Inno ai fondisti

Caro lettore, anzi carissimo, ciò che segue non vuole essere una spiegazione sui fatti di domenica 2 aprile 2023,  su ciò che è accaduto nei quasi 280 km tra Bruges a Oudenaarde, una strada che fa a spallate tra muri, stradone e stradine, su e giù, destra e sinistra e poi prende un nome che nell'appassionato suona come il titolo di un'opera unica: De Ronde Van Vlaanderen. No, niente di tutto questo: perché di quella corsa ne avrete già pieni gli occhi e colma la testa di nozioni, istruzioni, punti di vista e racconti.

Ciò che sta per arrivare non ha la minima intenzione di entrare nel dettaglio e cercare di capire come e perché, ancora una volta, il ciclismo che stiamo vivendo ci esalta e ci tiene incollati dal primo all’ultimo chilometro - e il Fiandre di domenica 2 aprile 2023 ne è stato perfetto emblema.

D’altra parte come poteva la corsa più bella del mondo che premia atleti completi sotto ogni aspetto non essere il simbolo di un ciclismo che ha preso una strada che non vuole mollare per nessun motivo al mondo? (E giuriamo che non oggi, non in questa sede, parleremo di malinconia e nostalgia, di tempi che ci sono e che prima o poi non saranno più e per questo motivo dobbiamo goderceli appieno).

La strada che ha reso il ciclismo uno spettacolo (ci illudiamo: più vendibile di quello che è stato negli ultimi due decenni) che ci lascia a bocca aperta e ci fa perdere verso esclamazioni del tipo: “Santocielo! ma cosa stiamo vedendo!”, “Che gara pazzesca!”, eccetera.

No, caro lettore, anzi carissimo che hai come sempre la pazienza di seguire i nostri pensieri contorti, le poche righe che seguono vogliono essere un inno ai fondisti, a quei corridori che grazie a doti perlopiù innate e rifinite col tempo, riescono a tirare fuori il meglio in gare che superano i 230, i 250 km di corsa; quei corridori che, quando in gruppo si raschia il barile fino a far sanguinare le unghie, hanno qualcosa in più, quei corridori che dopo cinque, sei ore di sofferenza ciclistica, portano quella fatica estrema su un altro piano e ci convivono meglio di altri perché madre natura li ha graziati rendendoli perfettamente adatti proprio a una corsa come il Giro delle Fiandre di settimana scorsa, quelli che più la corsa è dura, lunga, complessa per tanti motivi (ritmo, clima, situazioni legate a cadute), hanno qualcosa in più di tre quarti di gruppo - e alcuni di loro saranno subito di nuovo protagonisti alla Roubaix.

Sono quei corridori alla Mads Pedersen, uno che a 24 anni toccava appena palla nelle corse normali e poi invece lo trovavi vincitore di un Mondiale tra i più complessi della storia recente per lunghezza e meteo, corso tutto al freddo e sotto il diluvio, dove diventava complicato alimentarsi bene, quasi al buio, un corridore che  senza conoscerlo abbastanza te lo ritrovavi 2° al Fiandre. È diventato il massimo esponente di una scuola (una Sacra Scuola, ha detto qualcuno) che negli anni ha visto Alexander Kristoff il suo totem: le corse sopra i 250 km come parco giochi dove far valere rispetto ad altri le proprie qualità. Mads Pedersen attacca ai 112 chilometri dall’arrivo e porta via la fuga decisiva e poi di nuovo parte da solo quando ne mancano diciannove pensando di potercela fare nel resistere al ritorno di quei due diavolacci impertinenti che dietro staccavano tutto quello che restava del povero gruppo. Aveva detto, Pedersen, corridore che a un certo punto della sua carriera, ben dopo il Mondiale vinto, ha fatto click e di conseguenza un salto di qualità enorme, che per vincere doveva anticipare. C'è quasi riuscito.

Sono quei corridori alla Neilson Powless, fondista eccezionale come sta dimostrando negli anni e come dimostra uno storico che nelle corse di un giorno dice: 1° San Sebastian (2021), 3° alla Dwars (2023, suo esordio tra i professionisti sulle pietre), 5° al Mondiale (2021), 5° al Fiandre l'altro giorno, 7° alla Sanremo (2023), 8° alla Liegi (2022) e buttiamoci dentro anche il 12° posto finale al Tour dello scorso anno. Una delle più liete sorprese delle ultime tre stagioni.

Ronde van Vlaanderen 2023 - Tour des Flandres - 107th Edition - Brugge - Oudenaarde 273,4 km - 02/04/2023 - Neilson Powless (USA - EF Education - EasyPost) - photo Luca Bettini/SprintCyclingAgency©2023

Kasper Asgreen, che nel momento più buio della storia della sua squadra tira fuori una prestazione che pensavamo non fosse più nelle sue corde e anche lui sui muri sembrava annaspare, poi bastava un cambio di inquadratura e te lo ritrovavi scollinare per primo. Oppure Fred Wright, altro che si è visto poco fino all’altro giorno e in una corsa così chiude di nuovo nei primi dieci esattamente come un anno prima: un britannico perfettamente tagliato per le pietre del Nord come non se ne vedono spesso.

E che dire di due come Stefan Küng e Matteo Trentin: loro fanno valere l’esperienza, loro fanno valere l’affinità con queste gare, loro guarda caso su quel podio del Mondiale vinto da Pedersen quella volta lì e non stiamo di certo a rivangare, non di nuovo. Loro con ruoli e caratteristiche diversi - uno capitano passista, l’altro uomo squadra veloce e se il ciclismo fosse uno sport solo di testa e lettura della gara, allora Matteo Trentin sarebbe il numero uno al mondo. E che dire di Matteo Jorgenson: 24 anni, americano come Powless, davanti in una corsa così a questi livelli a dimostrazione di essere uomo da gare dure lui che trova affinità anche col maltempo e con un dislivello elevato. Senza scomodare uno che riscrive i numeri di questo sport, Pogačar, va beh, che ha portato sul suo piano la corsa: per staccare i due van voleva gara dura e così è andata, così ha fatto, inventandosi un numero sull'Oude Kwaremont che ricorderemo per anni.

Non ce ne vogliano quei corridori che sopra un certo chilometraggio ancora non riescono ad esprimere al massimo il proprio potenziale (pensiamo a Pidcock), quei corridori che magari in una carriera non ci riusciranno mai, perché qualcosa si può affinare, vedi gli allenamenti, le tecniche di ogni genere, l’alimentazione, la testa, l’esperienza, eccetera, ma oggi la nostra storia, cari lettori, anzi carissimi, e dedicata a loro, ai fondisti, perché si nasce così, e in uno sport di fatica (perdonate la banalità) ormai le rare volte che si superano tot ore di gara vengono fuori loro, e corse come quelle di domenica al Fiandre esaltano il pubblico ma fanno brillare anche loro, adatti a stare in sella e dare sberle a tutti (dopo averne prese parecchie) per tante ore di fila. Anche se poi come ha scritto Trentin l'altro giorno, alla fine ciò che resta per tutti: "è un gran mal di gambe".

PS: e domenica alla Roubaix,  dal punto di vista del fondo ne vedremo ancora delle belle.


Prosecco e speranze: quei pomeriggi in mezzo al ciclismo

Al primo piano dell’azienda agricola Le Volpere di Col San Martino c’è una maglia in una teca. Una maglia tricolore in una teca di vetro, per la precisione. Unico oggetto su un’intera parete, è giustificata da una piccola targhetta, ma nessuno la legge: chi frequenta la stanza sa benissimo vita, morte e miracoli di quella maglia tricolore. Appartenne a Guido De Rosso, il più forte ciclista di sempre di Col San Martino.

In questa frazione di Farra di Soligo, mi spiega Mario, nipote di Guido, il cognome De Rosso è piuttosto comune. Col San Martino non fa comune, anche se ha circa 4000 abitanti, è benestante e tanto grazioso che stride ridurlo al ruolo di frazione. C’è stato un momento, addirittura, mi dice tra le righe Mario De Rosso, in cui Col San Martino era per il ciclismo italiano ciò che era New York per il basket americano: la Mecca del gioco. Guido De Rosso vinse il Tour de l’Avenir del 1961 e – erano tempi diversi – tornò a casa in treno. Scese a Cornuda, una ventina di chilometri a sud-ovest di Pieve di Soligo e non si sa come tutti erano al corrente che quel valoroso ciclista sarebbe sceso dal treno. Ogni paese brulicava di gente a bordo strada per salutare il giovane campione.

Arrivato finalmente a Col San Martino, vi fu una grande festa in piazza. Mario mi mostra una foto incredibile di suo zio tenuto sulle spalle da qualche tifoso. Sbuca col petto dalla folla, che lo acclama: tutti sembra vogliano fargli le congratulazioni, gridargli evviva, toccarlo. Un braccio proteso ci riesce, mentre una bambina è a cavalcioni sulle spalle degli adulti per poter ammirare la ventunenne speranza del ciclismo italiano. Da tutte le finestre si affacciano le persone, De Rosso tiene in mano e sventola orgoglioso un bouquet di fiori. Fausto Coppi era morto da poco più di un anno e il corridore più forte del mondo, nei primi anni Sessanta, non solo non era italiano, ma era pure francese: Jacques Anquetil. A Col San Martino bastava Guido De Rosso.

De Rosso è passato professionista e ha avuto successo. Due Milano-Vignola, un Giro del Piemonte, due Trofeo Matteotti, un podio finale al Giro d’Italia: nel 1964, l’anno in cui forse andò più forte. Mario ricorda soprattutto un aneddoto che gli raccontava lo zio: al Giro del Trentino del 1963 (all’epoca si correva su giornata unica) nei chilometri finali Ercole Baldini gli disse «Guarda Guido, tirami la volata e ti do diecimila lire». Forse pensando di non potercela fare, De Rosso accettò. Tirò per tutto il chilometro finale, tirò fino a che non sentiva male ai polmoni, tirò la volata finché non chiuse gli occhi per la fatica. Quando li riaprì, vide la linea bianca sotto la ruota anteriore. Si voltò, Baldini era dietro. Guardò avanti a sé: non c’era proprio nessuno. Aveva vinto lui. Dopo il traguardo Baldini gli disse che se le poteva anche sognare, quelle diecimila lire.

«Ricordo benissimo i pomeriggi d’estate con mio zio e mio padre a mangiare anguria e guardare il ciclismo» dice alla vigilia del 74° Trofeo Piva il presidente dell’A.C. Col San Martino, società organizzatrice della corsa, Mario De Rosso. Il giorno della gara si sarebbe svegliato al più tardi alle 5:30 e il giorno dopo è dappertutto: lo trovo al pranzo con la polizia e la scorta tecnica, sulla salita di Combai dove uno sponsor regala a tutti flûte di Prosecco (gentilezza di cui ho abusato), all’arrivo e alle premiazioni, ad oltranza.

Una persona che invece non mi aspettavo di trovare alla partenza di Col San Martino è Gianni Savio. La squadra del Principe non partecipa, ma lui è qui a parlare con chiunque. Trentacinque squadre al via realizzano un notevole via vai di persone, mezzi di corsa, meccanici: la giostra colorata intasa tutta piazza Rovere. Di tutti i corridori presenti, Tyler Hannay è particolarmente interessante. Viene dall’isola di Man e vive a Lamporecchio perché corre con la Mastromarco, ha svariati denti sbeccati da cadute in bici e voglia di correre perché, abituato al freddo britannico, questi nuvoloni neri senza pioggia equivalgono per lui ad un clima quasi tropicale. Nicolò Buratti del Cycling Team Friuli è arrivato secondo alla Gent-Wevelgem pochi giorni fa ed è quindi uno dei favoriti per la corsa di oggi: «Credo di essere, sì, tra gli uomini più forma». Non ha i guanti e sta iniziando a piovere: sto andando a metterli, assicura, anche se dopo il tempaccio belga non teme più nulla.

La corsa è massacrante. Circa 3000 metri di dislivello disposti su quasi 180 chilometri sono un’enormità per la categoria. Nove volte Combai (2,2 km al 7,4%) e tre volte, nel finale, il terribile strappo di San Vigilio (mezzo chilometro al 12%, con punte al 22% e in parte cementato) selezionano i corridori giro dopo giro. È una corsa a eliminazione sulla quale, per la gioia di molti corridori, è spuntato uno splendido sole che ravviva il verde delle colline del Prosecco. L’ultima ascesa verso i cipressi affianco la chiesetta di San Vigilio è affrontata benissimo da Alessio Martinelli della Green Project-Bardiani, Sergio Meris della Colpack e Davide De Pretto della Zalf. In discesa, però, ripidissima picchiata verso il centro di Col San Martino, rientra Giacomo Villa della Biesse-Carrera e anticipa la volata, beffando i tre di testa.

Nel ricostruire il concitato finale, Alessio Martinelli confessa che negli ultimi 500 metri non c’era accordo nel terzetto di testa. Lui ha sfruttato il lavoro dei compagni di squadra Pinarello e Pellizzari, ma si è fatto sorprendere: «Il rientro di Villa, ai 300 metri penso, mi ha colto alla sprovvista. È partito subito, quindi sono partito anch’io, ma era troppo tardi. Per rientrare dev’essere andato fortissimo in discesa». Mentre finisce la frase, il massaggiatore della Green Project-Bardiani («il signor Piro, Piro per gli amici») tira fuori un asciugamano e glielo passa energicamente sul viso, ripulendolo da sudore e polvere.

Sul palco, Martinelli è più che presentabile. Giacomo Villa è al settimo cielo, ma composto. Non è una vittoria arrivata a caso: è andato molto forte al GP Industria di Larciano e un suo compagno di squadra, Anders Foldager, ha già centrato il podio in una corsa tra i professionisti, la Per Sempre Alfredo. Con Foldager avevo parlato già allo scorso Trofeo Piva, quando mi aveva stupito per determinazione a parole e grinta sui pedali. Quest’anno è un po’ diversa: «Arrivo da una settimana di raffreddore e febbre», mi dice in partenza. All’arrivo, invece, descrive con una sola parola la sua corsa: «Fuck». È contento di aver aiutato Villa, certo, ma gli ho di nuovo visto negli occhi quel guizzo del vincente, quello per cui "ok ha vinto un mio compagno ma volevo vincere io", che lo farà andare lontano al piano di sopra.

Villa è stato tatticamente perfetto nel finale, ma proprio negli ultimi metri ha avuto un brivido. L’arrivo è leggermente in salita e non appena si è assicurato della vittoria si è alzato sul manubrio per festeggiare emulando le ali di Wout van Aert a Calais. Così facendo ha rischiato di cadere e di perdere la volata. «Proprio ieri ho visto il video di Van Aert che esultava facendo il condor: non ricordo quale tappa fosse, ma mi è rimasto in mente. Allora ho pensato lo faccio anch’io. Poi mi sono girato, ho visto Martinelli e mi sono rimesso a pedalare». Non sa di quanto ha vinto, quindi magari non ci sarebbe stato bisogno di tornare a pedalare, ma l’arrivo gli «sarà di lezione». Ha vissuto un momento di terrore, certo, ammette in modo più colorito.

Di tutte le cose che è stato il 74° Trofeo Piva, due pianti mi rimarranno impressi. Sono molto diversi tra loro. Il primo è quello di David Ruvalcaba, messicano 9° all’arrivo, alla prima prestazione di questo livello in una corsa internazionale. I suoi compagni della AR Monex lo hanno circondato e riempito di complimenti e a un certo punto David non è più riuscito a trattenere le lacrime. Il secondo pianto, invece, è quello della signora Franca del Ristoro Collagù, un delizioso posticino in cui sfamarsi sulle colline del Prosecco. Quando le chiedo delle origini di quel capanno adibito a locanda, risponde che era il sogno di Andrea Bortolin, agricoltore travolto da un trattore in una vigna poco distante. Bortolin aveva lavorato molto per la promozione del territorio, che dal 2019 è tra i Patrimoni dell’umanità UNESCO e la cui cura va molto oltre la produzione del vino, come assicurano Silvia dell’azienda agricola Riva Granda o Luca, cerimoniere della Confraternita di Valdobbiadene.

Il lavoro in questi vitigni particolarmente scoscesi è definito non a caso eroico: al piano terra dell’azienda agricola Le Volpere di Col San Martino c’è una scritta, grossa, che sintetizza bene le persone che lavorano qui: «Viticoltori di pendio». Salite, biciclette, Prosecco: il Trofeo Piva è la più precisa rappresentazione di una parte di Veneto tanto bella che non sembra vera.

Foto: Alessio Pederiva


SIDI SHOT 2 DZERO: amore, organizzazione ed estro

Amore, organizzazione, estro. Scrivo queste parole fermo in una piazzola sulla strada che da Maser mi sta riportando a casa. Le scrivo subito, senza aspettare un attimo, per fissarle definitivamente e non rischiare di dimenticarle. È il segreto un po’ di tutto, a dire il vero. Penso a una squadra di un qualsiasi sport: amore verso ciò che si fa, organizzazione per rendere al meglio ed estro per creare la giocata magica. Così come nel ciclismo: senza uno di questi tre ingredienti non saremmo qua a narrarne le gesta in maniera romantica, pensateci bene.
In questo caso sono le componenti necessarie per fare la differenza tra un semplice prodotto, per quanto tecnico e perfetto, e un’emozione. Sì perché di questo si tratta quando si parla delle nuove SHOT 2 DZERO: un’emozione.

Ci vuole amore, verso il prodotto, verso i dettagli e anche verso l’ambiente. E si sa che in casa Sidi l’amore non manca ma, questa volta, si sono davvero superati e la cura di ogni dettaglio della nuova SHOT 2 DZERO ne è la prova inconfutabile. La tomaia è in Bio Veg, un materiale che si crea dalla lavorazione di scarti industriali infine spalmato in amido di mais che è a sua volta, ovviamente, completamente naturale e biodegradabile. Anche il sottopiede è realizzato con un mix di cotone e poliuretano riciclato al 95%. Tutto qua penserete voi? E invece no, le scarpe vengono vendute avvolte in una carta certificata FSC, all’interno di una scatola di cartone certificato FSC con i libretti di istruzioni anch’essi in carta certificata FSC. Quando si fa una cosa, la si fa bene in casa Sidi.

Ci vuole organizzazione, nel concepimento, nella produzione, nel prendersi cura di prodotto e persone. Solo così si può produrre una scarpa tecnologicamente avanzata. Basti pensare al sistema di chiusura TECNO-3 PUSH FLEX, in grado di eliminare completamente tutta la zona di pressione sul collo del piede e migliorare notevolmente il feeling adattandosi alla conformazione di ogni piede. O al tallone regolabile reflex, per una calzata a pennello, come si dice, che non scalzi durante gli sforzi di pedalata, ed integrato e rinforzato, per evitare deformazioni dopo sforzi e pressioni prolungate. O, ancora, alla suola C-BOOST SRS in carbonio di ultima generazione che, grazie alla conformazione della zona metatarsale, fa in modo che si aumenti la trasmissione della potenza sui pedali. È un’organizzazione quasi maniacale quella che ci vuole per far sì che la scarpa sia perfetta e con uno standard qualitativo così alto.

Ci vuole estro. La giocata del numero 10, quella che fa innamorare. E nella nuova SHOT 2 DZERO la giocata è una di quelle che ti fa vincere il mondiale. A chi poteva venire in mente di scrivere sulla tomaia le frasi che è solito ripetere il fondatore, Dino Signori, ad amici, dipendenti, famigliari, atleti e chiunque graviti nella sua orbita? Ecco l’estro! Frasi semplici, in dialetto, sentite e risentite centinaia, anzi, migliaia di volte.
Che poi, a pensarci bene, in ogni famiglia c’è un personaggio che ripete le sue frasi all’infinito, tanto da renderlo talvolta oggetto di scherzo, ma che lo caratterizzano fortemente. È forse per questo che la SHOT 2 DZERO ci piace così tanto, perché parla sì del Signor Dino, ma parla anche di tutti noi: dell’Italia, delle persone a cui vogliamo bene, dei ricordi piacevoli, delle nostre emozioni.

Le frasi

PORCA MATINA. Pronunciata in qualunque momento della giornata, quando bisogna esprimere stupore, meraviglia.

PROVA MO PROVA. Quando il signor Dino lavorava come dipendente e doveva consultarsi con il suo capo per lo svolgimento di un lavoro, quest’ultimo gli diceva “prova mo prova”, prova da solo, insomma. Per riuscire a fare una cosa bisogna provarci, alternativa non c’è e, questo sistema, l’ha adottato anche con i suoi dipendenti.

TE DEVI FAR QUEL CHE TE SI BON DE FAR. Dino nasce come artigiano e calzolaio, sviluppando abilità e conoscenze che lo hanno portato a creare Sidi. Ognuno ha una sua missione e devi fare quello che sei capace a fare. Ne è diventata una filosofia aziendale.

TE FIRMO NA CARTA CHE NO SE POL FAR. Se una cosa non si può fare, non si può fare e basta. E il Signor Dino è disposto a firmare una carta per dimostrarlo.

QUESTO ACIDO LATTICO SE MAGNA? Mai prendersi troppo sul serio. Dino, essendo stato un atleta dilettante, quando si parla di acido lattico afferma di non averne mai sofferto e scherzando chiede se è qualcosa che si mangia.


Eroica al Parlamento europeo: della giusta nostalgia

Nonostante la sua voce ci giunga da Bruxelles, Giancarlo Brocci inizia a parlarci raccontando di tutte le volte in cui si reca al bar, a Gaiole in Chianti o nei dintorni. Giancarlo entra e molti vorrebbero offrirgli un caffè: «Propongo di giocare a briscola, il caffè lo bevo volentieri, ma vorrei vincerlo. Attenzione, non è tanto per il caffè, sia chiaro, ma per la passione con cui si può giocare. Io gioco divertendomi, gioco sentendo il gioco e me lo gusto». Brocci parte da qui e da una constatazione amara: «Forse, negli ultimi anni, ci hanno tolto molti giocattoli, molte cose che ci portano altrove. La mente umana, però, è rimasta collegata al senso del "giocare" e lo ricerca ancora. Si tratta di una radice che non si toglie così facilmente». Sarà per questo che, l'altro giorno, in hotel, un ragazzo, vedendo una maglietta con la scritta "Eroica", si è fermato a parlare, a dire che conosce Siena, la Toscana, che le pensa spesso.

Brocci è a Bruxelles perché, al Parlamento Europeo, nei giorni scorsi, si è tenuta una mostra dedicata proprio ad Eroica. «La radice comune di cui parlavo si vede dal fatto che ciascuno si è riconosciuto in questa mostra, che le varie differenze di idee si sono messe da parte. Sapete perché? Perché tutti hanno in mente la vecchia bicicletta del nonno, un'immagine in cui si vedono le strade sterrate, il piacere della natura, il legame con quello che è trascorso». Per questo motivo, fa sempre piacere vedere molti giovani che si fermano ad osservare biciclette del 1920, del 1932 o del 1957: biciclette che non hanno vissuto sulla propria pelle, ma che, comunque, suscitano una curiosità, talvolta anche felicità.

Giancarlo Brocci parla molto di felicità, di gioia: un tentativo di restituzione di queste emozioni che Eroica prova a mettere in atto, anche in periodi in cui pensare alla felicità è complicato: «Credo nelle persone e sono solo le persone a poter costruire la felicità. Si fa stando assieme e avendo una comune lettura della realtà. Su duecento chilometri percorsi da chi si riconosce nell'idea eroica di ciclismo, non troverai mezza carta gettata a terra, perché non potrebbero stare con noi. Non starebbero bene noi. Felicità significa stare assieme per tanto tempo, scambiarsi punti di vista, discutere di tutto e ritrovarsi». Come quando si va in biblioteca e tutti stanno in silenzio, aggiunge, oppure parlano a voce bassa: accade perché hanno un'ideale comune e sanno che, per godere di quel posto, bisogna fare così. Essere eroici significa riconoscere di essere immersi nel territorio e avere uno sguardo particolare su quel che ci circonda. Scherza Brocci: «Ti diranno che sono le favole queste. Io dico che è realtà, io dico che si può costruire questo modo di vivere la bicicletta».

Gli chiediamo come si senta, lui tentenna un attimo, poi dice: «Trionfante? Non so se rende l'idea, ma, in un certo senso, è proprio così». Questo ha a che vedere con la comprensione, con l'avere la sensazione che gli altri abbiano capito. Ha a che vedere, poi, soprattutto con una parola: recupero. Si è parlato anche di "recupero" al Parlamento Europeo ed anche questa parola è stata calata nella comprensione. Per esempio a proposito delle ciclabili: «Si può costruire una ciclabile nuova, oppure si possono recuperare le strade sterrate, i tratturi, quei pezzi di realtà dimenticati che possono fare del bene a tutti, oltre alla loro bellezza. Costerebbe anche meno, tra l'altro, oltre alla sicurezza del luogo in cui si pedala».

Tra l'altro, la parola recupero ha radici profonde, come il gioco, il giocare, almeno per Brocci. Il recupero significa conservare, ritrovare: «C'è una forma di bellezza anche in tutto quello che si ricicla, che si torna ad usare dopo che era già stato usato. Nei pantaloni condivisi da più fratelli o anche nelle biciclette passate di generazione in generazione». Non solo: riguarda tutti quei paesaggi che vengono salvaguardati e curati, magari paesaggi in cui fare un giro in bicicletta e recuperare quella che, per Brocci, è la "giusta nostalgia”.

«Un sorta di affetto, di amore per quel che è stato e per quello da cui vieni. Non è un caso se rivediamo le imprese di Marco Pantani, se studiamo Coppi e Bartali, se guardiamo in un certo modo a quel che è stato. Sì, perché da lì veniamo, siamo anche quella cosa lì». Allora il vero significato di quella mostra a Bruxelles, al Parlamento Europeo, è proprio nell'appassionarsi a questa idea di recupero di una strada per una nuova generazione, per una vecchia bicicletta, al recupero di una vecchia bicicletta per i ricordi e le radici che custodisce, al futuro che può venire anche dal passato, a un valore condiviso che permette a tutti di stare meglio e di dirsi: «Andiamo a fare un giro in bicicletta, sugli sterrati». Senza troppi pensieri, creando gioia anche in chi, per caso, transitando, li vede.

Foto: Paolo Penni Martelli


Top&Flop - alvento weekly #4

TOP

Rory Townsend e Ben Healy

Nonostante i problemi che da diverso tempo perseguitano la Federazione Ciclistica irlandese e un momento storico non dei più floridi a livello di talenti assoluti (ma occhio che Healy è un gran bel corridore che potrà sorprendere anche a più alti livelli), l’Irlanda si gode una inaspettata domenica di gloria. Ben Healy conquista, con un attacco solitario (marchio di fabbrica) a 14 km dalla fine, il Gp Larciano, a pochi giorni dal successo di tappa alla Coppi&Bartali, la sua prima vittoria nella massima categoria; Rory Townsend, velocista di terza fascia di quasi 28 anni e in forza alla Bolton Equities Black Spoke, squadra appena salita tra le Professional, conquista in Francia, davanti ad alcune tra le ruote veloci più in forma in assoluto del momento come Thissen o De Kleijn, la vittoria più importante in carriera. St Patrick's day nove giorni dopo.

Uno- X Pro Cycling Women

La costanza della squadra nordica in mezzo alle altre corazzate ormai non fa più notizia ed è maturo il grande successo, tra Belgio e Olanda le giallorosse si piazzano così:

2ª Maria Giulia Confalonieri a Le Samyn
2ª Susanne Andersen alla Ronde van Drenthe (e 5ª ancora Maria Giulia Confalonieri)
6ª Anouska Koster alla Omloop Het Nieuwsblad
6ª Amalie Dideriksen alla De Panne (e 11ª Julie Norman Leth)
7ª Elinor Barker alla Gent Wevelgem
11ª Maria Giulia Confalonieri alla Nokere Koerse

Risultati ottenuti con 6 ragazze diverse, risultati ottenuti da una squadra nata appena l'anno scorso.

Matej Mohorič

Perché ci crede sempre, perché è il miglior Mohorič mai visto e non è colpa sua se si deve scontrare con tre che contemporaneamente il ciclismo non è che abbia visto molte volte eppure lui è lì, si attacca come può al treno buono, e deve inventarsi sempre qualcosa per riuscire a sfuggire al destino. Ha la fantasia giusta: e come alla Milano-Sanremo lo scorso anno prima o poi il colpo grosso arriva.

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FLOP

Soudal Quick Step

Allo sbando e il fatto di esserlo nelle loro gare fa ancora più effetto. Il pezzo fatto da Jakobsen alla Gent - va all'attacco per rientrare sulla fuga che non vede nemmeno un QS dentro e rimbalza malamente dopo aver sbagliato un paio di curve bagnate - e poi quello degli altri compagni di squadra Asgreen, Lampaert, e van Lerberghe che tirano a tutta per rientrare su quell'attacco ottenendo come risultato il rimanere senza energie e consegnando la gara ad altri, rappresentano uno dei momenti più complicati e confusionari della loro storia al Nord. Merlier, nel finale, è senza compagni di squadra, visto l'inutile sforzo dei suoi ormai staccati ed è costretto tutto da solo a inseguire il terzo posto, che poi non arriverà. Nemmeno quella magra consolazione.

Ciclismo italiano (maschile)

In una settimana di tante tantissime corse solo Ciccone alza le braccia al cielo e nelle altre gare che contano si vede solo Ganna, fino alla caduta durante la Gent-Wevelgem, e Ballerini in crescita. Nono posto nel ranking UCI per nazionali (rispetto a settimana scorsa una posizione recuperata su una claudicante Colombia) e tanta amarezza a vedere come siamo messi. Chi ci solleverà? (E come e quando?)

Richard Carapaz

È vero che è appena tornato, ma ci ha messo un po’ di tristezza vedere la sua bellissima maglia di campione d’Ecuador arrancare in quella maniera al Catalunya. Arriveranno sicuramente momenti migliori, nel frattempo saremmo disposti a fare un fioretto per vederlo al Giro invece che al Tour. L’ultima volta che c’erano lui, Roglič e un terzo litigante, sappiamo bene com’è finita….


Il ciclismo di quelli lì

Continua a essere il ciclismo di quelli. Quelli che hanno alzato il livello e scavato un solco con la concorrenza. Quelli che sono due e poi quattro, e diventano cinque e se gliene togli un paio fa tre, almeno fino a quando la matematica non diventerà un’opinione. Continua a essere, anzi in realtà lo è da (relativamente) poco, ma ci stanno prendendo gusto, il ciclismo di Roglič ed Evenepoel che settimana scorsa al Catalunya hanno monopolizzato una corsa schiacciata dall’ingombrante presenza delle Corse del Nord, ma loro due non lo sanno o se ne fregano e hanno cercato di valorizzarla pure con numeri da record nonostante due maglie troppo brutte per essere vere: bianche con qualche inserto, uno verde e l’altro arancione. Una roba inguardabile.

Che c’azzecca il colore delle maglie con le loro prestazioni? Considerato che uno vestirebbe la più prestigiosa e riconoscibile del gruppo, quella iridata, l’altra un paio di anni fa ne sfoggiava un’altra altrettanto bella, quella di campione nazionale sloveno con il Triglav in bella vista - a proposito se non ci siete stati in Slovenia andateci, occhio solo al tratto dopo Postumia perché all’improvviso anche in una giornata di piena primavera si può scatenare l’inferno sotto forma di tempesta di ghiaccio e neve e non è un romanzo fantasy, né una corsa in Belgio - insomma considerato questo è giusto porre l’attenzione su quei pigiamoni da leader delle varie classifiche. Oltretutto così simili tra loro non si capiva chi fosse leader di cosa. Soprattutto a guardare le immagini dallo schermo di un computer.

Volta Ciclista a Catalunya 2023 - 102nd Edition - 7th stage Barcelona - Barcelona 136 km - 26/03/2023 - Remco Evenepoel (BEL - Soudal - Quick Step) - Primoz Roglic (SLO - Jumbo - Visma) - photo Luis Angel Gomez/SprintCyclingAgency©2023

Il ciclismo di Roglič ed Evenepeol è spettacolo ma pure avanspettacolo e qualche rubrica da seguire nel dopo cena. In Belgio ne vanno matti e per una volta pure in Spagna hanno apprezzato lo sceneggiato. Si beccano, scattano e si staccano, fingono, arrancano, concedono poco o nulla se non qualcosa a un velocista di cui si parla troppo poco - Groves, numero notevole il suo: vince la volata sulla bici di un compagno di squadra - e a un mezzo scalatore, di nome Ciccone: mezzo non perché non sia forte, ma perché l’altra metà sembra altro, un cacciatore di tappe, miste o di montagna, e chi scrive vorrebbe bramoso aizzatore di folle nelle classiche ardennesi, uno di quei corridori su cui bisognerebbe puntare per rimpinguare la magrissima pancia del ciclismo italiano ormai sempre più rachitico alla stregua di tutte le altre nazionali del ciclismo che contano da pochi anni o hanno sempre contato. Insomma quell’abruzzese che a 29 anni come da tradizione nostra è pronto e maturo per traguardi più importanti ed è pronto a lanciare una scialuppa al 2023 italico.

Catalunya, o Catalunya, dunque: cosa ci hai detto di memorabile? In a nutshell scrivono o persino dicono quelli che parlano male: al Giro Roglič ed Evenepoel continueranno a dare spettacolo, a punzecchiarsi, lo faranno per loro e per noi, ci faranno divertire e sinceramente a oggi non sapremmo nemmeno dire chi potrà prevalere sull’altro. Magari come già successo ne esce fuori un terzo, ma al momento quella lista è totalmente priva di nomi e idee. Evenepoel è uno che non le manda a dire, forse in questo senso è quello che appare più impulsivo e naturale. Prepariamo un bell'agenda per prendere appunti nei dopo tappa, il bimbo belga ci darà pagine da riempire.

Gent Wevelgem 2023 - 85th Edition - Ypres - Wevelgem 260,9 km - 26/03/2023 - Wout Van Aert (BEL - Jumbo - Visma) - Christophe Laporte (FRA - Jumbo - Visma) - photo Vincent Kalut/PN/SprintCyclingAgency©2023

Il ciclismo di quelli lì poi tocca il Nord in un pomeriggio di un giorno da cani, per loro ad Harelbeke, anzi da gattoni, perché si graffiano e trovano l’unico momento di tregua dalla pioggia tra il mercoledì di La Panne (oh finalmente Philipsen, che vittoria!) e la domenica pomeriggio del “Jumbo Visma Show" sulle strade della Gent-Wevelgem; spettacolo che non piace a tutti, e si capisce come una vittoria in parata possa far storcere il naso. Per chi scrive nulla di male nel vedere il capitano concedere la vittoria in una corsa dove tutto appare già scritto nel momento in cui Laporte e van Aert se ne vanno sul Kemmelberg lasciando gli altri a zigzagare e a fare equilibrismi per stare in piedi sulle pietre scivolose delle Fiandre Orientali. Anzi l'invito è: leggete questo pensiero ben articolato da Ilenia Lazzaro, giornalista di Eurosport, sull'argomento van Aert, corridore che come si muove sbaglia. Destino dei più grandi.

E insomma dicevamo: qualche giorno prima della Gent-Wevelgem, nel mini Fiandre che arriva ad Harelbeke, c'è stato un antipasto di quello che sarà questa domenica nella gara delle gare tra Bruges e Oudenaarde: Pogačar, van der Poel e van Aert che staccano tutti. Ecco il ciclismo di quelli lì. Uno che scatta qualche centinaio di volte, l’altro che accende la gara lontano dal traguardo come una sigaretta in mezzo a una platea di non fumatori, il terzo che è quello che fa più fatica a tenere certe sgasate, resiste e poi vince.

Un pomeriggio qualsiasi impreziosito dal modo di fare ciclismo di quelli lì.

Chissà come andrà in quello che sarà il Fiandre vero e proprio, la festa dei belgi, ma pure la nostra che quando si tratta di corse a quelle latitudini non capiamo più nulla, la nostra testa si riempie di spiriti come la casa de gli invasati di Shirley Jackson, e se poi i tre di cui sopra decidono di dare spettacolo in questo modo allora per noi è finita, preparate calmanti e camicie di forza.


Una giornata da Nord Europa

«Veramente non conosci Jukka Vastaranta?»
Rimango di sasso, certo che non lo conosco. La domanda proviene dall’unico finlandese alla partenza del 73° Trofeo Piva, Veeti Vainio, a cui sembra impossibile che qualcuno non sappia del «Remco Evenepoel finlandese». Nato una ventina d’anni prima di Remco, Vastaranta è stato uno dei più forti corridori del mondo a livello junior, prima di perdersi un po’ tra i professionisti. Vainio è abbondante nei dettagli e col sorriso descrive la carriera del suo mentore «Kari Myrryylainen, compagno di squadra di Miguel Indurain negli anni Ottanta alla Reynolds».

Di ciclismo scandinavo parliamo in lungo e in largo anche con un compagno di squadra di Vainio, lo svedese August Haglund. Sono gli unici due non impegnati a battere i denti. Piove così forte che viene coperto persino il rumore dei freni a disco. Qualcuno con un manico di scopa fa defluire l’acqua accumulata su una tenda e sembra di stare sotto una cascata. «Non è questo il tipo di clima che finisce sulle cartoline che rappresentano l’Italia» scherza Haglund.

Chi non sta scherzando affatto è Manuel Oioli della Eolo U23. Tremando come una foglia, sussurra che la corsa dovrà partire forte per far scaldare i muscoli di tutti. «Potrebbero esserci anche Zoncolan o Mortirolo ma partiamo sennò prendo freddo». Un signore attempato si rivolge a un corridore irriconoscibile, nascosto com’è da giubbotto e scaldacollo, dicendogli che per la prima volta non invidia chi dovrà pedalare sotto l’acqua: come risposta ottiene un paio di bestemmie, seguite da uno sguardo consolatorio al cielo: «Almeno non nevica».

Fermi alla presentazione delle squadre, in attesa della chiamata sul podio, non tutti i corridori temono il freddo. «Per me questa è la temperatura ideale» assicura il danese Anders Foldager della Biesse-Carrera infilandosi guantini a mezze dita. Addosso, oltre a una canottiera, non ha granché. Diversi atleti messicani della AR Monex, invece, si stringono le mani sotto le ascelle nel tentativo di scaldarle un minimo.

Mentre il vento fa cadere diverse bici appoggiate sugli stalli vicino al foglio firma, Giosuè Crescioli della Mastromarco rivela che il suo nome deriva da quello del figlio di Roberto Benigni in La vita è bella. Sta cercando riparo sotto una tettoia, a fianco di cilindri metallici alti diversi metri, tra i quali ci sono biciclette tirate a lucido e damigiane di vino. Il Trofeo Piva, infatti, prende il via dal quartier generale di un’importante azienda vinicola della zona, da cui viene uno dei vini più apprezzati al mondo: il Prosecco.

La corsa si snoda in un paesaggio a mosaico nel quale si alternano viti, boschi e piccoli paesini: Col San Martino, frazione di Farra di Soligo, è uno di questi. Camminando verso la chiesetta della Beata Vergine Addolorata di Collagù si notano i ciglioni, ovvero particolari terrapieni che consentono di coltivare le viti anche su pendii così scoscesi. Non passa lontano da qui la corsa, tanto che una vista aerea perfetta sui corridori è possibile dalle Torri di Credazzo.

Da sempre il Trofeo Piva è sinonimo della salita verso Combai, una frazione del comune di Miane, ma di recente è stata inserita nel percorso anche la Riva di San Vigilio: 400 metri al 16% con un tratto finale in cemento. Tre passaggi qui rendono la corsa un vero inferno: «la pioggia ha reso quello strappo scivoloso, dovevi pedalare sempre costante e fluido» dice Davide Toneatti all’arrivo. Martin Marcellusi, che vincerà la corsa, ammette di aver scollinato oltre quella mulattiera solo grazie ad un rapporto, il 39x33, montato appositamente.

«Go provào a fare chela corsa chì quando corea, ma dopo due Combai me son fermào lì» dice Diego in spiccato accento veneto. È un accompagnatore della General Store e assieme a Gianmarco Carpene stanno aspettando l’arrivo di Samuele Carpene: «Abbiamo fatto la corsa per mio fratello ed è lì davanti che se la sta giocando» afferma speranzoso mentre cerca di pulirsi la faccia dallo sporco accumulato sotto la pioggia.

Sta prendendo molto freddo, ma rimane per vedere il finale: suo fratello maggiore è un esempio per lui e «certo che può vincere oggi, è un finale adatto». È un finale meno adatto alle caratteristiche di Marco Frigo, invece, ma il ventiduenne di Bassano del Grappa conosce quelle strade a memoria ed è sostenuto dal fan club più rumoroso del Veneto: «Sulla salita del Combai si sono appostati con motoseghe, trombe, con tutto. Questa è veramente una bella gara, con tanto pubblico» continua Frigo. «Nei passaggi verso Riva di San Vigilio ho cercato di accelerare perché passare di lì e andare piano non è neanche godurioso».

Tra le vigne che circondano la chiesa di San Vigilio qualcuno prepara da mangiare, altri condividono i cellulari per la visione del simultaneo Giro delle Fiandre. Con la voce rotta dalla fatica, spingendo sui pedali in punta di sella, combattendo per non farsi passare dal fine corsa, Giosuè Crescioli chiede al fotografo di scattargli una foto con le vigne sullo sfondo. Col cielo nero, col cuore a tre battiti al secondo, la bellezza di queste colline è l’unica cosa a cui aggrapparsi.


Quante cose fa una bicicletta?

«Negli Stati Uniti cambia la dimensione del viaggio. Te ne accorgi da come le persone ti accolgono e da come, senza alcuna malinconia, senza il desiderio di trattenere, di ritardare la partenza, ti lasciano andare. Non perché non vogliano restarti accanto, ma perché per loro la strada è un luogo dove tutto scorre, dove ci si incontra, si condivide un tratto di viaggio e poi ci si lascia, separandosi, per ritrovarsi più tardi o forse mai. Non importa». A raccontarcelo è Pietro Franzese che, da qualche giorno, è tornato a casa, dopo aver percorso in bicicletta, con Emiliano Fava, ben 6000 chilometri, proprio in America, da San Francisco (Golden Gate) a Miami (Key West) e la bicicletta che, giorno dopo giorno, in due mesi, dall'inverno alla primavera, diventa casa, in un paese di viandanti, «perché c'è tutto quel serve, perché, anche se fai fatica, sai che su quelle due ruote hai tutto il necessario per farla, puoi non temere nulla, e, in più, è una casa che ha radici, le tue radici, ma, allo stesso tempo, ti porta e la porti dove vuoi andare, assieme a quelle radici».

Poi c'è la casa vera, quella in cui, quando si torna, qualcuno prepara le lasagne per festeggiare, cambiano i ritmi, e, fuori dalla finestra, c'è quello che hai sempre visto, quello da cui ogni tanto fuggi, che, però, resta ancora un sospiro di sollievo: «Hai bisogno di tornare, soprattutto dopo un viaggio lungo, dopo aver raggiunto un traguardo importante. Hai bisogno di tornare e di vedere il modo in cui le persone a cui vuoi bene ti guardano, sentire quello che ti dicono, capire quello che pensano del tuo viaggio, se ne sono fieri». E vedere anche tutto il tempo che serve per quelle lasagne, un tempo che, dall'altra parte del mondo, correva così veloce, mentre il progetto di Pietro ed Emiliano si costruiva.

Un progetto che si chiama "2 Italians Across the US" e che vuole sensibilizzare sull'impatto ambientale della plastica monouso, anche attraverso un documentario con le immagini acquisite. Toccare con mano, questa è l'idea, e, come sempre, quando si tocca con mano, si eliminano pregiudizi, preconcetti, che, magari, si hanno. «Sono rimasto positivamente colpito dal fatto che non ci siano quasi mai mozziconi di sigaretta per strada: il primo lo abbiamo trovato in Arizona e l'abbiamo notato proprio perché sembrava strano vederne uno. In Italia, purtroppo, si trovano ovunque». Non solo: in California, ad esempio, c'è molta attenzione al tema della plastica, ma, in generale, i rifiuti a bordo strada non sono così tanti come si potrebbe pensare. Il problema più grosso viene dai contenitori usa e getta dei fast food e dal packaging in linea generale. Anche qui, però, si stanno adottando soluzioni: dalle multe severe per chi viene sorpreso a gettare rifiuti per strada, a progetti come "Adopt a road".

«È come se, davvero, adottassi una strada. Lo fanno le associazioni e, poi, se ne prendono cura. Si tratta di una forma di responsabilizzazione che lega la strada alle persone». Come le legano poche parole: "Be safe", ad ogni saluto, fra le altre. Oppure gli inviti: quando in California, in "The Middle of Nowhere", nome ben suggestivo per un luogo, dei signori offrono a Emiliano e Pietro del pollo e un tratto di viaggio nel loro RV. Si chiamano così e sono delle vere e proprie case, di solito connesse ad un Pick-Up, con cui si attraversa il paese.

Ma la bicicletta ha un privilegio, in ogni attraversamento: qualcosa connesso al supplemento di tempo che serve per percorrere lo spazio. Così Franzese ha notato quanto il territorio degli Stati Uniti sia uguale per chilometri e chilometri, magari anche trecento o quattrocento chilometri: «In macchina non te ne accorgi perché corre veloce accanto al finestrino, in bicicletta invece lo vedi e ti chiedi quando cambierà. Pensavo all'Italia, al fatto che, da noi, bastano cinque chilometri per vedere cambiare tutto». Ed è proprio il paesaggio sempre uguale a suscitare dubbi in Pietro Franzese, mentre pedala pensando al documentario che dovrà costruire e i dubbi, quando si è assieme a un'altra persona, sono materia delicata da trattare.

«Temevo ci ritrovassimo con immagini sempre simili, mi sono anche chiesto se avesse senso continuare. Non ho detto niente, ho solo continuato a far giare i pedali». Talvolta, Pietro ed Emiliano pedalano affiancati, ma non serve parlare, anzi, talvolta è meglio non farlo: si sa quello che si sta provando e viaggiare assieme vuole anche dire lasciare spazio ai pensieri dell'altro, che devono potersi formare e sviluppare, senza essere soffocati da troppe parole. Qualche volta si riesce a ridere delle sfortune e dei problemi che in viaggio accadono. Si tratta dell'importanza della libertà in viaggio: «Abbiamo provato a separarci per qualche giorno, uno da una parte e uno dall'altra. Certe volte, anche solo uno avanti qualche chilometro rispetto all'altro. Penso che, anche grazie a questa libertà che ci siamo imposti, non abbiamo mai litigato, pur condividendo tutto».

Nel frattempo, la stagione avanza: avere prima mezz'ora, poi un'ora, poi, grazie al cambio dell'ora, due ore in più alla sera, sembra incredibile. Aumentano i messaggi e le telefonate a casa. Ci sono sempre tante macchine sulle strade che percorrono, ma rispettose, attente, e giorno dopo giorno, appare più chiara una sorta di filosofia americana: «Non si sottraggono a ciò che è necessario. Si tratta di un parere personale, però l'ho notato: se sanno che, per risolvere un determinato problema, devono affrontare un sacrificio, anche chiesto dalle autorità, lo affrontano. È uno dei tanti aspetti che non conoscevo e ho notato».
Ora che quella bicicletta non deve più percorrere dai 140 ai 160 chilometri al giorno, sembra ancora più evidente la sua importanza: «Magari non sembra o, forse, pare scontato, ma con la bicicletta si può attraversare un continente, perché questo abbiamo fatto. Capisci cosa può fare una bicicletta? È un qualcosa che, solo a dirlo, mi fa felice».


Deda Elementi per idmatch

Deda Elementi e idmatch rafforzano la loro collaborazione.

L'occasione è stata la fiera internazionale Taipei Cycle Show, dove Deda Elementi e idmatch hanno segnato un nuovo step della loro collaborazione, svelando al pubblico una serie di componenti per bike fitting realizzati da Deda con speciali grafiche custom, appositamente sviluppati per la Smart Bike di idmatch e dedicati al simulatore automatizzato Smart Bike.

"Questa collaborazione rafforza ancora di più la presenza del nostro brand all'interno dei negozi di alta gamma che hanno scelto idmatch come partner per la valutazione biomeccanica del ciclista. Le diverse geometrie offerte nella nostra gamma rendono i componenti Deda ideali per il lavoro del bike fitter. Come azienda, infine, crediamo fortemente nella collaborazione tra marchi italiani del settore, un plus riconosciuto a livello mondiale", ha detto Fabio Guerini, responsabile marketing di Deda Elementi.

Idmatch infatti è l'unico sistema di bike fitting completo che, attraverso un'analisi scientifica dei dati, aiuta il ciclista a individuare la miglior configurazione e posizionamento in bici per migliorare la sensazione di comfort e benessere, oltre alla performance.

"Da molto tempo utilizziamo prodotti Deda nei nostri laboratori di bike fitting. L'ufficializzazione della collaborazione con un brand di riferimento per la componentistica non può che renderci orgogliosi e ci dà la consapevolezza di poter offrire ai nostri ciclisti informazioni di una ulteriore migliore qualità rispetto alla scelta dei corretti accessori per le loro bici" ha riferito Matteo Paganelli, idmatch di Brand Manager.

Prodotti Deda x idmatch

Manubrio Gravel 100, Manubrio Zero1,
Manubrio Zero100 Shallow,
Reggisella Zero1 Ø 31,6,
Manubrio MTB Peak Riser & Peak Flat,
Parabolica Uno, Parabolica Due,
Crononero Evo


Il sogno è nelle Fiandre

Ilaria "Yaya" Sanguineti ha un rapporto complicato con i sogni. Dice che a sognare è bravissima, precisa che custodisce sogni bellissimi, ma, allo stesso tempo, racconta di una sorta di pudore nei sogni: «Qualche volta penso di aver paura di sognare fino in fondo, perché ho paura di restare delusa. È brutto accorgersi che, in certi momenti, ti sforzi di rimpicciolire ciò che desideri per questo motivo, ma so che mi accade». Il sogno principale, quello di essere una ciclista, è nato per caso il giorno in cui da bambina ha visto tornare a casa suo fratello con una divisa da ciclista piena di colori. Lei voleva una divisa simile più che una bicicletta, fu suo padre a dirle: «Se vuoi la maglia, devi correre in bicicletta». Provocazione accettata, prima gara vinta e una crescita costante e graduale.

«A diciotto anni, magari, riesci a guadagnare duecento euro al mese e ti sembrano tantissimi, sebbene cosa puoi fare con quella cifra? Adesso, se sei brava, a quell'età puoi già avere uno stipendio che ti permetta di vivere da sola, dieci anni fa era diverso. Però, quando parlavo con gli amici, dicevo che avevo trovato un lavoro, che lavoravo e avevo uno stipendio, mi sembrava di essere cresciuta». Non è facile, prosegue Yaya, perché per la maggior parte delle persone il ciclismo non è un mestiere, non riescono a concepirlo come tale e per farlo capire è spesso necessario aggiungere spiegazioni: «La frase più comune è: "Ah sì, vai a divertirti”. No, è un lavoro, può anche divertire, ma resta un lavoro e certe mattine ripartire è proprio difficile». Ilaria Sanguineti per carattere è estroversa: la si vede spesso ridere e scherzare, così molti racchiudono in quelle risate il suo mondo. In realtà, c'è qualcosa che la fa spesso pensare: «Si tratta della consapevolezza in me stessa. Non sono molto capace di credere alle mie capacità, di riconoscermele. Probabilmente l'unica certezza che ho è che, quando sono l'ultimo vagone del treno, nelle volate, sono nel posto giusto. Però sono serviti anni per credere di "essere abbastanza" almeno in quel ruolo».

Volta Comunitat Valenciana Femines 2023 - 7th Edition - 4th stage Tavernes de la Valldigna- Gandia 113km - 19/02/2023 - Ilaria Sanguineti (ITA - Trek - Segafredo) - photo Rafa Gomez/SprintCyclingAgency©2023

Dopo anni in Valcar, «una famiglia, in cui ho appreso che avrei potuto lanciare le volate», è tornata a rivestire quel ruolo in Trek. Il giorno in cui il suo procuratore le ha detto che Trek-Segafredo la cercava, ha ammesso candidamente: «Vado anche a portare le borracce, se mi vogliono». Ultima donna, come dice lei, della stessa velocista: Elisa Balsamo. Pensare che, quando avvenne il passaggio di Balsamo in Trek, fu proprio Elisa a dirle in una chiacchierata: «Chissà, magari, un giorno, ci ritroveremo». Si sono ritrovate, loro che hanno molti ricordi assieme e Sanguineti a questo tiene molto: a costruire ricordi condivisi anche fuori dal ciclismo. Per l'addio a Valcar, ad esempio, è partita per Santo Domingo con Chiara Consonni, Vittoria Guazzini, Dalia Muccioli ed Eleonora Gasparrini: «Credo sia uno dei ricordi più belli, perché quando pensi a quelle persone sai che non hanno fatto parte solo del tuo lavoro, ma hanno creduto in te anche per i giorni di vacanza».

Con Elisa Balsamo, poi, il rapporto è particolare: «Dopo la prima vittoria alla Volta a la Comunitat Valenciana, in camera, scherzando, mi ha detto: "Mi tratti sempre male". Quel giorno, in effetti, avevo davvero perso la pazienza, bonariamente ma l'avevo persa. Non mancavano ancora dieci chilometri al traguardo, quando ha iniziato a dirmi che eravamo troppo indietro. Me lo ha ripetuto qualche volta, fino a che: “Elisa, stai tranquilla e pensa solo a seguirmi". Beh, mi ha seguito e, devo dire la verità, quando l'ho vista partire come sa fare lei, ho avuto la certezza che avrebbe vinto. Lei non lo sapeva, io sì». Tra l'altro, a poco dal traguardo, Balsamo aveva affiancato Sanguineti e le aveva detto di stare male: «Bisogna preoccuparsi quando non lo dice. Se lo dice, è bene aspettarsi grandi cose». Un ruolo delicato quello di Sanguineti perché ha anche a che vedere con il saper instillare fiducia.

Volta Comunitat Valenciana Femines 2023 - 7th Edition - 2nd stage Borriana - Vila-Real 116km - 17/02/2023 - Elisa Balsamo (ITA - Trek - Segafredo) - Ilaria Sanguineti (ITA - Trek - Segafredo) - photo Rafa Gomez/SprintCyclingAgency©2023

«Magari pensiamo di passare a sinistra, sul rettilineo d'arrivo. All'ultimo momento, può capitare che io scelga di andare a destra. Se è così, faccio un cenno della testa verso destra e Balsamo deve seguirmi. Non è facile e, se non hai la certezza che la ruota davanti alla tua ti sta portando nella posizione giusta, puoi tentennare». Di certo c'è che l'ultima donna deve pensare per due, sia in termini di velocità che di spazi, e ogni scelta presa deve essere quella migliore per due cicliste, non per una. Poi ci sono i dubbi: tranquillizzare la propria velocista, ma anche gestire i propri timori.

«La volata, dall'interno, non fa paura, se la guardi da fuori, invece, sì. Vero che non sono abituata a credere in me, ma una certa autostima serve, anche solo per pensare di fare uno sprint. Di fatto, io faccio uno sprint potente, ma anticipato di circa trecento metri: il mio traguardo è lì. Ci sono giorni in cui le gambe non vanno, allora bisogna essere sinceri e parlarne. Si può lavorare prima, ci si può rendere utili nelle fasi preparatorie alla volata, ma è necessario dirlo. La tua velocista deve saperlo». Ilaria Sanguineti si muove nel gruppo e Elisa Balsamo la segue: se perde la ruota, se ha un qualunque problema, grida solo "Yaya" e entrambe sanno cosa fare. Sanguineti è "meno pignola" di Balsamo, questo fa bene ad entrambe, tuttavia si definisce "troppo testarda": «La testardaggine va bene, io, però, sono esagerata».
Fra le certezze, il fatto che lavorare per Elisa Balsamo la rende felice e che aiutare a vincere le restituisce qualcosa che altrove non trova: «Per la prima vittoria di Elisa Balsamo in Trek Segafredo, in questa stagione, ho pianto io, non lei. E se ci ripenso ancora mi sembra irreale: ritrovarsi e confezionare subito qualcosa di così perfetto».

Miron Ronde van Drenthe 2023 Women - Emmen - Hoogeveen 94km - 11/03/2023 - Ilaria Sanguineti (ITA - Trek - Segafredo) - Snow - photo Rafa Gomez/SprintCyclingAgency©2023

Con le domande, continuiamo a cercare quei sogni grandi e rimpiccioliti, quelli che non dice per paura di non esserne all'altezza, allora ci dice che vorrebbe partecipare all'Olimpiade, poi, però, cambia subito discorso, quasi per non pensarci troppo. «Tornando alla consapevolezza, credo che un passo importante sia stata la vittoria dell'anno scorso alla Dwars door het Hageland. Non tanto per la vittoria in quanto tale, quanto per quella frase detta dal mio direttore sportivo nella riunione del mattino: "Oggi facciamo la corsa per te, oggi vinci tu”. Essere riuscita a sostenere quella responsabilità ed essere riuscita ad ottenere il successo mi ha fatto bene».
Si torna un'ultima volta nei paraggi dei sogni e questa volta le parole raccontano tutto: «Vorrei portare Elisa Balsamo a vincere il Fiandre». Un gran bel sogno, non c'è che dire, un sogno che noi stiamo già sognando: al vento, a tutta verso il traguardo.