture e l’allocazione di denari pubblici. Nel 2013 dicevamo che c’era bisogno di piste ciclabili e zone 30km/h. Poi abbiamo iniziato a parlare di corsie ciclabili. Adesso stiamo parlando di riqualificazione dello spazio attraverso la bicicletta e chiediamo pubblicamente delle superciclabili. Durante il lockdown abbiamo pubblicato un Piano Emergenziale della Mobilità Urbana post covid che è stato ampiamente adottato da diverse città. Il nostro compito è mettere in sella più persone possibile e offrire loro argomenti per trasformare i propri desideri in richieste puntuali.

Qual è stata la reazione dei milanesi ad un progetto più ampio di ciclabilità urbana?
Quando abbiamo proposto MIMO, la Greenway Milano-Monza le reazioni sono state di entusiastiche, poi è arrivato il COVID che ha fermato tutto quanto e oggi, alla ripresa delle attività, la nostra proposta è stata sposata da diverse aziende che l’hanno trasformata in una richiesta formale al comune. La percezione dei Milanesi sulla bicicletta sta cambiando molto, anche a causa dello spopolamento della città a seguito del COVID.

Pensi che Milano abbia le carte per mettersi in gioco in un progetto più ampio e ambizioso di mobilità ciclistica a tutto tondo?  
Milano è una città piatta e dalle dimensioni contenute. Non ha nulla da invidiare ad Amsterdam. Anzi, iniziando dopo, ha la possibilità di fare meglio evitando molti errori commessi dagli olandesi. L’occasione di rivedere gli spazi per favorire l’uso della bicicletta deve essere anche l’occasione per ripensare la città in chiave di resilienza ai cambiamenti climatici: togliendo asfalto per aumentare la permeabilità del terreno e riducendo le isole di calore, piantando alberi e offrendo spazi per la cittadinanza.

Pinar Pinzuti

Pinar: in che modo Fancy Women Bike Ride – e la bicicletta in senso più ampio – potranno aiutare e coinvolgere i più diversi strati sociali modificando completamente il modo di vivere le città?
La bicicletta è il mezzo più veloce per muoversi in città, ma poche persone ne sono a conoscenza perché viene percepita come un mezzo di trasporto lento. Una volta che le persone scoprono la sua velocità in ambito urbano difficilmente tornano indietro. La Fancy Women Bike Ride, così come gli eventi dedicati alla ciclabilità, servono proprio a quello: a far provare l’esperienza per la prima volta e a vincere i pregiudizi.
Utilizzare la bicicletta per muoversi significa risparmiare denaro e liberare reddito, che poi è quello che serve maggiormente agli strati sociali più in difficoltà.

Cosa vorresti dire a quelle donne (ma anche uomini) che non osano o hanno paura di avvicinarsi alla bici o di usarla con maggiore costanza nel quotidiano?
Che non hanno fatto bene i conti e non sanno quanti soldi si risparmiano a usare la bicicletta. Noi non possediamo l’automobile e coi soldi che risparmiamo ci possiamo permettere ogni anno delle vacanze spettacolari.

Possiamo dire che bike italia + the bikenomist siano anche un progetto di riqualificazione e promozione di Milano e del suo pedalare?
In un certo senso sì: il claim di Bikeitalia è “trasformiamo l’Italia in un Paese ciclabile”. Essendo Milano la nostra città è proprio da qui che partiamo, ma la nostra attività si concentra anche su altre città con le quali lavoriamo direttamente.

Fancy Woman Bike Ride 2019

Che itinerari potreste consigliare ad un ciclista urbano e ad un appassionato invece dei luoghi segreti, magici, o semplicemente speciali che Milano o i suoi dintorni possano offrire?
Milano è la città che non invecchia e in cui architetture antiche si giustappongono a esperimenti più contemporanei. Andare alla scoperta di queste contrapposizioni è particolarmente piacevole. Ma in particolare se devo consigliare qualcosa è di andare a visitare il Cimitero Monumentale che, essendo fuori dal centro, viene troppo spesso trascurato dai turisti ma che invece offre emozioni uniche. Da lì poi bastano poche pedalate per arrivare al Parco Nord e starsene un po’ in mezzo alla natura che in una città come Milano non è cosa banale.

Cosa pensi dell’evento di AbbraciaMi e Milano Bike City?
Che tutto ciò che parla o fa parlare di bici e che mette più persone in bicicletta è benvenuto.

E l’influenza della critical mass a Milano?
La critical mass in ogni città ha avuto il grande ruolo di mettere in discussione la distribuzione dello spazio pubblico. Anche a Milano, come altrove assolve a questo compito, ovvero dire che anche le biciclette sono il traffico. Milano ha però l’unicità di avere una critical mass che si tiene al giovedì sera invece che al venerdì nel tardo pomeriggio e questo ha rischiato di fargli avere una deriva più ricreativa e meno politica, ma questo ha il grande merito di mettere più persone in bicicletta e quindi W la critical mass di Milano!

Foto in evidenza: Paolo Pinzuti


City Bike / Milano: il manifesto di questo dossier

Mi hanno chiesto di raccontare Milano e la sua relazione con la bici. Di mettere insieme una sorta di guida, un vademecum, un piccolo libretto di istruzioni e camera dei segreti della vita ciclistica milanese. L’occasione di narrare la strada a pedali di Milano mi è sembrata più che in sintonia con questo periodo di grandi avvenimenti.

Abbandonata e ripresa più volte la relazione con la città natale può essere spesso controversa. Così è stata la mia.
Continuo a tornare a Milano perché è la mia città, dove vivono i miei affetti, i miei amici, la mia famiglia. È la città che amo, nonostante abbia molti difetti che a tratti me la fanno odiare, ma continuo a pensare che siamo sulla strada giusta per renderla migliore.

SuperMi100 una pedalata di 100 km attorno a Milano nell’ambito di “Super – il Festival delle Periferie a Milano” Foto: Francesco Rachello / Tornanti.cc

Col tempo, e grazie ad una formazione in filosofia e ricerca sul paesaggio, ho imparato che anche i luoghi portano con sé un’innata capacità di creare contatti, generare idee, seminare progetti e insediarsi in maniera indissolubile nel cuore delle persone che li vivono. Ripensandoci riusciamo a rigustare quel gelato in sala giochi o le uova ripiene della nonna – quelle della mia, vi assicuro, erano fantastiche: saranno le galline di campagna o i chilometri in bici su e giù per le colline marchigiane, ma quelle sensazioni non le possiamo dimenticare.

I luoghi e la bici. Due componenti fondamentali nel cammino di quel viaggio lungo e accidentato, fatto di saliscendi, pause e avventure.
La bici è sempre stata parte di me fin da quando ero piccola.
Lavorare, esplorare e comunicare alle persone attorno a me la bellezza dell’andare in bicicletta, della sensazione di libertà e condivisione è il motore che mi ha spinto su ogni salita, sentiero e difficoltà.

SuperMi100 una pedalata di 100 km attorno a Milano nell’ambito di “Super -il Festival delle Periferie a Milano” Foto: Francesco Rachello / Tornanti.cc

Crescere nomade in giro per Europa e Stati Uniti mi ha fatto capire come la bicicletta potesse davvero diventare il mezzo per cambiare radicalmente l’approccio alla gestione urbana e alla condivisione degli spazi e tempi dell’abitare la città nella sua routine quotidiana, facendoci dimenticare lo stress di traffico, mezzi pubblici, scioperi e costi dell’automobile – economici e sociali.
Avrei voluto vedere tutto questo realizzarsi anche a Milano, ma faticavo a percepire il concretizzarsi di questo cambiamento. Qualcosa ancora mancava nell’approccio ad un nuovo modo di vivere il quotidiano generato dall’azione sinergica di iniziative dal basso e gesta ufficiali dall’alto.
Se vogliamo vedere realizzato il cambiamento non possiamo aspettarci che sia solo l’una o l’altra parte a muoversi: dobbiamo attivare quell’unione per vedere realizzarsi la trasformazione.

Le città hanno il potere di cambiare ed evolvere: leggendone i cambiamenti possiamo muoverci costruttivamente verso il futuro. Se ripensiamo, infatti, alle città del passato costruite a misura d’uomo, capiamo benissimo che non c’era posto per auto o veicoli ingombranti e rumorosi.

Milano è carica di storia, i suoi resti romani, il pavé sconnesso e bastioni condividono il suolo urbano con grattaceli e costruzioni futuristiche: passato e innovazione che convivono. Non a caso Milano è il luogo in cui si concentrano le nuove tendenze in fatto di moda, design e industria provenienti dall’estero, digerite e poi restituite al resto dell’italia.

Vivere la città in bici

Foto: Francesco Rachello/Tornanti.cc

Spostarsi in bici a Milano è possibile essendo non particolarmente grande e decisamente pianeggiante, anche se la presenza di strade sconnesse – pavimentate con grossi ciottoli squadrati particolarmente insidiosi per le biciclette – traffico e rotaie del tram ovunque, non la rendono di primo acchito una meta ambita dai ciclisti.

Per anni le amministrazioni comunali si sono interessate poco o nulla alla questione. Dopo periodi in cui i cambiamenti climatici hanno fatto da padrone, nuovi piani urbanistici e una maggiore attenzione alla qualità della vita, le persone hanno iniziato a rivalutare l’andare in bici, comprenderne i valori ecologici, economici, sociali e sportivi.

E la bicicletta è diventata di moda. Abbiamo visto le nostre strade venire occupate da mezzi sempre più di tendenza, customizzati, colorati, veloci e leggeri, ma il loro numero potrebbe aumentare ulteriormente se la città fosse dotata di una rete organica di percorsi ciclabili che rendessero più sicuro l’utilizzo della bicicletta da parte di una più ampia fetta di popolazione.

SuperMi100 una pedalata di 100 km attorno a Milano nell’ambito di “Super – il Festival delle Periferie a Milano” Foto: Francesco Rachello / Tornanti.cc

In molti hanno recentemente scelto, per i loro spostamenti, i leggeri e veloci monopattini elettrici, a noleggio o di proprietà. La rivoluzione elettrica sembra non fermarsi davanti a nulla, contaminando ogni forma di trasporto possibile. Numerosi cittadini, prima scettici hanno optato per questi veicoli a due ruote, all’apparenza traballanti, ma funzionali e più facilmente trasportabili su treni, metropolitane e autobus rispetto ad una bici pieghevole. Dobbiamo però ricordarci che il sistema frenante non è così intuitivo come quello di una bicicletta e il guidatore deve bilanciare il peso per evitare di inchiodare. Con un po’ di dimestichezza e praticità tutto si impara, ma sicuramente i monopattini non potranno sostituire del tutto la bicicletta anche se sono mezzi divertenti e sulle brevi distanze vanno benissimo.

Negli ultimi dieci anni la situazione in città è migliorata grazie ad alcuni investimenti mirati delle amministrazioni: attualmente sono disponibili circa duecentoventi chilometri di tracciati ciclabili, quasi il triplo di quindici anni fa e numerose rastrelliere pubbliche sono comparse negli ultimi anni. Il problema è che non esiste continuità fra le piste di quartiere e ai ciclisti capita spesso di procedere a zigzag fra tratti riservati, strade e marciapiedi. Molti si rassegnano così a utilizzare i viali a scorrimento veloce, le circonvallazioni, che però hanno pochissimi tratti della carreggiata riservate ai ciclisti.

SuperMi100 una pedalata di 100 km attorno a Milano nell’ambito di “Super – il Festival delle Periferie a Milano” Foto: Francesco Rachello / Tornanti.cc

Forse occorre fare una rapida distinzione tra percorsi ciclabili e piste ciclabili: i primi sono delle direttrici in cui l’utilizzo della bicicletta può avvenire in modo sicuro, costituiti da strade con limiti di velocità fissati a 30km/h, marciapiedi larghi dove biciclette e pedoni possano convivere. Le piste ciclabili sono invece tratti di strada esclusivamente dedicati al passaggio delle biciclette.

I percorsi ciclabili non sono necessariamente e interamente costituiti su piste ciclabili protette, spesso alcuni tratti sono realizzati in carreggiate separate o in altri casi i percorsi ciclabili coprono strade in cui ci sono anche automobili e/o pedoni.

A Milano non esiste al momento un piano organico ufficiale né di percorsi ciclabili, né di piste ciclabili: queste ultime infatti sono presenti a tratti, in modo non organizzato e spesso incomplete o terminano improvvisamente su parcheggi, marciapiedi, strisce pedonali o cordoli della strada, creando rischi per i ciclisti e non solo.
A volte le piste verniciate per terra sono scolorite, poco evidenti o incastrate fra ostacoli e auto in sosta. In altri casi in corrispondenza di incroci è necessario aspettare a lungo prima di poter attraversare e quindi quasi nessun ciclista aspetta tutto questo tempo. Idealmente, una buona rete di percorsi ciclabili non sarebbe troppo diversa dal classico schema che conosciamo di una rete metropolitana tenendo conto sia delle esigenze dei ciclisti che dei pedoni.

Come si può vedere dalla mappa attualmente esistono solo alcune piste ciclabili protette che permettono di raggiungere il centro (Gioia – San Marco – Brera e Sempione – Castello – Dante).

Come suggerisce Luca Svaluto di Milano città stato, il primo passo dovrebbe essere il disegno dei percorsi ciclabili fino ad arrivare alla zona del Duomo, intesa come il centro della città e come abbiamo visto i percorsi ciclabili non devono necessariamente essere separati dai pedoni o dalle automobili, ma si potrebbero definire delle strade in cui le auto possono procedere solo a 30km/h.

Il secondo passo potrebbe essere quello di inserire una segnaletica orizzontale, per terra, con figure adesive sulla superficie della strada risultando così meno invasiva rispetto al tipico cartello verticale e potrebbe essere applicata in modo che sia i pedoni che gli automobilisti la possano vedere, evitando così comportamenti pericolosi da parte di tutti gli attori coinvolti: ciclisti, pedoni, automobilisti.

Come ultima azione si potrebbe pensare alla creazione di piste ciclabili dedicate nelle aree più critiche, canalizzando il flusso delle biciclette nei percorsi ciclabili, riducendo le criticità di una condivisione di spazi in percorsi altamente trafficati o pericolosi.

«Attualmente il Comune di Milano realizza le piste ciclabili non in funzione di un effettivo bisogno, ma in seguito di interventi di riqualificazione urbanistica. In questo modo spesso vengono utilizzate delle risorse pubbliche per la costruzione di piste ciclabili che nella pratica non sono molto utilizzate. Questo determina la frustrazione sia degli automobilisti che vedono ridotto lo spazio a loro dedicato, sia dei ciclisti che vedono risorse impiegate in zone dove non necessariamente ce n’è bisogno».

In periodo pre-covid, solitamente ogni giorno salivano in metropolitana circa 1,4 milioni di passeggeri, cifra che nella fase due è stata ridotta di almeno tre quarti. Evitando di congestionare le strade con un milione di auto in più ogni giorno in circolazione, il Comune ha deciso di puntare tutto o quasi sulle due ruote: «ci vuole creatività» ha detto il sindaco Beppe Sala. Se andare in bici significa essere creativi, ben venga la vena artistica. La situazione attuale ci spinge a recuperare la socialità dell’esterno e desiderare una presenza più capillare del verde urbano come rifugio sicuro. Le piazze, le strade, i parchi diventeranno sempre di più estensione delle ristrette residenze private e degli spazi omologati del lavoro, nonché luoghi privilegiati per lo svolgimento, per quanto ridimensionato, di una vita culturale e sociale pubblica. L’esigenza di vivere la città garantendo la salute dei cittadini e il modello di vivibilità a cui faticosamente ci stavamo avvicinando nell’era della digitalizzazione, ci spinge a rivalutare soluzioni per questa transizione epocale.

SuperMi100 una pedalata di 100 km attorno a Milano nell’ambito di “Super – il Festival delle Periferie a Milano” Foto: Francesco Rachello / Tornanti.cc

Mi piace il modo in cui l’architetto e paesaggista Andreas Kipar ha raccontato l’evoluzione della città negli ultimi anni: «Milano era pronta, aveva i valori, un nuovo asset, aveva cominciato a respirare con una nuova anima, ma nessuno lo sapeva ancora, tant’è che ancora all’inaugurazione di Expo i milanesi erano scettici. Arrivano gli stranieri e trovano tutto bello. Gli stranieri erano sorpresi da Expo, ma soprattutto dalla scoperta della città di Milano. Prima non c’era ragione di venire a Milano, se non per business. A un certo punto è iniziato un flusso inarrestabile di cittadini internazionali che diffondono all’estero questo messaggio della bellezza straordinaria e inaspettata della città».
Anche se si sa, continua Kipar, il milanese è storicamente complessato sul tema bellezza, rispetto alla grande bellezza codificata romana, fiorentina o veneziana, tant’è che fuggiva dalla città appena possibile. A forza di sentir dire che tutto era bello a un certo punto i milanesi hanno cominciato a dire: “ok allora siamo davvero belli” e hanno sviluppato una nuova anima. Non più l’anima dell’operaio che doveva correre veloce perché c’era l’industrializzazione, ma l’anima della città mitteleuropea che poteva offrire charme, bellezza, creatività mediterranea e nello stesso tempo operatività, concretezza ed efficienza mitteleuropea.

Oggi Milano è questo mix. E ci piace proprio per questo.

Una Milano sempre più cycling-green, soprattutto se ripensiamo alla città meneghina che sta ripartendo: dopo le novità riguardanti i mezzi pubblici, si spera arrivino anche quelle collegate alle piste ciclabili e alla creazione delle cosiddette “case avanzate”. Le case avanzate sono degli spazi riservati alle biciclette posti davanti alle linee di arresto dei veicoli a motore che permetterebbero ai ciclisti di aspettare lo scattare del verde al semaforo in una posizione più visibile e di poter svoltare per primi. Una modifica ottenuta grazie al via libera del ministero, consentirà alle biciclette punti di arresto differenziati in prossimità degli incroci, non correndo il rischio di venire investite dalle auto che svoltano a destra. La casa avanzata va nella direzione di garantire maggior sicurezza ai ciclisti che percorrono il tratto di ciclabile in Corso Buenos Aires:. «Ormai sono più di 5.000 i ciclisti che usano ogni giorno la nuova ciclabile», ha affermato Marco Granelli, l’Assessore alla Mobilità milanese. La democrazia della strada avanza con la casa avanzata – sostiene soddisfatta l’associazione FIAB Ciclobby che spera di vedere Milano assieme alle città europee della bicicletta come Basilea, Vienna, Copenaghen e Londra.

SuperMi100 una pedalata di 100 km attorno a Milano nell’ambito di “Super – il Festival delle Periferie a Milano” Foto: Francesco Rachello / Tornanti.cc

Per permettere a cittadini e turisti di conoscere tutte le piste ciclabili della città sono disponibili gratuitamente due diverse mappe appena realizzate per il Comune di Milano. Le due cartine sono distribuite presso i punti informativi del Comune di Milano, i musei comunali, le sedi di Confcommercio e Assolombarda, i consigli di zona, le principali ciclofficine, i rivenditori di bici e le associazioni di ciclisti urbani. Milano è una città piccola e densamente abitata, quindici chilometri da un capo all’altro con 1.4 milioni di abitanti, il 55% dei quali utilizza i mezzi pubblici per recarsi al lavoro. Il tragitto medio è inferiore a quattro chilometri, rendendo il passaggio dalle auto alle modalità di viaggio attive possibile per molti residenti.

Il capoluogo lombardo sta quindi lavorando a un piano che incentivi l’uso della bicicletta e dei bike-sharing in seguito alle necessità di evitare assembramenti sui mezzi pubblici come la creazione di nuove infrastrutture che ne agevolino l’uso.
A partire da fine aprile 2020 erano cominciati i lavori, conclusi entro fine estate, per l’apertura della nuova pista ciclabile che da Piazza San Babila portasse direttamente a Sesto Marelli seguendo la direttrice di una grande via di comunicazione quale Corso Buenos Aires, sei chilometri in entrambi i sensi di marcia. Nonostante sia un’incredibile innovazione per il piano urbanistico della città, non sono stati pochi gli oppositori.
Due associazioni di commercianti si sono mostrate subito preoccupate che un minor passaggio di auto che a loro avviso si sarebbe tradotto in una riduzione dei guadagni.
Una posizione non condivisa dall’architetto della mobilità Valerio Montieri, consigliere della FIAB e residente in zona: «In questo modo si aumenta la possibilità di fruizione in sicurezza della strada e dobbiamo sfatare il mito del ciclista che non spende. La bici è amica del commercio. Basta pensare che un parcheggio auto può ospitare dieci biciclette e dunque dieci possibili clienti».

SuperMi100 una pedalata di 100 km attorno a Milano nell’ambito di “Super – il Festival delle Periferie a Milano” Foto: Francesco Rachello / Tornanti.cc

Potremmo spiegare con dati alla mano che le zone pedonali ciclabili, oltre a migliorare la vivibilità urbana, aiutano i vari negozianti a beneficiare di un passaggio a ritmo più rallentato con una maggiore possibilità che le persone entrino nel loro esercizio commerciale. E se i numeri non dovessero essere maggiori, sarebbero comunque più predisposte all’acquisto e meno stressate da vigili o multe per la macchina parcheggiata in seconda fila.

«La bicicletta, può contribuire a cambiare l’immagine delle città. Il futuro è nella mobilità ecologica» dice convinta Giovanna Rossignoli, figlia d’arte e anima dell’omonimo negozio di biciclette in Corso Garibaldi che da anni muove l’anima ciclistica milanese. «Chi viene a fare shopping in centro si sposta già oggi soprattutto in metropolitana, monopattini, bike sharing. Uno sviluppo green può avere un valore anche in termini di marketing, dobbiamo gestire meglio il corso e tenere conto di cosa chiedono i clienti. I posti auto lungo Corso Garibaldi, diciamolo pure, sono usati più da commessi e residenti che dai clienti».

Vediamo quindi che Milano ha ancora molta strada da fare nonostante si vedano sempre più mezzi a due ruote: dalle colorate bici a scatto fisso o da corsa, cargo-bike, cancelli semi-arrugginiti recuperate dai garage di famiglia usate per raggiungere stazioni di treni e metropolitana. All’estero la bici è ampiamente riconosciuta come mezzo efficiente ed efficace nei tragitti medio/brevi, sia come mezzo per scoprire il territorio ed è tutelata senza distinzioni politiche: basta la sua efficienza a renderla riconosciuta e apprezzata da tutti, ora dobbiamo farlo capire anche ai nostri concittadini.

Oggi, nella delicata fase di convivenza con il Coronavirus, la bici è un importante strumento di distanziamento sociale durante gli spostamenti, permette di alleggerire il carico sui mezzi pubblici, previene il traffico e l’inquinamento dovuti a un uso eccessivo dell’auto e, secondo le raccomandazioni delle varie organizzazioni sanitarie, aiuta a restare in forma mantenendo un sistema immunitario sano.
Più bici, meno virus.

Milano è una città dal potenziale ciclistico nascosto che si trascina una lunga storia d’amore fatta di umili lavoratori, cortei, industrie, artigiani, gloriosi marchi e grandi atleti. In futuro capiremo forse meglio tutto ciò e ovvieremo alla totale dedizione per l’automobile. Quel giorno la bicicletta, di proprietà o condivisa, verrà a tutti gli effetti sdoganata dalla sua unica concezione agonistica e diventerà protagonista attiva dei nostri spostamenti quotidiani.

Foto in evidenza: SuperMi100 una pedalata di 100 km attorno a Milano nell’ambito di “Super – il Festival delle Periferie a Milano” Foto: Francesco Rachello / Tornanti.cc

Ecco tutte le puntate del nostro dossier Milano Urban Cycling:


Café de Colombia

Words: Alessandro Autieri
Voice: Luca Mich
Sound design: Brand&Soda

Chiudete gli occhi. Quello che stiamo per raccontarvi richiede una buona dose di immaginazione, non perché ci siano cose inventate sia chiaro, ma perché molto di quello che ascolterete arriva da lontano nel tempo e nello spazio. Vi invito a pensare a questa storia come ad una serie di fotografie. Le prime di un color seppia sbiadito dal tempo, che rende difficile distinguerne i contorni, intrisi come sono di realtà e leggenda; altre di un nitido bianco e nero, che ci permette di delineare meglio il contesto. Fino alle immagini dei giorni nostri, dove i colori diventano la forma, mentre la sostanza si nasconde dietro cocenti delusioni, a volte risulta effimera come un talento sprecato, altre, come vedremo poi, raggiunge quello che sarà il massimo splendore nelle vicende del ciclismo colombiano.

Dobbiamo immaginarci l’inizio di questa storia come un esercizio di fatica in sella a bici pesanti come cancelli, che percorrono strade impolverate: è il ciclismo dei pionieri andini. 

Sono visi scavati quelli dei protagonisti della nostra storia. Tutti zigomi e mento. Espressioni tagliate dalle rughe e arse dal sole, povertà, pesanti maglie di lana e corse disputate con divise e scarpe da calcio.

Ci sono secchiate di acqua prese in faccia dai tifosi che incitano, o bastonate date da quelli che urlano contro. Lunghi allenamenti in bicicletta passati fumando decine di sigarette seduti in sella, fughe notturne in mezzo a strade così rappezzate che persino le bestie da soma si rifiutano di attraversare. Serate concluse a raccogliere le energie bevendo brandy o tequila. 

Sono racconti di tubolari appesi al collo, foglie di verza messe sotto il berretto per difendersi dal caldo, polvere che ti soffoca i polmoni e brucia palpebre sottili come unghie. E i protagonisti sono personaggi di una povertà tale che quando scendono dal loro paese per recarsi in una città più grande, e vedono per la prima volta una bicicletta, pensano si tratti di parti smontate di un’automobile. Spesso sono ragazzi poco più che analfabeti, ma che diventano, nell’immaginario collettivo della cultura popolare colombiana, così simili agli Dei da costruirci attorno storie intrise di un alone di mistero e anche di un tocco di magia.

Le prime apparizioni in Europa sono quelle di corridori scambiati per oggetti del mistero e del folclore. Le bici diventano via via più moderne: ma non i visi. Tratti inequivocabili di discendenze andine, di sangue chibcha, di stregua riluttanza alle più svariate avversità della vita. Di campi seminati a mais e coltivazioni di platani, di vette silenziose, altipiani che formano il carattere e donano resistenza ad altitudini impossibili per i rivali europei. “Buffi topolini scuri”, venivano chiamati così inizialmente quando ancora non erano presenza costante in gruppo. Snobbati, guardati dall’alto in basso da occhi petulanti come si fa quando in una locanda di un piccolo paese di provincia entra uno straniero mai visto, spaesato dalle fatiche di un lungo viaggio.

Nei decenni successivi arrivano in Europa, proprio a compimento di lunghi viaggi, corridori che hanno sempre addosso quello stampo che sa di antico. Volti scuri, a volte di statura piccolissima, altre volte enormi con mani da gigante, ma spesso poco avvezzi al dispotismo del grande ciclismo europeo. Perlopiù scalatori, con gambe autentiche e febbrili, muscoli intagliati da quei continui su e giù nelle province più disparate della regione dei Cafeteros tra Bogotà e Medellin. Capaci di sfoderare potenti attacchi in salita e di smarrire la bussola non appena la strada smette di salire e si lancia in discesa. «Sono sempre stato nervoso all’idea di cadere» raccontava Ramon Hoyos Vallejo, ma dobbiamo immaginarcelo come un pensiero comune allo scalatore colombiano. Una specie di legge che appare nelle loro sacre scritture. «Ho sempre temuto di uccidermi in una curva in discesa ed è per questo che cercavo sempre di prendere più vantaggio possibile in salita».

Si arriva così ai giorni nostri, a quelle foto colorate, accese, a quella generazione che sogna, oggi come allora, di vincere il Tour de France. Di ragazzi che ora riescono a frequentare con più regolarità la scuola mentre i genitori lavorano nei campi o nelle fattorie. Sognano un riscatto per la propria famiglia e corrono su bici più che decenti, se paragonate a quelle del passato. Nel giro di poco tempo si ritrovano a pedalare per il mondo arrivando giovanissimi in Europa e cavalcando bolidi che fino a un momento prima avevano visto solo in televisione – chi la possedeva – o nelle fotografie, oppure descritte in radio dai giornalisti colombiani. 

In Europa iniziano ad andarci a vivere attratti da contratti sostanziosi, dalla possibilità di diventare veri atleti sulla falsariga dei grandi campioni. Diventano veri atleti con la mentalità giusta e vanno a correre nelle squadre più importanti, imparando le abitudini del corridore europeo, pur mantenendo vive le radici dalla loro terra. Sono corridori che più moderni non si potrebbe e con una caratteristica prettamente colombiana: la capacità innata, grazie alla statura e alla struttura fisica e biologica, di andare forte in salita. 

Ma torniamo al principio. A quelle immagini prima color seppia e poi in bianco e nero. Partiamo dagli anni Cinquanta per raccontare il lungo viaggio di evoluzione della specie ciclistica colombiana. Iniziamo da Efraín Forero: “El indomable Zipa”. Zipa, perché arrivava da Zipaquirá, a una manciata di chilometri da Bogotà. Dove, oltre mezzo secolo dopo, nascerà un certo Egan Bernal. Ecco da dove tutto comincia, da dove parte la grande epopea del ciclismo colombiano che ha come obiettivo, come sogno di un popolo intero mosso dalla passione per il ciclismo, di vincere, un giorno, il Tour de France. Anche se, almeno inizialmente, è già un grande traguardo poterlo correre. Si parte da Efrain Forero, si diceva, capace di mettere assieme un atto eroico ancora più che sportivo e che ancora oggi lui stesso ha la forza di rievocare, nonostante i novant’anni suonati.

Efraín Forero aveva vent’anni nel 1950, uno in più quando vinse la prima edizione della Vuelta a Colombia. Una corsa nata per permettere la propagazione di quel lungo suono che proveniva dall’Europa e dove Giro d’Italia e Tour de France riempivano le pagine dei giornali. E come in Italia e in Francia anche in Colombia sarà un giornale a organizzare l’evento. Non vi è nulla di più calzante alla narrazione di uno sport come il ciclismo e anche i direttori dei quotidiani d’oltreoceano lo comprendono, cogliendo al volo il momento e ne facendone la loro fortuna. 

Naso appuntito, occhi chiari, sopracciglia folte, Efraín Forero nel 1950 voleva dimostrare che sì, anche nella povera Colombia, così lontana dal centro nevralgico del ciclismo conosciuto, era possibile organizzare una corsa a tappe; voleva mostrare come qualsiasi cosa fosse possibile in bicicletta. Anche in Colombia. Il tutto mentre in Europa Bartali, Coppi, Kübler, Koblet e pochi anni dopo Bobet, Gaul e Anquetil sarebbero diventati leggende dello sport. 

Forero salì sul Parámo de Letras: ottantatré brutali chilometri di ascesa a 3.760 metri di altitudine. Alcune cronache narrano di chi, prima di lui, morì nel tentativo.

«Salendo verso il Parámo de Letras lo scenario cambiò velocemente. A un certo punto mi imbattei in villaggi bruciati: era la guerriglia? mi domandai. Andai avanti lo stesso. Mi fermai un po’ dopo quando trovai un luogo dove poter bere aguapanela e prima di scollinare trovai un lago così limpido da avere sfumature cristalline. Mi fermai nuovamente e feci il bagno». Dopodiché si gettò in picchiata e quando Efrain raggiunse il centro abitato di Manizales era notte fonda. Ma non c’era il canto dei grilli o lo stridere delle cicale a fare da contorno. C’era solo un cielo buio con disegnata una mappa di puntini bianchi. C’era una schiera di gente che lo attendeva come di solito si fa con gli eroi. La prova, giudicata impossibile dai più, era stata superata. Gli scettici si convinsero: l’anno dopo toccava alla Vuelta. 

Forero vinse sette delle dieci tappe organizzate, compresa proprio quella che prevedeva l’arrivo a Manizales con la scalata del Parámo de Letras. Si avviò con quel suo attrezzo a due ruote per un viaggio di quasi 1.200 chilometri. Partirono in 35 quasi tutti colombiani e secondo le cronache del tempo, arrivarono in 30, anche se c’è che chi dice che furono in 33 a finire quella corsa. 

Dimostrarono che era possibile percorrere quelle strade, superare il Parámo de Letras, l’Alto de la Linea, scavallare la cresta della Cordigliera attraversando, bici in spalla, torrenti che con la pioggia si tramutavano in fiumi indomabili, strade piene di buche e polvere, che mutavano forma in impraticabili campi di fango. Temperature che oscillavano da oltre trenta gradi a vicino lo zero: scenari da romanzo. 

La corsa maturò grande interesse nella popolazione, nonostante fossero gli anni de “La Violencia” in Colombia, in cui morirono circa duecentomila persone. Era uno scontro tra chi apparteneva a due diversi schieramenti politici, che seminarono il terrore per tutta la nazione. Omicidi, rappresaglie, sparizioni, interi villaggi bruciati. Il dramma di quegli anni si incrociò con la strada della Vuelta a Colombia. 

Efraín Forero lasciò il ciclismo a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Doveva lavorare per coprire le spese dei numerosi viaggi a cui lo costringeva questo sport. «Sono stanco di dover andare in giro a cercare sponsor e farmi dire che sono un vagabondo» fu il suo commiato. Erano altri tempi. 

Prima di abbandonare, Forero incrociò la strada di Ramón Hojos Vallejo. Gelataio prima, macellaio poi, persino muratore. Divenne in breve tempo “Don Ramón de Marinilla”, il primo degli Escarabajos, dei coleotteri o scarabei diremmo noi, più o meno, il nome con cui ancora oggi vengono chiamati gli scalatori colombiani. Idolo nazionale, cinque volte vincitore della Vuelta a Colombia: fu accolto in aeroporto, al rientro a casa al termine di una corsa, da duecentomila persone, tanto per darne la misura della grandezza.

Imparò ad andare forte in bicicletta facendo il fattorino. «Dopo essere caduto il primo giorno di lavoro divenni esperto nel gestire le regole della strada e del mezzo, ma le consegne avrei preferito farle correndo a piedi». Una volta lo credettero morto. «Una notte ci fu una rapina in macelleria. Uno degli apprendisti che dormiva nel negozio fu pugnalato a morte. Lo chiusero nel congelatore e lo trovarono due giorni dopo a faccia in giù, disteso sul pavimento, i suoi vestiti intrisi di sangue nero. Rattrappito e indurito dal ghiaccio. Quando rinvenirono il corpo io ero via a fare una commissione: al mio rientro cercai di farmi spazio nella confusione della folla, davanti alla porta della macelleria. Chiesi a uno sconosciuto cosa stesse succedendo. Mi rispose: ma niente, è che hanno ucciso Ramon Hoyos».

Fu raccontato da Márquez e poi dipinto da Botero che lo conobbe quando ancora faceva il fattorino e consegnava carne a casa dell’artista: quel dipinto si chiama La Apoteosis de Ramón Hoyos ed è una delle opere più importanti nella collezione del grande pittore. «Non mi assomiglia per niente» disse un giorno Ramon Hoyos, a un incontro con la stampa, riferendosi al soggetto del dipinto. «Mi ricorda più “El Pajarito” Buitrago» – uno dei suoi più grandi rivali.

In compenso il nostro sconfisse Coppi e Koblet, in Colombia in una gara di esibizione. Era il 1958, e quell’evento, nonostante fossimo nella fase calante della carriera dei due corridori, divenne in poco tempo il più importante della storia sportiva del paese sudamericano. Il Campionissimo, l’ex vincitore del Tour de France ed ex detentore del record dell’ora che vola in Colombia per partecipare a una corsa di esibizione contro il grande campione antioqueno . Salendo i quarantadue chilometri de l’Alto de Minas, Coppi e Koblet svennero per il caldo, si racconta. La leggenda si mescola ai fatti chiaramente, dopo oltre mezzo secolo. Si dice addirittura che alla vigilia di quella tappa, Ramon Hoyos offrì a Coppi e agli altri avversari europei chorizos ed empanadas ripiene di patate e carne: tutto pur di metterli in difficoltà, e com’è come non è, funzionò.

E se inizialmente furono i campioni del Tour a recarsi in Colombia, bisogna aspettare ancora qualche anno prima che accada il contrario. Succede a metà anni ‘70, Quando Martin Emilio Rodriguez, detto “Cochise” per la sua grande passione per i film western andò a correre nel vecchio continente. siamo a metà degli anni ’70 e in Colombia era stato già eletto come “personaggio sportivo dell’anno”. «Ti hanno votato dieci milioni di colombiani: perché l’anno prossimo non ti candidi alle elezioni presidenziali?» – gli chiese un giorno Gonzalo Arango un noto poeta e scrittore colombiano, fondatore del movimento di controcultura artistica chiamato Nada-ismo. 

Il suo soprannome, Cochise, è perché andava pazzo per i film western con gli indiani: pare che dopo aver visto un film sulla vita del grande capo Apache non smettesse mai di parlare di lui. 

Il sogno di questo ragazzo era gareggiare in Europa – in Italia e Francia. Discriminato, arrivò tardi nel professionismo e divenne fedele gregario e amico di Felice Gimondi con il quale conquistò un trofeo Baracchi. Vinse due tappe al Giro d’Italia e disputò il Tour de France: fu il primo colombiano a raggiungere traguardi di questo tipo. Era uno sui generis: portava caratteristici basettoni e possedeva uno sguardo intelligente e malinconico. Era una locomotiva in pianura tanto da conquistare, tra i dilettanti, un controverso record dell’ora e il titolo mondiale dell’inseguimento individuale. Quando si parla di lui si afferma con convinzione: “se fosse arrivato più giovane in Europa, forse Eddy Merckx non avrebbe conquistato cinque volte il Tour de France”. 

Intanto con Cochise quei “buffi topolini scuri che non sanno cosa sono le Alpi”, come scrisse un giornalista italiano, fanno un altro passo in avanti. Patrocinio Jimenez mette in croce gli europei e attacca sul Tourmalet. È il Tour del 1983 e il belga Lucien van Impe, uno dei più forti scalatori di quegli anni, non riesce a tenere la sua ruota. Jimenez passerà primo sulla salita più alta di quell’edizione della Grande Boucle, conquistò la maglia a pois quel giorno, ma non riuscì a vincere la tappa buttando via la possibilità anche di vincere la classifica finale dei gran premi della montagna, perché si sosteneva, probabilmente a ragione, di come i colombiani ancora non sapessero correre in maniera tatticamente accorta. 

Qualche anno dopo arriva il tempo di Lucho Herrera, detto “El Jardinerito de Fugasugà” per il lavoro che faceva per mantenersi e aiutare la famiglia; Lucho, che da ragazzino, per sfuggire ai suoi genitori, si nascondeva tra gli alberi come il protagonista di un romanzo di Calvino. È il primo colombiano a vincere una tappa al Tour. In breve tempo diventerà lo sportivo più conosciuto del suo Paese tanto da finire, nel 2000, vittima di un’imboscata e di un rapimento da parte dei narcos. Vincerà la Vuelta nel 1987: il primo grande Giro conquistato da un colombiano. 

Ma è forse quello del 1984 l’aneddoto più interessante che riguarda Herrera, quando conquista l’Alpe d’Huez davanti a Laurent Fignon, il suo più grande rivale per via di vicende di corsa non sempre limpidissime… «Fignon era un ragazzo complicato. Odiava i colombiani: prima di morire scrisse un libro in cui ci accusava di aver corrotto lui e la sua squadra per corse che nemmeno avevamo vinto. Non ci rispettava, diceva che eravamo inferiori a loro e cercava sempre di farci del male: ci attaccava quando stavamo facendo i nostri bisogni o nelle fasi di rifornimento» racconta Herrera in un’intervista di qualche anno fa. 

E resta celebre quello che scrisse Laurent Fignon nel suo libro a proposito di una corsa che il francese disputò quell’anno in Colombia, il Clasico RCN: «All’epoca quelle gare erano sponsorizzate dalle mafie locali. Giravano soldi, pistole e cocaina. Ricordo un suiveur che nel bagagliaio della sua macchina metteva a disposizione di tutti chili e chili di polvere bianca». E una notte la provò anche lui quella polvere: aspirò un grammo in un colpo solo. «Stavo volando, avevo perso completamente conoscenza. Avevo l’impressione che le idee venissero spinte più velocemente di quanto la mia mente potesse analizzarle». Dopo una notte sveglio a far festa Fignon vinse pure l’ultima tappa, pensò di essersi rovinato la carriera, ma all’antidoping risultò pulito. Volava, letteralmente.

E così i colombiani iniziano a contare sulla scena mondiale: passo dopo passo, sembrava avvicinarsi addirittura la possibilità di vincere il Tour de France. E nel 1988 arriva infatti il primo podio nella corsa francese: il merito è di Fabio Parra, “El Condor de los Andes” che finirà terzo in classifica generale. 

Dopo alcuni anni di ribalta però, i ciclisti colombiani tornano ad essere solamente corridori capaci di grandi cose in salita, ma che poi nel momento decisivo finiscono sempre per essere deficitari in qualcosa. Mejia e Rincon nei primi anni ’90 per esempio, sono corridori d’alta classifica, ma non vinceranno mai un grande giro, leggeri, abilissimi in salita, ma spesso inadatti a correre in gruppo. 

Si arriva così nei primi anni 2000 a Santiago Botero. Così diverso da molti suoi predecessori: forte a cronometro, è biondo, dalla pelle chiara e gli occhi di ghiaccio. Di lui, però non resteranno che promesse non mantenute, qualche buon piazzamento e uno splendido profilo tracciato sempre dal grande giornalista milanese: “A Medellin abita non lontano dalla casa di Pablo Escobar, dice, ma dell’argomento non vuole assolutamente parlare. Anche i suiveurs hanno un cuore e non gli fanno più domande in merito. Risulta che gli abbiano già tirato un paio di bombe in casa e che quando sta in Colombia si alleni con un poliziotto in moto davanti, uno dietro e una jeep di tifosi armati e pronti a tutto”. 

In Colombia, nel frattempo il ciclismo acquista importanza, anche a livello sociale. Vengono fatti importanti investimenti, il centro di Bogotà diventa pedalabile grazie a una ciclovia introdotta nel 1976 e che andrà via via sviluppandosi. Oggi quella strada si chiama Ciclorrutas de Bogotá, è lunga oltre trecento chilometri (è la più grande del Sudamerica e una delle più estese al mondo) e forma una rete che unisce la capitale colombiana alle aree vicine più popolose. I colombiani cambiano così il loro modo di spostarsi, la bicicletta vive un momento florido sotto molti aspetti, vengono organizzati giri turistici e veri e propri festival culturali per visitare la città e i dintorni, rigorosamente su due ruote. Il ciclismo diventa così uno degli sport più praticati, la bicicletta un mezzo di trasporto irrinunciabile e dall’epoca dei pionieri a quella dei grandi corridori che lasceranno il segno nel ciclismo, il passo è breve.

Ma noi vogliamo credere che, lontani dal razionalismo della nostra epoca, dalle nozioni sui grandi mutamenti socio culturali, ci sia qualcosa di magico, che davvero influenzi il cammino di un corridore proveniente da quei luoghi. Ai tempi di Hoyos si scriveva che, dopo di lui, dalla regione di Antioquia sarebbero usciti altri campioni capaci di rinverdire i fasti dei grandi di quell’epoca. 

Ed è così che si arriva ai giorni nostri. A Rigoberto Uran, nato proprio nel Dipartimento di Antioquia, idolo colombiano, emigrato giovane in Europa, accompagnato da titoli di giornali, che lo definivano come colui che avrebbe finalmente assicurato alla Colombia la prima vittoria in un Tour de France.

Uran va forte ovunque, ma non vince praticamente mai. Ma è proprio con lui che avverrà un cambiamento epocale nel modo di comunicare: Uran è uno che si presenta sempre sorridente nelle interviste, parla un italiano fluido, è aperto, simpatico: diventa il pioniere della nuova generazione; l’anello di congiunzione tra il colombiano di ieri e quello di oggi. Dopo di lui arriveranno Chaves e Lopez, Martinez e Higuita: tutti corridori ormai veri e propri professionisti inquadrati e consolidati, ma anche loro, almeno fino a oggi, incapaci di lasciare per davvero il segno. E a vincere quella maglia gialla non ci riuscirà nemmeno Nairo Quintana. Quando partecipa al suo primo Tour de France, Quintana ha appena 23 anni; conquista la maglia bianca di miglior giovane, quella a pois dei Gran Premi della Montagna, vince in salita l’arrivo di Annecy e finisce secondo in classifica generale alle spalle di Chris Froome. Negli anni vincerà un Giro d’Italia – sarà il primo colombiano – una Vuelta, e al Tour si batterà, ma arrivando solo vicino a conquistarlo. Già, scartiamo anche il suo di nome, perché non sarà lui il primo (e sinora unico) andino a portarsi a casa la vittoria del Tour de France. Nonostante, a una lettura più attenta, dovremmo considerarlo come il più forte colombiano di sempre e di sicuro come uno degli scalatori più vincenti degli ultimi vent’anni. 

All’inizio di questa storia vi avevamo chiesto di chiudere gli occhi e immaginarvi facce dure, imprese tra leggenda e realtà. Siamo partiti da Zipaquirà, vi abbiamo raccontato di come tra i pionieri ed i corridori dei giorni nostri, nessuno avesse mai vinto il Tour de France, e di come nonostante ciò, alcuni di loro siano considerati eroi assoluti, capaci persino di far dimenticare il dramma sociale ed economico che la Colombia vive da decenni. 

Vi chiediamo allora un ultimo sforzo, chiudete nuovamente gli occhi e tornate a Zipaquirà dove sorge la Catedral del Sal, considerata la prima delle sette meraviglie dello stato colombiano. Dentro quel luogo i colori si sprecano, le sfumature si consolidano, tra viola e blu elettrico, statue di sale e di marmo. La cattedrale è un luogo sacro all’interno delle miniere di sale. Il suo custode si chiama Germàn Bernal. Sua moglie, Flor Gomez, seleziona e raccoglie garofani in un’azienda agricola, è un giorno come tanti mentre è a lavoro e inizia a sentirsi male. Vertigini, nausea, dolore allo stomaco. Pensa si tratti di un’intossicazione alimentare. Si reca dal medico di famiglia, il quale, laconico, dopo una breve visita afferma: «Sei incinta!» per poi aggiungere «Dammi la possibilità di scegliere il suo nome: chiamiamolo Egan, è un nome greco, mi pare voglia dire qualcosa come campione». Egan Bernal nasce così poco dopo la mezzanotte del 13 gennaio del 1997. 13 gennaio, come Marco Pantani guarda caso. La sua sarà un’infanzia difficile: mingherlino e fragile viene ricoverato fin da piccolissimo per una polmonite e di certo non sembra possedere i geni del campione.

E invece la sua è un’ascesa rapida, ripida, repentina. Una parete verticale che Bernal inizia a scalare giovanissimo in mountain bike, dove finirà per conquistare diverse medaglie mondiali tra gli juniores. Ma lui sogna la strada, mentre suo padre si oppone fermamente: «Il ciclismo su strada è troppo faticoso, figlio mio, richiede troppi sacrifici e non paga bene». Ma Gianni Savio, team manager dell’Androni, lo nota. O meglio: gli segnalano questo ragazzino che non ha praticamente mai corso su strada ma con valori fisici stupefacenti.

Lo porterà a vivere in Italia, in Piemonte, nella zona del Canavese dove oggi sorge un suo fan club, dove hanno persino dato il suo nome a dei biscotti, e dove lui andrà a formarsi correndo insieme ai dilettanti del posto. Va talmente forte in salita che «sembra salire come se avesse una sigaretta in bocca» dice di lui Franco Pelizzotti, dopo uno dei primi allenamenti. Ma non è solo il valore fisico, c’è dell’altro che colpisce in Bernal. «È un ragazzo serio, deciso, intelligente. Quando l’ho preso in squadra aveva 19 anni e sembrava ne avesse 30» – gli fa eco Gianni Savio. Cercava un colombiano per continuare con la tradizione che da anni lo legava al Sudamerica, e si è ritrovato in casa uno scalatore d’eccellenza, che si difende a cronometro, sa correre con intelligenza in mezzo al gruppo, districandosi tra i ventagli come un belga, e che a nemmeno vent’anni già faceva paura ai grandi del ciclismo. 

Vincerà il Tour de l’Avenir nel 2017 e dopo aver corso nella corazzata Team Sky, poi Team Ineos, passati due anni vincerà quel tanto agoniato Tour de France. È il più giovane vincitore in epoca moderna, almeno fino a quel momento, della corsa francese; il primo colombiano, finalmente, persino il primo latino americano. 

Dai fasti di Efrain Forero e Don Ramon, passando per i vagiti di Cochise, Herrera e Parra, le apparenti delusioni di Uran e Quintana, la Colombia ha fatto così tanta strada chiudendo il cerchio con Egan Bernal. E oggi, in Colombia tutti vorrebbero essere come lui. 

Geraint Thomas, suo compagno di squadra, parlò così alla fine del Tour de France vinto dal ragazzo colombiano. «Egan è il presente, ma sarà anche il futuro. Quando io avrò quarantacinque anni e sarò vecchio e grasso e seduto al pub ad osservarlo vincere il suo decimo Tour de France, potrò dire: Ehi, a quel ragazzo lì ho insegnato tutto quello che so».

Se è vero ciò che dici Thomas, la Colombia ti ringrazia.