Dai Paolo! Dai Paulinho!

Uno è Paolo (Bettini), l'altro è Paulinho (Sergio). Uno è affamato, l'altro, a sentire la telecronaca della Rai, sembra quasi lì per caso. Un turista che sceglie la Grecia come meta estiva e vaga in preda ai vapori dell' ouzo e al sapore divino delle costolette. Oppure uno spettatore accaldato che insegue a torso nudo i suoi idoli.
Uno è un grillo, l'altro una sfinge del galio. Uno è un lupo, l'altro un buon segugio che fiuta il momento giusto, la ruota giusta, la schiena più ammiccante tra trenta o più. Uno è un fuoriclasse, l'altro un comprimario - «ma non sottovalutarlo», gli ripete Ballerini in corsa. Era Atene, era la Grecia, era il 14 agosto del 2004. E faceva un caldo che sembra di sentirlo ancora oggi.
Uno attacca, l'altro risponde. Il Licabetto che sovrasta Atene è lontano dal traguardo, ma nemmeno troppo. Dai Paolo! Attacca Paolo! Scatta su quella salita non irresistibile ma che alla lunga fa male. Non avrai mica voglia di usare la funicolare? Non pensare a Ullrich, fa paura solo a se stesso. E quel Valverde, poi? Gli stai insegnando il mestiere e da te imparerà come si fa. Gilbert, invece, è ancora un bambino. E Vinokourov? Ha occhi piccolissimi che sembrano due fessure, parla in un idioma incomprensibile, tutto suo. Lo hai mai sentito quando prova a dire qualcosa in italiano? Non puoi avere paura di lui. Dai Paolo! Fatti beffe di loro, non crederai mica che se loro avessero la possibilità di staccarti ti lascerebbero vincere? Sono soldati del Re, tu un brigante: ti salterebbero in groppa e ti riempirebbero di calci e pugni fino a farti scendere dalla bicicletta.
E così Paolo va e Paulinho pure. Uno è un mito da narrare davanti a un fuoco – due coppe del mondo (ma quanto era bella?), una Milano-Sanremo, due Liegi, poi arriveranno due mondiali – l'altro è un simpatico aneddoto da raccontare al bar davanti a una (due, tre...) pinte di birra.
Dai Paolo! Attacca su quella salita creata per sbaglio dall'ira di Atena; la tua ira è calcolata, quella di Ballerini invece è tattica sopraffina – si racconta di quante ve ne siete dette, ma tra toscani, amici, colleghi, grandi corridori, accade.
Dai Paolo, mancano mezz'ora all'arrivo e nessuno ci sta capendo nulla. In televisione parlano di Azevedo (già!) più che di Paulinho: “non potevi trovarti compagno migliore” - ti avremmo voluto gridare noi, da qui. Lo facciamo a distanza di anni e di chilometri, facendo finta che ancora nulla sia successo. Forza Paolo, forza anche te, Paulinho: dai una mano finché puoi. Il Portogallo non è mai stato così in cima al mondo – all'Olimpo? - di una corsa in bicicletta.
Dai Paulinho, dai Paolo: c'è un caldo che ti si appiccica addosso come una seconda pelle. Dai Paolo, supera l'ultimo chilometro, non fermarti che il surplace ha gli artigli neri come un granchio di ferro, rispondi alla volata di Paulinho che sembra fatta giusto per far spaventare tutti a casa, o come per dire: “Guardate che c'ero anch'io”. Occhio: dietro il gruppo rinviene. C'è Axel Merckx che vuole portare nella famiglia “Il Cannibale” l'unica medaglia che manca.
Non ascoltare quello che dicono in sala stampa: da non sapere chi fosse, Paulinho è diventato: “ un corridore temibile allo sprint!” Dai Paolo, affiancalo, superalo, gioisci. Che il tuo trionfo è pure nostro.
Giusto il tempo di capire e di staccare le mani dal manubrio, salutare la tribuna con un gesto impercettibile, mostrare un accenno di pallidi muscoli e sfoderare una bocca a forma di o per lo stupore, il giubilo. Uno è medaglia d'oro, l'altro è argento. Dai Paolo! Dai Paulinho! L'eco si sente fino a qui, fino a oggi.


Esteban Chaves, la berraquera, Il Lombardia

A prima vista Esteban Chaves sembra un pulcino bagnato. Stambecco, è l'ultimo baluardo di una razza in via d'estinzione, un sopravvissuto al primo vagito, un veterano con cicatrici in tutto il corpo. Corre con un braccio malconcio e a causa di un grave incidente ha rischiato di perderne la mobilità.
Nella sua prima corsa in Europa, Esteban Chaves andò subito in fuga: pensava che la vita girasse come in Colombia, aguardiente e guacamole, e invece prese tanto di quel freddo e di quella pioggia da non capirci più niente. Il gruppo lo raggiunse vicino al traguardo e lo staccò; lui si fermò sul ciglio della strada e si misero di impegno per convincerlo a concludere la gara. Arrivò in lacrime e in stato di ipotermia. I genitori, sempre al suo fianco, insistettero a lungo per farlo salire nuovamente su una bicicletta.

Il padre racconta che per stargli vicino durante la sua carriera ha praticamente lasciato perdere quello che aveva creato – un'azienda che produceva mobili in legno - «per Esteban ho messo da parte le mie ambizioni». E a cosa servono i desideri di un padre se non sfociano negli occhi felici di un figlio?
Più volte, Jairo, questo il nome del padre, ha spinto affinché Esteban, valido ma meno talentuoso di molti suoi coetanei, potesse correre fuori dalla Colombia.
Forse meno talentuoso non è la parola più giusta: Chaves di qualità ne ha sempre avute, ma faticava ad esprimerle, un pulcino bagnato, si è detto, un anatroccolo a volte brutto, quasi sgraziato che col tempo si è trasformato in un colibrì.

E allora finalmente eccolo arrivare in Europa, a poco più di vent'anni conquista il Tour de l'Avenir, ma poi...
Si racconta spesso di come la sfortuna si accanisca con insistenza nei confronti di poeti, geni, artisti, ribelli... e piccoli scalatori. Al Laigueglia del 2013 Chaves va a terra, perde i sensi, si sbriciola un braccio, si fracassa quel corpicino così abile ad andare in salita da renderlo una mina vagante in ogni corsa a cui prendeva il via. Lo ricoverano d'urgenza e finisce per smarrirsi. Raccontano di come chiamasse suo padre diverse volte al giorno raccontandogli l'episodio della caduta quasi come in uno stato catatonico.

Poi la lunga riabilitazione, l'aiuto della famiglia, persino qualche bugia raccontata dai medici sul suo stato di salute. Una qualsiasi persona non avrebbe mai potuto tornare a fare una vita normale dopo quello che gli era successo, figuriamoci a correre in bicicletta.
Il ragazzo di Bogotà, invece, spinto e spronato dagli insegnamenti di una famiglia sempre al suo fianco, prende fiato, risorge piano piano, torna a far funzionare quell'arto nonostante i dubbi, nonostante avessero usato i nervi del piede per ricostruirgli il braccio.

In Colombia la chiamano berraquera e ha diversi significati. In questo caso è quel particolare modo di essere che tradurremmo con ostinato, tenace. E che cos'è un ciclista colombiano se non un duro?
Chaves, così piccolo che potresti infilarlo in una bottiglia, risale in bici con l'aiuto del padre, stavolta non è l'ipotermia, ma la paura di non riuscire a realizzare il suo sogno, andare avanti ripagando la fiducia che la famiglia poneva in lui. Tre anni dopo, è il 2016, sfiora il successo al Giro - solo Nibali, a proposito di tenacia, lo superò – e finisce sul podio della Vuelta.
Al Giro di Lombardia di quella stagione non parte come favorito, ma chilometro dopo chilometro riassapora quelle sensazioni vincenti che hanno reso quel minuscolo cuor di leone uno spauracchio in salita. Resiste agli attacchi dei migliori fino a quando è lui, sul traguardo di Bergamo, il migliore. Non ce ne voglia Diego Rosa, secondo per un'incollatura, se quel giorno abbiamo esultato con Chaves: primo colombiano della storia a vincere una Monumento. Non ce ne voglia nemmeno Rigoberto Urán, idolo di una generazione di corridori del suo paese, che deve, per l'ennesima volta, rimandare l'appuntamento con il-successo-che-ti-cambia-la-vita.
C'è una frase che riassume bene quello che è Esteban Chaves, le parole sono di Alex Edmonson, suo compagno di squadra: «Mai visto uno più in gamba di lui: anche quando pensi che si stia per spezzare, lui resta tutto intero. Non ho parole per descriverlo».

Nemmeno noi, anche se ci abbiamo provato. Lui ci riesce meglio, saltellando in bicicletta.

Foto: Aivlis


Giù le mani

Confessiamo che il giorno successivo alla spaventosa caduta di Fabio Jakobsen al Giro di Polonia, durante la volata testa a testa con Dylan Groenewegen, abbiamo creduto che la maggior parte dell’opinione pubblica pensasse di aiutare Jakobsen etichettando Groenewegen in maniera ingiuriosa. Così abbiamo letto che l’olandese del team Jumbo Visma sarebbe un delinquente, un criminale, che meriterebbe la reclusione, che andrebbe espulso a vita dal gruppo. E tante altre simili idiozie. In quel momento, forse, l’unica cosa da fare sarebbe dovuta essere rivolgere un pensiero a un ragazzo di ventiquattro anni in pericolo di vita. Poi, a sangue freddo, riflettere sulle reali responsabilità dell’accaduto, magari evitando la solita valanga di insulti social di persone che, pur totalmente incompetenti, non hanno resistito alla pruriginosa volontà di gettare fango. Ovviamente nascoste dietro uno schermo, ovviamente senza rispondere delle proprie affermazioni. Ovviamente sull’anello più debole della catena che in quel momento non poteva difendersi.

Prima che la scarica di ingiuriosi epiteti colpisca anche noi che -ci perdonino costoro- esprimiamo un punto di vista differente, sgombriamo il campo dall’equivoco. Dylan Groenewegen ha commesso delle irregolarità in volata e per questo è stato e verrà giudicato. Il suo comportamento è da stigmatizzare senza se e senza ma. Sarebbe però non poco miope la visione che riconducesse solo a Groenewegen le colpe dell’accaduto. Dylan Groenewegen ha commesso solo l’ultimo di una lunga serie di errori che purtroppo stanno pesando su Fabio Jakobsen. Le altre e, diremmo noi, ben più gravi responsabilità ricadono, alla base, sugli organizzatori della corsa e sull’UCI. La stessa Unione Ciclistica Internazionale che non ha perso tempo nell’informare delle esemplari sanzioni pensate per Groenewegen ma che non ha avuto la stessa sollecitudine nel verificare le responsabilità degli organizzatori. Le transenne, su quel traguardo, erano mal posizionate e, a quanto pare, non agganciate. Come da autorevoli pareri, sarebbero servite transenne diverse, di circa due metri, come quelle utilizzate, per esempio, al Giro d’Italia sul rettilineo d’arrivo. Come mai di questo gli autorevoli esperti della rete non hanno detto nulla? La risposta è semplice: perché probabilmente non sanno nemmeno nulla del tema e hanno colto l’occasione per schiumare rabbia. Il bersaglio è stato Dylan Groenewegen ma avrebbe potuto essere chiunque altro.

Ieri le immagini di una recente intervista hanno mostrato Dylan Groenewegen in lacrime, distrutto per l’accaduto. I segni psicologici di simili avvenimenti sono devastanti e spesso non si superano se non con il passare del tempo, di molto tempo. Un’opinione pubblica pronta ad azzannare con tutti i denti che ha, non aiuta. Anzi rischia di creare ulteriori danni. È già successo troppe volte. E in ballo c’erano uomini. Uomini che hanno sbagliato ma pur sempre uomini. Rimpiangere dopo non serve. Occorre invece estrema attenzione prima, occorre cura anche per chi sbaglia. Non si parla solo di cultura sportiva, si parla di cultura umana.

Forza Fabio.
Stiamo aspettando solo te.


Tetè

Rossella Ratto è Tetè. Lo è sin da quel pomeriggio di luglio di alcuni anni fa quando, ancora bambina, sedeva sul divano con i fratelli Daniele ed Enrico e guardava stupita una tappa alpina del Tour de France: «C’erano delle scritte sul teleschermo. Io non riuscivo a leggerle, così chiesi a mio fratello. La scritta era “tête de la course”, testa della corsa, ma lui, ancora troppo piccolo, mi lesse “tetè”. Continuammo a ripetere quel suono così affascinante fino a che non divenne una sorta di soprannome. Tetè da quel giorno sono io». Della bicicletta Rossella si era innamorata pochi anni prima, durante un viaggio tra Sardegna e Corsica, quando i suoi genitori scelsero di stare per qualche periodo senza macchina. Il ciclismo all’inizio era una scusa, un modo per stare assieme, per stare in famiglia e passare la domenica a ridere a crepapelle.

Quando parliamo di Daniele ed Enrico, la voce di Rossella Ratto sembra carezzare i ricordi: «Sai cosa penso? Credo che le emozioni che abbiamo condiviso siano difficili da raccontare, da spiegare. Sono dentro di me e mi danno una carica inspiegabile. Ci allenavamo assieme: fingevamo di essere ciclisti professionisti e alla fine di ogni giornata stilavamo una classifica con premi. Per rendere la corsa più veritiera, a volte, mi lasciavano anche qualche secondo di vantaggio. Ogni tanto mi mancano quei momenti». Rossella Ratto racconta che la competitività è sempre stata parte di lei ma è riuscita a tirarla fuori proprio grazie ai fratelli: «Ogni tanto, scherzando, da bambini, mi dicevano: tu sei una femmina e non ci riesci. E io, pur di dimostrare che ero capace mi sfinivo. Ancora oggi sono così. Se voglio ottenere qualcosa non mi ferma nessuno. A tratti ho anche dovuto controllare questa competitività: stava invadendo ogni campo della mia vita e, se si esagera, non fa per nulla bene».

Se ripensa al bronzo ai mondiali 2013 in Toscana ammette che, a volte, non le sembra ancora vero. «Tutte le aspettative che c’erano nei miei confronti e che all’inizio mi davano una forte carica, dopo quel giorno mi hanno pesato. In quei momenti, per problematiche fisiche, non riuscivo a essere all’altezza delle attese. Mi sembrava anche di avvertire mancanza di fiducia da parte di persone che avrei voluto credessero in me. Lo ho capito dopo. Col tempo». I suoi miti ciclistici da ragazzina erano Paolo Bettini e Michael Boogerd, ora stima Marianne Vos, sia come donna che come atleta, ma ammette di non avere più idoli: «Non c’è nulla di male. Quando si cresce, credo venga meno questa necessità di mitizzare. Gli sportivi sono uomini e come tali hanno pregi, difetti ed anche debolezze. Forse dovremmo apprezzarli proprio per questo, senza mitizzarli o trasformarli in supereroi».

Foto: Claudio Bergamaschi


Di Wout van Aert e di tutti noi

Quest’anno la Milano-Sanremo è di tutti coloro che hanno paura, tanta, ma anche un poco di coraggio. Di tutti coloro che temono i cambiamenti e passano notti insonni, attendendo una mattina che non arriva. Ma poi li accolgono, perché l’esistenza cambia e non saranno le nostre futili resistenze a impedirglielo. Di chi alzandosi dal letto ha il coraggio di lavarsi la faccia e andare in cucina a far colazione. In certi giorni sembra davvero impossibile. Delle tante persone a cui continuiamo a dire che anche per loro, un domani, la vita cambierà e non ci credono perché per loro è sempre stata così. È di chi sa che, in fondo, la bellezza è nelle sensazioni, nei ricordi, nell’immaginazione, nell’immedesimazione e nelle parole che usiamo per raccontare. Di chi sa che, se si vuole, un briciolo di bellezza la si trova quasi ovunque e serve per farci coraggio. Di chi aspetta un ritorno o una partenza e ha un pezzo mancante.

È di chi l’ha sempre vista in strada e oggi si è dovuto sedere sul divano, davanti al televisore, e, visto che si sentiva infelice, ha aperto la finestra e ha creduto di sentire il fruscio del gruppo che scorre. Di chi si è sentito escluso dal cambio di percorso. Di chi non ha mai potuto andare a vederla e oggi l’ha vista dalla finestra di casa e non sa ancora spiegare cosa sia successo. Di quei bambini che sono corsi giù dal letto, come fosse la notte di Natale, chiedendo ai genitori quanto mancasse al passaggio e quando hanno saputo che non potevano stare in strada hanno preso le loro biciclette e si sono inventati una volata nel cortile. E la telecronaca l’hanno immaginata. Degli infermieri che hanno accompagnato qualche anziano nella sala dell’ospedale e hanno cambiato canale “per vedere la corsa”. Dei nonni che l’hanno vista con i nipoti in braccio. È di chi è scattato al chilometro zero, perché delle cose bisogna aver voglia. E quando si ha voglia di qualcosa, le si corre incontro. Ovunque sia.

La Milano Sanremo 2020 è di Wout Van Aert che l’ha vinta sul traguardo, al cardiopalma. Di questo ragazzo che riassume forse tutte le sfaccettature raccontate. È dei genitori di Wout che non ci vogliono credere ma è vero. È tutto vero. È di Via Roma e del silenzio che c’è oggi vicino al mare. È di Matteo Trentin che è caduto e si è dovuto ritirare e un ciclista non si ritira mai se ha anche solo un barlume di speranza. È di Ciccone, di Conci, di Mosca e anche di Vincenzo Nibali perché ci hanno provato. È di tutti quelli che si sentono figli, fratelli, sorelle e vecchi zii di questa corsa. Tanto è il bene che le vogliono. È di chi ha già iniziato il conto alla rovescia per la Milano-Sanremo del prossimo anno. Perché non vede l’ora di tornare lì. Lì dove il cuore batte ed il mare sussurra.

Foto: Bettini


La Milano-Sanremo è

La Milano-Sanremo è un salto nel buio. È indecifrabile, un omissis, un vorrei-ma-non-posso a turno per velocisti, scalatori, cacciatori di classiche, fuggitivi. «Io ci provo sempre, perché per la legge dei grandi numeri», ci racconta Mirco Maestri, «prima o poi quella fuga arriverà».
La Milano-Sanremo è una corsa lunga, snervante, è limare, stare coperti. Si assopisce per diverse ore e «diventa folle per i venti minuti finali». Parole di Matthew Goss, vincitore nel 2011.
La Milano-Sanremo è un film di Takashi Miike: ti inebria, ti terrorizza, ti confonde, ti annoia, poi ti inchioda lasciandoti con sudori freddi e la bocca asciutta.

È stata l'ultima corsa raccontata da Mario Fossati: “Claudio Chiappucci ha vinto e io sono contento di staccare, dopo quarantasei anni, dal ciclismo e dalla classicissima, la Sanremo appunto, portandomi appresso il suo nome lievemente clownesco”, scrisse nel 1991. L'edizione di quest'anno si sarebbe dovuta correre il 22 marzo e invece in quei giorni, quasi come un dovere o una colpa, ci lasciò Gianni Mura.
Annullata, slittata, in sospeso, messa in dubbio, poi ricreata da capo e senza capi, la Milano-Sanremo di oggi è inedita. Forse sarà più bella? Chissà. Di sicuro sarà ancora più difficile da comprendere. Doveva essere a marzo invece è ad agosto; doveva essere il Mondiale di Primavera e invece arriva in piena estate. Ha visto la neve, vedrà il caldo; è stata fedele alla costa, oggi si ubriacherà in mezzo alle colline piemontesi.

Sembra banale, come il Poggio inserito nel 1960, l'anno della morte di Fausto Coppi, ma non lo è. “È una corsa per velocisti”, lo trovi scritto ovunque, lo ripete persino un vecchio suiveur seduto ad aspettare il passaggio del gruppo a bordo strada. Eppure, chi ha fantasia scardina le difese - aggiunge. Per qualcuno è un inutile orpello, tuttavia c'è chi ne ha fatto un cruccio o si è costruito un palmarès solo vincendola.
Sarà banco di prova per Nibali, riscatto per Sagan o Alaphilippe; sarà un mezzo per raggiungere la leggenda per Gilbert, rivincita per van der Poel, spasmodica ricerca della conferma per la tenacia di van Aert. Per molti – tutti, noi compresi - sarà un pensiero da rivolgere a Fabio Jakobsen.

È goduria per chi la corre, dal primo all'ultimo, così lunga ed evocativa, o per chi aspetta solo di viverla all'attacco come fa Mirco Maestri, in fuga per quattro anni consecutivi tra il 2016 e il 2019 e oggi costretto a guardarla sul divano per un incidente in allenamento. «Correrla è sempre stato il mio obiettivo. Volevo partecipare una volta nella mia vita e invece mi sono ritrovato a farla quattro volte e per tutte le quattro volte sono stato in fuga». Quasi come una sorta di riverenza.

La Milano-Sanremo è un sogno che il corridore aveva sin da ragazzino. «E quando mi lancio in fuga è perché mi piacerebbe lasciare il segno, essere da esempio per tutti quelli che ci vedono, dare quella spinta e quel coraggio che a volte viene a mancare soprattutto nelle categorie giovanili: mollare mai». Saggio lo è, calmo proprio non sa stare.
La Milano-Sanremo di oggi per noi e per Maestri sarà la stessa sofferenza: divano e tv. Ma questo, meglio non ripeterglielo di nuovo. «Non voglio pensarci: sarà dura, soffrirò a guardare gli altri correrla» ci racconta quasi febbrile. Mollare mai e sempre al vento, però. Ce lo insegni tu, Mirco.

Foto: Bettini


Luoghi sacri: il Poggio

Il Poggio è luminoso. Ci si arriva dopo aver scollinato la Cipressa, dolce salita che si arrampica transitando per il comune di Costarainera, nella provincia di Imperia. Dalla discesa all'imbocco del Poggio c'è un lungo tratto pianeggiante a tratti esposto al mare e al vento che scongiura gli attacchi, ammazza le velleità degli attaccanti, siano essi solitari o in gruppetto, e permette alle squadre dei favoriti di riorganizzarsi.

Il Poggio lo imbocchi a una velocità supersonica. I colori sono accesi, le gambe dei corridori provano a ignorare i quasi trecento chilometri percorsi, la carreggiata è larga quanto basta, la distanza dal traguardo di Sanremo misura poco più di diecimila metri. Ti lasci la via Aurelia e Arma di Taggia alle spalle e alla sinistra il Mar Ligure che ti osserva con il suo blu e il suo Santuario dei Cetacei; dopo qualche centinaia di metri di salita trovi invece il Santuario di Nostra Signora della Guardia, luogo simbolo di questa zona e tanto caro ai marinai che lasciavano doni chiedendo protezione per i loro viaggi affinché la Madonna scongiurasse un mare in tempesta o un attacco di pirati. La strada qui spiana dopo aver percorso a tutta i primi tornanti del Poggio e le gambe sono già a pezzi.

Se ti affacci verso sinistra il mar ligure è uno specchio che ti acceca e in fondo, in mezzo alle case, vedi Sanremo.
Gli ultimi dieci chilometri di questa corsa, una volta imboccata la salita - che a farla normalmente sembra essere poco più di un cavalcavia - sono un mare in tempesta. La rampa con vista Sanremo è fatta apposta per invogliare attacchi. È come un’onda capace di scagliarsi con veemenza contro le rocce e di infrangere le residue energie di molti velocisti.

Il Poggio è uno spartiacque. Divide i buoni dai cattivi, i campioni dai mestieranti. È un neo appena accennato su una pelle perfetta che trasforma la Milano-Sanremo, dopo ore spesso passate a sbadigliare, nel quarto d'ora finale più folle dell'intera stagione ciclistica.

Il Poggio è eccitazione, è uno shaker con dentro sogni, ambizioni, cuore, polmoni, fegato, gambe, sotto una pennellata di azzurro che acuisce i contorni. Sono quasi quattromila metri che spingono verso l'alto, ma non troppo; una decina di curve in totale, quattro tornanti secchi nei quali arrivi a una velocità così elevata che sei costretto a frenare, e rilanciare. È uno zuccherino che potrebbe rimanerti sullo stomaco. Se ti affacci verso destra vedi serre e villette moderne; il mare è esattamente dall'altra parte. In queste zone si continua a coltivare un prezioso vermentino che rinfresca la gola dei suoi abitanti, mentre uliveti e palme stanno via via sparendo per fare spazio alla floricoltura.

Nelle giornate di grazia, dalla cima del Poggio puoi scorgere la Riviera genovese da una parte e quella francese dall'altra, come fossero a tiro. Una volta scollinato oltre alla cabina telefonica, la strada svolta bruscamente a sinistra e si lancia in un cavatappi in discesa formato da ventitré curve e sette tornanti da percorrere a folle velocità e dove si può pensare di resistere al ritorno del gruppo o addirittura dove fare ancora più differenza.

Si racconta che nel 1992 Sean Kelly arrivasse giù dal Poggio così velocemente da toccare con il gomito il muro a ogni tornante come un motociclista ad Assen. Lui ha sempre negato: «Argentin mi staccò sul Poggio, io scollinai poco dietro: si raccontano molte storie su quella discesa, è vero che andavo forte, ma non stavo toccando il muro, era il rumore delle mie ruote sull'asfalto». Raggiunse Argentin a un chilometro dal traguardo e vinse, a quasi 36 anni, l'ultima delle sue nove Monumento.

Non c'è un posto designato dove attaccare sul Poggio, se dal gruppo si fa andatura forte e regolare, si fa fatica ad evadere. Per sorprendere o creare margine devi avere gambe farcite, fortuna, tempismo e volontà d'acciaio. Nel 2018 Nibali si inventò un attacco che oramai è storia, mantenne in discesa quel vantaggio, resistette al ritorno del gruppo con Trentin partito come una pallottola e poi risucchiato, e con il piccolo Caleb Ewan, secondo, che vinse la volata di gruppo appena in tempo per entrare nelle foto celebrative.

L'anno prima ci fu un brutale attacco di Peter Sagan al quale risposero Kwiatkowski e Alaphilippe che si accodarono in discesa. Il polacco beffò poi Sagan sul traguardo. Spesso, a seguito della bagarre, il gruppo arriva in cima sfilacciato e allora la discesa e poi il finale possono premiare i migliori finisseur del gruppo: è il caso di Cancellara che qui vinse nel 2008, dopo aver allungato il gruppo nella picchiata verso il traguardo attaccò a due chilometri dalla fine e vinse. «Guardi la cartina è non sembra difficile, è piatta, poi su e giù, Semplice, no? E invece...»

E invece alla fine arriva il Poggio, dopo quasi trecento chilometri, luminoso come una giornata di fine marzo, inserito nel 1960 per indurire la corsa e diventato simbolo di quello definito il Mondiale di Primavera; luminoso anche quando nel 2013 una bufera di neve investe la corsa e solo a portarla a termine i corridori ne sarebbero andati fieri. Lui resta sempre in alto a osservare, con il suo profilo un po' altezzoso e costellato di giardini in fiore, il traguardo perso in mezzo a quelle case in fondo, nell'abitato di Sanremo.

Foto: Milano-Sanremo/Facebook
Pezzo apparso sul numero 4 di Alvento - aprile 2019.

Una Milano-Sanremo in prima persona

Un ragazzo con la maglia bianca e due strisce rosse - forse bordeaux - orizzontali è partito e ha anticipato il gruppo – suo malgrado diventerà famoso da quel giorno. Io che faccio? Ne approfitto. Dietro Sagan e Kwiatkowski si osservano come un duello a mezzogiorno. Vogliono fare uno scatto brutale come dodici mesi fa: se arrivo al traguardo con loro sono battuto.

C'è anche Alaphilippe che fa paura, ma il suo momento deve ancora venire. Poi ci sono i velocisti, Ewan, Viviani, Démare, Kristoff: sono sempre tanti i favoriti qui. Da quanto un italiano non vince a Sanremo? Dal 2006? Troppo tempo. Io ho appena conquistato il Giro di Lombardia, sono già nella storia, ma così sarebbe ancora meglio. Come dite? L'ultimo a vincere Giro di Lombardia e Milano-Sanremo in fila è stato Sean Kelly? Prendo appunti.

Sono scaltro, sfrutto l'attimo. D'altronde con le mie caratteristiche devo giocare di fantasia. Piombo sulla ruota di... Neilands, ok, lui. Mi acquatto per qualche metro alla sua ruota, poi accelero. È un tratto persino semplice, nessuno se lo aspettava. Neilands stringe i denti, ma non sento più la sua presenza alle mie spalle. Sagan – l'ho scoperto dopo – in gruppo ha un po' giocato. Non si muove, tutti lo marcano. È il faro della corsa si sarebbe detto un tempo quando ero piccolo e seguivo le corse in tv. Con Sagan, poi, succede spesso, o meglio, succedeva il periodo in cui era considerato il più forte. Ora, come ogni cosa, sta un po' passando di moda. Il tempo è un gigante che ci schiaccia.

Scollino. Supero la cabina telefonica; mi metto in assetto da discesa; ho qualche centinaio di metri di vantaggio e tiro fuori la lingua in segno di concentrazione. Schiaccio nervosamente la radiolina per conoscere il vantaggio. Mi butto giù lungo quelle curve. A proposito non sapevo fossero ventitré: chi le ha mai contate? Così come non ho mai avuto tempo di guardare dal Poggio verso la riviera, né ammirare i terrazzi in fiore: dicono siano bellissimi.

Arrivo giù con buon vantaggio ma potrebbe non bastare. Trentin mi insegue – no Matteo, proprio tu. Un italiano non vince qui da troppo tempo – fu Pozzato anticipando, da maestro, la volata. Lo risucchiano, invece. Il gruppo è famelico. Mostro affamato: non mi avrai mai e così sarà. Mi giro, dietro sbandano per prendere la scia e limare l'impossibile. Ho ancora un po' di vantaggio. Decimi su decimi: ormai è fatta. Ormai ce la faccio. Alzo le braccia al cielo. Che goduria: ho vinto la Milano-Sanremo!


«Mamma, ha vinto papà?»

Oscar, il figlio di Damiano Caruso, un giorno era davanti alla televisione durante una gara ciclistica: «Mamma ha vinto papà?». Quel giorno papà non aveva vinto e mamma dovette dirglielo: «Non è niente mamma. Facciamo finta che abbia vinto, così gli organizziamo una bella festa». Oscar ha sei anni ed è stata la prima persona a cui ha pensato papà Damiano quando, il due agosto, è tornato alla vittoria al Circuito di Getxo, dopo sette anni e mezzo. «Ho pensato a lui dopo il traguardo. Mi sono detto: adesso papà ti porta una coppa vera e organizza una vera festa». Così Damiano Caruso ha regalato quella coppa ad Oscar e per il piccolo di casa Caruso quello è il regalo più bello del mondo. È felice e papà vuole solo questo per lui: «Quando sei felice non ti arrabbi, non provi invidia, non discuti in continuazione. Io sono un uomo felice e la felicità degli altri mi piace».

«Ho passato tanto tempo a casa con la mia famiglia. Quando sono ripartito ho cercato di spiegare ad Oscar cosa sarebbe successo da quel momento in poi. In questi anni mi sono tolto tante soddisfazioni con i miei capitani e le mie squadre; volevo una vittoria non tanto per me. La volevo per la mia famiglia e per i miei amici più cari. La volevo per ricambiare. La volevo perché era giusto che loro potessero gioire vedendomi a braccia alzate». Damiano Caruso è un gregario, un gregario di quelli bravi, ed ha una devozione incondizionata verso il suo ruolo: «Essere gregari vuol dire non avere alcuna riserva sul tuo impegno. I miei capitani si fidano di me perché sanno che la mia parola vale. Perché so quanto è importante la parola data e non la tradirei mai». Quando gli chiediamo chi sono i gregari di questa società, in questo periodo, non ha dubbi: «Credo che siano tutte le persone che, nonostante i rischi, nonostante la paura, continuano a fare il loro lavoro. Dal fattorino che non si è mai fermato un giorno per portare il cibo a casa agli anziani, ai medici nelle corsie degli ospedali. Sono questi i gregari di lusso del mondo. Coloro che rispettano il loro dovere e vanno fino in fondo».

Poi c’è il caro vecchio ciclismo che nel tempo è cambiato, forse troppo: «Credo ci sia dell’esasperazione. Non solo nel ciclismo, sia chiaro. I giovani di oggi sono troppo succubi del risultato, troppo ansiosi. Facendo così, se non finiscono per odiare la bicicletta, finiscono per prendere qualche brutta strada. Bisogna spiegare che ogni storia vale. Ogni storia conta. Anche se non vinci, anche se arrivi ultimo. Bisogna spiegare che ogni storia merita di essere raccontata e rispettata. Siamo duecento corridori con duecento storie diverse. Proviamo a raccontarle tutte».

Proviamo. È una promessa.


Lo sguardo dei ciclisti

Le gocce d’acqua che, cadendo per terra, rimbalzano e rimbombano sulla salita del Montello, spostate dal vento, sono come spilli che trafiggono. Gli ombrelli che si trovano dal lato opposto della strada, quello esposto alle raffiche, incassano le frustate d’aria, si gonfiano da sotto e vengono divelti. È proprio una strana estate. La gente resta lì. Non sono poi così tante persone, è vero. La situazione attuale lo impedisce. Lo sanno. Un ragazzo dice alla sorella (crediamo): «Guarda che stavolta devi gridare anche tu al passaggio. Devono sentirci». Lei ammette di non conoscere nessuno. Probabilmente è lì solo perché lo voleva lui. Succede, no? La risposta è franca: «Tu grida! Fai rumore. Fatti sentire. È imbarazzante questo silenzio». E la ragazza lo ascolta. Appena vede i fuggitivi sbucare dalla semicurva si lancia in un “alé” che toglie un poco di fiato anche a noi. All’arrivo del gruppo batte le mani e incita. Perché, alla fine, quando qualcuno ha bisogno di aiuto, fosse anche solo di una parola, è importante fare qualcosa, senza stare a sofisticare troppo sul cosa. Quella ragazza lo ha capito.
Non è l’unica. Qualche proprietario delle case lungo la salita esce, sotto la stretta pensilina dell’abitazione, ad applaudire. Altri se la sono fatta a piedi e ora si chiedono come scenderanno con questa bufera. Un signore avanti con l’età ci confessa: «Andavo anche io in bicicletta. Mi piaceva. Eccome se mi piaceva. Poi ho avuto qualche problema di salute e sono stato in ospedale. Quando sono tornato a casa, mia moglie aveva regalato la bicicletta a mio figlio perché temeva potessi farmi male. Al compleanno successivo, quando mio figlio mi ha chiesto cosa volessi di regalo, glielo ho detto: “Regalami la mia bicicletta. Per favore». Ci ha fatto tenerezza, simpatia.

Ognuno racconta quel che può e poi prova ad incitare i ciclisti. La salita impone un’andatura lenta e gli atleti hanno modo di sentire le parole degli appassionati. Non solo. Ogni tanto li cercano con gli occhi. Sì, basta una frazione di secondo e guardano negli occhi chi li incita dicendo che ormai è quasi finita. Qualcuno ghigna. Come dicesse: «Ma se siamo solo al primo giro? Cosa vai raccontando?». Il lavoro del ciclista, come scriveva qualcuno, non consente menzogne. Lo sa, lo sa che gli stanno mentendo spudoratamente ma apprezza il tentativo. Sa che chi gli urla così ci crede davvero. Altrimenti non starebbe lì con delle maniche di camicia che a strizzarle sarebbero come appena uscite dalla lavatrice, senza centrifuga.
Sul nostro stesso treno una ragazza sfinita si accovaccia sul sedile, facendosi da cuscino con un sacco di zaini che teneva in spalla. Sul braccio ha diverse scritte. Non riusciamo a leggere bene. Sembra latino. Eccolo: amor vincit omnia. Chissà, forse era anche lei lì, sul Montello. Non la abbiamo vista ma per come è stanca e con i capelli fradici di pioggia potrebbe essere. Magari era davvero lì. E se non fosse così non importa. Perché avrebbe potuto esserci. Perché se per caso leggesse questo racconto, capirebbe al volo ciò che intendiamo. Questo è certo.

Foto: Claudio Bergamaschi