Un negozio di bici, montagne, le strade di casa: intervista a Francesca Barale

L'ultima lunga chiacchierata con Francesca Barale era stata più di due anni fa, così, quando ci si ritrova, nelle interviste, come in qualunque altra circostanza di vita, accade di fare il punto su quel che, nel frattempo, è successo: ciò che è cambiato e ciò che è rimasto uguale. Nel 2021, era un giorno d'estate, "appiccicoso" di caucciù, come avrebbe cantato Paolo Conte, poco dopo la cronometro dei Campionati Italiani junior, a Faenza, con una maglia tricolore appena indossata. I primi cambiamenti, a dire il vero, non serve nemmeno raccontarli, sono evidenti: in quei giorni Barale faceva parte del VO2 Team Pink, ora, veste da due stagioni la maglia del Team dsm-firmenich PostNL e, soprattutto, corre con le élite. Le prime cose di cui parla Francesca Barale sono consapevolezze: racconta di essere certa di sapere, adesso, cosa voglia dire essere atlete professioniste e di aver capito, sempre di più, cosa sia necessario per arrivare dove certi atleti arrivano. Ammette anche di essere un poco cambiata, ma non tornerebbe indietro, ed il passaggio in una squadra straniera l'ha aiutata ad aprirsi, a capire meglio il suo sport. «Se devo essere sincera, a grandi linee, questi aspetti li ho sempre conosciuti, ma, nella teoria, non consideravo molte sfaccettature. Ero convinta che, in fondo, il passaggio da junior ad élite sarebbe stato sì difficile, ma accettabile. Invece è cambiato tutto, ogni dettaglio è divenuto essenziale. Forse perché sono sempre stata forte mentalmente, ma io ero davvero una di quelle atlete convinte che la testa non contasse e che servissero solo le gambe. In Italia siamo ad un ottimo livello, però su questi aspetti dobbiamo ancora crescere ed il mio era un pensiero di molti. Credo che i problemi che ci sono da noi, l'assenza di squadre World Tour, ad esempio, derivino anche da una concezione dell'atleta incompleta. Fino a quando le cose vanno bene la si pensa così, quando, invece, ti stacchi, non tieni le ruote e non ti riconosci più, sei costretto a cambiare idea, a capire che se non ci credi, se non hai fiducia in te stessa, non ci sono gambe che tengano». Le parole chiave di una atleta sono, quindi, fra le altre: sacrificio, dedizione, allenamenti e fiducia. Nel caso di Barale, poi, ce n'è anche un'altra che le permette di affrontare tutto questo: cinismo. Quello buono.

Francesca Barale (ITA - Team dsm-firmenich PostNL) - Ella Wyllie (NZL - Liv AlUla Jayco) - Foto Kei Tsuji/SprintCyclingAgency©2024

Spiega Francesca che spesso si ritiene il cinismo solo e soltanto un aspetto negativo, invece c'è una componente utile. Si tratta del riuscire a fare quel che è necessario fare, al momento giusto, concentrandosi solo sulla propria persona, senza molti altri dubbi e nel ciclismo è fondamentale. Barale vive a Domodossola, nel Verbano Cusio Ossola, circondata dalle montagne, dice che gli abitanti di quelle zone sono tutti abbastanza "montagnini", e l'essere "montagnini" vuol dire, talvolta, vedere il bianco e il nero, senza troppe sfumature. «A casa non torno spesso, purtroppo, ma sono molto fiera del luogo dove sono nata e cresciuta, della valle e del lago. Lì ci sono le salite che ho sempre fatto in allenamento: capisco esattamente come sto, dalle strade che faccio. Mi piace la valle, mi piace il lago». Le salite di cui parla la ventenne sono quella di Trontano, «ma più per divertimento che per vero e proprio allenamento», piuttosto che quella verso il Boden, a Ornavasso, o quella di Miazzina, verso Verbania. Salite dure, toste, su cui si possono fare molti lavori. Le stesse salite di Elisa Longo Borghini e Filippo Ganna, ragazzi della sua terra che ce l'hanno fatta, sono campioni. «Longo Borghini è da sempre stata la mia ispirazione, quando penso a casa, tuttavia, non avverto paragoni o confronti. Mi viene in mente il negozio di biciclette di papà Florido, in cui sono letteralmente cresciuta». Florido Barale è stato ciclista professionista e, dopo aver smesso, ha ricostruito la sua quotidianità in quel locale. All'inizio c'erano anche molti consigli per la figlia, ora il suo appoggio è più a livello emotivo perché Francesca è arrivata ad uno step importante, in cui anche un padre ex ciclista può fare poco.

Francesca Barale (ITA - Team dsm-firmenich PostNL) - Foto Kei Tsuji/SprintCyclingAgency©2024

E quella figlia divenuta ciclista professionista viaggia sempre di più, sempre più lontano. Al Santos Tour Down Under, a inizio stagione, ha messo su strada una buona prestazione, in cui sperava, ma in cui, forse, non credeva fino in fondo. In particolare sono state la prima e la seconda tappa a dare segnali positivi: un quarto e un sesto posto, su terreni mossi, adatti alla potenza e all'inventiva e lei quello spunto lo ha, sebbene tutti la definiscano scalatrice. A Willunga Hill, nell'ultima tappa, forse, si è trovata meno a suo agio di quanto potesse pensare: «In ricognizione mi sembrava nulla di che, certo, intensa, ma sono tre chilometri, dieci minuti di sforzo, complicati dal vento. Penso sempre più che debba scoprire che tipo di ciclista sono, le mie vere caratteristiche, sono giovane, in fondo. Vado bene un poco ovunque ma non spicco in nulla. Non è un male, ma fare chiarezza è necessario, soprattutto diventando grande». Quest'anno vorrebbe testarsi sui percorsi delle classiche: sente un feeling particolare per le Ardenne, il Fiandre è un pensiero, ma con le pietre deve ancora prendere la necessaria confidenza. In ogni caso vuole percorsi tosti per esprimersi. «Ho scelto di indirizzarmi verso le corse di un giorno, ma anche nelle corse a tappe farò le mie verifiche. Fino ad ora sono sempre stata in appoggio di qualche compagna e lo sarò anche quest'anno: anche questo va considerato quando si parla di potenziale. Non so correndo come leader cosa potrei fare». Per diventare leader crede di dover, in primis, smussare alcuni lati del suo carattere, l'essere lunatica, ad esempio: «Quando le cose vanno male, sono intrattabile, non mi può parlare nessuno e una capitana non può e non deve fare così». I ruoli nel Team dsm-firmenich PostNL sono stabiliti all'inizio e sono rigidi, chiunque li rispetta: «I risultati che otteniamo derivano anche dal fatto che ciascuno sa quello che deve fare e lo fa. Alla partenza so esattamente che nessuno cambierà idea ed i dettami resteranno quelli iniziali. Questa certezza fa la differenza, perché il ciclismo è uno sport di squadra e in dsm-firmenich PostNL l'ho capito sempre più». Una squadra giovane, in cui anche le pressioni si sentono meno, grazie alla leggerezza dell'età.
Al Down Under la maglia bianca di miglior giovane è sfuggita all'ultimo, proprio a Willunga Hill, a vestirla Vinke Nienke, diciannove anni, seconda di quella frazione, sua compagna di squadra: «Si impegna molto ed è giovanissima. Tra l'altro, riesce a essere sempre calma, razionale, è l'opposto di me. La stanno facendo crescere piano piano e sono convinta che, fra qualche anno, la troveremo a giocarsi le grandi corse a tappe». Tempo fa, Barale pensava che, una volta smesso, avrebbe cambiato totalmente campo e avrebbe cercato un lavoro fuori dal ciclismo, oggi, invece, pensa che resterà nel suo ambito, perché tutt'ora, nonostante la fatica non le sembra di lavorare, perché si sente fortunata e perché grazie alla bicicletta ha vissuto e sta vivendo cose che non avrebbe mai pensato di vivere.


Un momento di nostalgia

Il campionato nazionale colombiano lo ha conquistato Alejandro Osorio, evviva Alejandro Osorio. Un passato che prometteva: prima di quest’anno aveva vinto soltanto una volta al Giro Under 23. Era il 2018, si arrivava sul Passo Maniva, conquistò tappa e maglia e alla fine di quella corsa fu 6°. La classifica finale la vinse Vlasov davanti ad Almeida; Osorio passò professionista a fine anno con la Nippo Vini Fantini. Andava forte in salita, ma dopo essere salpato nel World Tour - ha vestito la maglia della Bahrain - è tornato indietro per cercare nuove soddisfazioni e quelle soddisfazioni sono arrivate. Con una lunga fuga, staccando i compagni di quella scorribanda, vestendo a fine corsa una maglia che in Colombia fa sognare e che potrebbe aprirgli nuovamente la strada verso un ingaggio in qualche squadra alla ricerca di corridori come lui.

Al secondo posto del campionato nazionale colombiano è arrivato Sergio Higuita, evviva Sergio Higuita. Lo chiamano “El Monstre de Medellin” in quanto pare assomigli al “Mostro di Gila”, conosciuto anche come lucertola perlinata. Si tratta di un tipo di lucertola velenosa, ma dall’aspetto simpatico, dalla forte mandibola e che vive perlopiù tra le rocce: secondo la breve biografia del corridore, che si può trovare sul sito della sua squadra, la BORA-hansgrohe, il nomignolo deriva dal fatto che Higuita è piccolo come questo particolare sauro, ma pieno di sorprese. In patria è un idolo, tanto che il più famoso (almeno prima di lui) Higuita, ovvero Renè Higuita, celebre quanto bizzarro ex portiere della nazionale di calcio del suo paese, si è impuntato tempo fa per conoscerlo e invitarlo a pranzo. Higuita (Sergio) ha numeri da far strabuzzare gli occhi: ogni tanto è fortissimo, spesso se lo dimentica, prima di alcune corse ascolta i Metallica per caricarsi e da bambino suonava la chitarra. Domenica, mentre la fuga con dentro Osorio andava, quanto mancavano una cinquantina di chilometri all’arrivo, è partito all’inseguimento portandosi dietro, tra gli altri, Bernal. Sono arrivati a tanto così dal riprendere Osorio: cronometrati soltanto quattro secondi di distacco all’arrivo.

Terzo è arrivato Egan Bernal, viva Bernal, altroché. Un paio di giorni prima della corsa in linea, le idee positive sul suo pieno recupero, dopo il grave incidente di due anni fa, iniziavano ad andare in pezzi: sesto nella cronometro a oltre tre minuti da Daniel Felipe Martinez. Certezze, sì, ma più sulle sue difficoltà che sull’effettivo momento di svolta, che invece, potrebbe essere arrivato. Mentre pedalava all’inseguimento, in compagnia di Sergio Higuita, ha avuto una specie di sussulto che ha descritto così: «Un momento di nostalgia di quello che è stato l’Egan di prima». Quell’effetto ha pervaso anche noi, grazie anche al commento della televisione colombiana che non smetteva di incitarlo a modo loro.

È vero, è solo una corsa, e siamo lontani da quelli che erano i palcoscenici che Bernal calpestava, brillando. Solo una corsa, è vero, seppur tiratissima come ogni campionato nazionale, ma Egan non conquistava un risultato nei primi tre di una gara dal Giro d’Italia vinto nel 2021. Qualcosa forse è cambiato, ora appare, all'improvviso, l’altro volto della speranza. È una gigantesca immagine che significa strada del recupero.


Sensazioni australiane: intervista con Luca Vergallito

Non che sia successo chissà cosa da lasciare agli annali di questo sport: il livello era buono, sicuramente, ma si tratta pur sempre di ciclismo a gennaio, della prima gara della stagione, che, come ci racconta Luca Vergallito, intercettato telefonicamente al suo arrivo in aeroporto a Parigi, mentre fa ritorno a casa, e con ancora il jet lag a scombussolarne la routine, «una corsa dove si è andati forte, sì, ma dove il livello è mediamente più basso rispetto a diverse corse World Tour che affronteremo in stagione, ma anche rispetto a un Giro di Lussemburgo che ho disputato l’anno scorso, per esempio».

Tour Down Under 2024 - Oscar Onley (GBR - Team dsm-firmenich PostNL) - Stephen Williams (GBR - Israel - Premier Tech) - Jhonatan Narvaez (ECU - INEOS Grenadiers) - Julian Alaphilippe (FRA - Soudal - Quick Step) - Foto Kei Tsuji/SprintCyclingAgency©2024

Una corsa disputata a temperature differenti da quelle che a inizio stagione si trovano in Europa, «ma il caldo vero c’è stato soprattutto nella frazione con arrivo a Willunga Hill, la penultima tappa, quella a cui tenevo di più. Gli altri giorni abbiamo gareggiato a temperature normali, anzi, e forse per questo ho pagato nel finale: non abbiamo avuto modo di abituarci al caldo. Certo è un problema che hanno affrontato anche gli altri, sia chiaro. Però, riguardando i dati a fine corsa, credo che le temperature abbiano inciso sulla mia prestazione: le sensazioni non erano come quelle dei giorni precedenti e in una situazione normale avrei potuto anche conquistare una top ten». Era ben posizionato il 27enne della Alpecin, intorno alla settima, ottava posizione, alle spalle di Alaphilippe, fino a poche centinaia di metri dal traguardo, poi sul cambio di ritmo, prima della volata finale vinta da Onley, ha ceduto qualcosa, chiudendo in 20a posizione. Tutto sommato un ottimo risultato. «E poi va considerato come queste non siano le mie salite» specifica Vergallito, uno che preferisce quelle lunghe da passista scalatore qual è. E preferirà un altro tipo di corse a tappe. Lo vedremo di nuovo in gara a L'Etoile de Besseges, altra corsa con un percorso non proprio adatto, ma sempre utile ad accumulare esperienza e chilometri, e poi probabilmente, se tutto va come deve andare, al via di Volta ao Algarve, Tirreno-Adriatico e Paesi Baschi. «Il problema - precisa, provando a smorzare con una risata - è che lì troverò salite più adatte a me, ma allo stesso tempo un livello decisamente più alto. Sarà comunque importante per capire a che punto mi trovo con il mio percorso di crescita».

Erano le prime pedalate più o meno serie per tutti: c'era chi stava lì già da tempo, chi è arrivato all’ultimo; chi è già entrato in forma - è fisiologico, non sempre una scelta ben precisa. Insomma, il Tour Down Under qualche indicazione la può anche dare, ma, da quello che si è visto non dipende certo la stagione 2024.

Tour Down Under 2024 - La volata per il 5° posto nell'ultima tappa del Tour Down Under con arrivo a Mount Lofty  - Foto Kei Tsuji/SprintCyclingAgency©2024

Anche perché per alcuni sarebbero dolori: per Simon Yates, ad esempio, dato tra i favoriti, a maggior ragione dopo la caduta (con ritiro) del compagno di squadra Plapp, non è mai parso a suo agio sui due arrivi in salita (oddio, salita… ma questo è un altro discorso), ma il gemello della Jayco AlUla avrà modo di rifarsi dalle prossime gare. Sui due arrivi decisivi, invece dell’inglese di Manchester, si sono imposti uno scozzese, Oscar Onley, giovanissimo, ma già ben a suo agio alla seconda stagione piena tra i professionisti, uno che dagli Yates può trarre ispirazione come tipo di corridore, e un gallese, Stephen Williams, che tra alti e bassi inizia a confezionare un buon palmarès: tappa finale, quella del Mount Lofty, vinta, che gli ha permesso di portare a casa anche la classifica generale della corsa. Luca Vergallito, quel giorno, arriva 15° migliorando rispetto al giorno prima e chiudendo 17° e primo degli italiani anche nella generale. «Sul Mount Lofty stavo meglio, non c’era il caldo del giorno prima, poi sono partiti i quattro più forti e dietro nel gruppo siamo rimasti un po’ a guardarci, a controllarci, ma ho comunque chiuso nel secondo gruppo, e se vedi i nomi che c’erano, erano nomi di un certo peso, significa che sono andato forte». Vergallito aggiunge anche un altro particolare su cui sta lavorando per migliorarsi: il posizionamento. «Per questo preferisco corse un po’ più dure, dove magari la ricerca della posizione all’imbocco delle salite è meno complicata perché c’è già stata selezione. Tuttavia, questo è un aspetto che proverò a migliorare con l’esperienza. Già ho visto dei progressi, ma non sono ancora al livello in cui vorrei essere, anche se, c’è da specificare, non si tratta di un aspetto legato al fisico, dove dici: “mi alleno e se ho margini lo miglioro”; qui non è detto che ci si riesca, entrano in gioco altri fattori più tecnici e tattici. Io credo di poter migliorare anche all’interno della settimana, l’ho già visto in corsa: ho fatto progressi dalle prime alle ultime tappe. Oppure, a proposito di altri fattori in gioco, è importante avere una squadra che ti supporti. Certo, a me l’aiuto non è mancato, anzi, avendo la possibilità di fare la mia corsa ho avuto uno, due compagni che mi hanno supportato e che mi hanno messo nelle condizioni migliori».

Tornando alla corsa in generale: se il Tour Down Under fosse una corsa da verdetti già chiari, per alcuni sarebbero dolori: per gli altri velocisti, ripensando alle volate di Welsford che fa tre su tre spinto da una squadra compatta, la BORA-hansgrohe, con Mullen ad allungare il gruppo nel finale e Danny van Poppel a prenderlo per mano e lanciarlo verso il traguardo. Poi sia chiaro, bisogna avere la gamba giusta e Welsford in questo, proprio come successo lo scorso anno in Argentina, pareva messo proprio bene: è uno che sa partire forte. Sarebbero dolori per tutti ripensando ai numeri di un neoprofessionista come Del Toro, già in evidenza lo scorso anno tra gli Under 23, e pronti, via capace di vincere una tappa e di vestire la maglia di leader per un paio di giorni. Il giovanissimo messicano dell’UAE ha chiuso la corsa sul podio finale. La stagione è iniziata dando già diversi spunti, ma per fare sul serio e tirare le prime somme, bisogna pazientare ancora un po’.

Foto in apertura: Chiara Redaschi


Il questionario cicloproustiano di Matilde Vitillo

Il tratto principale del tuo carattere?
Riservata al primo impatto, ma solare dopo essere entrati in confidenza.

Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
Sincerità e umorismo.

Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
Fedeltà e amicizia.

Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
Potermi fidare di loro senza essere giudicata e la certezza che ci siano quando ho più bisogno di loro.

Il tuo peggior difetto?
Sono permalosa.

Il tuo hobby o passatempo preferito?
Guardare film o serie tv/leggere/scrivere.

Cosa sogni per la tua felicità?
Sto lavorando tanto sul conoscere me stessa.

Quale sarebbe per te la più grande disgrazia?
Non avere più al mio fianco la mia famiglia.

Cosa vorresti essere?
Talvolta meno sensibile.

In che paese/nazione vorresti vivere?
Sto benissimo nella mia bellissima Italia.

Il tuo colore preferito?
Rosso.

Il tuo animale preferito?
Cane.

Il tuo scrittore preferito?
Agatha Christie.

Il tuo film preferito?
Orgoglio e Pregiudizio.

Il tuo musicista o gruppo preferito?
Non ho un musicista, un gruppo o un genere preferito, mi piacciono le canzoni in base alla melodia e alle parole.

Il tuo corridore preferito?
Lotte Kopecky.

Un eroe nella tua vita reale?
Papà.

Una tua eroina nella vita reale?
Mia mamma.

Il tuo nome preferito?
Mi piace il mio.

Cosa detesti?
L'incoerenza e la mancanza di rispetto.

Un personaggio della storia che odi più di tutti? L’impresa storica che ammiri di più?
Non sono mai stata una cima in storia.

Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
Beh, penso di non volermi ritirare da nessun tipo di corsa.

Un dono che vorresti avere?
La capacità di saper prendere le cose con leggerezza.

Come ti senti attualmente?
Serena.

Lascia scritto il tuo motto della vita
“Life goes on”,
Qualsiasi cosa capiti, qualsiasi brutto periodo tu stia passando, la vita va avanti, quindi non c’è bisogno di focalizzarsi su ciò che va male. È diventato il mio motto quest’anno.


Cicli Drigani, Borgaro Torinese

Negli anni novanta, la bottega di nonno Valerio era il rifugio perfetto per le mattinate a casa da scuola e per i pomeriggi di gioco di Andrea. Quel garage sotto casa, nel tempo, era diventato un vero e proprio laboratorio artigianale, una sorta di precipitato di un'altra epoca, mentre un signore con le mani sporche di olio e una vecchia divisa con i segni dei lavori passati portava avanti il suo mestiere. Inizialmente sui tavoli di nonno non c'erano che tanti oggetti, di svariate misure e forme, di cui ancora non immaginava l'uso, ma, ad ogni ritorno, la situazione cambiava e da quei "pezzi" prendeva vita uno strumento nuovo. Prima solo accennato, poi sempre più definito e uguale, in tutto e per tutto, a quelle biciclette che vedeva per le strade, solo che queste erano plasmate dalle mani di nonno. A dire il vero, sebbene molto più grandi, erano anche simili alla sua, a cui aveva da poco tolto le rotelle. In un angolo del cortile aveva anche portato le coppe vinte da papà Livio, a cui era stata tolta la targa originale della gara di provenienza ed incollata una nuova etichetta su cui era scritto il nome della gara immaginaria che si sarebbe tenuta quel giorno. La lista di partenza prevedeva due corridori, Andrea ed il cugino, con tanto di gomitiere e ginocchiere. Sì, accessori costruiti in gomma piuma, dai rotolini degli imballaggi che arrivavano in bottega. Alla fine, un pennarello, la scritta Specialized ed il gioco era fatto. «La costruzione di una bicicletta è, di fatto, un gioco, che resta tale anche nell'età adulta. Potrei raccontare della spada di legno che mi costruì il mio nonno materno - spiega Andrea- che abitava sotto di noi e si occupava di "cose di legno", verniciava, smontava, rigenerava. Qualche volta, quell'impugnatura non mi piaceva più, allora, con la lima e la carta di vetro, la modificavamo e tornava perfetta. Insostituibile. I giochi sono così, li vogliamo a misura della nostra fantasia. Vale anche per la bicicletta. Un catalogo non può soddisfare queste esigenze. Allora c'è il nostro mestiere». In via Lanzo 207, a Borgaro Torinese, oggi c'è Cicli Drigani che, apparentemente, sembra un'altra storia rispetto a quella bottega artigianale, tuttavia ne è solo la prosecuzione: da una bottega artigianale, a un negozio sotto un portico, da due a sei vetrine, all'officina distaccata, fino alla sede odierna, nel 2019. Dall'osservare la collina di Torino per trovare ispirazione, al perdersi fra le colline delle valli di Lanzo per lasciare andare i pensieri. Perché Andrea è Andrea Drigani, figlio di Livio e nipote di Valerio.

Poco distante, al centro estivo, in quegli anni, il telefono squillava spesso. Era la signora Giuliana, madre di Andrea, che telefonava al parroco, Don Ester, per accordarsi sull'orario in cui andare a prendere il figlio. Al mattino, l'avvertiva sempre: «C'è la tappa, posso venire a casa a vederla?». Anche Don Ester era appassionato di ciclismo e biciclette e non si perdeva una corsa. Il 5 giugno del 1999, il telefono era suonato e la cornetta era stata afferrata dalle mani del sacerdote: «Non credo serva che venga a prendere Andrea. Marco Pantani non parte al Giro». Ed infatti quello fu l'unico giorno in cui Andrea non tornò a casa in orario e tutto sembrava più triste. In giorni così, anche oggi, Andrea va in officina, talvolta mette le mani su qualche bici, altre volte resta solo a guardare i meccanici lavorare. Si sente meglio, non ha nulla da chiedere: «Era il luogo in cui bazzicavo da ragazzino, all'età delle scuole medie, quello in cui ho iniziato a darmi da fare, nel mio primo giorno di lavoro, nel 2012, una mattinata di luglio, con una laurea fresca fresca. Forse è per questo, forse no, ma, ogni tanto, sento il bisogno di ritornarci. Poi, magari, prendo la bicicletta ed esco a pedalare. I dubbi cerco di togliermeli così».

Certo, anche l'officina è cambiata, nel tempo: ai tempi di nonno c'erano telai saldobrasati, ruote lenticolari, qualche brevetto, quel mozzo su cuscinetto, ad esempio, utilizzato poi da Miche, e tutto quel che si trova da un piccolo artigiano. Suo padre Livio, quando si licenziò dal suo precedente incarico in Michelin, arrivò lì con il baule della macchina pieno di componenti e pezzi di ricambio per le biciclette: spese così tutti i soldi della liquidazione. Ancora oggi, Livio è il primo ad arrivare al mattino e l'ultimo ad andare via la sera e, se un meccanico è malato, si precipita in una delle sue postazioni della nuova officina e ci pensa lui. All'officina si accede sia dall'interno che dall'esterno dei locali, nel negozio, però, una vetrata permette di vederne l'interno. L'altra possibilità per osservare il lavoro dei meccanici è una balaustra, sulla rampa che porta al piano di sotto: «Spesso sorprendo qualcuno intento ad osservare dai vetri. Dico di più: su quella balaustra si appoggiano in molti e restano a scrutare per minuti e minuti. A loro piace vedere il processo di riparazione di una bicicletta, a me piace guardarli, così immersi in quell'osservazione. Mi ricordano qualcosa del mio passato».

Il negozio si estende su circa 800 metri quadrati, l'ingresso avviene tramite una rampa interna, costeggiata da foto, da molte foto, delle persone che lavorano da Cicli Drigani: la zona espositiva comprende tre brand, Specialized, Bianchi e Pinarello, ma anche diversi capi di abbigliamento. Oltre a sei meccanici è presente un settimo tecnico che si occupa di tutti gli aspetti legati alle garanzie. Proseguendo troviamo una zona per il lavaggio biciclette, il magazzino, l'area dedicata all'usato e un parcheggio bici al coperto per chi porta la propria bici da sistemare. «Se tu mi chiedessi di scegliere tra un venditore molto esperto di tecniche di vendita, ma completamente digiuno dell'ambiente bicicletta, e un altro venditore che, magari, deve perfezionarsi nella vendita, ma è appassionato, pedala, viaggia ed ha esperienze da raccontare, sceglierei, senza dubbio, il secondo. Le foto all'ingresso hanno a che vedere con questo concetto. L'empatia è il primo passo in questo lavoro: nessun catalogo potrà mai informarti sulle sensazioni che si provano in sella, sulla fatica e la sofferenza, sul vento in faccia, come nessun manuale descriverà mai la soddisfazione che si prova quando ci si trova di fronte a qualcuno che comprende quel che provi e si mette nei tuoi panni». Anche per questo motivo, Andrea ha voluto quella maxi parete che si trova all'ingresso. Una sorta di retro podio, con la scritta Cicli Drigani ripetuta in diversi colori, ma soprattutto, nella banda centrale, il motto del locale: "Immagina, costruisci, pedala". «Alla fine, questi tre predicati riassumono quel che accade qui dentro, ma, ben prima, identificano quel che ho fatto sin da bambino e che facciamo tutti. Pensiamo a una bicicletta, a quella dei sogni, la costruiamo, se è il nostro lavoro, altrimenti, più spesso, chiediamo a qualcuno di costruirla come vorremmo, poi andiamo a ritirarla e facciamo subito il primo giro. Non stiamo nella pelle». Pedalare resta un bisogno essenziale: Andrea racconta che, nel periodo della pandemia, quando si vendevano molte bici e tutti erano soddisfatti, lui, ogni tanto, si sorprendeva giù di morale, pensieroso, apatico. Sì, tutto quel lavoro, comunque importante, toglieva ogni spazio per sfogarsi in sella e lui lo pativa.

Non molti anni fa, da Harrods, a Londra, è rimasto colpito da quella scritta: "Dallo spillo all'elefante". Una sorta di manifesto: «Significa che puoi trovare tutto quello che cerchi. Come fosse un piccolo mondo, un universo in cui sai che, se quello di cui hai bisogno ha a che fare con la bicicletta, da qualche parte, sopra o sotto, a destra o a sinistra, dentro o fuori, ci sarà. Può essere una bicicletta, una riparazione, un capo di abbigliamento, un massaggio, la messa in sella, un trattamento di chinesiologia, persino un caffè, in una sala relax, sfogliando una rivista, osservando delle fotografie». Dal 2012, in dodici anni, è certamente cambiato il modo di porsi dei clienti che si rivolgono a Cicli Drigani, ma anche quello di Andrea. In primis per il passaggio del tempo e l'acquisizione di esperienza, anche, però, per i vari cambiamenti che sono avvenuti nella società in questo periodo: «Ero molto giovane e, quando si è giovani, c'è sempre un poco quel retropensiero che fa si che si venga trattati con sufficienza, "perché tanto cosa vuoi saperne, sei un ragazzino". La credibilità, oltre che dal cognome che porto, viene anche dai molti giorni qui, dalle tante volte che mi hanno visto e da tutte le cose che mi hanno visto fare. Tuttavia i clienti si pongono in maniera differente anche perché la consultabilità dei dati tecnici è aumentata: conoscono di più e vogliono confrontarsi, chiedere, sapere».

Drigani riflette e afferma che questa maggiore conoscenza, a suo parere, è positiva: «Certo che capita chi vuol far vedere di saperne di più solo per il gusto di mettersi in mostra, lo sappiamo, lo accettiamo. Ma non tutti fanno così. Alcuni sfruttano le competenze acquisite per confrontarsi, anche fra loro, per consigliarsi prima dell'acquisto. Mi piace ascoltare i loro scambi, come mi piace confrontarmi a mia volta». Questa conoscenza, aggiunge Andrea, permette di eliminare quell'atteggiamento di fiducia esclusiva, senza dubbi, riposta nel venditore ed è un bene perché, quando c'è solo fiducia, obbligata dal fatto di non sapere, i timori si manifestano alla lunga. Allora si inizia a pensare che il commerciante abbia consigliato per interesse personale, per proprio
vantaggio, e questo non va bene, anche se, apparentemente, è più comodo.

Livio e Andrea qualche sera si ritrovano a pensare a Valerio che è mancato prima che Cicli Drigani diventasse quel che è oggi. Ognuno porta la propria considerazione, si dicono che sia stato proprio un peccato che non possa vedere come si è ingrandita quella bottega, «non ci sono più le biciclette Drigani, ma c'è tanto altro. Sì, nonno sarebbe stato orgoglioso». Se, dopo troppi chilometri in sella, i muscoli fanno male, Andrea torna in officina, guarda e pensa. Ricorda delle volte in cui qualcuno, sentendo quel cognome, gli ha chiesto: «ma tu sei quel Drigani?» ed ha iniziato a raccontare di un parente od un amico che era stato in negozio. Sta in silenzio. La responsabilità di «portare quella maglia» è grossa, ma lui ne è fiero. Sempre più fiero.


Bensone design shop and coffee corner, Modena

Modena è già avvolta nel primo buio, è fine dicembre, contiamo i pochi minuti che si iniziano ad aggiungere alle giornate. Stiamo pensando a una canzone, "Luci a San Siro" di Roberto Vecchioni: la musica parte, noi ascoltiamo tutto, ma cerchiamo quella frase che, poco prima, all'interno dei locali di Bensone, ci ha detto Ennio Sitta, proprietario di questo design shop, in via Levizzani 9. Sembra una poesia, sul finire della quarta strofa, eccola: «E se hai le mani sporche che importa, tienile chiuse e nessuno lo saprà». Era il primo pomeriggio e tutto era iniziato come sempre, in questo viaggio di strade, porte che si aprono, telefoni che squillano e parole: «Potrei dirti che la cosa che mi piace di più, quando sono qui, è disegnare, ma cosa sia un design shop non lo spiegherei nemmeno così. Però, certamente, la componente dell'arte in quello che facciamo è predominante ed io disegno da quando avevo circa tre anni e mezzo. Ai miei genitori avevo chiesto di iscrivermi all'Accademia di Belle Arti, solo una frase, lapidaria, in risposta: "No, non se ne parla nemmeno. Di arte non si vive, lo capirai presto". La mia rivincita verso il mondo è iniziata quel giorno, perché volevo davvero fare l'Accademia». Il papà di Ennio è architetto e pittore: «Iscriviti all'Istituto per geometri, impara e, poi, vieni in studio da me. Ti prometto che avrai lo spazio per realizzare il tuo spirito». No, Ennio non è mai andato in quello studio, papà ci è rimasto male, lo sa, ma lui non poteva, aveva altro in mente, qualcosa di più simile all'arte, pura, intatta. Il signor Sitta, ora, ha novantasei anni, ma, nei pomeriggi che passa con il figlio, discute ancora di cosa sia l'arte e, tutt'oggi, non la pensano quasi mai allo stesso modo.

All'Accademia di Belle Arti, Ennio ha, in realtà, studiato, attraverso alcune borse di studio, mentre lavorava: «Ho cinquantanove anni, quando ero giovane c'era meno democrazia nelle famiglie. Alla fine, hanno accettato che quello fosse il mio destino, è come se mi avessero chiesto di dimostrare quanto ci tenevo ed io l'ho dimostrato. Li ringrazio». Non molto tempo fa, proprio il figlio di Sitta, diciannove anni, ha voluto iscriversi ad un corso biennale di fotografia: «Sarà il suo lavoro? Chissà, ma mi sono rivisto ragazzo ed ho sentito il dovere di agevolare il suo percorso. I miei genitori, all'epoca, non lo fecero, ma erano altri tempi». Già, ma, tornando indietro negli anni, dopo il ricordo di quella rivincita, c'è il ricordo del lavoro alla libreria d'arte Panini, dove la carriera artistica si trasformò in una carriera in negozio. L'eco di Vecchioni risuona qui. «Ora lo sporco non è più solo nelle mani, che potevo nascondere, ma su tutto il corpo: uno sporco che mi piace, di pittura, di disegni. In Bensone, resto in braghette corte a dipingere e non so da quanto tempo non compro un vestito nuovo, perché non mi serve. Quando Nicolas Sarkozy e Angela Merkel arrivarono a Modena, Massimo Bottura, dell'osteria della Francescana, mi chiamò per scrivere i nomi dei segnaposti, come sapevo fare. Mi presentai con questo sporco addosso e senza documenti. Scrissi così quei nomi, mentre gli addetti della segreteria mi passavano i cartoncini. All'inizio, però, quel cambiamento ne implicò molti altri». L'arte, continua Sitta, si mantiene nel tempo perché racchiude un messaggio di verità, anche intima, non per forza pubblica, ma pur sempre verità. L'arte non paga il compromesso al gallerista, al pubblico che vuole quella determinata cosa: qui c'è l'imperfezione nell'applicazione che ne fa Ennio: «Noi facciamo anche questo, la mia arte ha tolto tanta parte del dedicato a me, per diventare punto di ascolto, di conoscenze, qualcosa di diverso rispetto a ciò che si vede in giro». La storia parte da quella libreria d'arte Panini che presto aprì una cartoleria a Modena e acquistò un'azienda storica di produzione di biglietti da visita e carta intestata, di Firenze: Sitta venne trasferito nella cartoleria di Modena, non senza dubbi e perplessità, in un vero e proprio terremoto emotivo, perché avrebbe voluto restare in libreria. Mesi dopo, girava per la città con una macchina fotografica e fotografava spesso il Duomo.

L'idea di dedicare una penna al Duomo arriva proprio così, nel momento delle penne numerate, delle Montblanc: ne venderà novecento, spesso a personalità importanti, in giacca e cravatta, e tutto cambierà un'altra volta. Nel 2007 venderà quel negozio e nascerà Bensone, in una zona non centralissima della città: «Un luogo che coniuga la tradizione con quel che ci piace fare. Un luogo dove i clienti sono spesso persone a cui, al mattino presto, vado a comprare le arance ed il prosciutto al mercato. Qualche volta li tratto anche male, scherzando, ma sanno come sono fatto, il rispetto profondo che ho per chiunque arrivi qui: mi hanno sempre perdonato tante volte. La mia serietà deriva dalla leggerezza con cui prendo le cose del mondo». Nel 2018 Bensone fa casa dov'è tutt'oggi: si amplia, si aggiunge la caffetteria «che tanto voleva la Veronica», la moglie di Ennio e, poco tempo dopo, anche le biciclette. Come in un flashback, Ennio Sitta torna ragazzino, quattordicenne, in Liguria, in una casa delle vacanze, sul mare, con una finestra affacciata su una curva: stava lì ad ascoltare il rumore, il suono, delle bici da corsa quando giravano quella svolta. Il padre gli comprerà una bici da corsa al suo ritorno a casa: lui, intanto, continuava a giocare a pallone e quando usciva in bicicletta aveva una canottiera con scritto, in inglese, Top One: «Non sapevo l'inglese, così leggevo “topone” e mi chiedevo come mai quel nome per me, che non ero alto o grosso». Una risata convinta e il racconto torna a fluire: «Ho sempre trovato grande affinità con quello che rappresenta la bici: a mio avviso equivale alle ali della libertà. Parlo di un mezzo ideale per godere di quello che ci circonda, per sentirsi liberi di esprimersi». Ennio Sitta preferisce la salita alla discesa, ama stare da solo, il gravel e la dimensione del viaggio, in cui confluiscono tutti i suoi allenamenti: Veronica
ha una bicicletta a pedalata assistita con cui l'anno scorso ha fatto il primo viaggio, assieme a lui, quest'anno il progetto è una pedalata da Dobbiaco fino in Slovenia.

All'interno di Bensone, oltre alle biciclette, tre brand, e alla caffetteria, oggettistica varia, «prodotti che troviamo o che ci trovano, in un modo o nell'altro. Nel nostro caso non è l'impronta commerciale a farceli scegliere, ma la bellezza della cosa, la qualità o l'idea che si annida dietro al prodotto. Per esempio, guarda quel gin fatto con il fieno della Val Casias. Sono chicche di eccellenza che, spesso, non sono ospitate nei negozi specializzati». La bicicletta resta uno degli strumenti più amati da Sitta: anche i suoi artisti preferiti pedalavano o, comunque, avevano un legame più o meno stretto con le due ruote. Della possibilità di un negozio simile, di un design shop, per l'appunto, ha saputo grazie a una pagina instagram, dedicata ad un locale di Parigi che ha avuto l'occasione di visitare, trovandosi in Francia per una fiera, ed inizialmente la bici era stata ideata con la formula del rent a bike dal centro storico, durante il periodo del Covid: «Non sapevo proprio nulla di questo mondo. Di tutti i piccoli riti dei ciclisti, di quanto la bici assuma una sorta di sacralità per gli appassionati, dei loro giri e della voglia di raccontare. Qualcuno arriva qui apposta per quello, per narrare un suo viaggio agli amici ed io, ultimamente, ho solo amici ciclisti. In questo modo ho imparato qualcosa in più della bicicletta, della sua capacità di restituire quello che si è disposti a darle». Come spiega Sitta, è difficile conoscere Bensone solo attraverso il racconto, bisogna viverlo per sperimentare l'andare e venire, i caffè, gli incontri, i dipinti, le riviste, le pedalate. Allo stesso modo, è possibile comprendere la responsabilità ed il coraggio di cui Ennio parla: due sentimenti vissuti quotidianamente, ma resi normali, d'abitudine, cosicchè se gli si chiede di individuare un momento di particolare coraggio negli ultimi anni, fatica ad individuarlo: «Forse il più importante è stato il momento in cui ho deciso di fare anche magliette speciali, dedicate a qualcuno o qualcosa. Ricordo che, la prima volta, ne acquistai diecimila, a prezzi esorbitanti. Beh, per diversi giorni mi sono chiesto se sarei, poi, riuscito a venderle, ma sono eventi particolari, per il resto un'attività del genere comporta un coraggio e una responsabilità giornalieri». Non tutti lo chiamano Ennio Sitta, qualcuno lo soprannomina Dottor Stamp, sarà per i dodicimila timbri, utilizzabili su qualsiasi struttura, che Sitta ha ideato e progettato, quando ancora l'uso del timbro non era così diffuso.

In serigrafia c'è un detto: «Chi si ribella si autoproduce». Sitta ha fatto così, con un pezzo di gomma e un tampone: «Di fatto, ho industrializzato un'idea. Resterà anche dopo di me, per i miei collaboratori e per chiunque vorrà utilizzarla». Attraverso quell'idea sono nate magliette che hanno catturato l'attenzione di tutti: su tutte quella dedicata alla collina di Puianello, vicino a Modena, particolarmente amata dai ciclisti, con la scritta "Puianello state of bikes". Ma l'arte di Ennio Sitta è multiforme: recentemente ha dipinto, insieme alla moglie, il garage di Michil Costa, a Corvara, con pennarelli e pennelli. I percorsi in bici da queste parti, però, sono molti, con un occhio particolare al gravel, per la presenza degli argini dei fiumi Secchia, Panaro e Tiepido, verso Vignola, la terra delle ciliegie, verso Peschiera o verso i boschi. In città, invece, c'è ancora molto da lavorare per consegnare alle nuove generazioni una realtà davvero a misura di bicicletta, nonostante a Modena quasi tutti si spostino in sella: «In un mondo in cui si rincorre la velocità, gli automobilisti dovrebbero capire che più ciclisti ci sono, più veloci sono gli spostamenti. I ciclisti non fanno del bene solo alla propria persona, questo è un tema. Altro tema è la città del futuro, ci penso spesso: ognuno può influire sulla città che viviamo attraverso scelte, relazioni, decisioni, non è un fatto da poco. Forse si potrebbero stendere delle linee guida del cambiamento, con le idee di ciascuno, in modo da partecipare in maniera attiva al cambiamento». Dal 2024, Bensone, probabilmente, terrà meno prodotti, meno oggetti, ma vi dedicherà ancora più cura, più attenzione, più precisione, cercando di crescere, come fanno le persone, di anno in anno: «Penso che il negozio sia un bel negozio, ma sia rimasto ancora adolescente. L'adolescenza è una bellissima età, pur con tutte le sue difficoltà, ma resta un passaggio e diventare grandi è necessario. Essere adulti significa, anzitutto, acquisire consapevolezza e Bensone dovrà capire quel che ha fatto e quello che potrà ancora fare. Solo così riuscirà veramente a realizzarsi».
A Modena è ormai sera, "Luci a San Siro" è alle ultime note, ancora qualche istante ed inizieremo a scrivere tutto quello che abbiamo ascoltato.


Stellette, vittorie e il destino: intervista a Eleonora Camilla Gasparrini

Il primo ritiro di stagione di UAE Team ADQ ha cercato di lavorare con calma sul livello di preparazione, con l'intenzione di "fare fondo" più che intensità, attraverso tante ore in sella per trovare la condizione, anche approfittando del bel tempo in Spagna. Il clima in squadra è buono, sereno, rilassato, anche più dell'anno scorso, quando lo staff e la squadra si stavano formando e tutto era nuovo: il momento giusto per guardarsi indietro e fare il punto sulla stagione trascorsa da qualche mese. Il 2023 per Eleonora Camilla Gasparrini è stata un'annata positiva, soprattutto nella prima parte, tanti bei ricordi e, ciliegina sulla torta, la prima vittoria World Tour, al Tour de Suisse, il 19 giugno, in una giornata in cui era stranamente tranquilla, serena, senza pensieri particolari. Alla soglia dell'estate, quel lunedì, la preoccupava solamente una salita posta intorno a metà percorso, già vista in ricognizione, ma, con il ritmo della gara, l'imprevedibilità è all'ordine del giorno e, visti gli importanti nomi presenti, Gasparrini temeva selezione e buchi.

Gent Wevelgem Women 2023 - Eleonora Camilla Gasparrini (ITA - UAE Team ADQ) - Foto Rafa Gomez/SprintCyclingAgency©2023

«Sono riuscita a tenere duro e, superato quel momento, ero convinta che qualcosa di buono potesse arrivare. Di certo non pensavo alla vittoria, anche se, da qualche settimana, nell'aria, quindi nelle gambe, c'era qualcosa di diverso». Ed in effetti, scorrendo il ruolino di marcia di quei giorni, si notano vari piazzamenti in top ten, in particolare alla Ride London: «Ero sempre lì, facevo tutto bene, poi, alla fine, per un motivo o per l'altro, per un errore o una casualità, qualcosa si inceppava, mi superavano e l'appuntamento con il successo era rimandato. Non l'ho mai immaginata la prima vittoria World Tour, perchè è una situazione troppo bella, troppo nuova, per riuscire a raffigurarsela prima che avvenga, ma in quei giorni pensavo che sarebbe potuto capitare». Quando Eleonora Gasparrini parte per il Tour de Suisse, tra l'altro, non sono neanche due settimane che nonno non è più con lei: racconta che sin dalla prima pedalata era proprio lui a portarla agli allenamenti, che spesso andava a vederla alle gare e, anche negli ultimi tempi, quando l'età gli impediva lunghe trasferte, la televisione era sempre accesa, a trasmettere le gare in cui correva la nipote. Gasparrini gli dedica la vittoria e, sorridendo, chiosa: «Forse quella tranquillità non era casuale».

Tour of Scandinavia 2023 - Eleonora Camilla Gasparrini (ITA - UAE Team ADQ) - Foto Luca Bettini/SprintCyclingAgency©2023

Quello su cui invece c'è bisogno di lavorare è la seconda parte di stagione, dove la ventunenne di Torino ha avvertito un calo di condizione, una stanchezza persistente e un conseguente bisogno di staccare, mentalmente soprattutto. Parliamo del periodo successivo al Tour de France, quello che, però, traghettava verso il Mondiale in cui riprendere fiato era difficile e ancora dei giorni precedenti l'Europeo: «Ho capito che per me il riposo dopo una gara a tappe è necessario. Il punto è che dovrebbe essere programmato: non saranno mai cinque giorni, magari a nuotare, al mare, a farti perdere la forma, ma, dopo quei cinque, servono magari quindi giorni senza appuntamenti importanti. In quei momenti ho provato a rifiatare ma il Mondiale e l'Europeo erano dietro l'angolo. Quest'anno stiamo lavorando perché non accada, cambieremo qualcosa». Il Mondiale resta un'esperienza positiva, soprattutto perché è stata la prima volta, fra le élite, anche se la giornata non è, poi, andata esattamente come avrebbe voluto, ma c'è altro da salvare, da portare in questo 2024. «In realtà ho corso con atlete con cui corro sempre, però, sarà la maglia azzurra, sarà la responsabilità dell'essere convocata assieme a campionesse del nostro sport, l'emozione è differente, più grande. E tu ti senti piccola piccola, più piccola del solito».

2023 UEC Road European Championships - Drenthe - Under 23 - Eleonora Camilla Gasparrini (ITA) - Foto Massimo Fulgenzi/SprintCyclingAgency©2023

Succede in particolare una sera, nella camera che Gasparrini condivide con Elena Cecchini: poche ore prima, lo staff della nazionale aveva distribuito delle magliette intime personalizzate con il nome dell'atleta e delle stelline ad indicare il numero dei mondiali corsi. Gasparrini non ricorda quante fossero le stellette sulla maglia di Cecchini, sicuramente diverse, sa, però, che sulla sua ce n'è solo una: «Mi ha fatto sorridere. Mi ha fatto capire che stavo diventando grande e, allo stesso tempo, che sono ancora piccola».
La nuova stagione parte presto, il 21 gennaio, da Maiorca, il focus è sul blocco delle classiche, successivamente un periodo in altura e dritti verso il Giro d'Italia. Spiega Gasparrini che le Classiche del Nord vanno vissute per poter essere comprese, la più iconica è senza dubbio il Fiandre, lei, però, punta all'Amstel: «L'ho corsa l'anno scorso per la prima volta, il percorso mi si addice, i muri sono duri, ripidi, ma non troppo, non c'è il pavé, è una gara nervosa e selettiva, con un circuito finale che mi piace molto, insomma, sembra fatta per me». Al Giro, invece, oltre ad essere di supporto alla squadra, cercherà di ritagliarsi il suo spazio nelle tappe con percorsi misti e mossi. In fondo, parlandoci, si capisce che Eleonora Gasparrini non è così diversa da quella del 2020, quando si affacciava al mondo élite: sempre i piedi ben saldi a terra, qualcuno le dice «anche troppo», lei ribatte che non sa essere che così ed essere così le piace. Certo, è un'atleta maggiormente matura, capace di usare le tabelle come base, ma anche di distanziarsene, di ascoltarsi e di capire ciò che il proprio corpo richiede, meno pignola: «L'ho imparato grazie a Davide Arzeni, grazie alle altre atlete che ho osservato, al tempo che passa. Se il tuo fisico dice no, insistere non ha alcun senso, io, però, prima insistevo, bastava che lo dicesse una tabella».
Cambiato è anche il ciclismo e lo ha fatto in maniera decisa in soli tre anni: «C'erano le gare minori in cui si poteva correre per fare ritmo, senza incorrere in stress eccessivi, ora non ci sono più. Si è sempre a tutta, ovunque si corra e si corre moltissimo. L'aver finito il periodo delle scuole mi ha sicuramente agevolato, per i tempi fuori dalle gare, per la possibilità di allenarsi al mattino, ma, quando ancora studiavo, il ciclismo femminile era un altro ciclismo». Quindi aumentano i sacrifici, pur se Eleonora Gasparrini li ha sempre fatti volentieri, felice di avere una quotidianità pesante, piena di impegni, spesso lontana da casa, ma senza alcuna monotonia, senza la noia che avrebbe fatto fatica a sopportare.

Seconda gara stagionale e subito prima vittoria per Gasparrini, in una delle prove della Challenge Mallorca 2024.

Per il resto, ha bandito i rimorsi ed i rimpianti: afferma sicura di credere nel destino o, almeno, in un filo conduttore che lega tutte le scelte che si fanno: «Ci sono dei motivi anche nelle scelte che a noi sembrano inconsapevoli. Sapere che ci sono aiuta a viverle in maniera genuina ed istintiva. A viverle meglio, insomma. E penso che tutti cerchiamo solo questo».
E il suo 2024 è iniziato proprio così: uno sprint di potenza e decisione, guidata sapientemente da Silvia Persico in un finale difficile, ostico. Una vittoria, la prima della stagione, nella terza prova del Challenge Mallorca, e siamo solo a fine gennaio


Un padre e una figlia a Istraland

Pensate al verde dei monti, a quel verde intenso della vegetazione più rigogliosa, spaziate, poi, nel blu delle acque, in tutte le sue sfumature, fino alla superficie cristallina, dove si vede il fondo e sembra di poterlo toccare. Non fermatevi, andate alle bianche falesie a picco sul mare, alle vene di calcare, argilla e marna, e, più sù, ai paesi arroccati sulle colline, ai vigneti e agli ulivi. Metteteci colori, profumi, sapori, metteteci notti e giorni di avventure, di ruote di biciclette che girano e si fermano ad aspettare, aggiungete anche il vento, la brezza più o meno forte che spira accanto alle onde e continuate a sognare. Probabilmente state pensando di partire, già, ma per andare dove? Ve lo diciamo: la descrizione narra l'Istria, la sua costa. I sensi sono quelli di chi pedala, perché così ve la raccontiamo, in bicicletta. L'occasione è Istraland: 400 chilometri di gravel e 5500 metri di dislivello, da Sežana, in Slovenia, a Sežana, tra polvere, salita e campagna, sole e salsedine, a fine settembre. Eppure, quando Lucio Paladin ha pensato di iscriversi a questa manifestazione, tutto questo, per quanto bello, non era il primo pensiero.

Il primo pensiero era invece una frase che con la figlia Asja, appassionata ed esperta di avventure simili, si era detto molte volte: «Sarebbe bello fare qualcosa solo io e te, assieme. Padre e figlia, insomma». L'aveva detto ad Asja e Asja l'aveva detto a lui, ma si sa come vanno queste cose, anche i desideri più forti, più desiderati, per l'appunto, si fanno spesso attendere. Allora serve un'occasione, un compleanno, ad esempio, ed il compleanno della figlia arriva. «Perché no? Andiamo, papà». Lucio e Asja partono. Se è la prima volta per questo genere di viaggio, non è la prima volta che la bicicletta li lega: quando Asja era bambina e correva, Lucio era il suo direttore sportivo. Orecchie attente e si ascolta: «Ricordo che mi fidavo ciecamente di quel che mi diceva, perché era il direttore sportivo e perché era mio padre. Ho imparato fidandomi a pedalare». Già, questa volta, però, è tutto diverso, questa volta l'esperta è Asja e Lucio, alla partenza, è agitato, preoccupato, quasi si trattasse di una competizione in cui dover primeggiare, della gara della vita: «Papà, a me non interessa nulla vincere, arrivare prima. A me interessa essere qui con te, certo, arrivare alla fine ma farlo con te. Basta. Vorrei tu pensassi a questo e ti prometto che ce la faremo. Ti fidi?». Le parole della figlia sono più che mai necessarie ed il padre ascolta, si fida. Ciecamente.

Mentre ce lo racconta, la voce di Asja vibra, quelle vibrazioni date dall'orgoglio, dalla felicità: «Non ha mai messo in dubbio una parola di ciò che dicevo ed ha fatto tutto quello che gli ho chiesto, anche se per chi viene dalla strada non è sempre facile. Non si può capire quanto mi abbia reso contenta vedere papà avere quella fiducia». Il discorso va in profondità: «A volte, forse soprattutto da ragazzini, vediamo nei genitori qualcuno di opposto a noi, quasi ci remassero contro. In certe età è normale, però non è così. Dobbiamo capirlo ed avere la certezza che loro credano così tanto in noi non sai quanto possa cambiare la quotidianità». Asja guarda spesso Lucio: capisce quando sta facendo fatica ma la nasconde dietro ad un sorriso, ad uno scherzo, per non farglielo vedere, per non farla preoccupare. Intuisce i momenti in cui non ha fame, allora gli si avvicina: «Mangia qualcosa lo stesso, è importante». Certe volte è più faticoso, altre è un inno alla gioia.

«Sai che, quando andavamo a dormire, a sera, era stanchissimo, però era ancora più felice, se possibile, perché era arrivato alla fine della giornata, perché era ancora con me». Soraya, sua sorella, è sul percorso, le fornisce qualche indicazione, le dice come cambia il tempo, dove tira il vento, per il resto c'è una mappa fornita dall'organizzazione con ogni indicazione necessaria, sui punti in cui si trova acqua e cibo e sui chilometri in cui, invece, bisogna fare rifornimento perché si è più lontano dai centri abitati. Asja Paladin spiega che è l'evento giusto per chi vuole iniziare a cimentarsi con il gravel: abbastanza duro, ma non durissimo, godibile, piacevole. La gente che si incontra saluta, chiacchiera, anche a cena si può stare con tanti appassionati di bici, a ridere e scherzare, a dimenticare le difficoltà della giornata, a rilassare i muscoli. «Il primo giorno ci siamo imbattuti in una discesa molto rotta, rovinata, ci abbiamo messo molto a scendere. Ho pensato: "Se non inizia a detestarmi qui, non inizia più"». Scherza così Paladin.

A casa c'è sua madre, non esattamente entusiasta della gita: «Sono sempre in pensiero quando parti tu per queste esperienze, se ora inizi anche a portare papà, siamo apposto». Carmen, però, ha cambiato idea. I monti, il mare, Pula, la terra rossa che resta negli occhi, e poi i vigneti, Gli ultimi quaranta chilometri non passano più: sembra davvero di non riuscire ad arrivare al traguardo, anche se ormai manca talmente poco che pare impossibile: laggiù, in fondo, sbuca qualcuno. Si tratta della mamma e del ragazzo di Asja: «Papà pedalava come fosse il primo chilometro, con addosso un'energia pazzesca, incredibile. Un piacere da guardare. Mamma mi ha cercato dopo l'arrivo: "Grazie per questa giornata, grazie per la felicità tua e di papà". Ricorderò sempre queste parole». Quell'avventura rincorsa per molto tempo era diventata realtà e lo aveva fatto nella miglior forma possibile.
Ora ripensate a tutto quello che vi dicevamo, tornate all'Istria, a fine settembre, in bicicletta, ma guardate bene. Da qualche parte ci sono un padre e una figlia che non vedevano l'ora di pedalare assieme. Questo si può anche descrivere, ma bisogna provarlo, sentire quel desiderio e poi quella gioia. Asja e Lucio Paladin lo confermano.


Ciclostazione, Atripalda

Avellino era lontana da tanti, troppi, anni. Marco Argentino se ne era andato da giovane: era partito per Bologna per il servizio militare, senza pensare che, poi, il caso, la storia, il destino, la volontà gli avrebbero fatto trovare casa, lavoro e famiglia a circa settecento chilometri dal paese in cui era nato. Se ne era andato verso Bologna e si era trovato a vivere e lavorare poco più in là, tra Parma e Mantova, per ben undici anni. Marco era dipendente, con la qualifica di perito elettrotecnico, in un’azienda: a tratti il suo mestiere lo soddisfava, a tratti meno, ma restava una certezza, un punto fermo fra molte variabili.

A sera, a fine turno, passava nell’ufficio del suo direttore, prendeva una sedia e si sedeva accanto alla scrivania, stava a guardare, ad ascoltare: dopo una giornata densa di impegni, di appuntamenti e di decisioni da prendere, quello era il momento in cui il dirigente dell’azienda, al telefono, sbrogliava le matasse più complicate, trovava accordi, pianificava. Argentino racconta che quelle telefonate le ricorda ancora oggi, perché da quelle telefonate imparava sempre qualcosa che, attraverso la vita di fabbrica, non aveva modo di apprendere. Non erano tanto i concetti a colpirlo, ma il modo con cui si potevano cercare soluzioni a grossi problemi, anche dopo la stanchezza di una giornata di lavoro. Il suo responsabile era calmo, riflessivo, pensava, proponeva, appuntava e trovava la quadra, davanti ad un bicchiere di vino. A quegli incontri, Marco pensava spesso, soprattutto durante i suoi giri in bicicletta, quelli delle pause e del tempo libero. Non si sa come le idee fluiscano nella mente, se il loro scorrere sia casuale o tenuto sempre stretto da un preciso filo conduttore, sta di fatto che, all’improvviso, in una pedalata, poco più di tredici anni fa, un pensiero prese forza e, piano piano, spazzò via tutto quello che, fino a quel giorno, l’aveva tenuto aggrappato a quella certezza, il lavoro sicuro: «Mi capitò di riflettere su come sarebbero state le mie giornate da lì a dieci anni e la prospettiva mi terrorizzò. Ero esattamente in grado di prevedere ogni istante. Capisci? Non ci poteva essere alcuna sorpresa, alcun cambiamento. Sapevo tutto e tutto era prevedibile, deciso fissato. Il mio lavoro era parte di questa prevedibilità asfissiante».

Qualche indizio, forse qualche ricordo, di come si poteva andare via da quel percorso segnato, tracciato, a dire il vero, c’era già nella sua gioventù. C’era papà Achille che non era un gran pedalatore, anzi, non era affatto un pedalatore, ma, se si trattava di meccanica, aveva un guizzo acuto: «Le nostre erano delle gare: ci davamo un tempo e un problema da risolvere e, alla fine, vinceva chi aveva risolto la problematica meglio e più velocemente. All’inizio era sempre lui a spuntarla, ultimamente, invece, qualche volta lo battevo. Penso ai suoi occhi: si vedeva che era infastidito dal fatto di non essere più il vincitore, ma allo stesso tempo in quelle pupille ruggiva un antico orgoglio. Era come se dicesse: “In fondo, ti ho insegnato bene”. Se proprio qualcuno doveva superarlo, era felice che fossi io».

Anche il nonno di Marco, aveva un talento particolare parlando di meccanica. Marco Argentino guarda quella scintilla del passato e le lascia spazio e tempo, la trasforma in un fuoco: frequenta corsi di meccanica a Milano, Torino, Bologna, alla Fiera di Verona, studia e scopre che ad Avellino, quella città lontana da molti anni, in cui era nato e cresciuto, non c’era un negozio di biciclette come quello che aveva in mente, quello di cui si era trovato a parlare con Stefania, sua moglie, originaria del Friuli Venezia Giulia. Qualche tempo dopo, tra il 2010 e il 2011, Marco e Stefania venderanno la casa al nord, torneranno ad Avellino e con quei soldi compreranno un locale e molte biciclette: la Ciclostazione, agli inizi, è questa. «Ci hanno preso per dei folli e posso anche capirli, almeno in parte. I cambi di vita improvvisi non sono quasi mai compresi. Ho ben in mente il primo giorno di apertura: cercavo parole di comprensione, di coraggio, cercavo carezze, in realtà, trovavo schiaffi. Ognuno mi metteva davanti ad altri dubbi, a nuove paure, accrescendo quelle già presenti in me. Era importante rendere esplicita la mia volontà, nonostante tutto e tutti, nel tempo ho imparato a farlo sempre più, così mi hanno capito».

Quel locale di 80 metri quadrati, diviene poi di 120, 180, fino ai 300 metri quadrati odierni, circondati da vetrate che lasciano filtrare tutta la luce possibile: «Si tratta di una reminiscenza di quando lavoravo in ditta. Se, quando mettevo il naso fuori a sera, col buio, qualcuno mi avesse chiesto che tempo aveva fatto quel giorno, non lo sapevo. Non sapevo se ci fosse stato il sole, nuvole grigie o pioggia: ho sempre desiderato che chi mettesse piede alla Ciclostazione potesse vedere il cielo fuori e non perdere contatto con il mondo esterno». All’ingresso, si nota subito un grande bancone, con l’officina a vista sulla destra, mentre, sulla sinistra, si scorge un’ampia gamma di biciclette, da corsa, gravel, a pedalata assistita. Alla Ciclostazione si effettuano visite biomeccaniche e si noleggiano biciclette per gite e viaggi.

«Il noleggio è, spesso, la chiave che avvia la passione. Un tentativo, un giro, e si torna in negozio a comprare la propria bicicletta, quella che si custodisce con cura in garage, pulendola con un panno dopo ogni uscita».

Fuori da quelle vetrate, a pochi chilometri di distanza si apre l’Irpinia verde, dove non servono ciclabili e le strade ed i paesi si svuotano, facendo spazio al viaggiatore. Si possono fare chilometri e dislivello: Marco propone, ad esempio, una visita all’Abbazia del Goleto, attraverso un sentiero stupendo, di cui lui stesso si innamorò. Si tratta delle terre di tre vini Docg e delle loro cantine, belle da visitare, in cui perdersi, dandosi la possibilità di scoprire terre che, probabilmente, si potrebbe pensare siano partite in ritardo nella riflessione sul tema ciclabilità, in realtà, sono partite nel momento in cui tutto era pronto perché questa operazione iniziasse.

Appena qualcuno arriva qui, Argentino lo accoglie con una domanda, apparentemente semplice, quanto complessa, scendendo in profondità: «Domani mattina, cosa vorresti fare con la bicicletta che acquisterai?».

A quel punto, si inizia a parlare , si crea empatia, rapporto umano: «In un mondo in cui sono sempre più importanti i contatti virtuali, tramite facebook o whatsapp o altri social, io resto un appassionato dei rapporti umani, del linguaggio del corpo, della calligrafia, della psicologia, dello stare in mezzo alla gente, con il piacere di guardarla negli occhi. Credo sia l’unica possibilità che abbiamo di crescere, di imparare, anche di correggere gli errori che inevitabilmente si fanno, soprattutto agli inizi. La tecnologia può aiutare, ma serve equilibrio. Le persone sono più importanti e devono restare il centro. Se non si perde il contatto con il lato umano, è possibile gestire ogni problema con maggiore serenità, evitando di non dormire la notte, come accadeva tempo fa. Resta un lavoro difficile, come può essere difficile lavorare in famiglia e condividere ogni cosa. Ma la difficoltà non toglie nulla alla bellezza, alla soddisfazione».

In questi anni di Ciclostazione, anche Marco e Stefania sono cresciuti e cambiati ed in un veloce replay mentale proprio Argentino rivive alcuni dei passaggi che più hanno avuto un impatto sul loro modo di vivere la professione: le prime volte che si vendeva una bicicletta e, magari, si sbagliava, le preoccupazioni economiche, soprattutto dell’avvio, quando ogni errore pesava di più, il nervosismo provato per qualche cliente particolarmente “saputello”, come lo definisce Marco, che non ne vuole sapere di ascoltare consigli o indicazioni, giornate intere perse dietro a nervosismi e qualche frustrazione, soprattutto le “tirate di giacca” di qualche amico o conoscente a cui non si sapeva come e cosa rispondere.

«Dopo i primi quattro, forse cinque anni di attività abbiamo attraversato un periodo complicato in cui rientravano tutte queste esperienze. Dieci giorni di chiusura sono, però, bastati per mettere un punto e ripartire: si trattava di fare uno step decisivo, passare dalla visione di un appassionato di ciclismo a quella di imprenditore, preservando la carica di passione, ma inquadrandola in maniera più ferrea all’interno di una logica lavorativa, mettendo da parte il lato istintivo e affettivo che portava agli errori».


In questo percorso, si rivelerà fondamentale un ragazzo, Giuseppe, che, all’apertura della Ciclostazione, aveva poco più di sedici anni, oggi ne ha ventotto ed è professore universitario in Germania. In quei giorni, Giuseppe era spesso in negozio, chiedeva informazioni, voleva conoscere, ma, allo stesso tempo, raccontava ciò che sapeva e delle biciclette conosceva davvero quasi tutto, a tal punto da creare imbarazzo in Marco: «Oggi posso dirlo. Mi è capitato di vederlo arrivare e di spiegare a Stefania o a qualche collaboratore di dire che non c’ero, che ero via per lavoro o per altri impegni. Non era una situazione nuova: all’inizio, molti clienti ne sanno più di te, devi accettarlo, ma lui ne sapeva davvero molto, non riuscivo a rispondere alle domande che mi faceva e ci restavo quasi male. A casa ripensavo spesso alle figure che, magari, avevo fatto, a cosa potesse pensare di me. Ho capito solo successivamente che Giuseppe, quel ragazzo così sveglio, così intelligente, fosse in realtà una risorsa per la Ciclostazione ed oggi è uno degli amici più cari che ho, quasi un figlio adottivo. Si può imparare anche dai clienti, bisogna avere l’umiltà di ascoltare e capire, senza presunzione o vanità. Senza fuggire».

Da un luogo che non vediamo, arriva un rumore forte, deciso, ci voltiamo verso Marco chiedendo cosa stia accadendo, lui sorride: «Si tratta del nostro reparto ortopedia. Sai, alcune volte è necessaria qualche manovra più decisa, una piccola martellata, magari, e tutti sappiamo come soffra un ciclista se vede che la propria bicicletta viene un filo maltrattata, anche se per sistemarla. Allora abbiamo pensato a questa terza sala, nascosta. Una sorta di protezione dell’appassionato, di cura».

Marco si guarda intorno, come chi cerca di ricordare un dettaglio, appena inizia a parlare abbiamo la certezza che la sua memoria è tornata a quelle sere con il suo ex direttore, in ufficio: «Quando sono andato via, mi ha preso da parte e mi ha detto: “Non preoccuparti, tu hai tanta voglia di fare e chi ha questo requisito può ripartire quando vuole, riuscirà in quel che cerca”. Sono legato a queste parole». C’è un filo di malinconia anche mentre ripensa ai momenti con papà Achille in Ciclostazione, ma anche il suo stesso orgoglio. Sì, perché la Ciclostazione che ad Avellino non c’era mai stata, ora c’è, in Contrada San Lorenzo, numero 18, ad Atripalda. E c’è grazie a Marco e Stefania.


Il questionario cicloproustiano di Davide De Cassan

Il tratto principale del tuo carattere?
Il tratto principale del mio carattere è la testardaggine.

Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
Avere grinta, determinazione ma sempre con umiltà.

Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
Il saper ascoltare, la voglia di progettare qualcosa che duri nel tempo.

Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
Esserci quando serve, nei momenti duri.

Il tuo peggior difetto?
Sono troppo competitivo.

Il tuo hobby o passatempo preferito?
La musica.

Cosa sogni per la tua felicità?
Arrivare dove voglio arrivare, fare quello che voglio fare, essere libero.

Quale sarebbe, per te, la più grande disgrazia?
Che succeda qualcosa al mio corpo che mi cambi la vita.

Cosa vorresti essere?
Un esempio positivo per tutti.

In che paese/nazione vorresti vivere?
Amo la mia terra, la Valpolicella va benissimo.

Il tuo colore preferito?
Blu.

Il tuo animale preferito?
Cane.

Il tuo scrittore preferito?
Massimo Recalcati.

Il tuo film preferito?
Interstellar.

Il tuo musicista o gruppo preferito?
Al momento Marracash.

Il tuo corridore preferito?
Remco Evenepoel.

Un eroe nella tua vita reale?
Non ne ho.

Una tua eroina nella vita reale?
Non ne ho.

Il tuo nome preferito?
Liam.

Cosa detesti?
Quando non riesco ad incidere sulle cose che mi succedono.

Un personaggio della storia che odi più di tutti?
Non ho gli strumenti e le competenze per dirne uno.

L’impresa storica che ammiri di più?
L’impresa dei mille di Sparta.

L’impresa ciclistica che ricordi di più?
Sagan Roubaix 2018, Van der Poel Glasgow 2023

Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
Giro d’Italia.

Un dono che vorresti avere?
Essere un bravo fotografo

Come ti senti attualmente?
Bene.

Lascia scritto il tuo motto della vita
“Mai per caso nulla accade”.